Introduzione
Con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne e ha designato il 25 novembre come data di tale ricorrenza, invitando i Governi, le organizzazioni internazionali e le organizzazioni non governative a promuovere attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica in quel giorno.
La Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne nasce dall’assunto per cui la violenza contro le donne sia una violazione dei diritti umani, conseguenza della discriminazione contro le donne dal punto di vista legale e pratico e delle disuguaglianze tra uomo e donna.
Solo da pochi anni la violenza di genere è diventata un tema ricorrente nel dibattito pubblico e per quanto efficace e nobile sia quanto messo in atto in termini di politiche di contrasto, ricerche, progetti di sensibilizzazione e di formazione, ciò che emerge in tutta evidenza è come tali sforzi non siano ancora sufficienti a contrastare la problematica in esame.
Di fronte ad un fenomeno in crescita e sempre meno nascosto, obiettivo del presente elaborato è quello di fornire le coordinate principali del problema, con particolare attenzione alle ricadute che la violenza sulle donne comporta quando vi sono minori coinvolti e che assistono indifesi, aprendo la strada al fondamentale ruolo del Tribunale per i Minorenni all’interno di un complesso sistema di competenze che occupa diversi ambiti giudiziari tra i quali, oltre al Giudice minorile, anche il Tribunale ordinario penale e il Tribunale ordinario civile.
1. Violenza di genere: un fenomeno di estensione globale.
Le ricerche compiute negli ultimi dieci anni testimoniano come la violenza contro le donne sia endemica tanto nei Paesi industrializzati quanto in quelli in via di sviluppo: le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali e a tutti i ceti economici.
Basti osservare che, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nel corso della sua vita e che il rischio maggiore è rappresentato dai familiari, mariti e padri, seguiti dagli amici, vicini di casa, conoscenti stretti e colleghi di lavoro o di studio.
La violenza maschile sulle donne, che attraversa tutti i luoghi senza distinzione di età, classe sociale, cultura e religione, diventa così paradigma per misurare la condizione delle donne nella realtà e si traduce in una estesa, quanto strutturale, discriminazione del genere femminile che, da un minimo di esclusione a un massimo di soppressione fisica (come nel caso del femminicidio) e con diverse forme, è presente ovunque nel mondo con stereotipi che permeano trasversalmente ogni essere umano; in quest’ottica si può collocare l’attuale fenomeno globale della denuncia di molestie sessuali da parte di donne famose e affermate professionalmente: un’onda destinata a mutare gli attuali disequilibri di genere.
La violenza maschile diventa, pertanto, la cartina di tornasole sulla relazione reale tra uomini e donne, specchio della società in cui viviamo, un panorama così pervasivo da sembrare quasi impossibile ma che in realtà rappresenta un fenomeno planetario di discriminazione profonda che va dalla violenza domestica – presente in tutto il mondo come la forma più comune e diffusa – alle mutilazioni genitali, fino alla schiavitù sessuale, la tratta, i matrimoni precoci e forzati, il gendercidio e lo stupro di guerra.
In un simile scenario risulta attuale l’ammonimento con il quale Simone Weil, in un’annotazione del 1941 dei suoi Quaderni, esortava a tenere aperto l’orizzonte del diritto e della giustizia, scrivendo: «Non credere di avere dei diritti. Cioè, non offuscare o deformare la giustizia, ma non credere che ci si possa legittimamente aspettare che le cose avvengano in maniera conforme alla giustizia; tanto più che noi stessi siamo ben lungi dall’essere giusti (…)».
L’incipit di questa famosa citazione - diventata poi titolo di un testo fondamentale di Luisa Muraro del 1986 - ricorda che in una società che si muove ancora in un orizzonte di potere e poteri maschili non è sufficiente, seppure efficace, parlare di diritti; occorre arrivare a condividere un nuovo orizzonte simbolico, quello che Simone Weil indica come vera giustizia.
Tuttavia vi sono ancora approcci e teorie che, negando il dato oggettivo della violenza – che in quanto tale presuppone una vittima e un offender per la natura stessa del rapporto di forza e di ricatto che si viene a creare – e disconoscendo lo status di vittima, creano la cosiddetta ri-vittimizzazione.
Simili teorie mancano di una base fondamentale: un rapporto diretto con la realtà, la realtà fatta di carne e ossa di quelle donne che, con molta fatica, hanno il coraggio di denunciare un uomo violento, che vive con loro ed è anche il padre dei loro figli e da cui dipendono economicamente, donne che hanno la forza di reagire a rischio della propria vita, in un contesto che non sempre le sostiene, ad iniziare dagli ambiti istituzionali.
1.1. (Segue) La necessaria valorizzazione della problematica in esame e dei processi oggettivi di vittimizzazione.
In materia di violenza maschile contro le donne, siamo spesso di fronte ad un atteggiamento che tende a svalutare la portata oggettiva del fenomeno, riducendolo ad una mera autodifesa personale della donna stessa. Una simile attitudine va ad allearsi con la cattiva coscienza maschile la quale mostra una certa inclinazione nel ritenere che la violenza sia un problema delle donne le quali esasperano determinate situazioni provocando con i loro atteggiamenti la reazione, sì violenta ma comprensibile, del loro aguzzino. Tale linea di pensiero, non mettendo in campo alcuna riflessione sulla reale portata del fenomeno, spesso conduce le istituzioni a minimizzare il problema, rischiando di esporre ancor di più le donne ad una violenza quotidiana: anche quando le donne trovano la forza di reagire e querelare, si registra una sottovalutazione della loro condizione, ad iniziare dalle Forze dell’ordine e dalla Magistratura che non sempre agiscono indirizzando immediatamente la donna ad un centro antiviolenza né valutano la possibilità di adottare misure cautelari efficaci a loro tutela e dei minori coinvolti. Al contrario, in mancanza di specializzazione, spesso si decide di coinvolgere il marito per tentare una riconciliazione e si riconduce la condizione di disagio denunciata ad un conflitto coniugale.
Orbene, deve opportunamente osservarsi come il termine “conflitto”, presupponendo concettualmente un livello di parità, non sia adeguatamente riferibile alle storie di violenza domestica in cui si registra invece un vero e proprio stato di soggezione della donna, con violenze e minacce che annientano la sua libertà di autodeterminazione: nulla a che vedere con il conflitto coniugale.
Osservando il fenomeno da tale angolo prospettico, operatrici ed operatori del settore rilevano che definire le donne vittime di violenza “persone in difficoltà”, richiamando problematiche soggettive, parifichi le donne a qualsiasi altro soggetto in difficoltà; una simile terminologia appartiene infatti ad un contesto culturale paternalistico che ha così indicato le donne bisognose di assistenza. Risulterà pertanto più appropriata la dizione “vittime di violenza di genere” la quale, in linea con la terminologia internazionale, richiama i processi oggettivi di vittimizzazione del contesto, compreso in primis quello familiare. Il termine “vittima”, nella sua etimologia, rinvia ad una condizione di persona privata della libertà, elemento che meglio descrive il significato intrinseco della violenza, soprattutto familiare, che tende a privare le donne della loro libertà e del diritto di scelta.
Nei suoi scritti, a partire da La violenza di genere su donne e minori, Patrizia Romito ripropone, argomentandolo con rigore e chiarezza, il radicale e profondo divario che esiste tra la ricostruzione che delle violenze maschili (in primis dello stupro) fanno gli uomini e quella che ne fanno le donne, specie se bersaglio in prima persona di quelle violenze. Nel fare tutto ciò sgombra il campo dal luogo comune della psicopatologia e della marginalità sociale come condizioni esplicative delle violenze maschili, anche di quelle contro bambini e bambine. Ci ricorda, infatti, con Hannah Arendt, che la “banalità del male” sottende la trasversalità dei profili degli uomini violenti, anche di quelli incestuosi, che sono infatti uomini “qualsiasi”, ben oltre e indipendentemente dalle categorie tradizionali della psichiatria e della criminologia.
La violenza domestica, in particolare, si ripropone, come emerso in numerose indagini nazionali e internazionali, in tutta la sua variegata e distruttiva quotidianità, in cui l'attivazione simultanea e contestuale di diverse forme di violenza da parte dei partners (fisica, sessuale, ecc.) non appare più un’eccezione. La violenza psicologica, nella sua imprendibilità definitoria e nella sua invisibilità, si ripropone insieme come la più lacerante per le donne e la meno certificabile sul piano penale, oltre che come la meno rappresentabile sul piano sociale.
2. Gli interventi normativi.
Tra gli interventi posti in essere al fine di arginare il fenomeno, positio princeps deve essere riservata al d.l. 14 agosto 2013, n. 93 (c.d. d.l. anti-femminicidio), convertito dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119 che ha introdotto nel nostro ordinamento, nei settori del diritto penale sostanziale e processuale, una serie di misure, preventive e repressive, per combattere la violenza contro le donne in tutte le sue forme, espressamente riconosciuta dalla Dichiarazione di Vienna del 1993 come una violazione dei diritti fondamentali della donna e annoverata tra le violazioni dei diritti umani.
L’intervento normativo in parola è stato oggetto di una particolare attenzione mediatica, motivata dall’esigenza di rispondere all’allarme generato da un preoccupante incremento della violenza maschile sulle donne, attraverso alcune disposizioni in grado di aggravare o estendere la risposta sanzionatoria in fattispecie delittuose che, per loro stessa natura, costituiscono un tassello fondamentale del fenomeno (stalking, violenza sessuale e maltrattamenti).
L’iniziativa governativa, caratterizzata da straordinaria necessità e urgenza, persegue tre obiettivi principali: prevenire in maniera efficace i reati perpetrati, punire i colpevoli e rafforzare la protezione delle vittime.
L’iter legislativo che ha portato all’emanazione della citata legge su “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”, prende le mosse da quelle spinte che già nel 2009 avevano portato il nostro Legislatore a cercare una risposta sanzionatoria autonoma ad un fenomeno in costante crescita nella realtà sociale italiana, quello dello stalking.
Il reato di stalking è entrato a far parte dell'ordinamento penale italiano mediante il d.l. n. 11/2009 (convertito dalla l. n. 38/2009) che ha introdotto all'art. 612-bis c.p., il reato di "atti persecutori", che si configurano in ogni atteggiamento violento e persecutorio e che costringono la vittima a cambiare la propria condotta di vita.
Antecedentemente alla novella del 2009, le ipotesi di stalking erano punite attraverso differenti fattispecie tipizzate all'interno del codice penale, quali la molestia, l'ingiuria, la violenza privata e le lesioni, purché presentassero gli elementi tipici di tali reati. Tuttavia, a fronte delle oggettive difficoltà riscontrate nel fronteggiare il fenomeno con tali norme, nonché dell’obbiettiva consistenza del fenomeno (le cui vittime erano, si badi bene, per la maggior parte donne), si optò per l’introduzione della nuova fattispecie delittuosa di “atti persecutori”.
Partendo dall’introduzione del reato di atti persecutori (stalking) fino ad arrivare alla citata L. n. 119/2013, il Legislatore ha posto particolare attenzione al potenziamento della tutela giudiziaria da un lato e del sostegno alle vittime dall’altro, con la previsione, inoltre, di una serie di aggravanti e della possibilità di permessi di soggiorno per motivi umanitari per le vittime straniere di violenza.
La normativa in parola rientra interamente nel quadro delineato dalla “Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, la c.d. Convenzione di Istanbul del 2011, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica in cui elemento di principale novità è costituito dal riconoscimento della violenza sulle donne come forma di violazione dei diritti umani e di discriminazione.
La Convenzione prevede altresì la protezione dei bambini testimoni di violenza domestica e richiede, inoltre, la penalizzazione delle mutilazioni genitali femminili; è stata inasprita inoltre la disciplina penale attraverso la previsione di misure cautelari personali, un ampliamento di casi per le associazioni a delinquere, la tratta e riduzione in schiavitù, il sequestro di persone, i reati di terrorismo, prostituzione e pornografia minorile e contro il turismo sessuale.
2.1. (Segue) L’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori e gli interventi territoriali a favore delle donne vittime di violenza.
Un doveroso richiamo nella lotta contro la violenza di genere, merita il prezioso lavoro di raccolta e monitoraggio dei dati di cui si occupa l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), organismo interforze Polizia-Carabinieri che fornisce un valido supporto alle vittime di reati a sfondo discriminatorio. L’Osservatorio può essere contattato da chiunque sia vittima di un reato in relazione alla propria etnia, credo religioso, orientamento sessuale/identità di genere e disabilità, innescando una serie di interventi mirati sul territorio da parte della Polizia di Stato e dell’Arma dei Carabinieri. In particolare, l’Oscad oltre ad agevolare la presentazione delle denunce di atti discriminatori che costituiscono reato, promuove molteplici interventi di tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica.
Nei diversi ambiti territoriali vengono inoltre organizzati piani d’azione antiviolenza e progetti a tutela delle vittime di maltrattamenti e violenza domestica. Particolare menzione meritano le case-rifugio, strumento concepito al fine di offrire alle donne strutture di accoglienza e di riprogettazione della propria vita, luoghi in cui aiutare le vittime di violenza ad intraprendere un percorso di allontanamento emotivo e materiale dalla relazione violenta con il supporto di personale qualificato, facendo inoltre leva sulla responsabilità pubblica assunta dalla rete locale.
Risposta territoriale alla violenza di genere è fornita anche dall’organizzazione di diversi corsi volti alla formazione degli operatori del settore sulle tecniche di ascolto e approccio alle vittime, di valutazione del rischio e individuazione delle misure di protezione, nonché corsi sulla violenza domestica e lo stalking.
Ulteriore strumento di lotta al crescente fenomeno della violenza di genere, è rappresentato, infine, dalle iniziative di informazione e sensibilizzazione promosse sui territori di riferimento dalle Prefetture: formazione nelle scuole, corsi di formazione per gli operatori delle strutture sociosanitarie, corsi per migliorare la prima accoglienza, forme di collaborazione con gli enti locali e le associazioni per potenziare l'accoglienza e il sostegno alle vittime.
3. La violenza assistita intrafamiliare.
L’imponenza del fenomeno della violenza di genere contro le donne assume particolare rilevanza quando vi sono minori coinvolti e che assistono indifesi, aprendo la strada al fondamentale ruolo del Tribunale per i Minorenni all’interno di un complesso sistema di competenze che occupa diversi ambiti giudiziari tra i quali, oltre al Giudice minorile, anche il Tribunale ordinario penale e il Tribunale ordinario civile. Un simile ruolo è rintracciabile, inoltre, lungo un continuum di ambiti specialistici di tipo pedagogico educativo – psicologico – psichiatrico – sociale.
A tal proposito risulta emblematica la assai nota definizione fornita dal CISMAI (Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all'Infanzia) nel 2001, secondo la quale per violenza assistita da minori in ambito familiare si intende il fare esperienza da parte del bambino di qualsiasi forma di maltrattamento, compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica, su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative adulte e minori. Il bambino può fare esperienza di tali atti direttamente, quando questi avvengono nel suo campo percettivo, oppure indirettamente quando il minore ne è a conoscenza.
Una simile definizione enuclea perfettamente quanto già rilevato dall’art. 61 n. 11 quinquies c.p. e dalla già citata Convenzione di Istanbul: può opportunamente parlarsi di violenza assistita non solo quando il minore vede e vive direttamente le percosse, gli insulti, le minacce e le sofferenze cui il genitore è esposto, ma anche se queste violenze, pur non avvenendo direttamente innanzi ai suoi occhi sono da lui conosciute attraverso la percezione dei suoi effetti.
Le ripercussioni sui minori della violenza assistita sono perciò il frutto di una deliberata e consapevole insofferenza e trascuratezza verso gli elementari ed insopprimibili bisogni affettivi ed esistenziali dei figli stessi, realizzati in violazione dell’art. 147 c.c. in relazione ad educazione e istruzione al rispetto delle regole minimali del vivere civile, cui non si sottrae la comunità familiare regolata dall’art. 30 della Carta costituzionale e che sono puntualmente violati nei casi di cui ci si occupa in questa sede.
La violenza assistita intrafamiliare, così come definita dal CISMAI, è dunque un fenomeno dolorosamente complesso e richiede risposte adeguate e articolate, differenziandosi da altri fenomeni per la sua dimensione di cronicità e per la sua elevata ripetitività; sappiamo infatti che, generalmente, si verifica in nuclei familiari la cui problematicità dura da tempo e nei quali gli episodi di violenza tendono a ripetersi.
3.1. (Segue) Violenza assistita intrafamiliare: portata del fenomeno e risposta giuridica.
Sotto il profilo strettamente giuridico, nel nostro Paese non esiste una normativa specifica e pertinente al problema della violenza assistita da minori, nonostante la dimensione e la diffusione della problematica a livello nazionale e internazionale.
In occasione dell’inaugurazione di un polo sperimentale di accoglienza per bambini e madri vittime di violenza domestica promossa da Save the Children, sono stati diffusi dati impressionanti: in Italia due bambini su tre hanno assistito, impotenti, a episodi di violenza tra le mura domestiche mentre in un caso su quattro ne sono stati coinvolti direttamente. Nel 2014 sono stati 50 mila i casi di bambini che hanno subito gravi minacce dai partner violenti e aggressivi delle loro madri, come forma di ritorsione nei confronti di queste ultime. Siamo di fronte ad un aumento preoccupante del numero di violenze domestiche a cui i figli sono esposti: dal 60,3 per cento del 2006, la quota è salita al 65,2 per cento nel 2014.
Nonostante i dati raccolti e la consapevolezza di un fenomeno in continua crescita, deve osservarsi come, in realtà, si tratti di un tipo di violenza difficile da provare in sede giudiziaria, in quanto essa provoca un “danno invisibile” come lo definisce Sara Mazzaglia (S. Mazzaglia, 2010), di difficile rilevazione, spesso occultato, negato e sottovalutato.
A tal proposito, opportunamente l’Autorità nazionale garante per l’infanzia e l’adolescenza ha istituito nel 2015 una Commissione consultiva che, oltre ad auspicare la distribuzione sul territorio di un numero adeguato di servizi specialistici in tema di rilevazione, protezione e trattamento del maltrattamento infantile, in un documento di proposta presentato sollecita che sia definito il reato di violenza assistita nei confronti di un minore (Commissione consultiva. Autorità Garante per l'infanzia e l'adolescenza, 15 maggio 2015).
Tuttavia, al momento il reato di violenza assistita è previsto nel nostro codice penale solo quale circostanza aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia (ex art. 572) introdotto sulla scia della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti della donna e la violenza domestica – Istanbul 11 maggio 2011 – che all’art. 46 prevede quale circostanza del reato, quando non ne sia elemento costitutivo, l’aver commesso l'evento delittuoso ai danni di un bambino o in sua presenza.
A seguire, nel nostro ordinamento, il d. l. 14 agosto 2013, n. 93, poi convertito nella Legge 15 ottobre 2013 n.
In definitiva, il nostro codice penale considera la violenza assistita un’aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia se l’abusante maltratta continuamente il coniuge o il convivente davanti ai figli, procurando loro grave pregiudizio, e non quando le vessazioni siano solo occasionali. Tale circostanza aggravante si concreta quando le continue violenze fisiche, verbali, psicologiche, economiche e della dignità personale perpetrate nei confronti della parte offesa sono avvenute spesso e anche in danno del minore il quale, assistendo alle violenze in oggetto, ha subito ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo per tutto il tempo in cui è minorenne.
In virtù di tale normativa, il giudice può obbligare il maltrattante a lasciare immediatamente la casa familiare e, in ambito civile, può disporre la decadenza della potestà e ugualmente provvedere all’allontanamento del genitore. Il giudice, inoltre, può disporre anche l’intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare, o dei centri antiviolenza che sostengono e accolgono donne e minori vittime di abusi e maltrattamenti.
Orbene, alla luce di tale quadro normativo deve osservarsi che, nonostante gli sforzi, la strada da percorrere in ambito giuridico è appena all’inizio per la sua concreta attuazione, soprattutto per quanto riguarda la sensibilità e le modalità di riconoscimento e fronteggiamento di tale forma di violenza a danno dei minori. Tale difficoltà emerge chiaramente sia nella cultura comune, sia tra le figure che a diverso titolo si occupano di famiglie in conflitto quali magistrati, avvocati, insegnanti e operatori sociali e sanitari.
4. Il ruolo del Tribunale per i Minorenni: a) L’indagine sulla violenza assistita svolta dal Tribunale per i Minorenni di Bologna.
In un simile scenario il ruolo del Tribunale per i Minorenni risulta fondamentale, attesa l’imponenza del fenomeno della violenza di genere contro le donne, soprattutto quando vi sono minori coinvolti che assistono indifesi. Lo specifico compito dei TM e delle Procure minorili sarà quello di mantenere una precisa e costante attenzione al quadro d’insieme e, prioritariamente, dal punto di vista dei minori.
Il Tribunale per i Minorenni, infatti, ha funzioni di tutela del minore in tutte le situazioni di pregiudizio ascrivibili a comportamenti dei genitori o di familiari, anche se occorre tenere presente che la valutazione dell’esistenza di una situazione di pregiudizio per il minore e i conseguenti provvedimenti a tutela, sono indipendenti dalla natura dolosa o colposa del comportamento dei genitori e/o degli adulti presenti.
Risulta pertanto doveroso chiarire che il Tribunale per i Minorenni, in esito all’apertura del caso, può intervenire disponendo un’indagine ulteriore per approfondire i contenuti della segnalazione (ricevuta dal PMM o attraverso ricorso di parte) posti alla base del ricorso che determina l’apertura di un procedimento de potestate, e assumere provvedimenti limitativi o ablativi della responsabilità genitoriale (ex artt. 330, 333, 336 cc) dettando prescrizioni ai genitori, con possibilità, nei casi più gravi, di decidere per la misura dell’allontanamento del minore dal nucleo o l’allontanamento del padre o convivente dalla casa familiare.
L’interesse e l’attenzione profonda per una problematica così delicata, ha portato il Tribunale per i Minorenni di Bologna ad interrogarsi e a misurarsi, attraverso una specifica analisi documentale sui propri fascicoli concernenti i procedimenti di Volontaria Giurisdizione, con un esame analitico dei procedimenti aperti in conformità ai ricorsi presentati ed aventi per oggetto casi di “violenza assistita intrafamiliare”. Tale indagine è stata effettuata su procedimenti pendenti (per i quali è stato pronunciato provvedimento provvisorio) aventi ad oggetto ricorsi del P.M. ex art. 330 - 333 c.c.
L’obiettivo perseguito, in termini meta-giurisdizionali, è stato proprio quello di individuare prassi e modalità operative efficaci avuto riguardo agli esiti raggiunti, attraverso il riconoscimento degli interventi di protezione più adeguati destinati ai minori coinvolti in simili situazioni.
Sulla scorta dei dispositivi adottati in via provvisoria e urgente dai Collegi civili in materia di violenza assistita, la ricerca ha consentito la definizione di quattro ambiti principali di decisioni:
a) allontanamento del padre/convivente che abbia abusato/maltrattato (psicologicamente, mediante violenza intrafamiliare assistita, percepita direttamente o indirettamente) il minore;
b) affido del minore ai servizi sociali con collocamento della madre e/o del minore in comunità;
c) affido del minore al servizio sociale con interventi a domicilio e prescrizioni al padre di non ripetere azioni violente;
d) }predisposizione del progetto sociale, educativo e di cura.
Sulla scorta di tali indicatori è possibile fornire alcune anticipazioni delle elaborazioni dei risultati in via di ultimazione. Per quanto concerne il quadro anagrafico, due percentuali colpiscono in particolare:
1) il 46,6% dei minori sono in età prescolare e si tratta di una quota elevata di bambini e bambine che rischiano forse di passare più facilmente come “invisibili” per la loro età – anche in termini prognostici – alla rete dei servizi educativi, sociali e sanitari;
2) il 64,4% dei minori interessati hanno genitori di nazionalità straniera e una tale stragrande maggioranza ci pare possa consentire di incardinare il fenomeno delle violenze assiste in termini eminentemente socio culturali, anche se questa annotazione non può essere materia affrontata in questa sede, per quanto di grande interesse.
Per quanto riguarda la fase, delicatissima, delle segnalazioni che pervengono presso
Parlando dei servizi intervenuti in fase di diagnosi, valutazione e trattamento per il trauma ricevuto dai minori, colpisce, in particolare, che i minori vittime di violenza assistita che risultano presi in carico dagli psicologi dei servizi territoriali sono il 7,5% e solo il 5,8% sono quelli seguiti dai neuropsichiatri infantili dal punto di vista diagnostico. Questo dato costituisce un monito, tra gli altri, rispetto alla necessità di una definizione ed una costruzione di un sistema di intervento professionale qualificato in grado di focalizzare la fenomenologia specifica della violenza assistita intrafamiliare, ma anche il suo trattamento in termini preventivi per tutti i soggetti in età evolutiva.
Osservando, infine, i dispositivi contenuti nei Decreti e gli interventi principali attivati dai Servizi sociali territorialmente competenti, emerge che nei casi in cui il minore è allontanato e collocato in un luogo protetto (con la madre o da solo) – casi che riguardano quasi il 42% del totale – il ruolo del Servizio sociale è per così dire di supporto e accompagnamento e circoscritto al carattere d’urgenza dell’intervento; mentre nei casi in cui sono stati adottati provvedimenti ablativi e di compressione della responsabilità genitoriale, il mandato ai Servizi è più articolato attraverso interventi che comprendono da un lato la valutazione delle competenze genitoriali e la regolamentazione dei rapporti, dall’altro la progettazione socio-educativa e psicologica con azioni di sostegno ed invio per interventi specialistici a favore dei genitori e dei minori, anche se quest’ultimi, come abbiamo già sottolineato, sono attuati solo in termini del tutto residuali.
4.1 (Segue) b) Il ruolo del Tribunale per i Minorenni all’interno del procedimento penale.
Tuttavia, all’interno del composito quadro della violenza di genere vi è un dato di osservazione e di attenzione costante e, soprattutto, specifico del Tribunale per i Minorenni nella sua insopprimibile funzione rieducativa che riguarda i comportamenti violenti dei giovani maschi (che, si badi bene, rappresentano la stragrande maggioranza dei minori coinvolti in procedimenti penali), nell’ambito delle competenze penali minorili e delle competenze amministrative relative alle cosiddette irregolarità della condotta.
Purtroppo, quanto emerge dalle nostre aule è un meccanismo di riproduzione nonché un adattamento negativo, all’interno della sfera adolescenziale, della violenza di genere che abbiamo visto declinata per gli adulti.
È noto come l’adolescenza si caratterizzi spesso con la volontà di trasgredire, di distruggere per poi ricostruire, di entrare in conflitto con il mondo intero. Molti ragazzi di fronte a difficoltà familiari, scolastiche, sociali o psicologiche, percepiscono la società come ostile e si difendono con l’aggressività. Il fenomeno della violenza tra giovani si inserisce in questa realtà e sembra essere in preoccupante crescita in Italia, come dimostrano le cronache recenti. Esso comprende una serie di comportamenti e azioni aggressive quali la violenza psichica, fisica, verbale e sessuale, fino ad arrivare nei casi più gravi all’omicidio passionale e all’omicidio.
Oggi per descrivere la violenza all’interno delle relazioni di coppia tra gli adolescenti si parla anche di un fenomeno relativamente nuovo, la Teen Dating Violence. Questo tipo di violenza si manifesta, oltre che con aggressioni fisiche, attraverso le nuove tecnologie, ormai medium principale di comunicazione tra i giovani.
Secondo un’indagine di Telefono Azzurro e Doxa Kids effettuata nel 2014 con più di 1500 adolescenti, il 10% degli intervistati ha dichiarato di conoscere qualcuno/a che ha ricevuto minacce dal partner di postare in rete foto o video privati se non avesse fatto ciò che gli/le veniva chiesto. E non stupisce che, secondo il sondaggio ISTAT 2014 sulla portata del fenomeno violenza di genere, 5 ragazzi maschi su 10 hanno abbiano affermato di non trovare strano in alcune occasioni (ad esempio, il tradimento) alzare le mani sulle fidanzate; oppure che per 2 ragazze su 5 la sberla sia vista come una delle modalità dell’amore.
Un simile atteggiamento risulta difficile da sradicare, soprattutto se i giovani entrano in contatto con tale realtà in casa, in tv, al cinema o nei loro libri preferiti: in Twilight, la popolarissima saga amata dai nostri figli, una ragazza perdona il ragazzo che l’ha picchiata in occasione del loro primo rapporto sessuale.
Desta impressione, nell’indagine citata, l’adesione, soprattutto da parte dei ragazzi, a pregiudizi sulla violenza sessuale: il 27% dei ragazzi e il 16% delle ragazze sono d’accordo con espressioni come “A molte donne piace essere forzate fisicamente a fare sesso”; più di un ragazzo su due e una ragazza su tre d’accordo con affermazioni come: “La violenza accade quando l’impulso sessuale sfugge al controllo dell’uomo”. Risulta inquietante che tutto ciò sia considerato accettabile, anche se implica il possesso, mentre il tradimento è ritenuto inaccettabile e può diventare causa scatenante di violenza.
Da questo punto di vista il processo penale minorile diviene occasione per raggiungere consapevolezza di come, molto spesso, i giovani cerchino, anche se con fatica, di ispirarsi a modelli tradizionali maschili ove risulta indispensabile mostrarsi sempre forti, virili, decisi e mai fragili, soprattutto all’interno di un gruppo; le ragazze, al contrario vivono un doppio controllo sociale dovendo da un lato mostrare ai ragazzi il loro lato perfetto e, dall’altro, dovendo spiccare rispetto alle altre ragazze nella competizione per i ragazzi, anche a costo di guadagnarsi la reputazione di ragazza “facile”; inoltre troppo spesso, la sessualità è vissuta in funzione dei desideri dei ragazzi.
Si potrebbe correttamente affermare che i giovani ricevono messaggi su come comportarsi dagli adulti presenti nelle loro vite, dai compagni e dai media e che spesso questi messaggi sembrano suggerire che la violenza all’interno della coppia sia una cosa normale; tuttavia la violenza è sempre inaccettabile. Una delle cause dell’aggressività e della violenza di genere tra gli adolescenti, secondo gli studiosi, sembra quindi essere l’assenza di modelli o meglio, la presenza di modelli negativi nella società e in famiglia.
Alla luce di tali affermazioni risulterà opportuno fornire ai giovani punti di riferimento credibili in cui identificarsi. L’identificazione, infatti, è un elemento essenziale per la formazione della personalità soprattutto se consideriamo che i fattori di rischio che predispongono alla violenza di coppia aumentano se i ragazzi fanno uso di droghe o sostanze illegali, se hanno una sessualità precoce e più partner e, soprattutto, se sono stati testimoni di violenza in famiglia.
Le conseguenze sullo sviluppo emotivo degli adolescenti di tali esperienze e sulla loro futura vita di relazione risultano evidenti: in particolare, le esperienze abusanti o violente potranno causare conseguenze molto serie nell’immediato e in futuro; i sintomi vanno dall’ansia alla depressione, a comportamenti devianti come uso di alcool e droghe e/o comportamenti antisociali fino ad arrivare al suicidio.
Conclusioni
Quanto relazionato, pur non avendo la presunzione di risultare esaustivo nella descrizione dell’imponenza del fenomeno della violenza di genere, è tristemente confermato dai dati che emergono dalla seconda indagine Istat sulla violenza contro le donne che non solo testimoniano la preoccupante diffusione del fenomeno, ma attestano come nel 90% dei casi la violenza sia “sommersa” ovvero non denunciata.
Nonostante ciò, la statistica Linda Laura Sabbadini scrive in proposito (Lavoce.info del 7.10.2016) che la situazione sta migliorando: in otto anni sono raddoppiate le donne che considerano la violenza subita un reato, ma sono ancora una minoranza, il 36%.
La coscienza femminile sta crescendo ma la strada da percorrere è ancora lunga, essendo necessario che le donne comprendano quanto possa essere dannoso per i loro figli assistere alla violenza da loro subita da parte del partner. Anche in questo caso le ricerche criminologiche internazionali convergono con quella italiana: il figlio maschio che assiste alla violenza ha maggiore probabilità di diventare da adulto lui stesso autore di violenza e la figlia femmina di diventarne vittima. In Italia per chi ha assistito a violenza sulla propria madre si riscontra una probabilità di diventarne autore contro la propria compagna quattro volte più alta rispetto a chi non vi ha assistito.
Escalation della violenza sulle donne e problematiche relative all’avervi assistito dovrebbero essere due temi fondamentali da affrontare in campagne di sensibilizzazione permanenti alle quali tutte le istituzioni dovrebbero contribuire e questo perché, purtroppo, le vittime della violenza non sono solo le donne, ma anche e soprattutto i bambini. Basti pensare agli orfani dei femminicidi in tutti quei casi in cui il padre è arrivato ad uccidere la madre. Secondo le stime di una ricerca condotta da Anna Baldry dell’Università di Napoli nell’ambito del progetto europeo “Switch off” sarebbero 1.600 gli orfani di femminicidi dal 2000. Per questi bambini e per i parenti che spesso diventano affidatari, si apre un percorso di vita molto complicato, con grandi sofferenze, ma soprattutto con scarsissimo sostegno da parte delle istituzioni. I bambini non possono essere dimenticati e i parenti affidatari devono essere sostenuti, cosa che, purtroppo, non sempre accade.
Da questo punto di vista, dunque, agli uomini degni di questo nome spetterà la gestione e soprattutto la sanzione (prima di tutto pubblica e sociale) dei propri simili violenti, uscendo dal silenzio che li rende complici e capire che anche non prendere posizione è una scelta che ha delle conseguenze e mantiene intatto il problema. Il modello violento patriarcale è un sistema prevaricante che schiaccia anche gli uomini: solo quando gli uomini accetteranno di ammetterlo pubblicamente sarà possibile fare le dovute distinzioni fra complici e vittime, uomini o donne che siano.
Per il momento esiste una maschilità "buona" fatta di padri affettuosi, compagni corretti, amici e fratelli capaci di rispetto e di instaurare rapporti autentici, che però viene considerata l’eccezione, una rarità seminascosta e imbarazzata che tiene un basso profilo per evitare problemi. Gli stessi problemi che noi, invece, non possiamo evitare.
Il dovere di tutti coloro che non stanno dalla parte dei violenti è dunque quello di alzare la testa uscendo dalla paura e nominarsi con forza come uomini migliori per prendere le distanze e mandare un segnale forte e chiaro al fine di dimostrare che un altro modo di essere uomini è possibile.
Il giudice, sia egli minorile od ordinario, requirente o giudicante, può, anzi deve, appartenere a questa categoria di magistrati-uomini, compiendo ogni sforzo per meglio tutelare le vittime dei reati nel settore penale ma anche, e principalmente, “intercettare” il disagio delle persone offese e dei figli di tali vittime del reato, nel settore civile. Da qui l’importanza del ruolo del PMM e del giudice minorile istituzionalmente preposto alla tutela, specie in sede civilistica, dei soggetti deboli.
La violenza di genere, invisibile per molto tempo, è ora sotto l’attenzione dei media, se ne discute non più e non solo nelle trasmissioni di intrattenimento ed è cresciuta la condanna sociale contro la violenza: le donne sono finalmente meno sole e meno invisibili. Allo stesso modo, anche i bambini non devono rimanere invisibili, i loro sguardi, profondi, che attraversano i tanti procedimenti che tratta il Tribunale per i Minorenni, sono lì, inesorabili, ad interpellarci e a ricordarcelo.