Sommario: 1. Il quesito interpretativo. - 2. Le ragioni della rimessione alla Prima Presidente. - 3. La storia recente e le origini del contrasto. - 4. Il punto di massima tensione del sistema e l’eterogenesi dei fini. - 5. La lezione della Storia e la forza della realtà: quale futuro per la Corte Suprema?
1. Il quesito interpretativo
E’ ammissibile la censura di travisamento della prova nel giudizio di legittimità?
E’ questa, nei suoi termini essenziali, la questione di massima di particolare importanza che, nel perdurante contrasto interpretativo che avvince le Sezioni semplici, induce oggi la Sezione lavoro della Corte di cassazione a rimettere la causa alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.
Dietro la questione, all’apparenza posta in maniera fin troppo semplificata,[1] si agita un intreccio di temi aventi gravi ricadute di sistema. La loro pregnanza emerge dalla vicenda processuale culminata nel ricorso assegnato alla Sezione remittente e dai motivi cui la ricorrente affida le sue doglianze.
Nel caso di specie la sentenza di secondo grado aveva confermato quella di prime cure con la quale era stata rigettata l’opposizione proposta da una società all’intimazione di pagamento relativa ad alcune cartelle esattoriali notificate in precedenza e (asseritamente) non opposte.
La società proponeva ricorso per cassazione affidato a cinque motivi sostanzialmente riproducenti, si apprende dall’ordinanza di rimessione, le censure mosse a suo tempo alla sentenza di primo grado e respinte dalla Corte d’appello.
Per quanto di immediato interesse, la Sezione lavoro viene chiamata ad esaminare due motivi di ricorso a struttura complessa.
Il primo di essi, in particolare, si incentra: a) sulla “violazione e falsa applicazione” (sic!) dell’art. 116 c.p.c. per avere la Corte d’appello travisato il contenuto e la valenza delle ricevute di consegna prodotte dall’agente della riscossione; b) sul (conseguente) omesso esame circa un fatto decisivo, consistente nel non aver rilevato che le ricevute stesse non contenevano alcun elemento che indicasse la loro afferenza alle intimazioni di pagamento; c), infine, sulla violazione dell’art. 111, comma 6°, Cost., poichè proprio l’afferenza di tali ricevute alle intimazioni di pagamento era stata affermata senza motivazione.
Stessa struttura esibisce il secondo motivo: a) violazione dell’art. 116 c.p.c. per travisamento del contenuto degli stralci di visura camerale riprodotti dall’agente della riscossione nel corpo della memoria di costituzione in primo grado; b) omesso esame circa un fatto decisivo per la mancata considerazione che l’unica visura camerale realmente acquisita agli atti (e da essa ricorrente allegata) attestava che, all’epoca della notifica delle intimazioni di pagamento, la sede della società era in luogo diverso da quello in cui la notifica era invece avvenuta; c) ed infine violazione dell’art. 111, comma 6°, Cost., per essersi la sentenza di secondo grado limitata a quelle affermazioni senza motivazione.
Gli ulteriori motivi di ricorso lamentano, nel complesso, la violazione delle disposizioni sulla notifica alle persone giuridiche, l’omesso esame di fatti decisivi e la violazione dell’obbligo di motivazione imposto dall’art. 111, c. 6 Cost.
La Corte ritiene, anzitutto, perfettamente in linea con l’art. 132, c. 2, n. 4, c.p.c. e con l’art. 111, c. 6, Cost. la motivazione cui la Corte d’appello ha affidato la ricostruzione delle modalità (ex art. 145 c.p.c.) e del luogo (la sede legale dell’impresa) della notifica delle intimazioni di pagamento. Ritiene altresì, sulla scorta della sovrapponibilità dei motivi di ricorso per cassazione alle censure già mosse alla sentenza di primo grado (e rigettate in appello), che il lamentato omesso esame di fatti decisivi non possa trovare cittadinanza nel giudizio di legittimità ostandovi, nella fattispecie, l’art. 348 ter c.p.c.
Resta invece sul tappeto, a condizionare gli sviluppi del giudizio di legittimità, la denuncia di travisamento della prova documentale (ricevute di consegna prodotte dall’agente della riscossione nel primo motivo, stralci della visura camerale relativa alla sede legale della ricorrente nel secondo motivo).
Profilo assolutamente dirimente posto che la ricorrente sostiene da un lato che la notifica delle intimazioni di pagamento sarebbe avvenuta in luogo diverso dalla propria sede legale, e dall’altro che, comunque, le ricevute di consegna esibite da controparte difetterebbero di specifico riferimento a quelle intimazioni, della cui avvenuta notifica mancherebbe, dunque, addirittura la prova.
La Corte si ritrova così al cospetto del quesito posto in apertura: è ammissibile la censura di travisamento della prova nel giudizio di legittimità?
Nel porsi il quesito essa mostra consapevolezza di una realtà fluida che, all’indomani dell’intervento normativo che ha mutato il volto dell’art. 360 c.p.c., è alla faticosa ricerca di nuovi equilibri.
Di questa fluidità è prova il serpeggiante contrasto interpretativo che ha progressivamente finito per divaricare gli approdi delle Sezioni semplici. Un contrasto che la Sezione remittente lascia senza infingimenti emergere[2] dando la parola alle pronunce di legittimità che disegnano un ampio spaccato della tormentata storia, recente e non, del giudizio di legittimità.
2. Le ragioni della rimessione alla Prima Presidente
Il quesito è in effetti figlio, nella prospettiva dell’oggi, proprio della storia del giudizio di legittimità.
Una storia la Corte stessa ha scritto con l’immane mole di pronunce che hanno progressivamente forgiato la fisionomia dei motivi di ricorso e la loro collocazione nel catalogo dell’art. 360, comma 1, c.p.c., nella sua formulazione originaria come in quelle succedutesi fino ai giorni nostri.
Ed è dunque comprensibilmente dalla storia del giudizio di legittimità che si dipana il percorso dell’ordinanza di rimessione.
Al travisamento dei fatti, in costanza dell’art. 360 c.p.c. come modificato nel 1950, è sempre stato negato l’ingresso nel giudizio di legittimità salvo che fosse assunto quale fulcro di un vizio di motivazione (insufficienza/contraddittorietà) su un punto decisivo della controversia[3].
Filtrato dalla motivazione, dunque, il vizio di travisamento del fatto da un lato non si distingue, nella giurisprudenza della Corte[4], da quello di travisamento della prova, posto che è dalla (fonte di) prova che il giudice ricostruisce il fatto dandone atto nella motivazione; dall’altro presuppone quel contrasto tra le parti che lo rende errore di giudizio e non di semplice percezione. Quest’ultimo errore trova infatti separata collocazione nell’art. 395, n. 4 c.p.c. quale motivo di revocazione ordinaria poiché si fonda su una svista su circostanze la cui consistenza è incontestata.[5]
La modifica che ha investito l’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.[6] incide però pesantemente su questa tassonomia, in varia misura e con diversi effetti ibridandola.
Mentre il travisamento della prova frutto di un errore di percezione resta comunque affidato alla revocazione, il travisamento quale esito di un errore di giudizio pare ormai privo di collocazione. La censura di insufficienza della motivazione, che nella consolidata giurisprudenza ne era il viatico, è stata infatti espunta dal catalogo dell’art. 360, c. 1, n. 5 nella lettura fornitane dalle Sezioni Unite nel 2014.
Rimane chiusa, del resto, anche la via della denuncia quale error in procedendo ex art. 115 c.p.c. La giurisprudenza della Corte continua, infatti ad escludere che la disposizione possa invocarsi per lamentare che le prove sono state valutate in un modo piuttosto che in un altro. La violazione dell’art. 115 c.p.c. ricorre cioè solo quando il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti o disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, valutato secondo il suo prudente apprezzamento prove legali o, al contrario, considerato come facenti piena prova elementi soggetti invece ad apprezzamento critico.
Il giro di vite sull’errore di giudizio indotto dal travisamento della prova non tarda però a mostrare le sue ricadute opacizzando un quadro che, fino alla modifica dell’art. 360, c. 1 c.p.c., mostrava una sua complessiva coerenza.
Di ciò l’ordinanza di rimessione dà compiutamente conto ricostruendo il filone di legittimità, sempre più nutrito, per il quale se il travisamento quale errore di giudizio non è più collocabile tra i vizi della motivazione e resta fuori dal controllo della Corte anche quale error in procedendo ex art. 115 c.p.c., ne consegue il consolidamento di “(…) un’inemendabile forma di patente illegittimità della decisione”, posto che quest’ultima si è basata sui fatti probatori travisati.
E’ allora proprio quell’art. 115 c.p.c. a mente del quale la decisione va assunta sulla base delle prove allegate dalle parti a fungere da rimedio imponendo, in parziale contrasto con le conclusioni attinte dalla consolidata giurisprudenza, un distinguo.
Se cioè il giudice di merito ha selezionato una specifica informazione tra quelle pur sempre astrattamente ricavabili dal mezzo di prova acquisito agli atti, allora l’errore di valutazione resta incensurabile in sede di legittimità (restando confermata la consolidata lettura pretoria dell’art. 115 c.p.c.).
Se invece la decisione si è basata su un’informazione (che si assuma) anche in astratto impossibile da ricondurre al mezzo di prova da cui pure il giudice sostiene di averla ricavata, vuol dire che essa viola l’art. 115 c.p.c. proprio nella parte in cui ne impone il radicamento sulle prove dedotte dalle parti. Ne deriva allora una nullità della sentenza denunciabile ex art. 360, c. 1, n. 4[7].
Di fronte a questo distinguo la Sezione lavoro non si fa scudo del calcolo di prevalenza tra la compatta giurisprudenza contraria, pure scrupolosamente ricostruita, e quelle (che potrebbero essere liquidate come) isolate voci di dissenso.
Ben conscia dell’importanza dei valori in gioco, l’ordinanza di rimessione affronta a viso aperto quelle voci esponendo i motivi, e le correlate ricadute di sistema, per i quali non ritiene, tuttavia, di omologarle.
Posta la distinzione fra il travisamento frutto di errore di percezione (dominio della revocazione ex art. 395, n. 4 c.p.c.) e travisamento frutto di errore di giudizio, ribadisce senza sbavature che quest’ultimo può essere censurato nella sola misura in cui la legge processuale lo consente e dunque, nell’ambito del giudizio di legittimità, nei soli limiti di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. nel testo oggi in vigore, come interpretato dalle Sezioni Unite nel 2014.
Sostenere che il giudice possa trarre da un mezzo di prova, nel contrasto tra le parti, elementi ad esso assolutamente e logicamente estranei tanto da incorrere in error in procedendo ha invece ricadute di sistema che vanno ben oltre quei limiti.
Significa infatti ammettere, implicitamente ma chiaramente, che “(…) ci possano essere “prove chiare” e, più ancora, che possa esistere processualmente un “fatto” distinto dal giudizio di fatto, cioè al di fuori della sola interpretazione giuridicamente rilevante delle prove e della loro idoneità o meno a dimostrare i fatti controversi, che per costante giurisprudenza di questa Corte è attribuita al giudice di merito”[8].
L’avversata interpretazione dell’art. 115 c.p.c. finirebbe allora, paradossalmente, per consentire alla Corte un controllo sul giudizio di fatto e sulle prove perfino più ampio di quanto non sia ammissibile in sede penale, “(…) dove invece non esiste il rimedio della revocazione e, in caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale può essere dedotto, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (…)”.
La Sezione remittente, dicevo, non sottovaluta la perenne tensione tra le peculiarità di ruolo e funzioni della Corte di legittimità e l’inesausta istanza alla censura di decisioni ingiuste perché fondate su un travisamento dei fatti probatori.
Non ritiene però che il modo per porre rimedio a quella (presunta) ingiustizia sia allargare le maglie degli artt. 115 e 116 c.p.c. fino a ricomprendervi il fatto probatorio (“il fatto distinto dal giudizio di fatto”) quale oggetto di immediata e diretta percezione della Corte. Ciò comporta infatti il serio rischio che essa scivoli “(…) verso una inconsapevole trasformazione in un tribunale di terza istanza (…)”.
Esito, quest’ultimo, “(…) diametralmente in contrasto non solo con la lettera, ma vieppiù con l’intenzione che il legislatore ha trasfuso nella novella più volte cit. dell’art. 360 n. 5 c.p.c., per come ricostruita da Cass. S.U. n. 8053 del 2014”[9].
Di qui la scelta, quantomai opportuna, di non decidere il ricorso in base alla propria (dichiarata) opzione ermeneutica contribuendo a esacerbare la rottura.
E’ invece la rimessione della causa alla Prima Presidente perché valuti l’opportunità di investire le Sezioni Unite la via maestra per la composizione del contrasto su quella che riveste, per sua stessa natura ed a maggior ragione per lo spirito dei tempi, le caratteristiche di una “questione di massima di particolare importanza”.
3. La storia recente e le origini del contrasto
Se la Storia insegna qualcosa, era prevedibile che i nodi venissero, prima o poi, al pettine.
Come prevedibile era pure che la modifica in senso restrittivo del motivo di ricorso del n. 5 dell’art. 360, c. 1, c.p.c. conducesse ad una eterogenesi dei fini.
La Storia insegna come il modo di intendere questo motivo (più che qualsiasi altro) sia la spia di come la Cassazione, e l’intero ordinamento, vivano ed intendano funzioni e ruolo del Giudice Supremo[10].
I fini perseguiti dal legislatore dell’estate 2012 con la riscrittura del n. 5, sono, per parte loro, ben noti.
Il passaggio dalla formula della “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio” (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. nella versione risultante dalla modifica del 2006) a quella attuale di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. risultante dalla modifica dell’estate 2012) è stata imposta[11] al dichiarato scopo di fiaccare l’assedio mosso alla Corte Suprema dalla mole debordante di ricorsi. Il tutto sul presupposto che essi siano in massima parte l’indesiderabile strascico di contenziosi sul fatto che non dovrebbero oscurare ruolo e funzioni del giudice di legittimità[12].
La scomparsa dal testo del n. 5 citato di ogni riferimento alla motivazione[13] e la perimetrazione del controllo di legittimità alla sola omissione dell’esame di un fatto controverso che si assuma decisivo, sono dunque le ricette apprestate per allontanare la Corte dallo spettro del giudizio di fatto destinandone le energie all’assolvimento dei compiti istituzionali.
Per parte sua la Cassazione sceglie, almeno in un primo tempo, di assecondare il nuovo corso normativo, ben conscia che quello spettro si agita proprio, o quantomeno si nasconde, nel controllo sulla motivazione. Del resto, è stata proprio la Cassazione nel corso del tempo a trasferire il sindacato sulla motivazione dalla verifica della sua esistenza quale elemento grafico della sentenza, come imposto dal c.p.c. del 1865[14], a quella di insufficienza logico/argomentativa quale sintomo di concreta ingiustizia.
Pronunciatesi nel 2014[15], le Sezioni Unite precisano perciò che il vizio oggi codificato dal n. 5 (del c. 1) dell’art. 360 è qualcosa di molto diverso dal controllo olim consentito dalla formula “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”.
Si tratta, infatti, dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, su cui le parti hanno dibattuto, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e avente natura decisiva sicché, laddove esaminato, avrebbe comportato un diverso esito della lite.
Quanto invece al controllo sulla motivazione, esso esce ufficialmente dall’usbergo del n. 5 per assumere i salvifici (per la Corte) connotati della violazione della legge processuale (artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c., 118 disp. att.) che prescrive, in ossequio all’art. 111, comma 6 Cost., la motivazione dei provvedimenti decisori.
Ne consegue che il controllo può avvenire nei soli limiti del “minimo costituzionale”, nella misura in cui cioè, a prescindente dal confronto con le risultanze processuali, il ricorrente lamenti, ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c., la “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, la “motivazione apparente”, il “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, o ancora la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile.”
Dietro il rassicurante concetto di “minimo costituzionale” quale misura del controllo sulla motivazione si nasconde tuttavia la sottovalutazione di una realtà ben più complessa, o meglio della realtà tout court (dell’esperienza giuridica, per dirla con Satta). Pare infatti evaporare quel controllo di sufficienza della motivazione, che è poi quanto nella maggior parte dei casi si richiede, attraverso il quale ne veniva censurata la opacità, l’incapacità cioè di dare adeguatamente conto del ragionamento radicato sulle prove raccolte o comunque sui fatti acquisiti e dunque del perché della decisione.[16]
Con quel controllo la Corte si era, in effetti, faticosamente e progressivamente ritagliata, dosandolo in base al caso concreto, il ruolo non di sostituto nella ricostruzione/valutazione del sostrato fattuale effettuata dal giudice di merito, ma di garante dell’obbligo di quest’ultimo di fornire una rigorosa (cioè resistente, riconoscibile[17], e dunque “sufficiente”) giustificazione delle proprie decisioni.
Oggi, dunque lo schermo del “minimo costituzionale”, ricaduta dello stringente tenore del n. 5 (dell’art. 360, comma 1, c.p.c.), sembra sbarrare l’accesso della Corte al rapporto tra giudice del merito e prove e in definitiva tra giudice del merito e ricostruzione del fatto secondo un grado sufficiente di resistenza del relativo ragionamento argomentativo.
Le lancette della storia si muovono all’indietro. La Corte si fa, paradossalmente, scudo della consacrazione costituzionale della motivazione per svilirla. Per ridurla, cioè, a quello svolgimento formale non incomprensibile, ed in definitiva qualunque, che in passato neppure un dato normativo ostile (l’art. 517 c.p.c. del 1865) e l’assenza di vincoli costituzionali le avevano impedito di sindacare sotto il profilo della congrua capacità giustificativo/argomentativa (“sufficienza”).
Altri tempi, si dirà, o meglio, altri numeri (quelli dei ricorsi depositati ogni anno in Cassazione).
Ma l’esperienza rivendica ben presto i suoi diritti. Comincia a serpeggiare una certa insofferenza della Corte ai limiti imposti dal legislatore come a quelli che essa stessa si è data nel 2014 proprio con la lezione del “minimo costituzionale.” Riaffiora così, dopo una immersione carsica, un certo margine di controllo del “ragionamento probatorio” già ventilato, del resto, in quel medesimo arresto a Sezioni Unite del 2014[18].
Spia in tal senso è lo straripamento delle censure mosse alla ricostruzione della quaestio facti, rimaste fuori dall’alveo del n. 5, verso la violazione/falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Le censure alla ricostruzione del fatto, all’esercizio concreto del potere di cui all’art. 116 c.p.c. restano cioè esaminabili se costruite “(…) come parte di un ragionamento più ampio che giustifichi innanzitutto in termini di necessarietà logica una ricostruzione della quaestio facti sulla base del materiale probatorio diversa da quella operata dal giudice di merito e per tale ragione evidenzi che egli ha mal sussunto la vicenda sotto la norma che ha applicato, perché tale norma non sarebbe stata applicabile se la ricostruzione fosse stata quella esatta”.[19]
Il concetto di sussunzione viene qui forzato per ospitare quelle censure di insufficienza della motivazione in fatto olim pacificamente attratte al n. 5 dell’art. 360, comma 1, e che dunque non attengono, se non a prezzo di uno snaturamento del concetto, alla falsa applicazione.[20]
Ancora più evidente lo straripamento laddove la Corte,[21] premesso che resta riservata istituzionalmente al giudice del merito la valutazione dei fatti e l’apprezzamento delle risultanze istruttorie, afferma tuttavia che essa stessa “(…) può verificare l’estrinseca correttezza del giudizio di fatto sotto il profilo della manifesta implausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze e, pertanto, può sindacare la manifesta fallacia o non verità delle premesse o l’intrinseca incongruità o contraddittorietà degli argomenti, onde ritenere inficiato il procedimento inferenziale ed il risultato cui esso è pervenuto, per escludere la corretta applicazione della norma entro cui è stata sussunta la fattispecie”.
Anche in tal caso il controllo sulla sufficienza del ragionamento probatorio viene attratto alla falsa applicazione della legge indotta dal malgoverno, da parte del giudice, “(…) del percorso logico tra premessa-massima di esperienza-conseguenza, cioè di esattezza della massima di esperienza poi applicata, (…).” Lo stesso vale per la “(…) congruità - o accettabilità o plausibilità o, in senso lato, verità - della premessa in sé considerata (…)”, in mancanza delle quali la motivazione sul punto resterà soltanto apparente.
Emerge qui, oltre alla già rilevata dilatazione dell’area naturale della violazione/falsa applicazione delle norme di diritto, anche la cedevolezza del concetto stesso di motivazione apparente[22] e con esso del “minimo costituzionale” del relativo controllo. Quella appena descritta altro non è, infatti, che la verifica di sufficienza della motivazione già dominio del previgente n. 5 dell’art. 360, comma 1, c.p.c.[23]
4. Il punto di massima tensione del sistema e l’eterogenesi dei fini
Arriviamo così ai casi, messi in luce dall’ordinanza in commento come punto di massima tensione del sistema, in cui lo straripamento verso altri motivi di ricorso muove nella direzione dell’art. 115 c.p.c., entrando in rotta di collisione con il consolidato approdo per il quale la violazione della disposizione non può essere invocata per lamentare che le prove sono state valutate dal giudice di merito in un modo piuttosto che in un altro.
Nei casi individuati quali latori del contrasto di giurisprudenza la Sezione lavoro fa emergere la diffusa insofferenza verso l’idea che siano immuni dal controllo di legittimità decisioni basate sul travisamento della prova ma mette anche in guardia dai rischi insiti nel dilatare i confini di una norma processuale per accogliere quelle esuli censure.
E’ evidente, del resto, la forzatura logica e concettuale del distinguere il caso in cui il giudice di merito ha selezionato una specifica informazione tra quelle pur sempre ricavabili dal mezzo di prova acquisito agli atti, incensurabile in cassazione, dal caso in cui l’informazione sia irriducibile alla fonte conoscitiva, censurabile invece quale error in procedendo ex art. 360, c. 1, n. 4 c.p.c. (violazione dell’art. 115 c.p.c., appunto).
Viene infatti da chiedersi: stabilire quali informazioni siano ricavabili da una data fonte, ed in base a quale percorso logico/argomentativo, non appartiene forse a quella complessa operazione di ricostruzione del fatto su cui il giudice basa la sua decisione? Non è dunque quel “giudizio di fatto” che solo ha cittadinanza nel processo?
E la risposta è positiva laddove il significato della fonte di prova o il suo stesso valore quale mezzo di prova siano controversi tra le parti. La situazione non può infatti che presentarsi in questi stessi termini anche al giudice, il quale compie una scelta e dunque esprime un giudizio. Se si assume che egli ha errato, allora di errore di giudizio si tratta non essendoci, secondo la premessa, un unico modo di valutare quella fonte o quel fatto.
L’evidenza di queste considerazioni emerge del resto, dai casi[24] in cui è agitato il travisamento della prova, a partire da quello sottoposto alla Sezione remittente. Qui si tratterebbe infatti: a) di esaminare il contenuto delle ricevute di notifica delle intimazioni di pagamento, per stabilire se siano effettivamente riferibili proprio a quelle intimazioni; b) di stabilire se dalle visure ufficiali risultasse l’indicazione, quale sede legale, di quella presso cui fu effettuata detta notifica; c) di esaminare comunque la motivazione in fatto del provvedimento per stabilire se quell’esame è stato condotto secondo un criterio di congruità e ragionevolezza tale da portare alle stesse conclusioni attinte dalla Cassazione.
Ad onta della suggestione retorica[25], il Collegio sarebbe perciò chiamato, e di questo l’ordinanza di rimessione si mostra ben consapevole, non a prendere atto di un demonstratum emergente (non si sa per quale arcano!) dal magma dei fatti controversi nella sua nuda obiettività, ma ad addentrarsi in quel magma traendone, in base alla valutazione delle fonti di prova (ricevute di notifica, visure), quello che solo all’esito di questo giudizio sarà il demonstratum[26]. E, occorre aggiungere, solo se la (diversa) ricostruzione/valutazione emergente dalla motivazione non sarà ritenuta resistente e congrua, il Collegio la sostituirà con la sua.
Il punto è allora che assegnare artificialmente al significato della prova una sua obiettiva “chiarezza” quale fonte di error in procedendo del giudice di merito, piuttosto che la sua reale natura di giudizio quale valutazione/ricostruzione del suo significato e della sua consistenza di cui è traccia nella motivazione, significa dare alla Cassazione il potere di apprezzarne direttamente il contenuto.
Significa, cioè, che essa sostituirà la propria valutazione della fonte della prova (i documenti citati), ipostatizzata quale “fatto processuale,” a quella del giudice di merito. E a quest’ultimo, in caso di rinvio, non competerà più ripetere il giudizio di fatto motivando il provvedimento secondo criteri di sufficienza/resistenza del ragionamento probatorio,[27] ma solo prendere atto di un risultato valutativo che gli si impone dall’alto e (ri)decidere la controversia di conseguenza.
L’eterogenesi dei fini ha compiuto tutta intera la sua parabola e la Corte, esaminando comunque (e magari con maggiore dispendio di tempo) la motivazione, si è già trasformata in un giudice che mette l’ultima parola sulla valutazione dei fatti probatori decisivi per il giudizio.
5. La lezione della Storia e la forza della realtà: quale futuro per la Corte Suprema?
Se dunque l’intento della riforma del 2012 era quello di allontanare il Giudice supremo dalle insidie del giudizio di fatto, esso non si è realizzato né rispetto al nuovo n. 5 dell’art. 360, c. 1, c.p.c., né quanto alle implicazioni derivatene in termini di rimodulazione degli altri motivi di ricorso.
Di quest’ultimo profilo si è appena detto.
Quanto al primo, occorre prendere atto della sottovalutazione, da parte della riforma del 2012, di una importante conseguenza del passaggio dal controllo sulla motivazione alla omissione dell’esame di un fatto decisivo e controverso. Alla Corte si impone infatti di verificarne, senza la mediazione della motivazione, proprio la decisività e quindi di compiere una vera e propria valutazione di merito non tanto e non solo sulla scelta del giudice di non considerare rilevante/decisivo quel fatto, bensì direttamente sui fatti probatori.[28]
Il quadro attuale è dunque dominato dalle ombre.
Quella del “minimo costituzionale” del controllo sulla motivazione che finisce per nascondere, col transito delle censure di malgoverno del prudente apprezzamento del giudice sotto l’ala dell’art. 360, c. 1, n. 3, c.p.c., un perdurante controllo di “sufficienza”. Tangibile sintomo, a tacer d’altro, della fallacia della distinzione tra motivazione formale e sostanziale, che non a caso la ragionevolezza di una prassi centenaria aveva fuso nel globale controllo di omissione, insufficienza, contraddittorietà[29].
Quella, insidiosissima, del demonstratum che, sottratto al giudizio di fatto, si oggettivizza quale fatto processuale che la Corte apprezza in via diretta così esaminando comunque la motivazione ma arrivando a sostituire il suo giudizio di fatto a quello del giudice di merito cui pure, a suo dire, esso compete in via esclusiva.
Lo sguardo lucido e disincantato dell’ordinanza di rimessione solleva il velo su quest’ultima ombra e, inondandola di luce, svela che non è “cosa salda”.
In questa stessa luce, essa non si limita dunque ad evidenziare un contrasto oramai insanabile su questione di massima di particolare importanza (cosa già di per sé rilevante) ma si pone, e pone, una più fondante ed inquietante domanda.
Verso quale futuro la Corte vuole incamminarsi? E’ consapevole di andare, al di là degli slogan di facciata, verso quella terza istanza che ha sempre allontanato da sé?
E’ mia convinzione[30] che nessun tratto di penna del legislatore possa soverchiare la Storia.[31]
E la Storia insegna che quello del controllo sulla tenuta logico/argomentativa e giustificativa della motivazione è ruolo che la Corte si è da sempre autonomamente riservata anche a prescindere ed oltre il dato normativo.
La Storia insegna poi che anche quando ha operato un self restraint brandendo nel 1992 la spada del “minimo costituzionale” del controllo sulla motivazione per il ricorso straordinario, non ha ottenuto l’agognata diminuzione del carico di lavoro né attenuato la spinta pressante della realtà.[32]
La parabola dell’oggi non si mostra dunque molto lontana da quella del passato recente, solo che oggi è la stessa Corte a mostrarsi insofferente a limiti imposti dall’alto che, evidentemente, percepisce come intollerabili e contrari all’esperienza giuridica stessa.
La strada per aggirarli non è però, ed è serio il monito dell’ordinanza di rimessione, quella pericolosamente imboccata, che mostra i suoi maggiori limiti proprio nell’imporre comunque un esame della motivazione ma anche rendendo la Corte arbitra del giudizio di fatto.
Occorrerebbe allora, a mio avviso, liberarsi dell’ombra del “minimo costituzionale” o quantomeno farvi rientrare anche il controllo di sufficienza della motivazione, senza la quale essa perde la sua essenza di “realizzazione dell’ordinamento”[33]per il caso concreto non meno che per il controllo democratico della giurisdizione.[34]Occorrerebbe cioè tornare a viso aperto sulla strada che portò la Corte, in costanza dell’abrogato Codice di rito civile, a dilatare il concetto di motivazione intesa quale parte del documento- sentenza per conferirvi lo spessore, e la dignità, di percorso logico argomentativo e giustificativo della decisione.
Questo anelito di recupero che viene dal basso[35] ma incontra la sensibilità della Corte andrebbe anzi valorizzato, in questo nostro presente, anche e soprattutto contro lo spirito dei tempi.
Che è quello, occorre rimarcare, di contrarre sempre più, di riforma in riforma[36], la motivazione della sentenza che chiude i processi di merito.
Il ripristino del controllo sulla sufficienza della motivazione, forgiato dalla prassi e dosato con la ragionevolezza del self restraint che la Corte ha sempre mostrato, potrebbe dunque essere l’ultima fortezza. E ciò tanto per la giustizia del caso singolo quanto in termini di contrasto alla tendenza legislativa a demonizzare il processo (ed il suo atto finale) quale fonte dei mali del nostro tempo, conservando alla Corte il suo vero ruolo di garante della nomofilachia.[37]
Come si pronunceranno le Sezioni Unite, se saranno investite, non è facile (né sarebbe utile) presagire.
Una cosa però è certa. Oggi la Corte non deve solo scegliere, avverte l’ordinanza di rimessione, tra due (o più) opzioni interpretative ma soprattutto, e ben più di quanto abbia fatto nel 2014, quale ruolo vuole rivestire.
Il suo destino e quello della giustizia sono ancora, come insegna la Storia, nelle sue mani.
[1] A partire dalla scelta di riferire il travisamento alla prova e non al fatto. Il punto è che il concetto di “fatto” assume connotati affatto peculiari nel contesto esaminato, che emergeranno progressivamente solo dalla lettura dell’ordinanza in commento e dalle perspicue considerazioni che essa compie e cui, al tempo stesso, dà la stura.
[2] Il contrasto interpretativo è rilevato altresì da una successiva ordinanza di rimessione alla Prima Presidente, per l’eventuale assegnazione alle SU: Cass., sez. III, 27 aprile 2023, n. 11111. Che il contrasto fosse tuttavia già latente tra le sezioni semplici, senza tuttavia essere ancora sfociato in una rimessione alla Prima Presidente è illustrato da Cavallaro, Errare è umano, travisare diabolico. Ovvero, di un problema (di nuovo) attuale della cassazione civile, in www.giustiziainsieme.it del 21 marzo 2023 (Testo dell’intervento tenuto all’incontro di studi “Errare humanum… travisare diabolicum. La questione del travisamento nel ricorso per cassazione”, organizzato dalla Struttura di Formazione decentrata della Corte di cassazione (Roma, 14 marzo 2023).
[3] Ricostruisce emersione e sviluppo del tema nella giurisprudenza in prospettiva storica Cavallaro, Errare è umano, travisare diabolico. Ovvero, di un problema (di nuovo) attuale della cassazione civile, in www.giustiziainsieme.it del 21 marzo 2023, cit.
[4] L’ordinanza di rimessione ricostruisce in modo completo sviluppi ed approdi della giurisprudenza di legittimità cui mi riferisco nel corso di questo scritto. Ciò mi dispensa da citazioni specifiche, per le quali non mi resta, perciò, che rinviare al testo dell’ordinanza.
[5] Significativo il caveat posto dall’art. 395, c. 1, n. 4, c.p.c.: “(…) se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare.”
[6] Ad opera dell’art. 54 del d.l. n. 83/2012, conv. con l. n. 134/2012.
[7] Il tutto, ovviamente, purché il ricorrente assolva al duplice onere “(…) di prospettare l’assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi probatori acquisiti i contenuti informativi individuati dal giudice e di specificare come la sottrazione al giudizio di detti contenuti avrebbe condotto a una decisione diversa non già in termini di mera probabilità, bensì di assoluta certezza.” Mi limito anche qui, per i riferimenti giurisprudenziali, al rinvio all’ordinanza in commento.
[8] I riferimenti alla giurisprudenza in cui l’affermazione si ripete costantemente sono nell’ordinanza in commento, ma l’archetipo argomentativo è sattiano: v. infatti Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1959-1962, II, 2, 202.
[9] Diverso il mood dell’ordinanza n. 11111/2023, cit., favorevole al transito delle censure sul travisamento della prova nel n. 4 dell’art. 360, c. 1, c.p.c. (sub specie di violazione dell’art. 115 c.p.c.). L’ordinanza imposta del resto il tema in termini di travisamento del contenuto oggettivo della prova.
[10] Capponi, L’omesso esame del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, 925 ss. Ma v. già i rilievi di Satta, Il formalismo nel processo, oggi in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 70 ss, il quale, parlando del formalismo interpretativo, fa riferimento alla Cassazione e alla distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto. Sostiene l’A. (si tratta del testo di una Relazione tenuta nel 1958):”(…) Nulla è più legittimo della limitazione del controllo del giudizio, o quantomeno è questione di opportunità politica estendere tale controllo o limitarlo; e nulla vieta di stabilire i limiti del controllo sulla base della distinzione tra giudizio di fatto e di diritto, sebbene anche questo sia un equivoco storico. Ma è nella determinazione in concreto del fatto e del diritto che si insinua lo spirito formalistico: onde noi vediamo, ed è un detto comune, oscillare la Suprema Corte tra due estremi, e ora chiudersi in una torre d’avorio, ora risolversi in un terzo grado, a seconda che quello spirito prevalga o meno (…)”. Il concetto viene ripreso nella Prefazione alla quinta edizione del Manuale di diritto processuale (1956), ivi, 149, ove si rinviene l’aperto riferimento alla mancanza di razionalità della distinzione tra giudizio di fatto e giudizio di diritto, che può dunque giustificarsi sul solo piano opportunità. E’ tuttavia evidente, prosegue l’A., “(…) che la distinzione è anch’essa una pura forma che la legge offre al massimo giudice perché la riempia della sua discrezione (…)”.
[11] Lo testimonia la collocazione del cruciale intervento sull’art. 360, c. 1, n. 5, c.p.c. in un testo normativo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) dedicato alla crescita economica, frutto a sua volta dell’ostilità verso le impugnazioni civili viste quale espressione non di garantismo bensì di crisi del sistema, di ostacolo al raggiungimento del Santo Graal della ragionevole durata del processo (rectius della “competitività” del cd. Sistema Paese).
[12] La cui funzione è solo quella di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge”, secondo l’art. 65 Ord. Giud. Amplius sul punto, a titolo meramente esemplificativo, Poli, Logica del giudizio di fatto, standard di prova e controllo in cassazione, in Lo statuto del giudice e l’accertamento dei fatti, Atti del XXXII Convegno Nazionale, Messina, 2019, spec. 373 ss e spec. 440 ss, nonché i saggi raccolti nel volume.
[13] Che il controllo sulla motivazione non possa ritenersi comunque escluso è dimostrato, secondo Balena, Il rapporto tra il n. 3 e il n. 5 dell’art. 360 nella storia della Cassazione civile italiana dalle origini fino ai nostri giorni, 129 ss., in Fatto e diritto nella storia moderna dell’ultimo grado del processo civile europeo. Atti del Convegno del 22 dicembre 2017 in memoria di Nicola Picardi, Roma, 2021, “(…) dalla “storia” della norma in esame. (…) i lavori preparatori del codice del 1940, al pari della Relazione al Re, non lasciano dubbi sul fatto che la formulazione originaria dell’art. 360, comma 1, n. 5), sostanzialmente ripristinata dalla riforma del 2012, si riferisse pur sempre ai vizi della motivazione, ancorché circoscritti alla sola ipotesi del difetto totale relativamente ad un fatto decisivo”. Allo scritto occorre rinviare anche per i riferimenti sulla dottrina che ha variamente interpretato il mancato riferimento del n. 5 dell’art. 360, c. 1, c.p.c. di nuovo conio alla motivazione.
[14] Il n. 7 dell’art. 517 c.p.c. 1865 si limitava a far cenno alle «disposizioni contraddittorie» della «sentenza pronunciata in grado d’appello» e cioè ad un vizio che è molto dubbio riferire anche al testo attuale del n. 5) dell’art. 360 c.p.c.; il n. 2) parlava di nullità della sentenza «a norma dell’art. 361» che a sua volta, rimandando all’art. 360, faceva emergere il riferimento ai «motivi in fatto e diritto». V. amplius, Capponi, L’omesso esame del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., cit., 925 ss e, in prospettiva storico-comparatistica, Panzarola, Il confine fatto-diritto e il sindacato della motivazione nella evoluzione di alcune magistrature supreme (tra terza istanza, cassazione e revisione), 99 ss, in Fatto e diritto nella storia moderna dell’ultimo grado del processo civile europeo. Atti del Convegno del 22 dicembre 2017 in memoria di Nicola Picardi, cit.
[15] Cass., S.U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054, su cui v. Passanante, Le sezioni unite riducono al “minimo costituzionale” il sindacato di legittimità sulla motivazione della sentenza civile, in Riv. trim dir. proc. civ., 2015, 179 ss.; Porcelli, Sull’omesso esame circa un fatto decisivo, in Riv. dir. proc., 2014, 1600 ss. V. altresì Capponi, L’omesso esame del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., cit., 925 ss.
[16] Si tratta di quel tipo di vizio che l’esperienza (nata dalla prassi e non da una previsione legislativa) della Cassazione francese conosce come défaut de base légale. Ne affido l’illustrazione alla efficace penna di Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in Cassazione, in Corr. giur., 849 ss: “(…) L’esperienza del giudizio di cassazione francese appare particolarmente interessante proprio per la chiara coscienza che, nel rapporto tra fatto e norma, si deve aver cura di distinguere il défaut de base légale dalla fausse application de la loi. Ambedue vanno considerati vizi di sostanza (fond) ma il primo trova spazio nella mancanza (o nell’opacità) del ‘perché’ della decisione (altri potrebbero esserne i presupposti e questo non permette di classificarla come buona o cattiva). Essa non è quindi censurata perché sbagliata in sé: potrebbe in ipotesi essere giusta ma non lo si può stabilire perché il controllore non è in grado di verificarlo, e il vizio della decisione si radica proprio in questa impossibilità (in altre parole: i limiti ricostruttivi del fatto propri del giudice di legittimità non giustificano comunque l’arbitrarietà dei presupposti). La fausse application dà invece luogo ad un giudizio sintetico, centrato sull’erroneità della conclusione: il controllore si confronta direttamente con l’errore della decisione che viene oggettivamente valutata indipendentemente dalla motivazione fornitane. In questo caso la sentenza è cassata non per un errore nel procedimento ricostruttivo ma per il suo risultato ultimo: la base fattuale è sufficientemente chiara ma non ne è seguita la corretta individuazione del modello legale di riferimento. (…)”
[17] Ancorchè non l’unica possibile.
[18] La Corte infatti (sent. n. 8053/2014), dopo aver sancito l’applicabilità dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. anche al giudizio di legittimità conseguente a ricorso avverso le decisioni delle (olim) Commissioni tributarie regionali, ha avuto cura di precisare che “(…) tale nuovo testo non ha sottratto al controllo di legittimità le questioni relative al «valore» e alla «operatività» delle presunzioni, che nel predetto processo hanno una loro specifica e particolare rilevanza. 14.8.1. - Infatti, la peculiare conformazione del controllo sulla motivazione non elimina, sebbene riduca (ma sarebbe meglio dire, trasformi), il controllo sulla sussistenza degli estremi cui l'art. 2729, 1° comma, c.c. subordina l'ammissione della presunzione semplice. In realtà è in proposito possibile il sindacato per violazione di legge, ai sensi del n. 3 dell' art. 360 c.p.c. Ciò non solo nell'ipotesi (davvero rara) in cui il giudice abbia direttamente violato la norma in questione deliberando che il ragionamento presuntivo possa basarsi su indizi che non siano gravi, precisi e concordanti, ma anche quando egli abbia fondato la presunzione su indizi privi di gravità, precisione e concordanza, sussumendo, cioè, sotto la previsione dell'art. 2729 c.c., fatti privi dei caratteri legali, e incorrendo, quindi, in una falsa applicazione della norma, esattamente assunta nell'enunciazione della «fattispecie astratta», ma erroneamente applicata alla «fattispecie concreta». 14.8.2. - In altre parole, poiché la sentenza, sotto il profilo della motivazione, si sostanzia nella giustificazione delle conclusioni, oggetto del controllo in sede di legittimità è la plausibilità del percorso che lega la verosimiglianza delle premesse alla probabilità delle conseguenze. L'implausibilità delle conclusioni può risolversi tanto nell'apparenza della motivazione, quanto nell'omesso esame di un fatto che interrompa l'argomentazione e spezzi il nesso tra verosimiglianza delle premesse e probabilità delle conseguenze e assuma, quindi, nel sillogismo, carattere di decisività: l'omesso esame è il «tassello mancante» alla plausibilità delle conclusioni rispetto alle premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.(…)”
[19] Cass, sez. III, 10 giugno 2016, n. 11892, in motivazione, in Riv. dir. proc., 2017, 856 ss, con nota di Della Ventura, Valutazione delle prove e ricorso per cassazione. Nello stesso senso, in motivazione, Cass. 28 settembre 2016, n. 19179.
[20]La scelta non è comunque indolore comportando l’inconveniente, di non poco momento, di costringere la Corte alla formulazione del principio di diritto (La Corte enuncia il principio di diritto quando decide il ricorso proposto a norma dell’art. 360, c. 1, n. 3 c.p.c.: così l’art. 384 c. 1 c.p.c.), anche quando le particolarità del caso (soprattutto per le questioni cd. plurisolubili) lo sconsiglierebbero. Il perspicuo rilievo è di Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza e sulla sua (in)controllabilità in Cassazione, cit., 849 ss
[21] Cass., sez. III, 5 luglio 2017, n. 16502, in Riv. dir. proc., 2018, 889 ss, con nota di Ruggiero, La Cassazione riapre al sindacato sul vizio logico di motivazione. L’impostazione transita nelle pronunce successive. V., a mero titolo esemplificativo e senza alcuna pretesa di completezza, Cass., 6 luglio 2020, n. 13872; Cass. 11 febbraio 2020, n. 3298; Cass. 24 gennaio 2020, n. 1688.
[22] E, del resto, anche il concetto di “illogicità manifesta” mostra più di qualche crepa a volerlo considerare con un po’ di attenzione. Rileva infatti giustamente Balena, Il rapporto tra il n. 3 e il n. 5 dell’art. 360 nella storia della Cassazione civile italiana dalle origini fino ai nostri giorni, cit., spec. 137 ss., circa il controllo di “coerenza” della motivazione, che appunto giustificherebbe, per la Cassazione, il sindacato della sola «illogicità manifesta» o della «irriducibile contraddittorietà» (rientranti appunto nel “minimo costituzionale”) come “(…) una volta ammesso che l’obbligo di motivazione, consacrato nell’art. 111 Cost., non può non implicare anche un certo controllo sull’architettura logica della decisione, sia concretamente improponibile una sorta di graduazione della “illogicità”, che segni il limite entro il quale la motivazione è sindacabile in sede di legittimità; ed altrettanto dicasi per l’ipotesi della «irriducibile contraddittorietà»: a ben riflettere, il contrasto tra diverse parti della motivazione della sentenza o è realmente “irriducibile”, o altrimenti si traduce in uno pseudocontrasto, che tale non è. La “stretta” interpretativa prospettata dalla Corte, dunque, è chiaramente destinata ad operare (…) con riguardo alla sola “insufficienza” della motivazione; i cui confini rispetto alla motivazione omessa o apparente o illogica, peraltro, restano inevitabilmente labili ed indefiniti (…)”.
[23] Il ricorso viene accolto, riferendo le censure fondate sul n. 5 dell’art. 360, c. 1, c.p.c., alla violazione e falsa applicazione di norme di diritto di cui al n. 3 della stessa disposizione. Ma il riferimento (ad abundantiam) alla motivazione la dice lunga sul tipo di controllo che la Corte ha, in concreto, condotto.
[24] Questo profilo emerge plasticamente da Cass. n. 12971/2022 (citata nell’ordinanza di rimessione) in cui il ricorso era stato proposto da una ASL ritenuta responsabile della morte di un paziente per aver praticato un protocollo non adeguato alla gravità delle sue condizioni all’atto del ricovero. Il ricorso si incentrava, in particolare, sul preteso travisamento, da parte della Corte d’appello, delle risultanze degli accertamenti sanitari disposti in sede penale, da cui sarebbe emerso in modo (asseritamente) inequivocabile che, pur immediatamente trasferito presso un centro chirurgico attrezzato, il paziente sarebbe in ogni caso deceduto. Sicché ne sarebbe derivato un ingiusto riconoscimento di responsabilità a carico della ricorrente stessa. Ebbene qui la Cassazione, pur rifacendosi all’insegnamento favorevole al distinguo fra travisamento incensurabile e travisamento censurabile ex art. 360, c. 1, n. 4 (per violazione dell’art. 115 c.p.c.) rigetta il ricorso anzitutto per mancanza di autosufficienza ma anche perché, esaminata la motivazione del provvedimento impugnato, ritiene “(…) che il giudice d'appello, nel condurre il discorso probatorio legato agli aspetti tecnici del giudizio in esame, abbia fatto propria una certa (non impossibile) lettura degli accertamenti richiamati nei termini riportati nella motivazione del provvedimento impugnato, strutturandone i contenuti anche alla luce delle deduzioni delle parti, sì da costruire un percorso giustificativo logicamente plausibile e sufficientemente coerente, in nessun modo infedele, sul piano logico, rispetto ai contenuti delle risultanze processuali.(…)”. E’ dunque evidente il ruolo svolto dall’esame della motivazione sul punto controverso. Lo stesso è a dirsi, sempre e solo a titolo di esempio, per Cass. n. 11111/2023, cit. Nella specie il ricorso lamentava che la Corte territoriale avrebbe errato, travisandone il significato, nel non riconoscere natura confessoria a due missive da cui sarebbe risultata la circostanza che il dipinto di cui la ricorrente aveva chiesto la restituzione alla Galleria Nazionale di arte moderna (domanda accolta in primo grado, sulla base dell’attribuzione di valore confessorio a quelle missive e respinta in secondo grado per il motivo opposto) era stato dato dall’A. alla Galleria a mero titolo di prestito. Qui la Cassazione (che non decide ma rimette la questione di massima alla Prima Presidente per l’eventuale investitura delle Sezioni Unite), esaminata scrupolosamente la motivazione non solo del provvedimento impugnato ma anche di quello di primo grado, fa chiaramente intendere di condividere la lettura del primo provvedimento in termini di confessione stragiudiziale delle missive di cui si è detto. Il tutto in base ad un esame delle ragioni giuridiche poste a base della relativa motivazione, laddove invece ritiene palesemente carenti quelle a base della opposta interpretazione della Corte d’appello. E’ da notare, a quest’ultimo proposito, che la Corte territoriale aveva basato la sua diversa opzione sul fatto che nella prima missiva non si faceva alcun riferimento specifico al dipinto di cui la ricorrente aveva chiesto la restituzione in primo grado. Il che era rilevante posto che L’A. aveva prestato diversi dipinti alla Galleria Nazionale di arte moderna per una mostra. Il valore confessorio era dunque non così palese come la ricorrente asseriva e, in buona sostanza, ciò che la Cassazione ha già rilevato nel provvedimento impugnato è, ad onta di quanto afferma, non un travisamento del contenuto (asseritamente confessorio) della prova ma semmai una motivazione insufficiente a fondarne una diversa ricostruzione Per un simile schema ricostruttivo v. anche i casi citati nell’ordinanza in commento, dove si contestava rispettivamente l’interpretazione di un progetto architettonico, ai fini della verifica della responsabilità dei progettisti per danni derivati al manufatto in base ad esso costruito (Cass. n. 37382 /2022) e la capacità di alcune foto di rappresentare lo stato di alcuni immobili prima che un evento li colpisse danneggiandoli, anche in tal caso ai fini del riconoscimento della responsabilità per il danno subito (Cass. n. 9356/2017).
[25] Che traspare, oltre che dalla lettura dei provvedimenti citati nell’ordinanza di rimessione, e dall’ordinanza di rimessione n. 11111/2023 della terza sezione cit. (che parte proprio ponendo il tema in termini di travisamento “del contenuto oggettivo” della prova: così l’incipit del punto 3 dell’ordinanza) anche dallo scritto di Dell’Utri, Note minime sulla questione del travisamento della prova nel ricorso per cassazione, in www.giustiziainsieme.it, (intervento svolto, il 14 marzo 2023, nell’Incontro di studi organizzato dalla Struttura di formazione decentrata della Corte di cassazione, dal titolo “Errare Humanum…Travisare Diabolicum. La questione del travisamento nel ricorso per cassazione”, tenutosi a Roma, nell’Aula Magna della Corte di cassazione).
[26] Non mi pare in grado di superare le considerazioni del testo l’ulteriore distinzione tra travisamento del fatto e travisamento della prova, come fa da ultimo Cass. n. 11111/2023, cit., per la quale “(…) il travisamento del fatto, a differenza del travisamento della prova, ha ad oggetto la ricostruzione derivante dalla valutazione di insieme di ogni prova, ed implica una disamina olistica di un complesso di circostanze che comportano il rischio di sconfinamenti, mentre il travisamento della prova è pertinente ad una prova singola, rispetto alla quale è del tutto legittimo predicare la possibilità di un errore meramente percettivo, volta che: - il travisamento del fatto equivarrebbe ad attribuire al giudice di legittimità il compito di esaminare più atti per interpretarli e coordinarli tra loro con un’operazione di ricostruzione logica e argomentativa, che tipicamente appartiene al merito del giudizio - il travisamento della prova non implica (come si osserva ancora in dottrina) un’attività di armonizzazione delle prove ovvero di ricostruzione dei fatti, ma impone al giudice una operazione quasi meccanica di raffronto tra testi (…)”. La Corte precisa altresì: “5.11. E’ innegabile che il travisamento della prova comporti, quale operazione logico-deduttiva, a monte, su di un piano strettamente “naturalistico” (anche) un travisamento del fatto: ma il travisamento della prova valutato su di un piano rigorosamente processuale dovrebbe poter rappresentare pur sempre, analogamente all’ipotesi in cui il giudice abbia posto a fondamento della decisione una prova inesistente, una violazione dell’art. 115 c.p.c., denunciabile ex art. 360, n. 4, come motivo di nullità della sentenza, volta che risultino alfine chiari e definiti i confini tra errore di percezione ed errore di valutazione, quando il punto di fatto su cui cade la prova è controverso, sicché appare difficile immaginare che si sia in presenza di una mera svista.(…)”. Trovo, francamente ineffabile questo passaggio da cui riesco solo a desumere, con la moltiplicazione dei concetti, la moltiplicazione delle ombre!
[27] Essendo censurata la motivazione in quanto affetta da fallacie nel ragionamento, si impone al giudice del rinvio il rifacimento del percorso logico di formazione della convinzione secondo le indicazioni della Cassazione. Ne consegue che mentre la cassazione per violazione di legge può avvenire senza rinvio ai sensi dell’art. 384 c. 2 c.p.c. (in caso di quadro fattuale completo la Suprema applica il corretto principio di diritto sostituendolo a quello applicato nella sentenza cassata), quella per vizio di motivazione impone appunto un ritorno al giudice di rinvio: così, perspicuamente, Sassani, Riflessioni sulla motivazione della sentenza, cit., 855.
[28] V., ad esempio, Cass. 23 marzo 2018, n. 7248; Cass. 21 febbraio 2018, n. 4164; in dottrina, senza alcuna pretesa di completezza, Capponi, Note brevi sul n. 5 dell’art. 360 c.p.c, in www.giustiziainsieme.it; Sassani, Riflessioni sulla motivazione, cit., 856 Poli, Logica del giudizio di fatto, cit., spec. 459. Profilo, questo, già messo in rilievo dalla letteratura successiva al varo del Codice di rito nel suo testo originario, di cui quello oggi vigente è sostanziale riproduzione, e cui pose rimedio la riforma del 1950. V., per tutti, Andrioli- Micheli, Riforma del codice di procedura civile, Relazione, in Annuario di diritto comparato e Studi legislativi, § 14 B), Roma 1946, 199 ss., oggi in Andrioli, Scritti giuridici, III, Milano 2007, 1576.
[29] Più che mai attuale suona il monito di Mazzarella, “Fatto” e “diritto” in Cassazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1974, 114 ss, circa l’impossibilità di ridurre la motivazione a mera espressione formale di motivi, poiché essa è, groviglio inscindibile di forma e sostanza, la ragione della decisione.
[30] Condivisa dagli studiosi i cui scritti cito nel corso di questa nota.
[31] V., per tutti, Panzarola, Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Martino e Panzarola, Torino, 2013, 693 ss.
[32] Con il concetto di “minimo costituzionale” quale misura di controllo sulla motivazione la Corte torna al passato recente. Essa rispolvera infatti il concetto “formale” di motivazione con cui nel 1992 (sent. n. 5888, su cui amplius, per tutti, Tiscini, Il ricorso straordinario in cassazione, Torino, 2005, spec. 292 ss.) aveva ristretto l’accesso al ricorso straordinario ex art. 111, c. 7 Cost. fondato proprio sul controllo della motivazione, ancora una volta nella speranza di arginare la abnorme mole di ricorsi che la soffocava. Il tentativo non ebbe però, all’epoca, gli esiti sperati, tanto che il d. lgs. n. 40/2006 intervenne ad allineare i motivi di ricorso straordinario a quelli previsti dal c.p.c. per il ricorso ordinario (con l’introduzione di un quinto comma all’art. 360 c.p.c.), ripristinando per il primo il controllo allora possibile sulla “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione”. L’intervento normativo, è cosa nota, tenne conto pure dell’aumento esponenziale dei ricorsi (anche) straordinari in quel torno di tempo. Per una ricostruzione di questo accidentato percorso v. Capponi, L’omesso esame del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, cit., 925 ss.
[33] Satta, Commentario al Codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 498.
[34] Panzarola, Commentario alle riforme del processo civile, a cura di Martino e ID, cit., 693 ss.; Monteleone, Riflessioni sull’obbligo di motivare le sentenze (motivazione e certezza del diritto), in Giusto proc. civ., 2013, 1 ss.; Di Iasi, Il vizio di motivazione, in Acierno, Curzio, Giusti, (a cura di), La Cassazione civile. Lezioni dei magistrati della Corte suprema italiana, Bari, 2011, 167.
[35] V., per tutti, il poderoso saggio di Panzarola, Il confine fatto-diritto e il sindacato della motivazione nella evoluzione di alcune magistrature supreme (tra terza istanza, cassazione e revisione), 99 ss, in Fatto e diritto nella storia moderna dell’ultimo grado del processo civile europeo, cit.
[36] V., per una ricostruzione del quadro composito degli anni recenti, ancora Capponi, L’omesso esame del n. 5) dell’art. 360 c.p.c. secondo la Corte di cassazione, cit., 925 ss.
[37] Anche attraverso un sereno recupero dell’esperienza giuridica, in senso sattiano, che vede intrecciati fatto e diritto e che dalla nomofilachia non esclude un (corretto e sorvegliato) controllo sul giudizio di fatto, non fosse altro che perché è su di esso che si radica la decisione e di esso occorre dar “sufficiente” conto nella motivazione del provvedimento di merito. Il tema emerge in tutta la sua complessità nei saggi di Panzarola, Il confine fatto-diritto e il sindacato della motivazione nella evoluzione di alcune magistrature supreme (tra terza istanza, cassazione e revisione), cit., 99 ss, e di Balena, Il rapporto tra il n. 3 e il n. 5 dell’art. 360 nella storia della Cassazione civile italiana dalle origini fino ai nostri giorni, 129 ss, entrambi in Fatto e diritto nella storia moderna dell’ultimo grado del processo civile europeo. Atti del Convegno del 22 dicembre 2017 in memoria di Nicola Picardi, cit. Quest’ultimo A. fa anche notare come proprio il controllo di congruità/sufficienza della motivazione “(…) per un verso rappresenta una pur minima garanzia di ponderatezza – quanto agli accertamenti in fatto – delle sentenze dei giudici di merito, evitando che il diritto del cittadino alla motivazione, consacrato nella Carta costituzionale, venga sostanzialmente svuotato e vanificato, e per altro verso contribuisce in misura determinante a una certa “standardizzazione” del giudizio di fatto, come dimostra il fenomeno delle c.d. presunzioni giurisprudenziali (…)”.
Pronuncia in pdf della Corte di cassazione 29/03/2023, n. 8895