1. La disciplina positiva
La legge sul c.d. testamento biologico (n. 219/2017) approvata in via definitiva dal Senato della Repubblica in data 22 Dicembre 2017 è entrata in vigore mercoledì 31 Gennaio.
Consta di otto articoli di cui solo cinque dedicati espressamente alla disciplina del “fine vita”.
Il sistema normativo delineato dalla legge è costruito sul modello del consenso informato, cui è dedicato l’intero art. 1.
Si afferma, infatti, che nessun accertamento diagnostico o trattamento sanitario o singoli atti del trattamento possono essere effettuati senza un’esplicita manifestazione di volontà del paziente, che presuppone un’adeguata informazione in ordine alla natura del trattamento e dei suoi effetti sullo stato di salute del malato.
La centralità della volontà del malato, cui è conformata tutta la disciplina, comporta una serie di scelte normative formalizzate nella legge in esame:
1. Viene riconosciuto il diritto soggettivo del malato al rifiuto delle cure. La volontà positiva o negativa di sottoporsi a trattamenti sanitari di qualsivoglia natura è sempre revocabile e modificabile.
2. Anche nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti della sua équipe devono rispettare la volontà del paziente.
3. Tale volontà viene valorizzata anche per il minore o per il soggetto incapace. In tali ipotesi il consenso informato al trattamento sanitario è espresso o rifiutato dal genitore o dal tutore.
Nel caso in cui sorga conflitto tra il rappresentante legale dell’incapace e il medico, qualora cioè il rappresentante legale rifiuti le cure proposte e il medico le ritenga invece necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare che dovrà naturalmente, secondo la ratio della legge, orientare la propria decisione sulla base della ricostruzione della volontà reale del soggetto incapace.
L’ulteriore profilo di forte innovazione introdotto con la presente legge è costituito dalla previsione della nozione di trattamento sanitario quale oggetto del consenso informato.
In particolare la legge ha cura di precisare che “sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale” in quanto si tratta di somministrazione di nutrienti mediante dispositivi medici.
È proprio attraverso questa espressa qualificazione di tali ipotesi trattamentali quali trattamenti sanitari che la legge giunge a ricomprendere nel suo ambito di operatività il tema del fine vita.
Lo strumento operativo attraverso il quale ciascun soggetto può manifestare la propria volontà in materia di trattamenti sanitari, nell’eventualità in cui dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte, è costituito dalla dichiarazione anticipata di trattamento. Le c.d. DAT vengono dunque costruite anch’esse secondo il modello del consenso informato anticipato.
La legge contiene una dettagliata disciplina di tali disposizioni, i cui aspetti principali sono i seguenti:
- le DAT sono in ogni momento rinnovabili, modificabili e revocabili;
- devono essere redatte con una delle forme alternativamente previste: atto pubblico, scrittura provata autenticata ovvero scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l’ufficio di stato civile del comune di residenza, da annotare in apposito registro oppure presso le strutture sanitarie attraverso le modalità informatiche appositamente previste;
- vi è la possibilità per il disponente di designare un c.d. fiduciario, cioè una persona che rappresenti l’interessato nelle relazioni con il medico e che con questi gestisca il rapporto di cura. Le DAT tuttavia sono efficaci anche se manca l’indicazione del fiduciario o questi abbia rinunciato all’incarico, sia deceduto o divenuto incapace;
- le DAT sono sempre vincolanti: si tratta di un principio espresso a chiare lettere nella legge nell’ambito della quale si pone come diretta conseguenza dell’altrettanto chiaro principio della centralità assoluta della volontà del disponente. Ulteriore conseguenza della vincolatività delle DAT è rappresentata dai casi tassativi nei quali esse si possono disattendere: palese incongruità delle disposizioni, non corrispondenza alla condizione clinica attuale del paziente o sussistenza di terapie nuove, vale a dire non prevedibili all’atto della sottoscrizione.
In questo contesto dalla legge traspare la radicale ridefinizione del ruolo del medico che risulta titolare, nel rapporto con il paziente, di una serie di obblighi:
• l’obbligo di informazione, in base al quale nel caso in cui il paziente rinunci o rifiuti un trattamento sanitario necessario alla sopravvivenza, il medico deve prospettare le conseguenze della scelta;
• l’obbligo di alleviare le sofferenze del malato che si estrinseca nell’obbligo di astensione da cure irragionevoli o trattamenti sproporzionati;
• l’obbligo fondamentale di rispettare la volontà espressa dal paziente sancito dal comma 6 dell’art. 1., all’adempimento del quale si ricollega l’esenzione per il medico da ogni responsabilità civile o penale;
• la possibilità limitata e tassativa per il medico di disattendere le disposizioni anticipate di trattamento, in ordine alle quali possibilità può ragionevolmente prevedersi sin da ora, nel caso di incertezza interpretativa sull’ambito applicativo concreto delle ipotesi di disattendibilità delle DAT, la necessità dell’intervento dell’Autorità Giudiziaria.
2. La volontà del paziente architrave del sistema
Se questi sono i profili più rilevanti della disciplina, appare evidente come essa rappresenti una vera e propria rivoluzione culturale nella declinazione concreta dell’attuazione del diritto alla vita e alla salute riconosciuti e tutelati dalla Costituzione.
Occorre infatti osservare che viene generalizzata la regola dell’obbligo di consenso informato per ogni atto medico, ivi comprese l’idratazione e l’alimentazione artificiali.
La rivoluzione culturale consiste proprio nel cambiamento radicale della prospettiva di valutazione in ordine al soggetto titolare esclusivo del potere di scelta, alle modalità e all’oggetto della decisione terapeutica.
Chi decide è infatti sempre e in ogni caso il paziente, la cui volontà diventa l’elemento centrale di ogni scelta medica.
Le modalità della decisione vedono la previsione della necessaria manifestazione della volontà del paziente tramite un atto scritto, anche non formale, che riguardi il presente e il futuro della propria salute e del proprio destino.
Ma ciò che più innova rispetto al passato è l’oggetto della decisione, che può riguardare anche l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali. Questa decisione assume la qualificazione, nel sistema delineato dalla legge, di vero e proprio diritto soggettivo esigibile. Trattandosi di diritto soggettivo pertanto, come la legge logicamente prevede, il medico e le strutture sanitarie devono, a fronte dell’esercizio del diritto, rispettare ed eseguire la volontà del paziente.
La conferma della centralità della volontà del paziente, anche rispetto ad una differente valutazione del medico, si ricava dalla situazione particolare delineata dall’art. 3 comma 5 della legge in esame.
Nel caso in cui, infatti, vi sia un conflitto di valutazione in ordine all’appropriatezza o alla necessità di una cura tra rappresentante legale dell’incapace e medico, non vi è spazio per alcuna prevalenza della scienza medica, ma si dovrà ricorrere al giudice tutelare che dovrà risolvere il conflitto applicando i principi immanenti a questa legislazione speciale.
In verità, questa eventualità dell’intervento giudiziale non solo è prevista nell’ipotesi ora illustrata, ma pare anche la conseguenza quasi inevitabile della genericità delle disposizioni contenute nell’art. 4 relativo alle disposizioni anticipate di trattamento.
Infatti, la legge prevede che ogni persona possa scrivere le proprie disposizioni anticipate di trattamento senza alcuna supervisione o controllo di un medico e ciò nonostante esse saranno sempre vincolanti per il medico che dovrà eseguirle.
È naturale immaginare, dunque, come potranno porsi verosimilmente questioni delicate in ordine all’interpretazione della volontà della persona che ha formulato le DAT nel caso in cui si tratti di dichiarazione generica o non chiara nelle sue implicazioni tecnico-scientifiche. In tal caso sarà inevitabile l’intervento giudiziale al fine di ricostruire questa volontà.
Peraltro, come già è stato rilevato, il giudice dovrà poi intervenire, verosimilmente, anche nelle ipotesi in cui vi sia conflitto tra medico e fiduciario in ordine alla sussistenza dei presupposti che consentano di disattendere le disposizioni anticipate di trattamento.
3. Il “nuovo” rapporto medico-paziente
Il modello normativo del consenso informato comporta poi, nei termini sopra esposti, una radicale “soggettivizzazione decisionale”. Ciò comporta anche il cambiamento profondo della natura dell’attività medica e del rapporto medico-paziente.
Se infatti si pone al centro di ogni prospettiva decisionale la volontà del malato, l’attività medica non può che ricostruirsi e ridefinirsi in termini “contrattuali”: nel rapporto medico paziente si verifica cioè, come per tutti i contratti, un incontro di volontà, quella del richiedente e quella del medico. Non però un incontro di volontà poste sullo stesso piano ma un rapporto contrattuale nel quale la volontà del malato è sempre prevalente.
Il medico, dunque, diviene esecutore meccanico della volontà del paziente rispetto alla quale non è riconosciuta alcuna possibilità di sindacato.
Questo comporta una profonda mutazione del rapporto medico paziente nell’ambito del quale, d’ora in poi, è negata in radice la possibilità di interazione, essendo il medico tenuto ad una mera presa d’atto della volontà del paziente. La volontà di rinunciare alle terapie impedisce infatti una qualsivoglia iniziativa del medico sul piano del dialogo e della persuasione.
Ma tale visione contrattualistica del rapporto medico-paziente aprirà inevitabilmente ad atteggiamenti medici di natura cautelativa. La previsione infatti della clausola di esenzione da responsabilità civile e penale per il medico che esegua la volontà del paziente, comporterà che, proprio per evitare ogni responsabilità, il medico sarà portato a massimizzare l’esposizione dei rischi possibili di ogni intervento.
Si pensi poi ad una situazione di pericolo di vita nella quale una decisione terapeutica, pur teoricamente idonea a salvare la vita del paziente, potrebbe esporre quest’ultimo a conseguenze non letali ma invalidanti. In questo caso il rispetto pedissequo della volontà del paziente, quale presupposto dell’esenzione da ogni responsabilità, determinerà inevitabilmente anche il rischio di un abbandono terapeutico.
Si consideri infine che la prevalenza della volontà del paziente nella relazione medica comporterà l’ulteriore conseguenza per la quale il malato e il suo contesto familiare saranno caricati di enorme responsabilità, con un onere psicologico della decisione da assumere in piena solitudine con l’inevitabile rischio di angoscia esistenziale e destabilizzazione psicologica.
4. La legge e il sistema costituzionale: qualche interrogativo
A fronte della introduzione di un sistema così innovativo del quadro normativo precedente in ordine alla natura del rapporto medico-paziente e ai presupposti di tutela della vita e della salute, occorre verificare la compatibilità della normativa con il sistema ordinamentale e costituzionale. La nostra Carta Costituzionale infatti ci consegna una serie di diritti involabili la cui tutela è prevista dalla stessa Costituzione. Tra questi appare prioritario il diritto alla vita che la nostra Costituzione delinea proprio come diritto alla vita e non come diritto sulla vita, trattandosi di bene indisponibile.
La conferma della qualificazione della vita come bene indisponibile si trae anche dal complessivo sistema della normativa primaria: si considerino le previsioni dell’art 579 c.p. (omicidio del consenziente), dell’art. 580 c.p. (istigazione o aiuto al suicidio) e dell’art. 5 c.c. (divieto degli atti di disposizione del proprio corpo) nonché a numerose leggi speciali, una per tutte la normativa in materia di stupefacenti.
La qualificazione della vita come bene indisponibile comporta poi che il sistema preveda il conseguente dovere di attivarsi per la tutela del bene vita, dovere rafforzato per determinate categorie di soggetti in virtù o della loro relazione con la parte debole del rapporto (genitori, tutori) o del loro ufficio (medici, autorità di pubblica sicurezza).
Il nostro sistema dunque, fondato sulla indisponibilità del bene giuridico vita, sul riconoscimento del diritto alla vita e del conseguente dovere di vivere comporta inevitabilmente il rifiuto dell’eutanasia come reato contro la vita.
È alla luce del nostro sistema costituzionale e della gerarchia dei valori costituzionali che deve essere interpretato l’impianto normativo delineato dalla legge n. 219 del 2017. In particolare ci si deve chiedere se la centralità riconosciuta al consenso informato del paziente quale presupposto che rende legittima ogni scelta terapeutica ed anche il rifiuto delle terapie sia davvero compatibile con il riconoscimento del valore costituzionale del diritto alla vita. Non ci si può infatti limitare ad affermare che il fondamento costituzionale della centralità del consenso è costituito dal diritto alla libertà di cui all’art. 13 della Costituzione perché tale diritto non può qualificarsi come diritto assoluto tale da pregiudicare l’indisponibilità del bene vita.
Ma proprio questo è il presupposto giustificativo delle scelte normative effettuate dalla legge in esame: la volontà del paziente rende lecita ogni scelta e ogni rifiuto terapeutico perché espressione del diritto di libertà.
Ma se anche il rifiuto delle terapie è configurato come un diritto, si creano i presupposti per l’introduzione surrettizia nel sistema di forme di eutanasia omissiva, per omissione dell’intervento medico rifiutato, o anche attiva, laddove il medico debba attivarsi per dare attuazione alla volontà del paziente.
Gli interrogativi così delicati circa la compatibilità dell’impianto normativo con il sistema costituzionale diventano però ancor più stringenti se si pensa che la legge non ammette in alcun modo qualsivoglia forma di obiezione di coscienza da parte del medico. Tale scelta del legislatore non solo appare incompatibile con la rilevanza costituzionale del bene vita come bene indisponibile - si consideri in particolare l’obbligo per il medico di porre in essere l’atto che conduce il paziente a morte -, ma appare anche in contraddizione con i presupposti di giustificazione addotti dai sostenitori della legge in esame.
Se, come è stato sottolineato, il fondamento giustificativo della legge si rinviene nel diritto alla libertà e in particolare nella libertà di autodeterminazione del soggetto, ci si chiede come questa libertà di autodeterminazione venga riconosciuta al paziente e non al medico. Una incoerenza del sistema che già si esprime nella costruzione del rapporto sbilanciato medico-paziente: il medico quale esecutore materiale della volontà del paziente viene anche privato della sua libertà di autodeterminazione.
È inevitabile dunque l’interrogativo finale: se cioè questa assolutizzazione del diritto all’autodeterminazione sia davvero una valorizzazione della libertà o la uccida definitivamente, piegando le coscienze come in un novello “stato etico”.