Sommario: Abstract – 1. La vicenda e i fatti di causa – 2. La decisione della Sezione 3, sentenza n. 33261 del 07/06/2022 (dep. 09/09/2022) – 3. L’obbligo di motivazione del decreto di sequestro: il fumus commissi delicti e il periculum in mora – 4. Proporzionalità, adeguatezza e gradualità del sequestro “impeditivo”: la motivazione del sequestro preventivo nei confronti del terzo estraneo al procedimento – 5. Conclusioni
Abstract: Con il presente elaborato si intende, oltre a commentare la sentenza n. 33261 del 07/06/2022 della Terza Sezione della Corte di cassazione, offrire un’analisi della situazione dell’ente, che non sia riconosciuto responsabile per un reato verificatosi nell’ambito della propria attività organizzativa (e, dunque, non responsabile per c.d. “colpa di organizzazione”), eppure destinatario di una misura cautelare reale sui beni facenti parte del proprio patrimonio quale terzo soggetto estraneo al procedimento in cui la misura cautelare è irrogata. Il sistema sanzionatorio previsto nel D.Lgs. n. 231/2001 comprende infatti anche gli istituti speciali del sequestro e della confisca e la questione principale circa la loro applicabilità nell’odierno assetto giuridico risiede principalmente nell’individuare i relativi presupposti applicativi oggettivi e soggettivi, prospettiva questa che interessa, processualmente, l’aspetto relativo alla motivazione del decreto disponente la confisca. Dopo aver perciò operato una breve premessa sui fatti oggetto di causa, si vedrà che non solo il rischio-reato, la cui natura è strettamente dipendente dal bene giuridico offeso, risulta maggiormente definito, ma anche che una possibile operazione di deduzione/induzione degli indici di rischio-reato sarebbe in grado di favorire la redazione di una motivazione maggiormente allineata con la realtà organizzativa dell’ente di riferimento.
1. La vicenda e i fatti di causa
Nel caso in esame, una s.r.l., quale soggetto terzo interessato alla restituzione dei beni, ricorreva per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale di Roma – Sezione del Riesame del 16/02/2022, che aveva confermato l’ordinanza emessa dal G.i.p. del Tribunale di Velletri, applicativa del sequestro preventivo dell’area e del capannone ad uso logistico produttivo su di essa realizzato, relativamente al reato di cui all’art. 44 del d.P.R. n. 380/2002 delle incolpazioni provvisorie.
La società ricorrente, quale proprietaria dei beni oggetto di sequestro, deduceva che il giudice di merito non avesse valutato la sussistenza del reato edilizio con riferimento alla società terza interessata alla restituzione, ma avesse circoscritto l’oggetto della valutazione alla buona fede e all’estraneità della società rispetto al reato commesso dal soggetto apicale legale rappresentante. Il giudice avrebbe del tutto omesso la motivazione in ordine al pericolo e alla sussistenza del reato, avrebbe omesso di valutare la consulenza tecnica prodotta e non avrebbe indicato in che misura la disponibilità del bene potesse concretamente pregiudicare gli interessi urbanistici o compromettere l’assetto del territorio, incorrendo così nel vizio di violazione di legge per assoluta mancanza di motivazione. Specificava inoltre che il giudice a quo, da un lato, aveva circoscritto l’oggetto del giudizio alle questioni inerenti alla titolarità e alla buona fede del terzo, dall’altro, con l’ordinanza emessa in pari data, il 16/02/2002 aveva ritenuto inammissibile per difetto di titolarità il ricorso proposto dall’indagato legale rappresentante.
Il Procuratore Generale con requisitoria scritta chiedeva l’annullamento con rinvio del provvedimento oggetto di impugnazione.
2. La decisione della Sezione 3, sentenza n. 33261 del 07/06/2022 (dep. 09/09/2022)
Il ricorso veniva ritenuto fondato e accolto dalla Sezione Terza Penale, che annullava il provvedimento impugnato con rinvio ad altra Sezione del Tribunale di Roma.
Preliminarmente ricordando che, in tema di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione è consentito solo per violazione di legge e che le censure che si possono muovere alla motivazione del provvedimento impugnato devono essere limitate alla denuncia della mancanza assoluta o, comunque, della mera apparenza della stessa tale da concretare la nullità di cui all’art. 125, comma 3 c.p.p. (Cass. Pen., Sez. U., sentenza n. 5876 del 28/01/2004, dep. 13/02/2004, Rv. 226710 – 01, 226711 – 01), in ordine alla prima doglianza, la Corte osservava che il giudice a quo avesse richiamato la giurisprudenza secondo cui “in tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione della cosa sequestrata non può contestare l’esistenza dei presupposti della misura cautelare, potendo unicamente dedurre la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene sequestrato e l’inesistenza di relazioni di collegamento concorsuale con l’indagato” (Sez. 3, n. 42037 del 14/09/2016, dep. 05/10/2016, Rv. 268070 - 01). Aderendo all’impostazione per cui “terzo è la persona estranea al reato, ovvero la persona che non solo non abbia partecipato alla commissione del reato, ma che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità (…); soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l’insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca”, e secondo cui “al requisito oggettivo, integrato dalla non derivazione di un vantaggio dall’altrui attività criminosa, deve aggiungersi la connotazione soggettiva della buona fede del terzo, intesa come non conoscibilità, con l’uso della diligenza richiesta dalla situazione concreta, del predetto rapporto di derivazione della propria posizione soggettiva dal reato commesso dal condannato”, la Corte ribadiva che è onere del terzo che voglia far valere un diritto acquisito sul bene, allegare gli elementi che concorrono ad integrare le condizioni di appartenenza del bene e della sua buona fede, dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del potere di confisca dello Stato (ex multis, Cass. Pen., Sez. 5, sentenza n. 24248 del 14/05/2021, dep. 21/06/2021).
Pertanto, si è ritenuto di non dover esaminare la sussistenza dei presupposti della misura cautelare, il fumus e il periculum, dedotti nei motivi di impugnazione, ma di dover limitare il giudizio all’esistenza dei presupposti per un’eventuale restituzione della res al terzo, estraneo ai fatti di reato. Si può dunque leggere, nel provvedimento impugnato, che è onere del terzo provare i fatti costitutivi della pretesa restitutoria fatta valere sulla cosa e che il terzo, in proposito, nulla ha argomentato, né ha fornito elementi specifici da cui dedurre lo stato soggettivo della buona fede o in ordine all’incolpevole affidamento all’altrui condotta delittuosa che renda scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza. Dunque, sui profili debitamente sollevati dal terzo in sede di riesame, inerenti al fumus e al periculum, il Tribunale di Roma sarebbe stato silente.
Sotto altro profilo, il giudice di merito ha tuttavia escluso la qualifica di terzo estraneo al reato in capo alla società ricorrente, assumendo che la stessa avesse ricavato un indubbio vantaggio dal reato commesso dal rappresentante legale, in virtù del rapporto di immedesimazione organica sussistente tra il soggetto indagato nella qualità di legale rappresentante. Dunque, pur avendo escluso la natura del terzo estraneo e la buona fede, si sarebbe ritenuto che il giudizio non dovesse estendersi alla valutazione della esistenza dei presupposti del sequestro preventivo. A fronte del ricorso della società proprietaria del bene sequestrato – soggetto al quale il bene è stato sequestrato e che ha diritto alla sua restituzione, legittimato ad avanzare richiesta di riesame ex art. 322 c.p.p., che lamentava l’insussistenza del fumus del reato –, avrebbe dovuto essere affrontata la questione relativa alla mancanza assoluta della motivazione.
Va inoltre osservato che, contestualmente, con ordinanza emessa in pari data, il giudice a quo aveva ritenuto privo di interesse per difetto di legittimazione anche il ricorso proposto dall’indagato, legale rappresentante della società proprietaria dei beni. Seguendo il percorso delineato dai provvedimenti del Tribunale, i profili del fumus del reato (oltre che quelli del periculum) non potrebbero dunque essere oggetto di impugnazione, né da parte dell’indagato non proprietario del bene, né da parte della società, proprietaria dello stesso, ma non estranea al reato. Peraltro, il precedente giurisprudenziale richiamato in motivazione dell’ordinanza impugnata non concerne il caso di specie. Esso concerne la diversa ipotesi in cui la res oggetto del provvedimento cautelare reale si trovi nella disponibilità materiale dell’autore del reato indagato che l’ha sottratta al proprietario. In tal caso, correttamente, il proprietario del bene, terzo estraneo al reato, privo del possesso o della disponibilità della cosa sottoposta a vincolo, può dedurre in sede di riesame soltanto i profili attinenti al diritto alla restituzione della cosa sequestrata e all’inesistenza di relazione concorsuale con l’indagato. Diversamente, nel caso di specie, non sussisterebbe scissione tra soggetto titolare del bene e soggetto in possesso del bene. Pertanto, sarebbe erroneo il richiamo a questo indirizzo giurisprudenziale, in quanto non confacente al caso di specie.
3. L’obbligo di motivazione del decreto di sequestro: il fumus commissi delicti e il periculum in mora
L’operazione di indicizzazione del rischio-reato in materia di D.Lgs. 231/2001 consentirebbe di individuare i nuclei fondanti della motivazione dei provvedimenti di sequestro preventivo disposto sui beni intestati al terzo estraneo al reato, che è illegittimo se non viene dimostrata la effettiva disponibilità degli stessi da parte dell’indagato1. Sul punto è da segnalare la sentenza Sez. U. n. 36959 del 24/06/2021, dep. 11/10/2021, Rv. 281848 – 01, in cui il nodo da sciogliere involge, più in generale, il corretto inquadramento della misura ablativa di cui al comma 2 dell’art. 321 c.p.p.2 rispetto all’ipotesi affine disciplinata dal comma 1 dello stesso articolo e, in particolare, i riflessi che ne derivano in punto di motivazione del provvedimento.
Le Sezioni Unite, nel dirimere il contrasto interpretativo, confermavano la necessità che il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca indicasse nella motivazione, seppur concisa, il periculum in mora, da rapportare alle ragioni che giustificano l’anticipazione degli effetti ablativi prima della definizione del giudizio. Conseguentemente, l’unica ipotesi nella quale la motivazione in ordine alle esigenze cautelari potrebbe coincidere con la mera inclusione della res tra i beni confiscabili concerne le cose (“la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione costituisca reato”) indicate dall’art. 240, comma 2, n. 2 c.p., in quanto considerate dal legislatore intrinsecamente pericolose e, quindi, confiscabili anche in assenza di una sentenza di condanna.
Come evidenziato dalle Sezioni Unite nella decisione in esame, in seno alla giurisprudenza di legittimità possono effettivamente rinvenirsi due indirizzi interpretativi divergenti. Secondo un primo orientamento3, più risalente nel tempo, la mera inclusione del bene da sequestrare tra le cose suscettibili di confisca esclude, in capo al giudice, l’onere di valutare e precisare in motivazione la pericolosità connessa alla libera disponibilità della res, in quanto insita nella stessa confiscabilità. In particolare, qusto indirizzo di legittimità muove dal presupposto che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca sia un istituto del tutto autonomo rispetto a quello previsto dal comma 1 dell’art. 321 c.p.p. e, in quanto tale, se ne discosti anche in punto di requisiti applicativi. In virtù di questa premessa, l’onere di valutare in concreto la sussistenza del periculum in mora, gravante sul giudice ai fini dell’adozione del decreto di sequestro impeditivo, non si estende all’ipotesi del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. A sostegno della descritta autonomia tra i due istituti, veniva richiamata anche la Relazione al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di rito, nella quale il legislatore chiariva che l’istituto del sequestro preventivo, disciplinato dall’art. 321 c.p.p., è volto a perseguire due diverse finalità: l’una (1) di tipo impeditivo, rinvenibile nel comma 1 del citato articolo, e l’altra (2) di natura conservativa, ricavabile dal comma 2, in quanto volta a garantire che la confisca, eventualmente ordinata con la sentenza di condanna, possa compiutamente esplicare i propri effetti. Secondo l’orientamento giurisprudenziale in esame, la validità della tesi propugnata trova ulteriore conferma nella scelta del legislatore di impiegare – nel testo del comma 2 dell’art. 321 c.p.p. – l’avverbio “altresì”, il quale rivestirebbe la funzione di evidenziare, anche a livello sintattico, l’autonomia tra le due tipologie di sequestro preventivo e sarebbe tale d a legittimare un diverso apparato motivazionale/giustificativo, cui ancorare il relativo provvedimento sotto il profilo delle esigenze cautelari. Oltre a questo indirizzo interpretativo, una diversa opzione ermeneutica4, in questa prospettiva maggiormente attenta ad evitare ingiustificate lesioni del diritto di proprietà, esclude qualsiasi automatismo tra confiscabilità del bene e pericolosità, ritenendo sussistente in capo al giudice l’onere di precisare l’iter argomentativo fondante l’atto di spossessamento. In particolare, ad avviso di questa tesi, la natura discrezionale del potere esercitato in caso di sequestro di beni, suscettibili di confisca facoltativa 5, impone al giudice cautelare di esplicitare le ragioni insite nell’apprensione anticipata della res, quantomeno in ordine al pericolo di sottrazione, modifica o dispersione della stessa nelle more del giudizio.
A risolvere il contrasto di vedute che si registrava nella giurisprudenza di legittimità, intervenivano quindi le Sezioni unite, prospettando una soluzione che – discostandosi da entrambi gli indirizzi appena richiamati – imponeva al giudice di indicare, nella motivazione del provvedimento di sequestro preventivo relativo a beni suscettibili di confisca, le ragioni della sussistenza non solo del fumus commissi delicti6, ma anche del periculum in mora, al fine di garantire che la ratio, sottesa all’esercizio del potere ablatorio, non sia oggetto di una deduzione implicita, ma debba essere adeguatamente motivata, in ossequio al carattere di residualità che tendenzialmente connota la tutela cautelare. Chiarito ciò, le Sezioni unite rilevavano che non sussiste alcun dubbio in merito alla natura autonoma del sequestro preventivo finalizzato alla confisca rispetto a quello “impeditivo”, come confermato dalla diversa collocazione assunta all’interno dell’art. 321 c.p.p., nonché dalle distinte esigenze che ciascuno dei due istituti è destinato a soddisfare. Siffatta considerazione, tuttavia, non induce a concludere che la motivazione della misura adottata a fini di confisca possa esaurirsi nel dare atto, semplicemente, della confiscabilità della cosa. Ad avviso del Collegio, l’imprescindibilità della motivazione deriva, anzitutto, dalla natura discrezionale del potere espropriativo, di cui al comma 2 dell’art. 321 c.p.p., suggerita dall’utilizzo del verbo modale “può” – “il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca” – e reso ancor più evidente dalla odierna formulazione del comma 2-bis del medesimo articolo, a norma del quale, qualora sia contestato uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, “il giudice dispone” – dunque, obbligatoriamente – il sequestro preventivo dei beni di cui è ammessa la confisca. Dunque, la natura discrezionale del potere di disporre il sequestro preventivo, ai sensi del comma 2 dell’art. 321 c.p.p., impone che vengano precisati i presupposti del suo esercizio, individuati nel pericolo che, nelle more del giudizio, il bene venga modificato, disperso, deteriorato o alienato. Quale ulteriore argomentazione a favore della sussistenza dell’onere di motivazione, viene, poi, invocata la natura cautelare del sequestro preventivo e la sua attitudine intrinseca ad anticipare effetti limitativi dei diritti e delle libertà personali, che, diversamente, potrebbero prodursi solo a seguito di una sentenza di condanna definitiva. In ossequio alla presunzione di non colpevolezza di cui agli artt. 27, comma 2, Cost. e 6, § 2, CEDU, qualsiasi provvedimento, in grado di incidere sulla sfera giuridica dei privati prima che si sia concluso un giusto processo, deve infatti essere sorretto da una motivazione che espliciti i risultati del giudizio prognostico, condotto sul piano della sussistenza non solo del fatto contestato, ma anche delle esigenze cautelari. La soluzione, favorevole ad un onere di motivazione specifica in punto di periculum, è altresì imposta dal necessario rispetto del principio di proporzionalità cui la stessa giurisprudenza di legittimità ha già ritenuto di doversi conformare in ipotesi di compressione del diritto di proprietà finalizzata al sequestro probatorio. In particolare, la Corte rinvia a due precedenti arresti, emessi sempre a Sezioni unite7, con i quali aveva ribadito che il sequestro – in quanto idoneo a limitare il libero esercizio di diritti costituzionalmente garantiti – deve essere disposto solo in via residuale, in assenza di alternative ugualmente efficaci, ma meno invasive.
In altri termini, alla luce delle richiamate pronunce, il vincolo di indisponibilità, imposto sul bene con il sequestro, poiché capace di incidere sui diritti soggettivi del singolo, deve essere necessariamente sorretto da una motivazione esplicativa delle ragioni che giustificano la compressione del diritto individuale a vantaggio di interessi della collettività, operazione tanto più essenziale in quanto, diversamente, l’esercizio anticipato del potere ablatorio sfuggirebbe ai controlli giurisdizionali, alimentando così il rischio di provocare indebite e vessatorie compressioni dei diritti fondamentali. Più nel dettaglio, si sono valorizzate le decisioni in cui le Sezioni unite hanno rammentato che la Corte europea dei diritti dell’uomo si è soffermata – in plurime occasioni8 – ad accertare che lo Stato convenuto, nel pregiudicare il libero godimento del diritto di proprietà da parte del singolo, avesse rispettato il principio di proporzionalità. A ciò si aggiunge il ruolo centrale rivestito da tale principio nel diritto dell’Unione europea, come dimostrato, anzitutto, dall’art. 52, § 1 della Carta di Nizza, che lo include espressamente tra i presupposti di legittimità delle limitazioni eventualmente imposte all’esercizio dei diritti sanciti dalla Carta stessa; e, poi, dalla giurisprudenza della Corte di Giusti zia dell’Unione Europea, che ha annoverato la proporzionalità tra i principi generali del diritto dell’Unione9, cui devono conformarsi gli strumenti istituiti a livello europeo. La rilevanza dei criteri di proporzionalità nel diritto sovranazionale traspare, altresì, da alcuni atti legislativi adottati dalle istituzioni europee, quali, in particolare, il Regolamento 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca in materia penale10, nonché la Direttiva 2014/42/UE, in tema di congelamento e confisca di beni strumentali e proventi del reato all’interno dell’Unione11.
Dopo avere affrontato tali profili, le Sezioni Unite procedono a verificare la compatibilità della soluzione prospettata con la formulazione testuale dell’art. 321, comma 2, c.p.p. A tal fine, non viene considerata ostativa la mancata specificazione normativa del presupposto che deve essere oggetto di motivazione. Ciò in quanto la scelta del legislatore di prevedere una formula generica – quale “cose di cui è consentita la confisca” – ha il pregio di adattarsi alla natura ormai “proteiforme” della confisca, la quale racchiude in un unico nomen iuris istituti caratterizzati dalle finalità più varie12. Parimenti, la Corte di cassazione nega che l’onere di motivare, in punto di periculum, anche il sequestro finalizzato alla confisca mal si concili con la presenza nel testo del secondo comma dell’art. 321, c.p.p. – dell’avverbio “altresì”, smentendo, in tal modo, la giurisprudenza aderente al primo orientamento, incline, invece, a ravvisarvi la conferma normativa dell’esclusione del suddetto onere. Invero, qualora il legislatore, nel caso di cui al comma 2 dell’art. 321 c.p.p., avesse voluto completamente affrancare il giudice dalla necessità di esplicitare le ragioni fondanti il pericolo connesso alla libera disponibilità del bene, avrebbe utilizzato una differente terminologia (in particolare, un avverbio di valore avversativo, anziché aggiuntivo). Pertanto, considerata l’attuale formulazione della norma, all’avverbio “altresì” deve essere attribuita la funzione di consentire che, oltre al sequestro impeditivo, possa essere disposto anche quello finalizzato alla confisca.
4. Proporzionalità, adeguatezza e gradualità del sequestro: la motivazione del sequestro preventivo nei confronti del terzo estraneo al procedimento
Il presupposto di legittimità del sequestro non rileva per il terzo che, proprietario del bene, risulta del tutto indifferente rispetto alla questione: egli, per domandare la restituzione del bene, deve unicamente allegare la situazione giuridica con la cosa sequestrata che fonda il suo diritto alla restituzione e l’assenza di contributo nel reato. Il requisito del previo accertamento dell’incapienza dei beni degli indagati in tema di confisca per equivalente attiene dunque ai requisiti di legittimità del sequestro che il terzo non è legittimato a prospettare. Si dovrà avere considerazione, dunque, al principio secondo cui, in tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione della cosa sequestrata non può contestare l’esistenza dei presupposti della misura cautelare, tra cui il profilo dell’indagine sull’incapienza dei beni da sottoporre a confisca in via diretta, potendo unicamente dedurre la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene sequestrato e l’inesistenza di relazioni di collegamento concorsuale con l’indagato (si vedano al riguardo Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 13706 del 01/02/2022, dep. 11/04/2022, Sez. 6, sentenza n. 42037 del 14/09/2016, dep. 05/10/2016, Rv. 268070 – 01; Sez. 3, sentenza n. 15139 del 20/02/2019, dep. 08/04/2019, n.m.).
Una volta, quindi, che il terzo dimostri l’effettività del contenuto del diritto di proprietà di cui è formalmente titolare, vede riconosciuta la sua pretesa, indipendentemente dalla sussistenza del fumus del reato ascritto all’indagato e il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione del bene oggetto di sequestro può dedurre, in sede di merito e di legittimità, unicamente la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene e l’inesistenza di un proprio contributo al reato attribuito all’indagato13, senza poter contestare l’esistenza dei presupposti della misura cautelare. La confisca per equivalente - e, prima ancora, il sequestro ad essa funzionale - ha infatti la finalità di impedire che l’impiego economico dei beni di provenienza delittuosa possa consentire al colpevole di garantirsi il vantaggio che era oggetto specifico del disegno criminoso e, a differenza della confisca diretta, impone un vincolo di valore corrispondente al profitto del reato che risulta in sé non più (in tutto o in parte) aggredibile, per tali ragioni affermandosi il principio della verifica dell’incapienza14.
5. Conclusioni
La decisione in esame desta un certo interesse dal momento che viene precisato che tipo di valutazione deve compiere il giudice in caso di sequestro preventivo per equivalente avente ad oggetto beni formalmente intestati a persona (nel caso, giuridica) estranea al reato. Difatti, sulla scorta di un pregresso orientamento di legittimità (in particolare, Cass. Pen., Sez. 1, sentenza n. 33251 del 09/09/2022, dep. 21/01/2022), in caso di sequestro preventivo per equivalente avente ad oggetto beni formalmente intestati a persona estranea al reato, incombe sul giudice una pregnante valutazione sulla disponibilità effettiva degli stessi; a tal fine, non è sufficiente la dimostrazione della mancanza, in capo al terzo intestatario, delle risorse finanziarie necessarie per acquisire il possesso dei cespiti, essendo invece necessaria la prova, con onere a carico del pubblico ministero, della riferibilità concreta degli stessi all’indagato.
A questo proposito, nell’ambito del sistema sanzionatorio, in particolare cautelare, approntato dal D.Lgs. n. 231/2001, all’art. 53 è previsto l’istituto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca. Il riconoscimento del carattere “speciale” di tale specie di sequestro preventivo assume importanza pratica sotto due diversi profili: il primo, afferente alla possibilità e ai limiti di applicazione analogica delle norme sul sequestro preventivo previste in altri testi normativi, primo fra tutti il codice di rito vigente; il secondo, afferente all’interpretazione delle norme che prevedono tale speciale sequestro preventivo contenute nel D.Lgs. n. 231/2001 alla luce della ratio e delle finalità dell’istituto quale ricavabile dagli elementi strutturali che lo caratterizzano, con particolare riguardo ai presupposti applicativi, alla procedura della sua applicazione e all’individuazione dei beni che possono esserne oggetto15. Il sequestro preventivo “speciale” ex art. 53 D.Lgs. n. 231/2001 finalizzato alla confisca è infatti uno strumento di ampia potenzialità poiché consente: (1) di superare l’eventuale opposizione della terzietà dell’ente rispetto al reato e alla confisca del bene, in quanto la norma prevede la confisca dei beni “dell’ente” responsabile dell’illecito dipendente dal reato per cui si procede e, quindi, consente l’aggredibilità del bene anche quando questo non sia di proprietà della persona fisica, ma esclusivamente della persona giuridica; (2) di superare le difficoltà inerenti all’esatta individuazione dei beni costituenti prezzo o profitto del reato, in quanto, essendo prevista la confisca per equivalente, legittima il sequestro preventivo di beni di valore corrispondente a quello determinato per la confisca, indipendentemente dalla sussistenza di un nesso di pertinenzialità dei beni con l’illecito purché gli stessi appartengano all’ente; (3) di ampliare i casi più ristretti per i quali la confisca per equivalente era stata prevista nei confronti della persona fisica in ordine ad alcuni delitti soltanto fra quelli previsti come fondanti la responsabilità dell’ente, ciò in forza della generalizzazione nel decreto legislativo della confisca per equivalente (e, quindi, del sequestro preventivo per equivalente), estesa a tutti i delitti che possono costituire titolo di responsabilità da illecito per l’ente.
1 Sul punto è utile, innanzitutto, richiamare la Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 28583 del 24/05/2019, dep. 02/07/2019, n.m. Sul tema, peraltro, si devono segnalare Cass. Pen., Sez. 3, n. 35771 del 20/01/2017, dep. 20/07/2017, Rv. 270798 - 01, per cui “in caso di sequestro preventivo per equivalente avente ad oggetto beni formalmente intestati a persona estranea al reato, incombe sul giudice una pregnante valutazione sulla disponibilità effettiva degli stessi; a tal fine, non è sufficiente la dimostrazione della mancanza, in capo al terzo intestatario, delle risorse finanziarie necessarie per acquisire il possesso dei cespiti, essendo invece necessaria la prova, con onere a carico del pubblico ministero, della riferibilità concreta degli stessi all’indagato”; Sez. 3, n. 36530 del 12/05/2015, dep. 10/09/2015, Rv. 264763 – 01, per cui “ai fini dell’applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su beni formalmente intestati a persona estranea al reato, non è sufficiente la dimostrazione della mancanza, in capo a quest’ultima, delle risorse finanziarie necessarie per acquisire il possesso dei cespiti, essendo invece necessaria la prova, con onere a carico del P.M., della disponibilità degli stessi da parte dell’indagato”, in una fattispecie relativa a fatti di bancarotta e reati tributari, con riferimento alla quale la Corte ha in parte escluso la sequestrabilità di beni formalmente intestati alla moglie dell’indagato; Sez. 2, n. 32647 del 17/04/2015, dep. 24/07/2015, Rv. 264524 – 01, per cui “in tema di sequestro preventivo avente ad oggetto beni appartenenti a terzi estranei al reato, il giudice è tenuto ad effettuare una pregnante valutazione del periculum in mora, sia pure in termini di semplice probabilità del collegamento di tali beni con le attività delittuose dell’indagato, sulla base di elementi che appaiano concretamente indicativi della loro effettiva disponibilità da parte di quest’ultimo” e, in applicazione di tale principio, la Corte ha confermato il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di un immobile, che appariva di proprietà di un terzo nella sola base delle risultanze catastali, mentre l’indagato risultava avervi fissato la residenza anagrafica ed eletto il domicilio per le notificazioni del procedimento, oltre ad aver provveduto a portare in detrazione, nella dichiarazione dei redditi, le spese sostenute per la ristrutturazione dell’immobile medesimo; Sez. U., n. 10561 del 30/01/2014, dep. 05/03/2014, Rv. 258648 – 01, per cui “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generalizzata”; Sez. 5, n. 18766 del 18/02/2014, dep. 06/05/2014, Rv. 259131 – 01, per cui “ai fini dell’adozione di un sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, nella nozione di disponibilità dell’indagato, al pari di quella civilistica del possesso, rientrano tutte quelle situazioni in cui i beni, che s’intendono sottoporre al vincolo, ricadano nella sfera degli interessi economici del reo, anche se il potere dispositivo su di essi venga esercitato per il tramite di terzi”; Sez. 6, n. 33883 del 02/07/2012, dep. 05/09/2012, Rv. 253655 – 01, per cui “ai fini dell’individuazione del fumus commissi delicti per l’applicazione del sequestro preventivo, non è sufficiente la mera prospettazione da parte del p.m. dell’esistenza del reato, e tanto meno la possibilità di essa: il giudice del riesame, nella sua pronuncia, deve comunque rappresentare, in modo puntuale e coerente, le concrete risultanze procedimentali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrare, nella motivazione del provvedimento, la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura del sequestro”.
2 L’art. 321 c.p.p. attribuisce al giudice il potere di adottare, nelle more del procedimento penale, un decreto di sequestro preventivo con il quale apporre un vincolo di indisponibilità su una determinata res, a fini cautelari. L’esercizio di tale potere può perseguire due distinte finalità. Nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 321 c.p.p., l’applicazione del vincolo è volta a scongiurare il rischio che la permanenza di una cosa pertinente al reato nella disponibilità del soggetto possa aggravarne o protrarne le conseguenze, ovvero agevolare la commissione di ulteriori illeciti penali. Il secondo comma dell’art. 321 c.p.p. prevede, invece, che la misura cautelare in parola sia applicata con funzione servente rispetto all’eventuale successiva confisca, della quale è possibile, così, garantire l’efficacia, anticipando il vincolo di indisponibilità sul bene già ad una fase anteriore alla condanna. La differente ratio ispiratrice delle due richiamate ipotesi normative determinerebbe, secondo la tesi interpretativa tradizionalmente accolta, un diverso atteggiarsi dell’onere motivazionale, gravante sul giudice della cautela. Invero, mentre il decreto di sequestro impeditivo, di cui al primo comma dell’art. 321 c.p.p., deve necessariamente precisare le ragioni per le quali il permanere di un rapporto di prossimità tra l’indagato e la res potrebbe incoraggiare la prosecuzione o la reiterazione dell’attività criminosa; per il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, invece, il giudice cautelare potrebbe limitarsi ad attestare la confiscabilità del bene, destinatario del vincolo, sul presupposto che la cosa deve, per ciò stesso, considerarsi pericolosa, senza alcuna prognosi ulteriore. Al contrario, secondo una diversa opzione esegetica, l’esigenza di scongiurare ingiustificate compressioni del diritto di proprietà e della libertà di iniziativa economica – entrambi costituzionalmente garantiti – imporrebbe al giudice l’onere di precisare, anche nell’ipotesi contemplata dall’art. 321, comma 2, c.p.p., i profili di pericolosità sussistenti nel caso concreto.
3 Si vedano Cass. Pen., Sez. 6, sentenza n. 3343 del 25/09/1992, dep. 03/11/1992, Rv. 192862 – 01, secondo cui “il sequestro strumentale alla confisca previsto dall’art. 321, secondo comma, cod. proc. pen. costituisce figura specifica ed autonoma rispetto al sequestro preventivo regolato dal primo comma dello stesso articolo. La particolarità della prima misura consiste nel fatto che per la legittimità di essa non occorre necessariamente la presenza dei presupposti di applicabilità previsti per il sequestro preventivo ‘tipico’ (pericolo che la libera disponibilità della cosa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati), ma basta il presupposto della confiscabilità: ossia la condizione che si tratti di cose di cui è consentita la confisca a tenore del codice penale o delle leggi speciali. Ne consegue che compito del giudice, nel disporre il sequestro in esame, è quello di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca: il che può avvenire, secondo la disciplina sostanziale del diritto penale, tanto nei casi di confisca facoltativa quanto nei casi di confisca obbligatoria”; Sez. 1, sentenza n. 2994 del 23/06/1993, dep. 21/07/1993, Rv. 194824 – 01, per cui “il sequestro delle cose confiscabili previsto dal secondo comma dell’art. 321 cod. proc. pen., a differenza di quello di cui al primo comma, non presuppone alcuna prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose stesse, le quali, proprio perché confiscabili, sono, di per sé, obiettivamente pericolose, indipendentemente dal fatto che si versi in tema di confisca facoltativa o obbligatoria”; Sez. 6, sentenza n. 4114 del 21/10/1994, dep. 25/01/1995, Rv. 200854 – 01, secondo cui “il sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca non presuppone alcuna prognosi di pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose medesime, le quali, proprio perché confiscabili sono di per sé oggettivamente pericolose, indipendentemente dal fatto che si versi in materia di confisca facoltativa o obbligatoria”; Sez. 2, sentenza n. 31229 del 26/06/2014, dep. 16/07/2014, Rv. 260367 – 01, per cui “in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante sia la valutazione del periculum in mora - che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all'art. 321 comma primo cod. proc. pen. - sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni”; Sez. 3, sentenza n. 47684 del 17/09/2014, dep. 19/11/2014, Rv. 261242 – 01, per cui “il sequestro strumentale alla confisca previsto dall'art. 321, secondo comma, cod. proc. pen. costituisce figura specifica ed autonoma rispetto al sequestro preventivo regolato dal primo comma dello stesso articolo, per la cui legittimità non occorre necessariamente la presenza dei requisiti di applicabilità previsti per il sequestro preventivo "tipico", essendo sufficiente il presupposto della confiscabilità, con la conseguenza che compito del giudice è quello di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, tanto nell'ipotesi facoltativa che in quella obbligatoria”; Sez. 3, sentenza n. 20887 del 15/04/2015, dep. 20/05/2015, Rv. 263408 – 01, secondo cui “in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo, invece, irrilevante sia la valutazione del periculum in mora - che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all'art. 321 comma primo cod. proc. pen. - sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni”; nonché, più di recente, Sez. 3, sentenza n. 12478 del 17/02/2021, dep. 01/04/2021, n.m.; Sez. 3, sentenza n. 34613 del 13/07/2021, dep. 17/09/2021, n.m.
4 Si vedano Cass. Pen., Sez. 6, sentenza n. 151 del 19/01/1994, dep. 17/03/1994, n. 151, Rv. 198258 - 01, secondo cui “il sequestro preventivo funzionale alla confisca - come è detto testualmente nella Relazione al codice e come conferma l’avverbio "altresì" inserito nell’art. 321, secondo comma, nel suo significato additivo (“Il giudice può altresì disporre il sequestro delle cose di cui è consentita la confisca”) - costituisce figura specifica ed autonoma che si propone come distinto rimedio rispetto al sequestro preventivo regolato da primo comma. La particolarità di tale mezzo cautelare reale consiste nel fatto che per l'applicabilità di esso non occorre necessariamente la sussistenza dei presupposti di applicabilità previsti dal primo comma per il sequestro preventivo tipico (pericolo che la libera disponibilità della cosa possa aggravare o protrarre le conseguenze del reato ovvero agevolare la commissione di altri reati), ma basta il presupposto della confiscabilità, la quale non è subordinata alla pericolosità sociale dell'agente, non riguardando l’art. 204 cod. pen. (come modificato dall’art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663) le misure di sicurezza patrimoniali. Ciò che si richiede - ma solo nel caso di confisca facoltativa - è che il giudice dia ragione del potere discrezionale di cui abbia ritenuto di avvalersi (cfr. la espressione “può”), il che può avvenire anche mediante semplice riferimento alla finalità di evitare la protrazione degli effetti del reato: finalità nella quale deve ritenersi ricompresa l’esigenza di non consentire che la cosa confiscabile sia modificata, dispersa, deteriorata, utilizzata o alienata”; Sez. 6, sentenza n. 1022 del 17/03/1995, dep. 07/06/1995, Rv. 201943 – 01, per cui “per l’applicabilità del sequestro preventivo previsto dall’art. 321 comma secondo cod. proc. pen. non occorre necessariamente la sussistenza dei presupposti previsti dal primo comma per il sequestro preventivo tipico, ma è sufficiente il presupposto della confiscabilità. Ciò che si richiede, ma solo nel caso della confisca facoltativa, è che il giudice dia ragione del potere discrezionale di cui si è avvalso, il che può avvenire anche mediante semplice riferimento alla finalità di evitare la protrazione degli effetti del reato: finalità nella quale deve ritenersi ricompresa l’esigenza di non consentire che la cosa confiscabile sia modificata, dispersa, deteriorata, utilizzata o alienata”; Sez. 2, sentenza n. 43325 del 09/11/2011, dep. 24/11/2021, n.m.; Sez. 2, sentenza n. 46389 del 21/09/2016, dep. 03/11/2016 n.m.; Sez. 5, sentenza n. 2308 del 10/11/2017, dep. 19/01/2018, Rv. 271999 – 01, secondo cui “nell’ipotesi di sequestro preventivo ex art. 321, comma 2, cod. proc. pen., finalizzato alla confisca “facoltativa”, il giudice deve dare conto del periculum in mora che giustifica l’apposizione del vincolo, dovendosi escludere qualsiasi automatismo che colleghi la pericolosità alla mera confiscabilità del bene oggetto di sequestro”; Sez. 5, sentenza n. 6562 del 14/12/2018, dep. 11/02/2019, n.m.; Sez. 5, sentenza n. 25834 del 22/10/2020, dep. 10/09/2020, n.m.
5 In tema, Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 10091 del 16/01/2020, dep. 16/03/2020, Rv. 278406 – 01, ha precisato che la natura cautelare della confisca facoltativa rende inadeguata una motivazione che si limiti a rilevare il mero asservimento tra la res ed il reato, senza spingersi a verificare se, secondo il principio dell’id quod plerumque accidit, la permanenza del bene nella sfera giuridica del soggetto possa rappresentare un incentivo alla reiterazione di condotte criminose.
6 In tema di fumus commissi delicti, richiesto per l’applicazione delle misure cautelari reali, la giurisprudenza più recente afferma la necessità che il giudice non si limiti a verificare in astratto la sussumibilità del fatto contestato nel reato prospettato dall’accusa ma valuti se, alla luce delle risultanze investigative allo stato emerse, sussistano concreti elementi tali da consentire di ricondurre la condotta dell’indagato a quella oggetto dell’imputazione provvisoria (da ultimo Cass. Pen., Sez. 6, sentenza n. 18183 del 23/11/2017, dep. 24/04/2018, Rv. 272927 – 01, per cui “nella valutazione del fumus commissi delicti, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice deve verificare la sussistenza di un concreto quadro indiziario, non potendosi limitare alla semplice verifica astratta della corretta qualificazione giuridica dei fatti prospettati dall’accusa”; Sez. 1, sentenza n. 18491 del 30/01/2018, dep. 27/04/2018, Rv. 273069 - 01, per cui “in tema di sequestro preventivo, non è necessario valutare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico della persona nei cui confronti è operato il sequestro, essendo sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità in una determinata ipotesi di reato del fatto contestato”; Sez. 5, sentenza n. del 11/12/2019 dep. 2020, Rv. 278152 – 01, per cui “il fumus commissi delicti per l’adozione di un sequestro preventivo, pur non dovendo integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’art. 273 cod. proc. pen., necessita comunque dell’esistenza di concreti e persuasivi elementi di fatto, quantomeno indiziari, che consentano di ricondurre l’evento punito dalla norma penale alla condotta dell’indagato; Sez. 3, sentenza n. 32399 del 26/05/2021, dep. 31/08/2021, n.m.).
7 Si vedano Cass. Pen., Sez. U., sentenza n. 5876 del 28/01/2004, dep. 13/02/2004, Rv. 226713 – 01, per cui “nel caso di radicale mancanza della motivazione, in ordine alla necessaria sussistenza della concreta finalità probatoria perseguita in funzione dell'accertamento dei fatti, del decreto di sequestro di cose qualificate come corpo di reato, che, sebbene non integrato sul punto dal p.m. neppure all’udienza di riesame, sia stato confermato dall'ordinanza emessa all’esito di questa procedura, la Corte di cassazione deve pronunziare sentenza di annullamento senza rinvio di entrambi i provvedimenti”; Sez. U., sentenza n. del 19/04/2018, dep. 27/07/2018, Rv. 273548 – 01, per cui “il decreto di sequestro probatorio - così come il decreto di convalida - anche qualora abbia ad oggetto cose costituenti corpo di reato, deve contenere una motivazione che, per quanto concisa, dia conto specificatamente della finalità perseguita per l’accertamento dei fatti”.
8 In particolare, la Corte di cassazione cita Corte eur. dir. uomo, sent. 21 febbraio 1986, James e altri c. Regno Unito; Corte eur. dir. uomo (GC), sent. 5 gennaio 2000, Beyeler c. Italia; Corte eur. dir. uomo (GC), sent. 16 luglio 2014, Alisic c. Bosnia Erzegovina.
9 In tema, la Suprema Corte richiama Corte Giust. U.E., sent. 3 dicembre 2019, C-482/17, nonché Corte Giust. U.E., sent. 8 giugno 2010, C-58/08, § 51.
10 In particolare, l’art. 1, § 3 del suddetto Regolamento prevede che “nell’emettere un provvedimento di congelamento o un provvedimento di confisca, le autorità di emissione assicurano il rispetto dei principi di necessità e di proporzionalità”.
11 La Suprema Corte menziona in merito il considerando n. 17, nel quale il principio di proporzionalità è espressamente citato in tema di confisca per equivalente, nonché il considerando n. 18, nel quale è attribuita agli Stati membri la possibilità di prevedere che, in circostanze eccezionali, non sia ordinata la confisca qualora, conformemente al diritto nazionale, essa rappresenti una privazione eccessiva per l’interessato.
12 In tema, VARRASO G., Il sequestro a fini di confisca: dalle scelte del codice del 1988 alla legge n. 161 del 2017, in Dir. pen. cont., 12 gennaio 2018, evidenzia che la formulazione testuale dell’art. 321, comma 2, c.p.p., del tutto scevra da riferimenti ai presupposti cautelari del fumus e del periculum in mora, si giustifica in ragione dell’esistenza, al tempo in cui la norma è stata redatta, della sola forma di confisca di cui all’art. 240 c.p., caratterizzata dal vincolo di pertinenzialità tra la res ed il reato contestato.
13 Permangono, sul punto, dubbi su come andrebbe valutata la analoga posizione di un imputato condannato in grado di appello, e non di un indagato. Va ricordato, peraltro, che, nell’ambito applicativo dell’art. 12-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000, la condanna per taluni dei delitti previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000 comporta invariabilmente “la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca dei beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto”. Si veda anche Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 36347 del 11/07/2019, dep. 22/08/2019, Rv. 276700 – 01, per cui “in tema di sequestro preventivo, il terzo che affermi di avere diritto alla restituzione del bene oggetto di sequestro, può dedurre, in sede di merito e di legittimità, unicamente la propria effettiva titolarità o disponibilità del bene e l'inesistenza di un proprio contributo al reato attribuito all'indagato, senza potere contestare l'esistenza dei presupposti della misura cautelare”, in una fattispecie di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente ex art. 12-bis D.Lgs. n. 74/2000.
14 Sul tema anche Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 10120 del 01/12/2010, dep. 11/03/2021, Rv. 249752 – 01, di declaratoria di manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata in giudizio sugli artt. 322-ter c.p. e 1, comma 143, L. 24 dicembre 2007, n. 244. Va, altresì, ricordato che, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente in ambito di reati tributari, è ammessa la praticabilità del sequestro preventivo a struttura mista (ex multis, Cass. Pen., Sez. 3, sentenza n. 38858 del 14/06/2016, dep. 20/09/2016, Rv. 267631 – 01), ossia quello che prevede, come petitum cautelare, sia il sequestro in forma diretta (in via principale) che quello per equivalente (ma in via subordinata), subordinatamente cioè all’impossibilità di esecuzione del primo, nel senso che l’eseguibilità del sequestro di valore si pone in stretta relazione con il verificarsi dell’impossibilità di eseguire quello in forma specifica. Ferma la legittimità del decreto di sequestro preventivo funzionale alla confisca che presenti una struttura “mista”, prevedendo, in via principale, la sottoposizione a vincolo, a titolo di sequestro diretto, del profitto dei reati conseguito dalla persona giuridica e, subordinatamente all’accertata impossibilità di esecuzione di questo, il sequestro di un valore equivalente nella disponibilità del legale rappresentante dell’ente (Cass. Pen., Sez. 3, n. 46973 del 10/05/2018, dep. 16/10/2018, Rv. 274074 – 01), la circostanza che, per disporre subordinatamente il sequestro in funzione della confisca per equivalente, si debba procedere ad accertare l’impossibilità di esecuzione del sequestro in via diretta del profitto del reato, non rileva e non ha riflessi sul terzo estraneo al reato proprietario dei beni sequestrati in via equivalente.
15 In particolare, con riguardo ai presupposti applicativi, si dovrà necessariamente aver riguardo ai reati presupposto di volta in volta sotto esame, che richiedono una approfondita valutazione anche con riguardo all’organizzazione approntata dall’ente per prevenirli e, ove non prevenuti, contrastarli (sul tema, si veda l’interessante contributo di D’ARCANGELO S.M., DE FUSCO E., MAZZILLO A., SCIARRA N., SILVESTRE P., Modello 231 nell’ambito delle procedure di sequestro e confisca delle aziende. Spunti di riflessione, in Giurisprudenza Penale Web, passim, 2021, che propone un’analisi per tipologie di reato). In particolare, e senza pretesa di esaustività:
(a) quanto ai reati societari, il più evoluto standard della gestione del rischio è rappresentato dal sistema ERM - Enterprise Risk Management Framework, che si fonda su otto elementi essenziali che possono essere messi in relazione con l’assetto per un efficace modello organizzativo 231. In tal caso gli strumenti di controllo vengono implementati con l’obiettivo di escludere la possibilità di concludere operazioni fittizie e non corrispondenti ai reali accadimenti contabili. A titolo esemplificativo alcuni strumenti di controllo di linea possono consistere: (1) nella gestione delle vendite e del credito, un processo di affidamento della clientela che tenga conto degli esiti di un’attività di qualifica volta a valutare la solvibilità della controparte che risulta essere fondamentale. In tal modo, preventivamente a ciascuna conferma d’ordine, il processo consentirebbe una verifica dell’affidamento del cliente; (2) nei rapporti con i fornitori, i controlli di linea dovrebbero prevedere un’attenta qualifica della controparte e una valutazione del rispetto dei requisiti richiesti per lo svolgimento dell’attività oltre che delle caratteristiche di onorabilità (ad es., compliance alla normativa ex D.Lgs. n. 231/2001) e di solvibilità; (3) nella gestione della finanza aziendale, sarebbe importante definire dei Key Performance Indicators che siano utili alla valutazione dell’impianto del processo atto all’individuazione dell’equilibrio economico-finanziario;
(b) quanto ai reati fiscali, l’inclusione di alcune fattispecie di reato di natura tributaria fra i reati presupposto rilevanti ai fini dell’applicazione del D.Lgs. n. 231/2001 trova la sua fonte normativa nell’articolo 39 della Legge n. 157 del 19 dicembre 2019 (entrata in vigore il 25 dicembre 2019) che ha convertito il D.L. n. 124/2019 (c.d. “Decreto Fiscale”). Dal 24 dicembre 2019, infatti, sono stati inseriti nell’ambito dei reati presupposto: (1) la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’articolo dall’articolo 2, commi 1 e 2-bis del D.Lgs. n. 74/2000; (2) la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all’articolo 3 del D.Lgs. n. 74/2000; (3) l’emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all’articolo 8, commi 1, 2 e 2-bis del D.Lgs. n. 74/2000; (4) l’occultamento o distruzione di documenti contabili di cui all’articolo 10 del D.Lgs. n. 74/2000; (5) la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte disciplinata dall’art. 11 del D.Lgs. n. 74/2000. In aggiunta al complesso delle sanzioni pecuniarie (variabili da un minimo di 400 quote ad un massimo di 500 quote), peraltro, il legislatore ha previsto l’applicazione di sanzioni interdittive quali il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il divieto di pubblicizzare beni o servizi nonché la applicabilità - per effetto del combinato disposto degli articoli 9 e 19 al D.Lgs. n. 231/2001 - della confisca obbligatoria, anche per equivalente, del prezzo o profitto del reato. In tale mutato contesto normativo, la gestione del “rischio” connesso alla variabile fiscale diventa una attività indefettibile per il rispetto dei principi di corretta gestione aziendale e la necessaria attività di delimitazione ed attenuazione del rischio di commissione dell’illecito non può prescindere dall’adozione di idonee misure preventive (procedure e controlli interni) e dall’aggiornamento dei modelli di organizzazione, gestione e controllo, al fine di adeguarli alle mutate esigenze della società e del contesto normativo all’interno del quale essa opera. L’adozione di un adeguato sistema di “compliance fiscale” o, ove già esistente, la verifica dell’effettivo suo funzionamento, il puntuale inquadramento dei processi aziendali e delle eventuali aree di rischio di commissione dei reati tributari previsti dall’art. 25-quinquiesdecies del D.Lgs. n. 231/2001 in funzione delle specifiche peculiarità aziendali ed un aggiornamento del risk assessment rappresentano attività imprescindibili nella prospettiva di mitigare il rischio di commissione dei reati tributari e preservare l’ente dalla irrogazione delle relative sanzioni. II sistema di controllo dedicato al presidio del rischio fiscale (TCF8) previsto per le imprese di maggiori dimensioni dall’articolo 3 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128 (che, in attuazione della delega contenuta nell’art. 6 della legge 11 marzo 2014, n. 23, ha introdotto nell’ordinamento un regime di adempimento collaborativo al fine di promuovere forme di comunicazione e di cooperazione rafforzata tra l’Amministrazione finanziaria e i contribuenti dotati di un sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale) può rappresentare un’utile base di partenza per la gestione ed il controllo del rischio di frode fiscale ai fini del D.Lgs.n. 231/2001 da parte dell’ente, rimanendo di non trascurabile rilievo il ruolo dell’Organismo di Vigilanza nell’ambito dell’aggiornamento del modello di organizzazione, gestione e controllo alle nuove fattispecie di reato (ruolo che non si esaurisce nella mera richiesta di aggiornamento del modello, bensì estendendosi alla verifica della effettiva diffusione e comprensione del modello aggiornato e dello svolgimento delle attività di formazione fino alla programmazione del piano di audit da effettuare, includendovi i processi identificati nella fase di risk assessment fra i quali, in primis, dovrà essere considerata l’area contabile amministrativa). Essenziale sarà, a tal riguardo, la verifica dell’esistenza e della corretta applicazione di alcune procedure che ove adeguatamente utilizzate potrebbero utilmente aiutare l’ente a minimizzare i rischi delle principali condotte in cui si sostanziano i reati tributari, come: (1) la procedura per il controllo dei documenti da contabilizzare; (2) la procedura relativa alla gestione degli archivi aziendali con la previsione, ad esempio, di uno specifico set documentale da acquisire in sede di introduzione del cliente nell’anagrafica della società (visura camerale, certificato attribuzione di partita IVA, et cetera); (3) la procedura per la gestione del ciclo attivo di vendita ed incasso; (4) la procedura per la gestione del ciclo passivo, fatturazione e pagamento; (5) la procedura per la gestione dei flussi informativi tra soggetti apicali, organismi di governance ed organismi di controllo; (6) la previsione di un albo fornitori con evidenziazione dei documenti necessari da presentare ai fini dell’inserimento di ogni singolo nominativo (visura camerale, certificato attribuzione di partita IVA, bilancio di esercizio, ecc.); (7) la procedura di verifica dell’esatto ammontare degli importi a credito compensabili attraverso la verifica costante delle risultanze del cassetto fiscale dell’ente; (8) il ruolo dell’Organismo di Vigilanza, che, infine, dovrà verificare se il sistema di flussi informativi previsti sia in grado di “coprire” anche il rischio fiscale, considerata la natura “trasversale” che può assumere lo stesso;
(c) per ciò che concerne il settore informatico, inizialmente il D.Lgs. n. 231/2001 non prevedeva la responsabilità dell’ente per tutti i reati informatici, ma soltanto per quelli di frode informatica commessa a danno dello Stato o di altro Ente pubblico (art. 24), di assistenza a gruppi terroristici apprestata fornendo strumenti di comunicazione (art. 25-quater), di distribuzione, cessione e detenzione di materiale pedopornografico (art. 25- quinquies, comma 1, lett. c). La Legge 48/2008 che ha ratificato la Convenzione di Budapest del Consiglio d’Europa sul cybercrime del 23 novembre 2001 ha introdotto delle variazioni al D.Lgs. n. 231/2001, inserendo alcune fattispecie di reato, prima assenti, fra i reati presupposto, estendendo quindi la responsabilità amministrativa degli enti ai seguenti reati informatici: (a) falsità in un documento informatico (art. 491-bis c.p.); (b) accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico (art. 615-ter c.p.), dove per sistema informatico o telematico si intende un complesso di apparecchiature destinate a compiere una qualsiasi funzione utile all’uomo, cioè tutto ciò che gestisce ed elabora dati in formato digitale; (c) detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici o telematici (art. 615-quater c.p.); (d) diffusione di apparecchiature, dispositivi o programmi informatici diretti a danneggiare o interrompere un sistema informatico o telematico (art. 615-quinquies c.p.); (e) intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche (art. 617-quater c.p.); (f) installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comunicazioni informatiche o telematiche (art. 615-quinquies c.p.); (g) danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici (art. 635-bis c.p.); (h) danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comunque di pubblica utilità (art. 635-ter c.p.); (i) danneggiamento di sistemi informatici o telematici (art. 635-quater c.p.); (l) danneggiamento di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità (art. 635-quinquies c.p.); (m) frode informatica del certificatore di firma elettronica (art. 640-quinquies c.p.). Le soluzioni a disposizione per l’ente, in proposito, potrebbero consistere: (1) nella dotazione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (“MOGC”) che non ha in nessun caso carattere di obbligatorietà, ma esplica gli effetti di azione preventiva; (2) nell’implementazione di controlli e nell’applicazione di misure tecniche e organizzative adeguate per prevenire tali fattispecie di frodi e che, nella maggior parte dei casi risultano utili anche per la prevenzione di altri illeciti, per esempio di non conformità alla disciplina del GDPR; (3) nell’adesione a standard internazionali, in particolare allo standard ISO 27001 (norma internazionale per i Sistemi di Gestione della Sicurezza delle Informazioni, denominata anche SGSI) e ISO 27002, o altri standard in relazione a specifiche esigenze di impresa. L’adesione a modelli di gestione e norme internazionali non è obbligatoria, non rende automaticamente l’ente “compliant” anche al GDPR e alla normativa Privacy nazionale (D.Lgs. n. 196/2003, novellato dal D.Lgs. n. 101/2018) e neppure esime l’organizzazione da altri adempimenti, se previsti: tuttavia questi modelli, norme e standard, che agiscono in armonia rafforzando ancor di più la tutela dell’Ente, sono da considerarsi come efficaci sostegni per la protezione di organizzazioni di qualsiasi dimensione; (d) per quanto riguarda, infine, i reati commessi nei rapporti con la Pubblica Amministrazione, si deve osservare che l’art. 24 del decreto include, tra le fattispecie-presupposto, la concussione, l’induzione indebita a dare o promettere utilità e la corruzione; mentre l’art. 25 elenca l’indebita percezione di erogazioni, la truffa in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche e la frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico. Più recentemente, la legge n. 69/2015, recante “Disposizioni in materia di delitti contro la Pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, è intervenuta su alcuni reati contro la Pubblica Amministrazione (in particolare, peculato, concussione, corruzione e induzione indebita), aumentandone le pene, modificando il reato di false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., ed introducendo le fattispecie di cui agli artt. 2621-bis (“Fatti di lieve tenuità”) e l’art. 2621-ter (“Non punibilità per particolare tenuità”) al Codice civile e incide sull’art. 25-ter relativamente ai reati societari del D.Lgs. n. 231/2001. Inoltre, si aggiunge alla riforma del 2015 quella attuata dalla legge n. 3/2019, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” (c.d. legge spazza corrotti), che introduce la fattispecie di “traffico di influenze illecite”, prevista dall’art. 346-bis c.p., oltre ad inasprire le sanzioni interdittive previste per i reati di cui all’art. 25 del Decreto e a rendere perseguibili a querela di parte il reato di corruzione tra privati (art. 2635 c.c). Infine, il decreto legislativo n. 75 del 14 luglio 2020 si occupa non solo di apportare modifiche al codice penale (art. 1), in ottemperanza ai criteri di armonizzazione della legislazione degli Stati membri come previsto dalla c.d. direttiva PIF, ma interviene anche sulla responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica, apportando (art. 5) numerose modifiche al D.Lgs. n. 231 dell’8 giugno 2001, ha (i) inserito nuove fattispecie di reato quali peculato, abuso di ufficio e frode nelle forniture; (ii) inasprito le sanzioni in caso di mancata adozione, presidio del modello di gestione, organizzazione e controllo previsto dalla normativa di riferimento (c.d. modello “231”). Anche i reati contro la Pubblica Amministrazione ed il patrimonio dello Stato venivano inclusi tra i reati presupposto del modello di organizzazione, gestione e controllo di cui al D.Lgs. 231/2001: (a) Peculato (art. 314 del codice penale); (b) Peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 del codice penale); (c) Malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis del codice penale); (d) Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316-ter del codice penale); (e) Concussione (art. 317 del codice penale); (f) Corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 del codice penale); (g) Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 del codice penale); (h) Circostanze aggravanti (art. 319-bis del codice penale); (i) Corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter del codice penale); (l) Induzione indebita a dare o promettere utilità (art. 319-quater del codice penale); (m) Corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio (art. 320 del codice penale); (n) Istigazione alla corruzione (art. 322 del codice penale); (o) Peculato, concussione, corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri delle Corti internazionali o degli organi delle Comunità o di assemblee parlamentari internazionali e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri (art. 322-bis del codice penale); (p) Abuso di ufficio (art. 323 del codice penale); (q) Traffico di influenze illecite (art 346–bis del codice penale); (r) Frode nelle pubbliche forniture (art. 356 del codice penale); (t) Truffa a danno dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, del codice penale); (u) Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis del codice penale); (v) Frode informatica (art. 640-ter del codice penale). In particolare, il catalogo dei reati presupposto è stato integrato con il reato di frode nelle pubbliche forniture (356 c.p.) e con il reato di appropriazione indebita o distrazione di fondi comunitari, commesso da chi “mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale” (articolo 2 della Legge n. 898/1986 in materia di aiuti comunitari al settore agricolo). Inoltre, il legislatore delegato, sempre con il D.Lgs. 75/2020, è anche intervenuto sull’articolo 25 del D.Lgs. n. 231/2001, includendo nell’elenco dei delitti:
(a) il peculato (art. 314, comma 1, c.p.), che punisce con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria”;
(b) il peculato mediante profitto dell’errore altrui (art. 316 c.p.) che punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, giovandosi dell’errore altrui, riceve o ritiene indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o ad un’altra utilità”;
(c) l’abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) che punisce il pubblico ufficiale, che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto. Inoltre, il Piano Nazionale Anticorruzione prevede che i modelli di organizzazione e gestione adottati dagli enti pubblici o privati a partecipazione pubblica devono presentare il contenuto minimo relativo a: (a) individuazione delle aree a maggior rischio di corruzione, incluse quelle previste nell’art. 1, comma 16, L. n. 190 del 2012, valutate in relazione al contesto, all’attività e alle funzioni dell’ente; (b) previsione della programmazione della formazione, con particolare attenzione alle aree a maggior rischio di corruzione; (c) previsione di procedure per l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione al rischio di fenomeni corruttivi; (d) individuazione di modalità di gestione delle risorse umane e finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati; (e) previsione dell’adozione di un Codice di comportamento per i dipendenti ed i collaboratori, che includa la regolazione dei casi di conflitto di interesse per l’ambito delle funzioni ed attività amministrative; (f) regolazione di procedure per l’aggiornamento; (g) previsione di obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli; (h) regolazione di un sistema informativo per attuare il flusso delle informazioni e consentire il monitoraggio sull’implementazione del modello da parte dell’amministrazione vigilante; (i) introduzione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.
Per contrastare la pandemia da COVID-19, peraltro, il Governo Italiano ha fatto ricorso allo strumento della decretazione d’urgenza emanando numerosi decreti che hanno progressivamente cercato di sostenere il paese e consentirne la ripresa (in particolare, il D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, c.d. Decreto Cura Italia; il D.L.n. 23 dell’8 aprile 2020, c.d. Decreto Liquidità; il D.L. n. 34 del 19 maggio 2020, c.d. Decreto Rilancio; il D.L. n. 76 del 16 luglio 2020, c.d. Decreto semplificazioni; il D.L. n. 104 del 14 agosto 2020, c.d. Decreto Agosto; il D.L. n. 137 del 28 ottobre 2020, c.d. Decreto ristori; il D.L. n. 149 del 9 novembre 2020, c.d. Decreto ristori bis; il D.L. n. 154 del 23 novembre 2020, c.d. Decreto ristori ter). Il contesto creato dalle misure economiche previste dalla normativa emergenziale poteva, tuttavia, favorire abusi finalizzati all’indebito ottenimento ed utilizzo da parte delle imprese (e non solo) di contributi, erogazioni e finanziamenti pubblici e costituire l’occasione proprio per la commissione di uno dei “reati contro la Pubblica Amministrazione” previsti dagli artt. 24 e 25 D.Lgs. n. 231/2001. Tra le possibili azioni da approntare immediatamente da parte degli enti interessati, perciò, ve ne sono alcune che certamente possono aiutare a prevenire la commissione di reati, come ad esempio:
(1) l’adozione di protocolli aziendali aggiornati e adeguati per disciplinare il processo di formazione, verifica e approvazione dei documenti e dei dati da presentare alle Autorità pubbliche per l’accesso alle misure di sostegno;
(2) l’implementazione di specifici presidi di controllo volti a garantire la completezza e la correttezza della documentazione da presentare alle Autorità Pubbliche secondo criteri di trasparenza e tracciabilità delle operazioni;
(3) la disciplina del processo di rendicontazione, tramite la definizione di ruoli e responsabilità delle funzioni coinvolte in tale processo.
