Sommario. 1. Gli oligarchi. – 2. La principessa. - 3. Libertà della persona e regole del processo. La sentenza del Presidente Mortara e il «frivolo argomento». – 4. L’interdizione, «il maggiore degli attacchi all’integrità del diritto individuale». – 5. La “perpetuatio jurisdictionis” e la dottrina del Prof. Chiovenda. – 6. I diritti della persona e il cammino della scienza, tra “principesse” e “signorine”.
(Si ripubblica, con alcune modifiche, uno scritto già pubblicato su giudicedonna.it., nn. 3 e 4 del 2020)
1. La storia della procedura civile, più di quelle di altri settori del sapere giuridico, è una storia di “oligarchi”.
Gli “oligarchi” – scrisse Franco Cipriani – sono una «nobile, rara e inestinguibile stirpe», di cui fanno parte scienziati ai quali capita non solo di questionare, specie se appartengano a scuole diverse e siano quindi portatori di differenti idee scientifiche; ma capita altresì, se il dissenso verte sul primato della propria scuola e delle proprie idee, di pronunciare qualche parola di troppo.
Quando poi sul primato non esiste soltanto semplice dissenso, ma esiste la ferma convinzione di ognuno degli “oligarchi” di esserne personalmente il detentore, capita sovente che dalla parola si passi agli scritti[1].
Cominciano così le tenzoni scientifiche, che spesso si protraggono per anni, talora appuntandosi su questa questione di competenza, talaltra riguardando quella questione di litisconsorzio. Alcune volte uno degli “oligarchi” ritiene opportuno scrivere direttamente all’altro per congratularsi con lui del successo che sta riportando in campo scientifico, o per rispondere ad una sollecitazione che l’altro gli aveva fatto pervenire. Altre volte invece lo scritto non fa menzione del destinatario o non è a quegli direttamente indirizzato, ma viene affidato ad una recensione di una sua opera (o addirittura dell’opera di un terzo) oppure ad una prefazione di un’opera propria.
L’esempio più importante di questa sofferta e contrastata – ma nello stesso tempo irrinunciabile – convivenza tra “oligarchi” nella scienza processuale è certamente quello offerto, per quasi un cinquantennio, da Francesco Carnelutti e Piero Calamandrei (o, se si vuole, da Piero Calamandrei e Francesco Carnelutti, visto che non si sa mai quale dei due nomi si debba pronunciare per primo).
Questi due scienziati, tra i più grandi (se non i più grandi) giuristi del novecento, incontratisi ancora giovani al concorso per la cattedra di procedura civile dell’Università di Padova nel 1914, da allora non fecero che questionare tra loro e la diatriba cessò solo nel 1956, quando il più giovane dei due lasciò questo mondo suscitando il commosso ricordo dell’altro.
«L’amicizia tra Calamandrei e me – scappò di dire ad un affranto Carnelutti dinanzi alla salma del rivale – è stata un’amicizia faticata. Bisogna sapere che la vita ci ha fatto trovare sempre dall’altra parte. … Sempre uno contro l’altro. Da ultimo, finiva per pesarmi; e credo anche a lui»[2].
In anni precedenti, il primato della procedura civile era stato conteso invece tra Lodovico Mortara (giurista e giudice illuminato e progressista, di formazione costituzionale, nella cui dottrina si era compiuto il superamento della tradizionale scuola esegetica di matrice francese) e Giuseppe Chiovenda, iniziatore e maestro della nuova scuola sistematica di ispirazione tedesca[3].
Tra i due eminenti giuristi si consumò «una vicenda più che ventennale di fiere polemiche dottrinali e metodologiche, e soprattutto di radicali e spesso determinanti opposizioni di ciascuno ai programmi di riforma patrocinati dall’altro»[4].
Questa vicenda probabilmente cominciò nel 1903, con una polemica sul tema dell’esecuzione provvisoria della sentenza di primo grado e dei poteri del giudice di appello di paralizzarla mediante inibitoria[5], e si concluse nel 1927, con l’ironica lettera con cui Mortara declinò l’invito a partecipare con un saggio agli studi in onore di Chiovenda[6].
2. Un giorno, la tenzone scientifica tra i due “oligarchi” incrociò il cammino di una giovane principessa romana, orfana e nubile, la cui libertà di autodeterminazione era minacciata da un giurista dell’età degli Antonini, Ulpio Marcello, cui le fonti attribuiscono la paternità della massima «ubi acceptum est semel iudicium, ibi et finem accipere debet»[7].
La storia va raccontata, non solo perché da essa traiamo la rassicurazione che il primato, qualunque dei due “oligarchi” lo avesse posseduto, sarebbe stato comunque in buone mani[8]; ma soprattutto perché ne ricaviamo la conferma che nel mistero del processo – come ebbe a dire Salvatore Satta – «si ha il divenire dell’ordinamento» e che «l’azione» sta «nell’opera e nella sentenza del giudice»[9], sicché la giustizia (che del processo costituisce il fine[10] e che trova la sua unica via nella primautè della persona umana e nell’esigenza di tutela piena e incondizionata dei suoi diritti fondamentali), non ha nelle forme e negli istituti processuali degli optionals a cui si può rinunciare, ma dei presìdi infungibili e inviolabili.
3. Vediamo allora di ricostruire la storia della nobildonna e di come essa ebbe ad incontrare sulla sua strada i due “oligarchi” e le loro contrastanti idee.
Beatrice Fiorenza Cenci Bolognetti, principessa di Vicovaro e marchesa di Rocca Priora, era l’ultima discendente di un’antica e nobile casata e, quel che più conta, l’unica erede di un patrimonio immenso.
Ella, sin da prima che scoppiasse la grande guerra, aveva chiesto la cittadinanza francese, poiché risiedeva da sempre in Francia (ove del resto si trovava anche la maggior parte dei suoi beni) ed era stata in Italia solo per brevissimi periodi, in giovanissima età, al seguito dei suoi genitori.
Nelle more del procedimento per il cambio di cittadinanza (che si era protratto per lungo tempo ed era anche rimasto sospeso durante il conflitto mondiale), la zia paterna, contessa Giulia Cenci Bolognetti, vedova Vincenti Mareri, l’aveva convenuta dinanzi al tribunale di Roma[11] e ne aveva domandato l’interdizione, per ragioni che non ci sono note, ma che, leggendo le sentenze emesse nel relativo procedimento dalla Cassazione di Roma (delle quali tra breve si dirà), sembra potersi intuire che avessero a che fare più con gli interessi del parentado ad evitare che la principessa disponesse della sua straordinaria eredità che con la sua effettiva incapacità di intendere e di volere.
Instauratosi, come si suol dire, il contraddittorio, il tribunale adìto aveva convocato il consiglio di famiglia, il cui parere, al pari dell’interrogatorio dell’interdicenda, era, nel vigore del codice del 1865, obbligatorio.
Il consiglio, a maggioranza di tre quarti dei suoi componenti, si era detto favorevole all’interdizione, ma la principessa, convocata subito dopo per rendere l’interrogatorio, aveva proposto un incidente sulla legittimità della sua composizione.
L’interdicenda si era doluta, precisamente, che il giudice avesse formato il consiglio di famiglia nominando, oltre ad un più lontano parente (che non aveva aspettative ereditarie e che infatti aveva espresso parere contrario all’interdizione), anche i tre fratelli conti Antici Mattei, suoi cugini consanguinei in quarto grado, i quali, per un verso, erano suoi successibili ex lege (e dunque avrebbero ricevuto una specifica utilità dal provvedimento interdittivo, portante con sé l’incapacità di testare), mentre, per altro verso, erano, rispetto a lei, molto meno ricchi, sicché appariva evidente che avessero un interesse personale ad un determinato esito del giudizio.
L’eccezione, rigettata sia dal Tribunale che dalla Corte di appello, era stata invece accolta dalla Corte di cassazione di Roma, la quale, nel 1919[12], aveva rilevato che, sebbene l’interesse personale dei componenti del consiglio di famiglia si prospettasse «solo in via molto indiretta e con riguardo al verificarsi dell’evento futuro ed incerto della premorienza dell’interdicenda», tuttavia il magistrato, nel nominare i membri del consiglio medesimo, avrebbe comunque dovuto indagare se «esistessero serie ragioni di convenienza o di opportunità» che consigliassero «una scelta diversa da quella suggerita dall’ordine di parentela» ed inducessero all’individuazione di parenti di grado più remoto, specie in un caso come quello di specie in cui «si rappresentava la interdicenda siccome ereditiera di una colossale fortuna, alla quale è troppo naturale che convergano le aspirazioni di parenti non similmente doviziosi»[13].
Rinviata dunque la causa alla Corte di appello di Ancona, la principessa, che nel frattempo era divenuta cittadina francese, aveva preliminarmente eccepito il sopravvenuto difetto di giurisdizione del giudice italiano.
Sulla questione la contessa zia aveva chiesto un parere pro veritate a Chiovenda, il quale l’aveva rassicurata sull’irrilevanza del cambio di cittadinanza, stante il principio della perpetuatio iurisdictionis, non previsto dalla legge positiva ma nondimeno vigente e operativo nel nostro ordinamento in base al diritto romano, nelle cui fonti era tramandato[14].
La Corte di appello, in applicazione di questo principio, aveva disatteso l’eccezione pregiudiziale di rito sollevata dalla principessa e, nel merito, aveva ribadito la legittimità della composizione del consiglio di famiglia, rifiutando di adeguarsi al principio (allora non vincolante per il giudice del primo rinvio) enunciato dalla sentenza della Cassazione.
L’interdicenda aveva quindi proposto ricorso alle Sezioni unite e qui si era consumato l’atto finale dello scontro, che aveva visto protagonisti i due grandi rivali.
La contessa zia si era costituita con uno staff di quattro avvocati, tra i quali spiccava Chiovenda, new entry del gruppo, non presente nel precedente collegio difensivo.
L’udienza, celebrata il 3 marzo 1921, si era svolta dinanzi ad un collegio presieduto dal primo presidente Mortara, che si era anche auto-assegnata la relazione della causa.
La sentenza, estesa personalmente dal primo presidente-relatore e depositata appena quattro giorni dopo l’udienza[15], aveva osservato che «la Corte d’appello, con inopportunità evidente, oltre che con difetto di precisione dottrinale, [aveva] rievocato la massima del diritto romano secondo cui l’azione una volta iniziata deve proseguire avanti al giudice in origine competente (ubi semel iudicium inceptum ibi et finem accipere debet)» senza riflettere «che il diritto romano conosceva una sola potestà giurisdizionale, quella dei magistrati romani», sicché «la invocata massima [avrebbe potuto] riferirsi soltanto alla competenza territoriale del giudice, se pur le si [dovesse] assegnare un valore qualsiasi nel diritto processuale odierno»[16].
«Eliminato questo frivolo argomento»[17], la sentenza avrebbe potuto (e forse dovuto) fermarsi qui, giacché l’accertamento del sopravvenuto difetto di giurisdizione del giudice italiano avrebbe dispensato il collegio dall’esame del merito della controversia sulla costituzione del consiglio di famiglia.
E invece il primo presidente, pur convenendo sul carattere «superfluo e ozioso»[18] di questo esame alla luce della statuizione sulla questione pregiudiziale di rito, non aveva lesinato di rimarcare i «gravi errori» in cui era incorsa la Corte di appello, che aveva «male inteso e peggio applicato l’insegnamento che questa Corte (sezione civile) aveva dato» con la precedente pronuncia del 1919.
La sentenza impugnata era stata quindi cassata senza rinvio, non senza essersi altresì proceduto a condannare l’attrice in interdizione a rimborsare alla convenuta interdicenda le spese di tutti i gradi di giudizio.
4. La sentenza del 1921 del primo presidente Mortara è dunque distinta in due parti.
La prima concerne la questione pregiudiziale di rito sulla giurisdizione e culmina nell’affermazione del principio di diritto secondo cui l’istituto della c.d. perpetuatio iurisdictionis, non ha cittadinanza del nostro ordinamento, poiché non previsto dalla legge positiva ma enunciato da una massima romanistica cui non può assegnarsi alcuna efficacia nel diritto processuale moderno.
La seconda parte concerne la questione di merito sulla legittimità del consiglio di famiglia e si traduce in un incisivo obiter dictum, ove viene stigmatizzato l’errore in cui era incorsa la Corte di appello che, omettendo di attenersi all’insegnamento impartito dalla stessa cassazione romana (sezione civile) nel 1919, non aveva tenuto conto dell’interesse dell’interdicenda a che il consiglio «chiamato a dare il parere sulla domanda [fosse] composto con persone insospettate e insospettabili, spoglie di qualsiasi preoccupazione personale intorno ai risultati del giudizio e alle ulteriori sue conseguenze»[19].
Dal punto di vista della tenzone tra i due “oligarchi” della scienza processuale, deve sottolinearsi che la prima parte della pronuncia (cui era stato dato risalto sia dalla Giurisprudenza italiana e che dal Foro italiano, nelle pubblicazioni, rispettivamente, del 1921 e del 1923) era quella a cui era (criticamente) interessato Chiovenda, il quale aveva premura che fosse ribadita l’attuale autorità del diritto romano (cara alla scuola scialojana donde egli proveniva) e che fosse inserito il principio della perpetuatio iurisdictionis nel sistema di teoria generale del processo che egli stava costruendo.
La seconda parte (coperta da omissis in entrambe le pubblicazioni sopra richiamate) era quella che invece interessava Mortara, a tal punto che egli non si era risparmiato neppure quello che per un giudice che sia anche raffinato processualista è indubbiamente un errore: l’errore di affrontare indebitamente una questione di merito che avrebbe dovuto reputarsi assorbita dalla decisione di accoglimento dell’eccezione pregiudiziale di rito.
Sul raffinato processualista era infatti prevalso nell’occasione (ma si potrebbe dire: come sempre) il giurista sensibile alle istanze di tutela dei diritti della persona.
Nel suo monumentale Commentario, egli, nell’affrontare ex professo il problema della struttura e delle forme del giudizio di interdizione, aveva scritto: «È di somma importanza circondare di ampia guarentigia le indagini intorno allo stato dell’interdicendo, le quali debbono essere guidate da rigore scrupoloso, affinché la giustizia non divenga strumento inconsapevole di errori deploratissimi o di turpi raggiri. Conviene che il legislatore abbia simultaneamente la esatta visione delle due probabilità che la persona di cui viene proposta l’interdizione sia davvero inferma di mente e non abbia nemmeno l’attitudine a comprendere la gravezza del provvedimento, o che invece la persona stessa non sia realmente soggetta a malattia mentale ma vittima di una odiosa macchinazione; perciò non sarà mai soverchia la cura per assicurarle la più ampia libertà di difesa contro il maggiore degli attacchi all’integrità del diritto individuale»[20].
Il maggiore degli attacchi all’integrità del diritto individuale, prevenuto dal primo presidente Mortara con la sentenza delle Sezioni unite del 1921, sarebbe stato questa volta veramente odioso perché, se fosse riuscito, si sarebbe verosimilmente privata della capacità di agire, mercè il parere compiacente di un consiglio di famiglia formato da membri personalmente interessati, una persona pienamente capace di intendere e di volere.
5. Erano trascorsi più di due anni dalla pronuncia delle Sezioni unite e la vicenda della nobildonna romana sembrava ormai dimenticata, quando Chiovenda, fresco nuovo dominus della procedura italiana[21] (e soprattutto sempre più convinto assertore di un sistema nell’ambito del quale la regula iuris avrebbe dovuto desumersi, più che dal diritto positivo, in ipotesi anche “correggibile”[22], dalla logica e coerente declinazione delle categorie e dei concetti di teoria generale), tornò a rievocarla, non per mettere bocca sul merito della domanda di interdizione proposta dalla contessa sua cliente (che a lui interessava poco o punto) ma per “mettere i puntini sulle i” in ordine alla questione della giurisdizione.
Sul fascicolo di agosto 1923 del Foro italiano fu pubblicato uno scritto di 22 colonne, a firma del Prof. Giuseppe Chiovenda[23], che solo formalmente era una nota alla sentenza redatta oltre due anni prima dal primo presidente Lodovico Mortara, per l’occasione debitamente rimassimata[24]; si trattava, invece, nella sostanza, di un vero e proprio saggio sull’argomento della perpetuatio iurisdictionis, e come tale sarebbe stato successivamente ripubblicato[25].
All’inizio del saggio, Chiovenda, da par suo, prima di procedere alla eloquente illustrazione degli argomenti volti a demolire l’orientamento espresso da Mortara (peraltro, sin dall’inizio indicato come isolato e contrario all’ «opinione dominante»[26] in dottrina e in giurisprudenza), si profuse in parole di stima per il suo avversario e di deferenza e per la posizione da lui ricoperta.
In ragione dell’«altezza del magistrato» che aveva recentemente esaminato la «grave questione» e dell’«autorità del suo relatore» – così scrisse lo studioso di Premosello – egli aveva «nuovamente meditato sull’argomento», ma, non ostante tale ulteriore e lunga meditazione (durata più di due anni!), aveva dovuto convincersi «sempre più» del buon fondamento della sua tesi[27].
Passando, dunque, alle argomentazioni a sostegno dell’operatività del principio della perpetuatio iurisdictionis, Chiovenda si peritò di evitare che la lingua andasse subito a battere sul punto in cui il dente più gli doleva (evitò, cioè di affrettarsi a riaffermare quell’autorità delle fonti romanistiche che egli aveva vittoriosamente sostenuto dinanzi alla Corte di appello di Ancona e che invece era stata quasi irrisoriamente liquidata, come frivolo argomento, dalle Sezioni unite della Cassazione) ed espose inizialmente alcune veramente pregevoli considerazioni di carattere generale, dalle quali emerge a luce meridiana tutta la sua profonda capacità di elaborazione sistematica.
La massima “per citationem perpetuatur iurisdictio” – egli affermò – avrebbe costituito «espressione di un principio o tendenza generale che si manifesta ad ogni passo nelle leggi processuali, e secondo cui si deve impedire, per quanto è possibile, che la necessità di servirsi del processo per la difesa del diritto, torni a danno di chi è costretto ad agire o difendersi in giudizio per chieder ragione»[28].
Questo principio – egli aggiunse – avrebbe trovato applicazione sia nelle norme processuali volte a tutelare l’interesse del litigante «in quanto ha ragione» (come, ad es., quella che stabilisce il carico delle spese in base alla soccombenza)[29] sia nelle norme processuali volte a tutelare l’interesse del litigante «in quanto tale» (come, ad es., le regole volte a «reprimere gli atti vessatori di una parte a danno dell’altra», o quelle volte ad «eliminare o […] ridurre le conseguenze pregiudizievoli di fatti indipendenti dalla volontà delle parti»[30]).
La regola della perpetuatio iurisdictionis avrebbe appunto fatto parte di questo secondo gruppo, trovando essa fondamento nell’esigenza di evitare ai litiganti i «gravissimi danni» derivanti dal venir meno, a causa di circostanze sopravvenute, della competenza del giudice davanti al quale fu iniziata la causa[31].
Dunque, l’essere espressione di un principio generale consustanziale al sistema processuale, più che la sua derivazione romanistica avrebbe attribuito, secondo Chiovenda, autorità precettiva nell’attuale ordinamento processuale alla massima “per citationem perpetuatur iurisdictio”.
Peraltro, la derivazione romanistica della regola non sarebbe stata senza importanza.
Chiovenda ricordò, insieme ad altre fonti, il testo fondamentale di Marcello, in cui il principio era così precisamente declinato: “ubi acceptum est semel iudicium, ibi et finem accipere debet” (Fr. 30 Dig. de iudiciis 5,1)[32]; rimarcò (qui contestando espressamente la contraria affermazione svolta da Mortara nella motivazione della sentenza annotata) che, in base a queste fonti, la regola aveva trovato applicazione non solo in relazione alla competenza per territorio, ma anche in relazione ai rapporti tra diverse giurisdizioni (militare, ecclesiastica ecc.), esemplificando con riguardo al cambiamento di stato del miles o del clericus, i quali sarebbero rimasti sottoposti al giudice della causa iniziata prima del cambiamento medesimo, «quantunque ormai privo di giurisdizione riguardo a nuovi giudizi rispetto alla medesima parte»[33]; avvertì che la dottrina della perpetuatio iurisdictionis si era formata «ovunque ebbe vigore il diritto romano»[34], trovando accoglimento sia presso i giuristi francesi (non ostante il code de procedure civil non la prevedesse) sia presso quelli tedeschi (per il tramite dei quali «passò addirittura in espresse formulazioni di legge») sia, infine, presso quelli italiani (citando il Pisanelli e il Mattirolo)[35]; e concluse che non aveva «ragion d’essere il dubbio espresso dalla sentenza annotata» sulla possibilità di assegnare alla massima derivante dalle fonti romanistiche «un valore qualsiasi nel diritto processuale moderno»; né appariva men che «eccessiva la qualificazione di “frivolo” attribuita dalla sentenza stessa all’argomento che la Corte di Ancona aveva tratto da quella massima per risolvere la questione di competenza», essendo al contrario «certissimo che nel diritto processuale moderno la litispendenza produce normalmente fra gli altri effetti quello di perpetuare per tutta la durata del giudizio la competenza posseduta dal giudice nel momento in cui la litispendenza si verifica»[36].
6. Nel saggio, lo studioso di Premosello proseguì l’analisi, spingendosi sino ad indagare i confini del principio della perpetuatio iurisdictionis e ad affermarne l’applicabilità non solo in presenza di mutamenti dello stato di fatto ma anche di fronte allo ius superveniens portato dalle «leggi modificatrici della competenza»[37].
Noi, però, ai nostri fini, possiamo fermarci qui.
Le notazioni svolte sono, infatti, sufficienti a farci comprendere come quel saggio chiovendiano sulla perpetuatio iurisdictionis non fu soltanto l’epilogo di una delle polemiche tra i due eminenti giuristi (un momento dell’annosa tenzone tra due “oligarchi”), ma fu la lectio magistralis del nuovo maestro comune di tutti i cultori del diritto processuale; una lezione indirizzata bensì al suo vecchio rivale, ma volta più in generale a propugnare una renovatio del metodo nell’analisi dei problemi e degli istituti, capace non solo di indicare nuove vie alla giurisprudenza, ma anche di comporre le antinomie e di colmare le lacune della legge positiva, in nome della coerenza concettuale e logica dell’ordinamento processuale.
8. Vediamo ora di trovare un epilogo alla nostra storia.
Per quanto concerne i due “oligarchi” e la loro annosa tenzone, non sappiamo a chi assegnare la palma della vittoria in relazione alla specifica vicenda che aveva coinvolto la principessa romana e la perpetuatio iurisdictionis.
Non vorremmo sembrare troppo “buonisti” nel dire che nessuno dei due né uscì sconfitto; anzi, nell’affermare orgogliosamente che entrambi ne uscirono vittoriosi.
Il primo, perché alla massima di Marcello antepose le istanze di tutela della persona umana, anticipando di quasi un trentennio la ventura Costituzione repubblicana ed assumendosi tanto consapevolmente il ruolo di precursore della democrazia e dell’uguaglianza da volerlo ostentare anche nella terminologia utilizzata in sentenza per indicare le parti: sia l’attrice in interdizione sia la convenuta interdicenda, infatti, nella sentenza del 1921 dell’egualitario presidente Mortara, avevano miracolosamente perduto i rispettivi titoli di “contessa” e “principessa”, utilizzati nelle precedenti pronunce e negli scritti difensivi, per assumere quelli più democratici di “signora” e “signorina”.
Il secondo “oligarca”, perché, rivestendo di nuova autorità e di nuovi significati una regola ereditata dalle fonti romane al di là delle implicazioni della sua applicazione nel caso concreto, avrebbe consentito alla scienza e alla legislazione di progredire nel cammino della costruzione di un sistema processuale più coerente, efficiente, giusto ed equo: il principio della perpetuatio iurisdictionis sarebbe stato infatti recepito dal codice del 1940, ma – è il caso di sottolinearlo – in un’accezione ancora incompleta rispetto a quella elaborata dal lungimirante maestro Chiovenda, per assimilare la quale al legislatore sarebbe occorso ancora mezzo secolo, sino alla legge n. 353 del 1990[38].
Quanto alla nobildonna romana, essa continuò per la sua la sua strada senza che a nessun giudice venisse più in mente di dichiararla inferma di mente.
Ormai cittadina francese, non incontrò più, durante il cammino, i due “oligarchi”, che precorrevano, in modo diverso, ma entrambi con identica grandezza, i tempi che stavano vivendo.
Molti anni dopo l’incresciosa vicenda che ne aveva messo a rischio la sua libertà di autodeterminazione, la principessa Beatrice Fiorenza Cenci Bolognetti sarebbe passata alla storia come filantropa e benemerita della ricerca scientifica, poiché, nel sacrosanto esercizio del diritto di disporre dei propri beni in piena libertà e consapevolezza, avrebbe destinato con testamento olografo l’ingente patrimonio immobiliare posseduto in Italia all’Università di Roma, con lo scopo di dar vita ad un istituto specializzato nella ricerca biomedica, in armonia con le finalità perseguite dal parigino Istituto Pasteur. Tra questi beni vi era il romano Palazzo Petroni Cenci Bolognetti in piazza del Gesù, già di proprietà dell’arcavola Maria Isabella Petroni, che sarebbe diventato sede della Fondazione (l’Istituto avrebbe visto la luce nel 1972) ma anche, curiosamente, sede di uno dei più importanti partiti politici della prima storia repubblicana del nostro Paese.
Quando redasse, datò e sottoscrisse il testamento olografo (arg. ex art. 602 c.c.), Beatrice Fiorenza aveva 63 anni e correva l’anno 1940, lo stesso anno in cui avrebbe visto la luce il nuovo codice di procedura civile.
Chissà se fu sfiorata dal pensiero che la sua capacità di testare era stata messa in forse da una massima pronunciata quasi 1.800 anni prima da un giurista romano che era stato consigliere di Antonino Pio e di Marco Aurelio; che questa massima aveva acquisito nuova autorità per l’ingegno di un “oligarca” che pure le aveva voluto mantenere il privilegio di trattarla come una principessa; e che, alla fine, la sua libertà le era stata conservata da un altro “oligarca” che invece l’aveva trattata come una semplice “signorina”.
[1] F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 8-9. L’utilizzo dell’evocativo termine, su cui cade l’accento del titolo dell’ormai classico studio del maestro barese sulla storia della scienza processuale, è stato ripreso dal saggio di L. Canfora, Storie di oligarchi, Palermo, 1983, dedicato agli “oligarchi” ateniesi, con particolare riguardo ai rapporti tra Tucidide e Senofonte.
[2] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, in Riv. dir. proc., 1956, I, 261.
[3] Questa terminologia, per distinguere le due grandi scuole della nostra scienza processuale, è ricorrente in letteratura ed è stata ancora di recente efficacemente utilizzata da B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica (un carteggio inedito dell’autunno del 1923), in Riv. dir. proc., 2018, 611 s., part. 616.
[4] B. Cavallone, «Preferisco il cattivo processo attuale» (Chiovenda, Mortara e il «progetto Orlando»), in Riv. dir. proc., 1988, 1048 s., part. 1059, nota 25.
[5] G. Chiovenda, Sulla provvisoria esecuzione delle sentenze e sulle inibitorie, ora in Saggi di diritto processuale civile (1894-1937), a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, 310; L. Mortara, Qualche osservazione intorno ai poteri del giudice di appello in tema di esecuzione provvisoria, in Giur. it., 1903, I, 2, 469 s.
[6] L. Mortara, Lettera, in Studi di diritto processuale in onore di Giuseppe Chiovenda nel venticinquesimo anno del suo insegnamento, Padova, 1927, XIII.
[7] Fr. 30 Dig. de iudiciis, 5, 1.
[8] In una prospettiva più generale la storia tra i due processualisti e la principessa propone all’osservatore del ventunesimo secolo – che non può che restarne mirabilmente meravigliato – da un lato, la visione moderna, pienamente costituzionale, che Mortara aveva dell’ordinamento, al cui centro, con largo anticipo sulle moderne carte dei diritti, era collocata la persona umana e l’esigenza di piena e incondizionata tutela dei suoi diritti fondamentali; dall’altro lato, la irripetibile capacità di Chiovenda di procedere, attraverso l’uso del metodo storico-dogmatico, all’inquadramento di ogni questione in un sistema perfetto di concetti e di categorie non corruttibili dall’evoluzione e dalla trasformazione degli istituti e delle norme di diritto positivo.
[9] S. Satta, Attualità di Lodovico Mortara, Commemorazione tenuta nella sala del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma il 16 dicembre 1967, ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 388 s., part. 390-391.
[10] Così, con la puntuale incisività della sua ineguagliabile prosa, P. Calamandrei, Lodovico Mortara, in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156 s., secondo cui, nella concezione mortariana, il processo non è ‹‹lo strumento per far vincere le cause ai litiganti, ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato di diritto che è la giustizia››.
[11] È nota la disputa circa la natura volontaria o contenziosa del giudizio di interdizione. Questa disputa, che si è rinverdita dopo il codice del 1940 e che è stata verosimilmente alimentata anche dalla lacunosa disciplina del relativo procedimento, aveva peraltro meno ragioni di esistere nel vigore del codice del 1865, che configurava un procedimento schiettamente contenzioso sia sul piano funzionale che sul piano strutturale. Sotto il primo profilo, il carattere contenzioso era desumibile dall’interesse tutelato dal procedimento, il quale, in un ordinamento liberale non coincideva con l’interesse alla protezione dell’incapace ma si identificava con l’interesse della collettività alla sicurezza dei traffici economici, sicché la sentenza di interdizione non era emessa a tutela dell’infermo di mente quanto, piuttosto, contro di lui, e non aveva finalità protettiva ma finalità espulsiva, rappresentando la reazione dell’ordinamento volta ad emarginare dalla comunità degli homines oeconomici colui che, in ragione della sua infermità di mente, si era messo obiettivamente contro il diritto. Sotto il profilo strutturale, il procedimento, attesa la sua finalità, si configurava alla stregua di un normale giudizio di cognizione, nell’ambito del quale l’interdicendo era chiamato a resistere alla domanda di un provvedimento obiettivamente contrario al suo interesse a conservare lo status di homo oeconomicus; egli, dunque, assumeva formalmente la posizione di convenuto, era chiamato a rendere l’interrogatorio, ed acquisiva la legittimazione ad impugnare, in quanto parte soccombente, la sentenza che lo avesse privato della sua capacità (art. 841 c.p.c. 1865).
[12] Cass. Roma 9 giugno 1919, n.329, Pres. Mortara, est. Biscaro, in Giur. it., 1919, I, 1, c. 738 s.
[13] Cass. Roma 9 giugno 1919, n. 329, cit., c. 739-740.
[14] G. Chiovenda, Parere per la verità nella causa d’avanti la R. Corte d’appello di Ancona tra Cenci Bolognetti Giulia Ved. Vincenti Mareri e Cenci Bolognetti Beatrice Fiorenza (Perpetuatio iurisdictionis), in G. Chiovenda, Memorie difensive, a cura di F. Cipriani, Bologna, 2005, 691 s.
[15] Cass. Roma, Sez. un., 7 marzo 1921, n. 210, Pres. ed est. Mortara, in Giur. it., 1921, I, 1, c. 266 s., e in Foro it., 1923, I, c. 362 s.
[16] Cass. Roma, Sez. un., 7 marzo 1921, n. 210, cit., c. 268.
[17] Cass. Roma, Sez. un., 7 marzo 1921, n. 210, ult. cit.
[18] Cass. Roma, Sez. un., 7 marzo 1921, n. 210, cit., c. 267.
[19] così Cass. Roma, 9 giugno 1919, n. 329, cit., c. 740.
[20] così L. Mortara, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, V, Milano, 1926, 704.
[21] Se si volesse cercare una data del passaggio del primato da Mortara a Chiovenda nella scienza processuale, la si dovrebbe verosimilmente individuare proprio nella parte finale della primavera del 1923, che aveva visto, da un lato, l’ingiuriosa epurazione di Mortara dalla magistratura ad opera dell’incipiente regime fascista (R.D. 3 maggio 1923, n.1028) e, dall’altro, la pubblicazione della terza edizione dei Principii di Chiovenda (15 giugno 1923), nella cui Prefazione l’autore aveva annunciato ai posteri la grandezza del suo ‹‹sistema fecondo›› (G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, terza ed., Napoli, 1923 VIII e IX).
[22] Così, con riferimento almeno alla «lettera della legge», G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, cit., 959.
[23] G. Chiovenda, in Foro it., 1923, I, cc. 362-383.
[24] Cass. Roma, Sez. un., 7 marzo 1921, n. 210, in Foro it., 1923, I, c. 362.
[25] G. Chiovenda, Sulla “perpetuatio iurisdictionis”, in Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), Roma, 1930 I, 271-310.
[26] G. Chiovenda, in Foro it., 1923, I, c. 362.
[27] G. Chiovenda, cit., c. 363.
[28] G. Chiovenda, ult. cit.
[29] G. Chiovenda, ult. cit.
[30] G. Chiovenda, cit., c. 368-369.
[31] G. Chiovenda, cit., c. 370.
[32] G. Chiovenda, ult. cit.
[33] G. Chiovenda, ult. cit.
[34] G. Chiovenda, cit., c. 372
[35] G. Chiovenda, cit., c. 374.
[36] G. Chiovenda, cit., c. 375.
[37] G. Chiovenda, cit., c. 377-379.
[38] Il codice del 1940 avrebbe tradotto in noma positiva il principio della perpetuatio iurisdictionis, sancendo peraltro, l’irrilevanza, rispetto alla giurisdizione e alla competenza, dei soli mutamenti dello stato di fatto. Solo il legislatore del 1990, recependo finalmente in pieno la lezione chiovendiana, avrebbe aggiunto anche l’irrilevanza dei sopravvenuti mutamenti dello stato di diritto, e cioè dei cambiamenti della legge in vigore al momento della domanda giudiziale (cfr. l’art.5 c.p.c., come modificato dalla l. 26 novembre 1990, n. 353).