1 - Premessa: medicina difensiva e indagini difensive
“A pensar male del prossimo si fa peccato ma si indovina”: la celebre espressione – riferibile a Papa Pio XI e non, in realtà, a un noto politico italiano, che si è limitato a farne uso – è verosimilmente calzante per la delicata problematica che dobbiamo (è il caso di dirlo) affrontare.
Con la sentenza n. 7760 del 8 aprile 2020, la terza sezione civile della S.C. ha cassato la sentenza d'appello di rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta, nei confronti dell’autorità giudiziaria requirente, dai figli minori per l'uccisione della propria madre da parte del padre, avvenuta dopo la presentazione di reiterate denunce di minacce rivolte verso la vittima. Una vicenda tristemente nota, i cui particolari sono stati ampiamente trattati dalla cronaca, non solo strettamente giudiziaria.
In particolare, per la S.C., essendo il giudice di merito tenuto, nell’accertare il nesso causale fra la lamentata condotta omissiva (ravvisata nell'omessa perquisizione domiciliare e sequestro dell’arma da taglio con la quale l’omicida aveva già reiteratamente minacciato la moglie) ed il fatto lesivo, a compiere il cd. giudizio controfattuale in base al criterio del “più probabile che non”, non può escluderne l’incidenza sulla verificazione dell’evento solo perché questo si sarebbe comunque realizzato in altro modo. In tal modo ometterebbe di determinare, alla luce degli elementi di conferma disponibili nel caso concreto, la probabilità, positiva o negativa, che da detta condotta, ove posta in essere, possa derivare un risultato idoneo ad evitare il rischio specifico di danno.
Alla luce di quelle che potrebbero essere le implicazioni giuridiche e sociologiche della decisione, non è inverosimile pensare a un moto di generale “soddisfazione”, che parrebbe porre dei seri limiti alla discrezionalità valutativa e operativa dell’ufficio di procura. A fronte di condotte gravemente colpose sul piano omissivo, sarebbe ipotizzabile un’azione per danno aquiliano nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri, con riferimento alle responsabilità dei magistrati addetti alla Procura della Repubblica.
Una decisione che indubbiamente suggerisce nuove prospettive di responsabilità, anche se non priva di precedenti,[1] ma che indubbiamente pone degli interrogativi di grande momento sullo svolgimento dell’attività requirente, aprendo a uno scenario di potenziali indagini “difensive” sulla falsariga di quanto- a torto o a ragione-si è ritenuto essere accaduto in campo sanitario.
Discreto e inequivoco si percepisce un monito nei confronti dei p.m.: avete indirettamente imposto ai sanitari, per anni, con le vostre scelte, la “medicina difensiva”; ora iniziate a considerare le investigazioni difensive. Una reazione forse psicologicamente comprensibile (anche se non condivisibile) ma che tiene conto di un dato, al contrario, non trascurabile. Esattamente come la medicina difensiva- alla quale, in effetti, il legislatore ha tentato di ovviare con gli ultimi interventi normativi in materia [2]– un approccio “difensivo” alle investigazioni può rappresentare una criticità di sistema inaccettabile. Inaccettabile in quanto ancora peggiore, sul piano delle conseguenze, della stessa medicina difensiva.
E’ da questo aspetto che occorre partire: la medicina difensiva rappresenta un costo- economico diretto e di impegno organizzativo- laddove una quota di accertamenti diagnostici sono giustificati più dall’esigenza di “precostituirsi” la prova di un diligente impegno da parte dei sanitari che dall’effettivo quadro clinico del paziente. Un costo “patrimoniale”, in buona sostanza, ma che in linea di massima non nuoce al fruitore finale del servizio. Inutile, ma non dannoso, se non laddove tale da ritardare l’esecuzione di accertamenti urgenti e necessari per altri soggetti.
Per le indagini difensive – che il p.m. potrebbe decidere di disporre per non incorrere in possibili censure da parte della persona offesa o dei congiunti di questa – la prospettiva è peggiore. Ogni accertamento – più o meno invasivo- viene a incidere sui diritti degli indagati, comprimendoli a vario titolo e in differente misura. [3]
A fronte del paziente “trattato” senza ragione non troviamo nessuno; a fronte della persona offesa di un ipotetico reato troviamo un indagato eventualmente (non solo) perquisito senza necessità ma eventualmente sottoposto a misura cautelare o rinviato a giudizio. A ciò si aggiunga, anche in questo campo, una pressante necessità di gestione delle risorse non solo dell’ufficio di Procura, ma della capacità di reazione“ della polizia giudiziaria e delle strutture del sistema giudicante chiamate a dare una risposta alle sollecitazioni della Procura stessa.
In sintesi, un bilanciamento di interessi di ancora più difficile lettura, sia rispetto al sistema in generale, sia, soprattutto, rispetto ai singoli; un bilanciamento che deve trovare – in termini generali e astratti – dei criteri di valutazione e un metodo di applicazione il più possibile condiviso, per ragioni di equità e di efficienza.
2 - Scelte del p.m. e presupposti di responsabilità
In questa sede non si intendono analizzare nel dettaglio le implicazioni strettamente civilistiche della questione affrontata dalla S.C. con la decisione 7760/2020. Molto si è scritto e molto si scriverà- è facile ipotizzarlo - sul punto, quanto solo gettare le basi per il tema che, al contrario, si intende approfondire.
Quali indicazioni un ufficio di Procura deve fornire per contemperare un corretto impegno investigativo con le esigenze di tutela delle persone offese? Il quesito, che indubbiamente è delicato e rilevante, presenta un coefficiente di complessità superiore alle apparenze.
E’ facile pensare – considerata la recente l. 69/2019, cd codice rosso - [4] al tema delle violenza familiari o comunque interpersonali, trattandosi dell’ambito nel quale si è verificato il caso che ha determinato la menzionata decisione della S.C. e comunque di un settore nel quale di immediata percepibilità risulta la rilevanza di un intervento (e, ancor di più, di un mancato intervento) della Procura della Repubblica a fronte di gravi aggressioni (o potenziali aggressioni) all’incolumità dei singoli.
In questo senso la corte Edu ha condannato l’Italia per aver violato il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani e degradanti e il divieto di discriminazione (art. 2, 3 e 14 della Cedu) stigmatizzando negativamente il fatto che le autorità nazionali non siano in grado di riconoscere la situazione di pericolo reale e imminente cui sono esposte le vittime di violenza domestica e, pur potendo disporre di uno strumentario normativo volto a contrastare tale fenomenologia criminosa, non intervengano tempestivamente con misure adeguate ed efficaci, originando in tal modo un contesto di impunità e consentendo di fatto la reiterazione di gravi atti di violenza.[5]
Eppure, non occorre troppa fantasia per ipotizzare che, in un futuro magari neppure lontano, ipotetiche “omissioni” della Procura della Repubblica a fronte di richieste di tutela beni costituzionalmente riconosciuti - anche di altra natura- potrebbero essere oggetto di richieste risarcitorio sotto il profilo del danno aquiliano. Una possibilità molto concreta: si pensi a richieste di sequestri preventivi di somme indebitamente trasferite a vario titolo su conti correnti o a istanze di “chiusura” di impianti industriali ritenuti non a norma sul piano delle emissioni, rispetto alle conseguenze che la “scomparsa” della somma dal conto o l’insorgenza di malattie derivanti asseritamente dalle emissioni possono essere ipotizzate.
Attenzione: non vi è una differenza “ontologica” tra i presupposti di responsabilità della vicenda affrontata dalla S.C. e le situazioni sopra descritte; non solo: moltissime altre potrebbero verificarsi. E’ fondamentale, pertanto, che vi sia chiarezza di approccio al problema, tutt’altro che confinato all’ambito delle cd. violenze domestiche.
3-Le indicazioni della S.C. e l’inquadramento civilistico del problema
Le potenzialità di tutela degli interessi tutelati dal sistema si pone in una duplice prospettiva: gli atti “urgenti” – o quantomeno non dilazionabili- nella fase delle indagini e le scelte sull’esercizio dell’azione penale. Valutazioni non necessariamente sovrapponibili, differentemente delicate, che si pongono come momento di equilibrio tra istanze di giustizia diametralmente opposte e ragionevolmente non conciliabili.
Partiamo dal secondo aspetto. Le indicazione della S.C. parrebbero “tranquillizzanti”- o almeno non troppo inquietanti- rispetto all’esercizio dell’azione penale. La S.C. ha affermato che la richiesta di rinvio a giudizio da parte del magistrato del p.m. postula l'apprezzamento prognostico circa l'idoneità degli elementi probatori a sostenere l'accusa in dibattimento, sicché essa, anche se reiterata per vizi formali e seguita infine dall'assoluzione, integra attività di valutazione del fatto e della prova, per la quale non è ammessa l'azione di risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie; ciò, fatta salva l’ipotesi nella quale l'attore dimostri essersi basata la richiesta medesima su fatti pacificamente insussistenti o avulsi dal contesto probatorio.[6]
Non siamo così certi che tale prospettiva ermeneutica possa essere applicabile in caso di omesso esercizio dell’azione penale. Una valutazione non semplice sul piano dell’incidenza causale- atteso che non si tratta di effettuare un giudizio controfattuale su base naturalistica (giudizio che potrebbe essere analogamente formulato in relazione ad una richiesta di misura cautelare) quanto su base sostanzialmente psicologica.
Il semplice esercizio dell’azione penale e una sentenza di condanna- non necessariamente definitiva, quanto anche di merito- può essere considerato un fattore tale da determinare una “controspinta” rispetto agli intenti criminosi, valutabile in una prospettiva eziologica? Possiamo ritenere condivisibile questa affermazione: “laddove rinviato a giudizio e laddove condannato (e prima della carcerazione, ovvio) quel soggetto si sarebbe certamente astenuto da ulteriori condotte criminose in danno della persona offesa?”
Per essere chiari: anche laddove la “vittima” di un ipotetico delitto di maltrattamento non abbia richiesto una perquisizione per sottrarre un’arma all’indagato o non abbia chiesto l’applicazione di una misura detentiva o di un divieto di avvicinamento, il mancato (ipoteticamente erroneo) esercizio dell’azione penale potrebbe essere posto in relazione con eventuali ulteriori condotte criminose dell’indagato dirette a nuocere alla persona offesa?
Il provvedimento di archiviazione, in quest’ottica, “copre” sul piano della legittimità in termini di responsabilità aquiliana l’operato del p.m. ? Difficile pensare che questa possa essere una tesi generalmente condivisa; più semplice e realistico forse considerare la possibilità che di tale scelta possa essere chiamato a rispondere (almeno in linea teorica) anche il G.i.p. che ha firmato l’archiviazione.
Apparentemente più semplice- o almeno meno ardua – le valutazioni su situazioni analoghe a quelle affrontare nella vicenda decisa dalla S.C.
L’indicazione è stata precisa: non è sufficiente una valutazione astratta, che porti a considerare la possibilità che l’evento che si sarebbe voluto evitare si sarebbe comunque verificato; si tratterebbe di una scelta, secondo la S.C., tale da dilatare “l’incidenza dell’inadempienza dell’organo giudiziario ai limiti del caso fortuito e della forza maggiore”, comunque restringendo “l’evitabilità dell’evento ai soli casi di assoluta impossibilità di una condotta positiva alternativa”. E’ necessario affrontare – trattandosi di responsabilità civile- la probabilità positiva o negativa in concreto e non statistica, secondo il giudizio di c.d. probabilità logica. [7]
La trasposizione di tale principio nella logica generale dell’indagine penale non è priva di criticità. Anche in questo senso le possibilità sono innumerevoli, alcune di semplice soluzione. Il sequestro di un’arma da fuoco utilizzata da parte di un soggetto fisicamente “debole” rispetto alla vittima (ossia un soggetto difficilmente in grado di portare a termine un’aggressione con la solo forza fisica) può indubbiamente “resistere” sul piano controfattuale: senza quella pistola, l’omicidio non si sarebbe verificato.
Pensiamo, nondimeno, alla tutela di altri beni, tali da determinare soluzioni meno “lampanti”. Consideriamo l’interesse di un soggetto al bene “tranquillità”, che può essere drammaticamente leso da un uso smodato del telefono o da reiterate comunicazioni telematiche, nell’ambito di una condotta di atti persecutori. Il p.m. riceve un’istanza di sequestro del telefono cellulare e dei device nella disponibilità dell’indagato. Non provvede o provvede parzialmente o in ritardo. Potremo ritenere la sussistenza di una lesione del bene in oggetto anche considerando con quanta facilità e a quali modesti costi potrebbe essere possibile per l’indagato procurarsi altri mezzi di comunicazione ?
O dobbiamo pensare che possa sussistere una potenziale responsabilità del p.m. ogni qual volta l’istanza abbia a oggetto un bene/strumento di per sé funzionale alla realizzazione della condotta “offensiva”? Una minaccia di morte del tipo “ Ti metto sotto” potrebbe imporre un sequestro dei veicoli a disposizione dell’indagato, laddove una minaccia generica difficilmente potrebbe imporre una “ricognizione “ e apprensione dii tutti gli strumenti atti a offendere riferibili a questi (salve, ovviamente, la disponibilità di armi da fuoco).
Esiste un criterio oggettivo per individuare con valutazione ex ante (troppo facile ex post) un’inerzia/omissione da parte dell’organo requirente tale da integrare gli estremi della grave violazione di legge caratterizzata da negligenza inescusabile?
Non dimentichiamo- circostanza non trascurabile - il giudice civile è chiamato a effettuare una valutazione prognostica con oggetto gli atti di un procedimento penale, per accertare se la discrezionalità della quale il p.m. certamente gode in relazione alle determinazioni da adottare in sede di indagini preliminari sia tracimata in un’inerzia espressiva di negligenza o si sia fondata su una superficiale o incompleta comprensione degli elementi in fatto.
In realtà, come risulta dalle indicazioni della S.C. i profili sottesi alla valutazione di responsabilità sono due, non sovrapponibili. Da un lato la valutazione sulla sussistenza di negligenza; in seguito, ove riscontrata la negligenza , l’incidenza causale della stessa, in base alla formula del “più probabile che non”. In questo senso, l’individuazione della regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento, deve ritenersi censurabile in sede di legittimità ai sensi del citato art. 360, 1º comma, n. 3), c.p.c., sotto il profilo della violazione delle regole di diritto sostanziale recate dagli art. 40 e 41 cp e 1127, 1º comma, cc, laddove l’errore consistente nell'individuazione delle conseguenze che sono derivate dall'illecito, costituisce una valutazione di fatto, sottratta al vaglio di legittimità se adeguatamente motivata.
In realtà la decisione della S.C. non pare preludere inevitabilmente a una affermazione di responsabilità, suggerendo piuttosto la necessità di un’accurata ponderazione delle possibili spiegazioni del ciclo causale che ha condotto alla lesione in concreto verificatasi. In estrema sintesi, la S.C. ha imposto una contestualizzazione globale del giudizio controfattuale; un giudizio che se posto in termini puramente astratti appare scarsamente selettivo e se condizionato dagli esiti della vicenda acriticamente prodromico al riconoscimento di responsabilità.
La verifica della rilevanza causale di una condotta omissiva consiste nell'accertamento della probabilità positiva o negativa del conseguimento del risultato idoneo a evitare il rischio specifico di danno, riconosciuta alla condotta omessa. Nondimeno, la valutazione deve essere rapportata al caso di specie, tenendo conto di tutti gli elementi accertati in atti o che avrebbero potuto essere accertati in funzione di tale valutazione.
Dal fatto che un coltello sia in astratto (quasi) sempre “rimpiazzabile” non può di per sé discendere automaticamente il disconoscimento della rilevanza causale dell’aver omesso di sequestrare uno specifico oggetto; occorre considerare se e come l’autore della condotta si sarebbe potuto trovare in concreto nella condizione di procedere a quella medesima azione in termini e condizioni analoghe, considerati tutti gli specifici fattori del caso.
Se è possibile, senza voler formulare una critica alla prospettazione della S.C. - proporre una lettura integrativa della stessa, si potrebbe ritenere che l’attenzione non dovrebbe essere centrata – come pure molti interpreti hanno ritenuto – sulla valutazione dell’incidenza causale della condotta, quanto (anche, quantomeno) su un altro presupposto della responsabilità aquiliana.
Ci si dimentica (o si trascura) che stiamo parlando di colpa e che la colpa deve essere “rapportata” a parametri. Parametri normati, in molti casi; espressi da fonti subordinate anche “atipiche”- pensiamo ad es. ai protocolli medici - oppure comunque sintesi condivise dello “stato dell’arte”.
La buone prassi investigative esistono, quantomeno tra gli addetti ai lavori non caratterizzati da un approccio ipocrita al problema. E sono buone prassi che devono essere rapportate- meglio contestualizzate- alla caratteristiche professionali del p.m. (o vogliamo pensare che 3 o 20 anni di procura determinino la medesima “aspettativa” in termini di risultato?) ai mezzi (organizzativi e di disponibilità di polizia giudiziaria) a disposizione dell’organo requirente, alle specifiche condizioni di lavoro, generali e contingenti. E alla luce delle peculiarità che – spesso- presenta l’attività dell’ufficio requirente, considerando gli altri procedimenti (specie quelli urgenti) che un P.M. deve trattare e che inevitabilmente sottraggono energie e attenzione: elementi che indubbiamente incidono (come può accadere ad es., per gli operatori sanitari) sulla qualità e sui tempi del “prodotto” finale. Esattamente come dovrebbe accadere per ogni altra ipotesi di colpa.
Inoltre, anche se indubbiamente ci troviamo di fronte a un potenziale caso di danno aquiliano, una trasposizione diretta e integrale di principi maturati in tema di responsabilità extracontrattuale in altri settori potrebbe essere non del tutto condivisibile, dovendo il sistema deve tenere conto del ruolo, dei poteri e degli obblighi del potenziale “danneggiante” nel momento in cui pone in essere l’attività cui si ricollegano i pregiudizi.
Una valutazione della condotta dovrebbe essere inserita in una globale “comparazione “ di interessi, ossia nell’ambito di un bilanciamento che consideri il del doveroso rispetto, da parte dell’organo inquirente, dei diritti e delle facoltà dei soggetti sottoposti a indagini, la cui “compressione” deve essere il frutto - a sua volta – di un’analisi del quadro probatorio, della fondatezza statica e dinamica dello stesso e delle esigenza di cautela rispetto agli interessi specifici della persona offesa., parametrati sulle buone prassi investigative menzionate.
Valutazione che evidentemente deve essere effettuata sulla base di una prospettazione ex ante di tutti gli elementi che, in chiave investigativa e in prospettiva prognostica, il p.m. avrebbe potuto e dovuto considerare; fuorviante ed errato sarebbe un approccio condizionato dallo sviluppo concreto dei presupposti, con valutazione ex post, che può essere suggerita da una esigenza remunerativa nei confronti delle vittime del reato ma che finirebbe per condizionare le scelte dell’organo requirente. Come è stato correttamente osservato “anche a fronte di un’inerzia rilevante, non ci si può accontentare di stabilire che siffatto contegno abbia in qualche modo incrementato il rischio di esporre a un vulnus determinati interessi individuali; l’omissione, piuttosto, deve assurgere a fattore che abbia inciso in maniera rilevante, in termini probabilistici, nella verificazione del pregiudizio manifestatosi”.[8]
Il delicato equilibrio di interessi che emerge dalla problematica trattata può in effetti trovare una chiave di lettura proprio solo svincolando la doverosa presenza solidaristica dello Stato a fronte di soggetti vittime di reato violenti e socialmente particolarmente odiosi dalla valutazione in termini stringenti di responsabilità aquiliano l’operato del p.m.
Una possibilità che non può che derivare da confronto del quadro globale storico a disposizione dell’organo requirente con le “buone prassi” investigative; solo alla luce di tale comparazione la valutazione controfattuale potrebbe porsi come corretta chiave di lettura del rapporto eziologico, conciliando le esigenze di tutela con una dinamica investigativa sintonica al dettato costituzionale così come alle effettive condizioni di lavoro- soggettive e oggettive- del potenziale autore del “danno”.
[1] La valutazione sulla responsabilità del p.m. per omissione di provvedimenti diretti a impedire, a fronte di pregresse minacce, un omicidio era stata affrontata da Cass. 26 maggio 2015, n. 13189, in Resp. civ. e prev., 2015, 1879, con nota di C. Commandatore, La responsabilità civile dello stato per omissione del pubblico ministero - I pericoli di una giurisprudenza difensiva.
[2] Si tratta, come è noto, della L. 189/2012, n. 189 ( cd legge Balduzzi) e della L. 24/2017 (cd. legge Gelli-Bianco),
[3] Su questi temi G. CASCINI-P. IELO, La decisione del Tribunale di Messina sulla responsabilità civile del pubblico ministero per omessa perquisizione. Un punto di vista di parte, in questa Rivista on-line, 5 luglio 2017, www.questionegiustizia.it, 5-7-2017
A. PALMIERI, La responsabilità del pubblico ministero per omessa perquisizione, in www.questionegiustizia.it
[4] In GU 25.07.2019: modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere.
[5] Corte Edu 2 marzo 2017, in Famiglia e dir., 2017, 621, con nota di N. FOLLA, Violenza domestica e di genere; nel caso di specie, si trattava di un tentato omicidio della ricorrente e nell'omicidio di suo figlio per mano del marito
[6] Cass. 26 febbraio 2015, n. 3916, in Foro it., 2015, I, 1207
[7] In questo senso la non corretta applicazione delle norme riguardanti l’accertamento del nesso eziologico configura violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3) c.p.c.5, tale da determinare l’annullamento delle decisione in oggetto con rinvio della causa ad altra Corte d’Appello.
[8] Cosi A. PALMIERI, “Responsabilità dello Stato per omissioni nell’attività di indagine da parte del pubblico ministero: il ruolo chiave dell’indagine sul nesso causale”, in Questione Giustizia, 15.5.2019