Sommario: 1. Premessa: i riti speciali, trenta anni dopo. 2. Il patteggiamento: le scelte del P.M. 3- Il modello inquisitorio “dolce”: il rito abbreviato.
1. Premessa: i riti speciali, trenta anni dopo.
I riti speciali restano l'essenza e allo stesso tempo un paradosso rispetto alla filosofia che ha improntato il codice vigente: corpi estranei da un lato e pure verosimilmente indispensabili per tentare di fornire una risposta globale ed efficace alle domande di giustizia in sede penale. Molti anni orsono, non a caso, un celebre uomo politico aveva rilasciato sulla legge delega per la riforma del codice di rito nel 1984: “funzionerà se riusciremo a far pervenire al dibattimento soltanto una piccola parte dei processi”1).
E’ un dato di fatto: il sistema processualpenalistico non può permettersi il lusso di definire con rito ordinario, nella pienezza del contraddittorio, tutti i suoi procedimenti. Al contrario, quella che può essere definita la “deflazione normata” è stata implementata, attraverso l’introduzione non solo di un ulteriore rito speciale- la messa alla prova- ma anche con interventi indiretti, di varia natura, quali la depenalizzazione e la particolare tenuità del fatto.
Dati i presupposti, restano valide e attuali le domande che da tempo gli operatori del diritto hanno dovuto porsi. I riti speciali sono davvero ancora imprescindibili? Le modifiche intervenute- specie con la l.n. 103/2017- ne hanno fondamentalmente stravolti i presupposti? O, piuttosto, profondamente mutato è lo scenario socio-giuridico nel quale le norme sostanziali e quelle procedurali che ne costituiscono il naturale scenario sono applicate?
Crediamo, senza esprimere giudizi di valori, che il giudizio sulla rilevanza dei riti speciali non possa e non debba essere modificato, considerando che oggi più che mai la giustizia necessità di efficienza e celerità, proprio anche in conseguenza di un quadro generale che, se mai fosse possibile, si presenta caratterizzato da criticità ancora più diffuse e da ancor più impellenti esigenze di correttivi.
Un sistema nel quale il “mito” del contraddittorio per quasi trent’anni si è scontrato con l'urgenza di porre a disposizione dei cittadini un apparato efficace, equo e sostenibile, ma certamente non perfettamente sintonico con i “fondamenti” di tale mito.
Resta sullo sfondo un ulteriore quesito di carattere generale: chi decide — e come — la misura e il modo nei quali concretamente gli istituti oggetto di analisi s’inseriscono nel sistema, interagendo con il rito ordinario e determinando — rectius contribuendo a determinare — il risultato finale del “prodotto giustizia”?
La risposta non è univoca: non potrebbe esserlo.
Se davvero si vuole individuare, questo “prodotto giustizia”, si deve aver presente che esso non deriva da un'operazione aritmetica, quanto da una complessa equazione. Un'equazione nella quale le variabili devono essere individuate nelle parti processuali, negli interessi dei destinatari delle norme così come nelle singole disposizioni. Nondimeno, variabili devono essere considerate anche quelle organizzative, economiche, tecniche e temporali che non infrequentemente — per quanto conosciute dagli interpreti — non sono considerate in tutta la loro pregnanza, quantomeno con riguardo a due riti “centrali” nel sistema: il patteggiamento e l’abbreviato.
2. Il patteggiamento: le scelte del P.M.
L’applicazione di pena su richiesta era - e resta - un vero caposaldo del sistema. In questo senso altamente verosimile che quando, subito prima dell'entrata in vigore dell'attuale codice di rito, molti commentatori hanno indicato nei procedimenti speciali lo strumento di “sopravvivenza” dell'intero sistema, abbiano pensato a questo istituto.
Un istituto totalmente innovativo rispetto al codice antecedente, pur tuttavia a grandi linee già conosciuto e in parte metabolizzato sul piano culturale, così come molti altri “prodotti” del mercato statunitense. Un prodotto di importazione, dunque, ma con credenziali sufficienti — per caratteristiche e provenienza — a garantire una rapida penetrazione sul mercato nazionale.
Un istituto nuovo, destinato a suscitare il “malcontento” dei puristi del diritto, in quanto ontologicamente destinato a svuotare, per certi aspetti, la stessa essenza del giudizio — da un lato — e le più nobili prerogative della difesa dall'altro.
Un giudizio necessariamente limitato ad aspetti esteriori e formali (sull’esatta qualificazione giuridica del reato, sulla configurazione delle circostanze attenuanti e aggravanti e sulla loro comparazione, ovviamente sul calcolo della pena e sulla congruità della stessa e — altrettanto ovviamente — sulla sussistenza di eventuali cause di non punibilità) formulato senza entrare nel “merito” della decisione, che è affrontata solo in “negativo”, nella prospettiva della sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
Un istituto rispetto al quale frequentemente a malincuore i difensori rinunciano a prospettare una serie di argomentazioni (così che il giudice non potrà che rinunciare alla possibilità di valutare le stesse), in un'ottica di definizione “forfettaria” delle vicende giudiziarie.
Un'ottica che impone un computo sostanzialmente commerciale sugli aspetti del procedimento — nella quale solo argomentazioni indubitabilmente decisive nella prospettiva assolutoria assumono un valore specifico nella valutazione del rapporto costi/benefici sulla scelta della richiesta di patteggiamento — destinato a sfociare nella logica “mercantile” della trattativa sulla pena.
Un procedimento non infrequentemente vissuto come un male “necessario”, il cui vero effettivo vantaggio deve essere verificato in relazione ai tempi e ai modi della definizione del procedimento stesso.
Il fatto che la richiesta debba intervenire comunque prima del dibattimento (o dell'udienza preliminare, ove il titolo di reato la preveda) ovvero addirittura durante la fase delle indagini preliminari, consentendo di evitare qualsiasi forma di assunzione della prova (assunzione necessariamente lunga e costosa) rappresentava — e rappresenta, in un’epoca nella quale la crisi economica/organizzativa dell'apparato pubblico emerge come dato con il quale è impossibile non “ fare i conti” — un incentivo di fortissimo impatto.
Nel quadro descritto, ovviamente delicato risulta il ruolo — non solo in chiave giuridica, quanto anche psicologica — del p.m. La pubblica accusa non decide sulla congruità della pena, ma, statisticamente, sottopone all'organo giudicante una soluzione che — per forza di cose — ha già previamente considerato nella prospettiva di una possibile “avallo” da parte di tale organo.
Differente la prospettiva sul rapporto accusa-difesa. Forse il legislatore aveva immaginato un modello articolato su un'iniziativa (“richiesta” appunto) proveniente dal difensore se non addirittura dall'indagato/imputato. In realtà, non è così; o meglio, spesso non è così.
Se davvero il legislatore ha ipotizzato l'istituto di cui all'art. 444 c.p.p. come uno strumento sinceramente ed efficacemente deflattivo, non vi è ragione per la quale la pubblica accusa non debba proporre alla difesa di percorrere tale strada. È in gioco, molto semplicemente ma altrettanto inequivocamente, l'applicazione in concreto del principio di cui all'art. 97 Cost., sul “buon andamento” dell'attività della pubblica amministrazione, troppo spesso non compiutamente considerato.
Il punto è un altro: quali variabili della già menzionata equazione entrano — e, possiamo aggiungere, entrano legittimamente — nella valutazione sulla congruità della pena da parte del p.m., sia essa proposta da tale organo che oggetto di una richiesta della difesa?
In un approccio ipocrita al problema, sarebbe indispensabile scrivere che tale congruità dovrebbe essere asetticamente valutata ipotizzando la richiesta di pena conseguente a un dibattimento celebrato per quel reato/i e per quell'imputato, ridotta di un terzo.
Non è così; non sempre, quantomeno. Diciamo, benevolmente, che possono esserci altre variabili che influiscono sul computo di congruità.
La “forza” e la “completezza” del quadro probatorio, innanzitutto. Non sempre la soglia di certezza o elevata verosimiglianza sull’affermazione della penale responsabilità che il p.m. dovrebbe doverosamente considerare prima dell'esercizio dell'azione penale si presenta nei medesimi termini. Può essere sufficiente per ipotizzare una condanna certa, ma può essere espressiva di un quadro probatorio più o meno consistente e più o meno completo. E allora, è possibile che il p.m. possa ritenere di prestare il consenso a una pena calibrata in funzione della qualità e complessità del predetto quadro probatorio proprio per eliminare — almeno in alcune situazioni — il “rischio” di un esito incerto del dibattimento. Scelta che, in casi limite, può addirittura essere condizionata, nel caso in cui l'organo giudicante sia stato già individuato, anche considerando l'approccio alla valutazione della prova di quello specifico giudice.
Può capitare, di rado e in ipotesi residuali, ma può capitare. E’ giusto? E sbagliato? Sappiamo che accade e che, pertanto, anche con questa variabile occorra “fare i conti”.
Ancora, spingendosi oltre in quella che per alcuni potrebbe essere la patologia del sistema, si deve osservare che non infrequentemente il possibile dibattimento, dopo l'esercizio dell'azione penale, è destinato o a svolgersi a una significativa distanza temporale rispetto all'esercizio dell'azione penale o — per altri, differenti e plurimi motivi — a durare per un altrettanto lungo periodo. La prescrizione non incombe ancora (se così non fosse, sarebbe difficilmente ipotizzabile una richiesta di applicazione pena) ma potrebbe in seguito pesantemente incombere.
Può incidere tale fattore sull'entità della pena ritenuta congrua? Indubbiamente, non si può escludere che anche tale circostanza possa incidere, a torto o a ragione.
Così come, compiendo un ulteriore passo verso gli inferi del mondo giudiziario, dobbiamo considerare la possibilità che il p.m., considerando l'insieme particolarmente gravoso dei procedimenti — in fase di indagine come dibattimentale — in carico al proprio ufficio, possa inserire la prospettiva di ridurre — con il consenso a un patteggiamento a una pena più “ragionevole” — la prospettiva di impegno derivante da un futuro dibattimento.
Né è possibile aprioristicamente escludere che la stessa valutazione di congruità del giudice possa essere condizionata da un analogo fattore, almeno entro certi termini. Attenzione: anche su quest’aspetto non intendiamo esprimere alcun giudizio di valore: non si tratta di giustificare magistrati che vorrebbero “evitare” una quota di lavoro in termini generali e astratti (e su questo non possiamo concordare, ovviamente) quanto di considerare la situazione di coloro che “percorrono” forme di semplificazione per fornire- o cercare di fornire- una risposta il più possibile esaustiva alla domanda di giustizia che incombe sul loro tavolo.
Può non piacere, può non essere in sintonia con la “spirito” del legislatore ma si tratta di un profilo della realtà giudiziaria che sarebbe grave voler escludere o ignorare.
Un ultimo aspetto sulla valutazione della pena deve, infine, essere accennato, anche se in realtà di tratta di un profilo di carattere generale, addirittura generalissimo. In che misura i singoli uffici giudiziari devono garantire, l'uniformità delle pene applicate su base “consensuale”? È possibile, o opportuno o addirittura doveroso (specie in uffici a struttura ontologicamente gerarchica) uno sforzo di uniformità al riguardo, anche considerando il principio di cui agli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell'eguaglianza e comunque dell'imparzialità?
La risposta, per quanto non semplice, porterebbe a ritenere che, se non obbligatorio, un criterio di massima - almeno per le fattispecie di reato più frequenti, per le quali quindi più stridente potrebbe rivelarsi un consenso a pene significativamente difformi — potrebbe risultare altamente opportuno. Molti uffici si sono “attrezzati” in tal senso, altri lo faranno: ogni sforzo in questo senso non potrà che essere tanto utile quanto apprezzabile.
3- Il modello inquisitorio “dolce”: il rito abbreviato
La l.n. 103/2017- cd riforma Orlando- è intervenuta in termini significativi, sul piano quantitativo come qualitativo- sull’istituto del rito abbreviato; intervento mirati in larga misura a “adeguare” le disposizioni normative a quelle che erano indicazioni condivisibili e stringenti espresse dalla Suprema Corte. Un istituto che, pertanto, non esce “stravolto” dal lifting rappresentato dalla legge menzionata, quanto correttamente ricalibrato sugli spunti giurisprudenziali. Una riforma che, pur riconoscendo alcune nuove possibilità operative per il p.m., non ne ha modificato sostanzialmente il ruolo. In questo senso, rispetto alla versione originaria dell'art. 438 c.p. con la l. n. 479/1999, come è noto, è venuta meno la possibilità del p.m. di condizionare con il proprio consenso la possibilità di accedere a tale rito. Una scelta che, pertanto, parrebbe del tutto rimessa alla difesa.
È così indubbiamente, almeno sul piano formale; meno, su quello sostanziale. Al riguardo, è indispensabile chiedersi in quali casi e per quali ragioni la difesa opti — o suggerisca di optare — per il rito abbreviato, al fine di verificare quando l'attività specificamente svolta dal p.m. possa riflettersi sulle scelte difensive.
Indubbiamente la richiesta di giudizio abbreviato può essere la scelta più opportuna ogni qual volta sia prevedibile un'affermazione di penale responsabilità in termini di certezza o elevata verosimiglianza, in particolare quando la pena edittale risulti elevata e quindi maggiore possa essere l'incentivo a fruire della riduzione di un terzo della pena che potrà essere applicata. Una riduzione oggettivamente prevedibile, che, per reati di particolare gravità, può rivelarsi particolarmente vantaggiosa, consentendo tra l'altro di evitare processi lunghi e costosi. Si può trattare, in limitati casi, di una scelta dettata anche dalla volontà di essere giudicati evitando l'udienza pubblica, trattandosi di procedimento in camera di consiglio.
Nondimeno, la scelta del rito abbreviato — rito che rappresenta un “diritto” dell'imputato — può essere vantaggiosa anche quando:
— la difesa possa essere fondata su una lettura in termini astrattamente “giuridici” del fatto, tale da portare a escludere che la qualificazione per la quale è stato esercitata l'azione penale sia corretta o quando si possa escludere che un fatto, per quanto storicamente provato, sia tale da integrare un'ipotesi penalmente rilevante.
— ogni qual volta gli elementi di prova raccolti durante la fase delle indagini non siano tali da escludere il ragionevole dubbio circa la colpevolezza dell'imputato, non risultando certa la sussistenza della prova “storica”.
In entrambi i casi, la difesa può essere tentata di scegliere il rito abbreviato per rimarcare due possibili errori del p.m.: nel primo caso sulla qualificazione giuridica, nel secondo sul “livello” di fondatezza degli elementi in fatto.
La questione in diritto — se considerata risolutiva sul tema della responsabilità — potrebbe anche essere oggetto di discussione, ai fini di una richiesta di sentenza ex art. 425 c.p.p., in sede di udienza preliminare. Può essere vantaggioso inserire la stessa in un contesto di rito abbreviato, in quanto l’eventuale sentenza di non luogo a procedere in esito all'udienza preliminare — ferme restando le possibili impugnazioni — potrebbe essere oggetto di revoca ex art. 434 c.p., a differenza di una sentenza di assoluzione in esito al rito abbreviato.
Più complessa e delicata la valutazione sul secondo profilo. Le criticità probatorie possono in effetti assumere una duplice natura: la prova può essere carente/incompleta ovvero può essere debole e/o contraddittoria.
In tali prospettive — specie nel secondo caso — la prova non sufficiente a fondare una condanna potrebbe pur tuttavia essere ritenuta sufficiente per la celebrazione di un giudizio. Giudizio nel corso del quale le contraddizioni potrebbero essere chiarite e le — almeno parziali — lacune colmate, così che la difesa potrebbe trovarsi, in sede di discussione dibattimentale, a fronteggiare un quadro probatorio decisamente più convincente e completo.
Al riguardo, si deve pertanto tornare al punto di partenza. Il p.m. non è più nella condizione di condizionare, prestando il consenso, la definizione del procedimento con rito abbreviato, ma di fatto la “qualità” del suo lavoro sarà, in molti casi, l'elemento decisivo per giungere a tale possibilità.
In che misura il numero e la complessità di procedimenti assegnati a un sostituto procuratore incide sulla capacità/possibilità da parte di questi di completare le indagini in termini chiari ed esaustivi, predisponendo quindi un materiale probatorio idoneo a una valutazione di responsabilità in caso di richiesta di giudizio abbreviato?
È una domanda legittima e doverosa, al quale, in questa sede, è impossibile fornire una risposta; è sufficiente sapere che si tratta — ancora una volta — di una delle “variabili” sopra descritte che possono condizionare il “prodotto giustizia” finale.
In effetti, sul tema del giudizio abbreviato non vale la pena sottolineare problematiche intrinseche — ontologiche, strutturali e dunque prevedibili — che la pubblica accusa deve affrontare — quali la qualificazione giudica dei fatti o la riferibilità soggettiva dei medesimi — comuni a qualsiasi forma di valutazione prodromica all'esercizio dell'azione penale. Al contrario si deve valutare, per così dire, il “livello probatorio” minimo sufficiente a supportare una prospettiva di dichiarazione di responsabilità. Ove tale livello non risulti raggiunto, la scelta di porre il giudice nella condizione di decidere non sulla necessità di celebrare un giudizio, ma sulla sussistenza delle responsabilità, può essere strategicamente corretta.
Non solo: il giudice può essere posto nella condizione di decidere anche alla luce di ulteriori elementi probatori che la difesa — preso atto del contenuto del fascicolo del p.m. — può evidenziare in esito a indagini difensive (da verbali di sito a documenti e/o consulenze), da depositare prima della richiesta di rito abbreviato, per contrastare la ricostruzione storica dell'accusa ovvero per sottolinearne ed evidenziarne le debolezze, a sostegno dell'innocenza dell'imputato.
L'aspetto problematico di tale soluzione, tuttavia, si annida nel disposto dell'art. 441, comma 5 c.p.p., in base al quale “Quando il giudice ritiene di non poter decidere allo stato degli atti assume, anche d'ufficio, gli elementi necessari ai fini della decisione...”.
Il problema — in astratto — è ancora una volta semplice; molto meno lo è nei singoli e concreti casi in cui può presentarsi. È impossibile stabilire in termini generali fino a quale punto l'organo giudicante in sede di giudizio abbreviato potrà e dovrà (e vorrà) farsi “supplente” di carenze investigative o potrà e dovrà (e vorrà) approfondire contraddizioni dell'impianto accusatorio, piuttosto che classificarle quali espressioni di un'insufficienza probatoria.
Se quanto sopra non fosse sufficiente, c'è un’ulteriore variabile — di non poco conto — destinata immancabilmente a condizionare le scelte della difesa in ordine al rito abbreviato. Inutile cercare tracce di tale variabile nel codice o nei commentari: nondimeno, una variabile di assoluto rilievo.
In ogni sede giudiziaria è noto l'approccio dei singoli organi giudicanti, siano essi monocratici che collegiali, alla quantificazione della pena; i G.U.P. non sfuggono a tale logica. E allora, se la prospettiva — in caso di condanna a seguito a richiesta di giudizio abbreviato — è quella di vedersi applicata una pena di entità (nonostante la riduzione del terzo ex lege) — di poco inferiore, pari o addirittura superiore a quella che sarebbe potuto essere applicata in esito al dibattimento, il sistema deflattivo previsto dal legislatore è destinato a “saltare”.
È di tutta evidenza che ogni giudice può e deve decidere in scienza e coscienza non solo in ordine alla sussistenza della penale responsabilità quanto anche sull'entità della pena da comminare. È, purtroppo, altrettanto evidente che laddove le pene applicate per specifiche tipologie di reati in esito al dibattimento siano sistematicamente pari o inferiori a quelle applicate in sede di giudizio abbreviato (in particolare laddove tale rito venga richiesta in occasione dell'udienza preliminare) i flussi di lavoro tra sezioni dibattimentali e ufficio G.I.P. non possono che esserne fortemente condizionati, al punto da imporre verifiche sulla stessa ripartizione organica dei magistrati all'interno del Tribunale.
L'ultima “variabile” destinata a incidere sulle scelte di richiedere il rito abbreviato deriva dalla possibilità per l'imputato - introdotta dalla l. n. 479/1999 e modificata significativamente dalla l.n. 103/2017- di richiedere il cd. “abbreviato condizionato” ex art. 438, c.p.p., ossia una richiesta subordinata a un’integrazione probatoria asseritamente necessaria ai fini della decisione. Richiesta a fronte della quale il giudice ammette il rito “se l'integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili”.
Anche rispetto a tale richiesta non è richiesto alcun consenso del P.M.; questi potrà dedurre prove contrarie e esprimere un parere sulla sussistenza delle condizioni, sopra indicate, che consentono l'ammissione al rito. Se quindi in questa prospettiva limitata e residuale è la possibilità per l'accusa di “incidere” sulla ricostruzione dei fatti e sul riconoscimento delle responsabilità, di nuovo di grande rilievo — soprattutto in quanto valutazione che appare caratterizzata da non indifferenti margini di discrezionalità — risulta il ruolo dell'organo giudicate.
In effetti, si tratta di una valutazione che verte su due profili cumulativi, il secondo dei quali, in particolare, sulla compatibilità “con le finalità di economia processuale proprie del procedimento” può essere interpretato — ovviamente legittimamente interpretato — in termini profondamente differenti. Un aspetto, pertanto, che rende non semplice la previsione, per il difensore, in ordine alla possibilità che la richiesta di giudizio abbreviato condizionato possa essere accolta.