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CIVILE  

RIMEDIO RISOLUTORIO E SOPRAVVENIENZE NON CODIFICATE

  Civile 
 venerdì, 12 ottobre 2018

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Alberto Barbazza, giudice del Tribunale di Treviso

 
 

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Sommario:

1. Premessa; 2. Sopravvenienze atipiche che frustrano la causa del contratto; 3. Sopravvenienze atipiche che alterano l’equilibrio del contratto

 

1. Premessa

 

Ho sentito la necessità di approfondire la tematica delle sopravvenienze non codificate, dette anche “atipiche” e dei conseguenti rimedi esperibili dalla parte che subisca un pregiudizio a causa del verificarsi delle stesse, partendo dalla considerazione che questo argomento è stato oggetto di recentissime e affascinanti tesi dottrinali e, al contempo, di altrettante prese di posizione da parte della giurisprudenza di legittimità.

Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale, infatti, si presenta di grande attualità e interesse pratico, in quanto cerca di dare una risposta al problema, di frequente riscontro nella realtà delle aule giudiziarie, di quali siano i mezzi a disposizione del contraente leso dalla sopravvenienza e di quale sia l’ampiezza del sindacato, da parte del giudice, sul contratto.

Per il momento accenno soltanto che il nodo particolarmente controverso, attinente specificatamente al sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale, attiene all’ammissibilità del potere del giudice di modificazione del contenuto della pattuizione, al fine di adeguarla alle circostanze sopravvenute che ne abbiano determinato lo squilibrio economico, sostituendosi così all’autonomia negoziale delle parti nella regolazione dei propri interessi.

La presente relazione, non potrà, invece, per gli evidenti limiti temporali, soffermarsi sul tema strettamente connesso (e anch’esso esaminato dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità più recente) dello squilibrio originario del contratto, dei rimedi esperibili dalla parte svantaggiata e dal tipo di sindacato del giudice sul contratto stesso.

Ma cerchiamo, anzitutto, di chiarire il significato dei termini che utilizzerò nel corso del mio intervento. Che cosa si intende con la locuzione “sopravvenienze non codificate”?

Possiamo affermare che le sopravvenienze non codificate, o atipiche, rappresentano tutte quelle circostanze, successive alla stipulazione del contratto, che sono in grado di mutare il contesto nel quale il contratto stesso è stato concluso.

Più precisamente, tra la conclusione e l’integrale esecuzione del contratto può intercorrere anche un notevole lasso di tempo, pensiamo ai contratti di durata: contratti ad esecuzione periodica, ad esecuzione continuata, ad esecuzione differita, rispetto ai quali, durante il periodo di esecuzione, possono verificarsi delle circostanze non previste né dalle parti né dalla legge.

In sostanza, tali circostanze costituiscono un rischio di pregiudizio per gli interessi di una parte del contratto, la quale, a causa delle sopravvenienze, non può più ottenere la controprestazione.

In relazione alle cause che impediscono il conseguimento della controprestazione, la migliore dottrina ha classificato le sopravvenienze atipiche in due categorie: le sopravvenienze che frustrano la causa in concreto del contratto e le sopravvenienze che incidono sul rapporto di valore tra le prestazioni, alterando l’equilibrio economico del contratto.

 

2. Sopravvenienze atipiche che frustrano la causa del contratto

 

Un primo, ormai famoso, caso giurisprudenziale è quello inerente al “pacchetto turistico tutto compreso”: Tizio stipula un contratto di viaggio “tutto compreso” alla volta di Cuba, ma prima di partire viene a sapere che in quella zona si sta diffondendo un’epidemia emorragica. Decide allora di non partire e chiede la restituzione della somma anticipata, ma l’agenzia di viaggi pretende il pagamento dell’intero prezzo pattuito.

Prima di esaminare la soluzione data dalla Suprema Corte con le sentenze n. 16315/2007 e n. 10651/2008, voglio mettere in luce le strade astrattamente percorribili in questo tipo di fattispecie.

L’impostazione tradizionale, rispondente al principio pacta sunt servanda, è quella di considerare il contratto valido ed efficace, quindi vincolante, nonostante la sopravvenienza che ha frustrato l’interesse del creditore all’esecuzione della prestazione, nel caso di specie il viaggio a Cuba con finalità di svago e piacere.

Le sopravvenienze che rilevano, pertanto, sarebbero solo quelle tipiche, legali o convenzionali, mentre le sopravvenienze atipiche non comporterebbero alcuna conseguenza sul contratto, che, in virtù del principio sopra citato, ha forza di legge fra le parti e non può essere messo in discussione da circostanze successive alla sua conclusione.

In tal modo, se da una parte viene preservato il principio di certezza dei rapporti giuridici e, in particolare, dei rapporti contrattuali, dall’altra il rischio della circostanza sopravvenuta ricade interamente sulla parte che subisce il pregiudizio derivante dalla stessa.

Alla parte svantaggiata non viene accordato alcun rimedio utilmente esperibile: il contratto, secondo questa tesi, comporterebbe sempre l’assunzione di un rischio, ragion per cui la sopravvenienza atipica deve essere considerata insita nell’alea naturale e fisiologica del contratto.

Questa tesi, infine, risponde ad una concezione della causa ormai superata, ovvero quella della causa in astratto, intesa come funzione economico-sociale del contratto.

In particolare, se si considera la causa come funzione economico-sociale del contratto, ovvero come sintesi dei suoi effetti essenziali, essa viene fissata in astratto dall’ordinamento ed è uguale per ogni contratto appartenente al “tipo”, a prescindere dalle ragioni soggettive che hanno spinto le parti alla stipulazione.

Ne deriva che la sopravvenienza atipica non è in grado di frustrare la causa individuata oggettivamente dal legislatore, la quale trascende gli interessi dei contrenti per perseguire, invece, finalità di interesse pubblico, di utilità sociale.

È con l’elaborazione della teoria della “causa in concreto”, recepita dalla Cassazione a partire dalla sentenza n. 10490/2006, che muta l’orientamento, fino ad allora consolidato, circa l’irrilevanza delle circostanze sopravvenute alla conclusione del contratto che non siano previste dalla legge.

Senza alcuna pretesa di esaustività su un tema, come quello della causa, che meriterebbe una relazione a sé, mi limito a sottolineare come la nozione di causa in concreto abbia dato rilevanza ai contrapposti interessi delle parti che vengono contemporaneamente soddisfatti attraverso l’operazione negoziale.

In buona sostanza, la teoria della “funzione economico-individuale” della causa sposta l’attenzione sul concreto e dinamico assetto di interessi programmato dai contraenti, sulla sintesi degli interessi perseguiti dalle parti, i quali, è bene precisarlo, restano comunque distinti dai motivi: secondo la giurisprudenza prevalente, i motivi del contratto, che restano generalmente ininfluenti, assurgono al ruolo di causa quando diventano una componente obiettiva e funzionale del contratto.

A tal proposito, ciò che conta è che il motivo del contraente si sia tradotto nel programma contrattuale, abbia cioè inciso sul contenuto del contratto e che l’altra parte ne sia a conoscenza, mentre non è necessario che le ragioni pratiche dell’affare siano state esplicitate nella pattuizione negoziale.

Alla luce della nuova concezione di causa del contratto, pertanto, le sopravvenienze atipiche, alterando le condizioni in presenza delle quali il contratto è stato stipulato, possono incidere sulla funzione economico-individuale perseguita dalle parti, mentre è evidente che laddove la sopravvenienza riguardi i motivi che non si sono obiettivizzati nel contratto, la stessa non potrà avere alcun effetto sulla pattuizione.

Riprendendo ora il caso del contratto di viaggio “tutto compreso”, la Cassazione, con le sentenze n. 16315/2007 e n. 10651/2008, ha evidenziato che la “finalità turistica” o lo “scopo di piacere” non costituisce un motivo irrilevante, ma connota, al contrario, la causa in concreto del contratto, che si caratterizza per il viaggio, l’alloggio, il divertimento e lo svago.

Lo scopo di piacere, quindi, è incompatibile con il rischio di venire contagiati da una grave malattia: è evidente, allora, che siamo di fronte ad una sopravvenienza, non prevista dalla legge, che provoca il venir meno dell’interesse che il contratto è funzionalmente volto a soddisfare.

Nel dettaglio, la Suprema Corte evidenzia che “la prestazione, come stabilisce l’art. 1174 c.c., deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore; dunque, se il creditore, per un evento sopravvenuto, perde il proprio interesse al conseguimento della prestazione, l’obbligazione, come stabilisce la seconda parte del comma 2 dell’art. 1256 c.c., si estingue”.

Ci stiamo avvicinando al cuore del problema, ovvero: acquisita la rilevanza delle sopravvenienze atipiche che si ripercuotono sulla causa del contratto, qual è il rimedio azionabile dalla parte che non ha più interesse all’esecuzione delle prestazioni dedotte?

La giurisprudenza di legittimità ha individuato la disciplina applicabile a quest’ipotesi nell’art. 1463 cod. civ., il quale, come strumento di reazione a fronte di una sopravvenienza tipica (l’impossibilità sopravvenuta e totale della prestazione), prevede la risoluzione del contratto.

Con maggior impegno esplicativo, la Cassazione ha ritenuto di estendere la norma dettata in tema di risoluzione per impossibilità sopravvenuta della prestazione, sostenendo che il sopravvenuto difetto dell’interesse creditorio e la conseguente irrealizzabilità della causa concreta del contratto determinino la sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione.

Il rimedio per la sopravvenienza atipica, consistente nel venir meno della causa in concreto del contratto, si sostanzia, quindi, nella caducazione del contratto – è un rimedio caducatorio – con i conseguenti effetti liberatori per entrambi i contraenti.

Chiudo la disamina su questa prima tipologia di sopravvenienze mettendo in luce come una parte della dottrina abbia criticato l’applicazione dell’art. 1463 cod. civ., deducendo che si tratterebbe di un’indebita forma di applicazione analogica di una norma che si occupa della specifica e diversa ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione. 

Nel caso del pacchetto viaggio “tutto compreso”, infatti, la sopravvenienza atipica non renderebbe impossibile l’esecuzione della prestazione, perché il viaggio in sé sarebbe ancora possibile, ma frustrerebbe l’interesse di svago, piacere e divertimento sotteso al contratto, con conseguente impossibilità, come già evidenziato, non della prestazione, bensì di utilizzo della stessa.

 

3. Sopravvenienze atipiche che alterano l’equilibrio del contratto

 

Per introdurre l’analisi di questa tipologia di sopravvenienze mi servirò ancora una volta della casistica giurisprudenziale, prendendo le mosse dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite in tema di usura sopravvenuta (Cass., Sezioni Unite, n. 24675/2017).

L’usura sopravvenuta si può definire come quel fenomeno a seguito del quale il tasso di interessi concordato fra mutuante e mutuatario superi, nel corso dello svolgimento del rapporto, la soglia dell’usura così come determinata in base alle disposizioni della legge n. 108 del 1996.

Nel caso di specie la controversia era stata originata da un contratto di mutuo stipulato nel 1990, quindi prima dell’entrata in vigore della legge n. 108/1996, risultato successivamente usurario a seguito dell’entrata in vigore di quest’ultima.

Il primo quesito al quale l’interprete è chiamato a fornire una risposta è quale rilevanza assumano, nel nostro sistema, le sopravvenienze atipiche che sono in grado di alterare l’equilibrio economico del contratto.

Prescindendo per un momento dalla risoluzione del problema dell’usura sopravvenuta, fornita dalle Sezioni Unite, le soluzioni astrattamente praticabili sono essenzialmente tre.

a)la prima opzione, come già visto per le sopravvenienze che incidono sulla causa del contratto, consiste nel ritenere irrilevanti le sopravvenienze atipiche, non previste dalla legge, in quanto il contratto ha forza di legge fra le parti (principio pacta sunt servanda) e non può essere sciolto o modificato se non nelle ipotesi espressamente previste dal legislatore.

b) la seconda soluzione, al contrario, privilegia il principio rebus sic stantibus, conferendo così rilevanza alle sopravvenienze atipiche squilibranti: essendosi modificate le condizioni in presenza delle quali il contratto è stato stipulato e avendo tale modifica comportato l’alterazione dell’equilibrio economico del contratto, si ritiene che il rimedio esperibile sia la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta ex art. 1467 cod. civ.

In particolare, la tesi dottrinale dell’applicabilità del rimedio caducatorio si basa sulla teoria della presupposizione, mettendo in luce che qualora le parti abbiano concluso il contratto in forza di determinate circostanze di fatto o di diritto, non esplicitate nell’accordo, ma costituenti la ragione pratica dello stesso, nell’ipotesi in cui tali circostanze vengano meno nel corso dello svolgimento del rapporto, causando uno squilibrio di valore delle prestazioni, si debba far ricorso allo stesso strumento previsto per la gestione delle sopravvenienze tipiche squilibranti, cioè all’art. 1467 cod. civ.

Questa ricostruzione del problema si scontra con il carattere eccezionale della norma di cui all’art. 1467 cod. civ., che prende in considerazione solo un certo tipo di sopravvenienze, ovvero quelle che si traducono in avvenimenti straordinari e imprevedibili, in grado di provocare l’eccessiva onerosità della prestazione.

Un ulteriore argomento consente, infine, di escludere il rimedio risolutorio nella gestione delle sopravvenienze atipiche squilibranti: la caducazione del contratto, soprattutto per quanto concerne i contratti relazionali (es. appalto, mutuo), cioè quei contratti nei quali si instaura una relazione molto forte fra le parti, quasi, direi, di dipendenza economica di una parte nei confronti dell’altra, di rado si rivelerebbe uno strumento utile ed efficace per la parte che ha subito la sopravvenienza.

La parte svantaggiata, infatti, non avrà interesse allo scioglimento del contratto, che comporterebbe, ad esempio nel caso del contratto di mutuo, l’obbligo, per il mutuatario, di immediata restituzione della cosa ricevuta, bensì all’esecuzione del contratto, depurato del difetto sopravvenuto.

c)sulla scorta delle osservazioni appena svolte, la terza teoria ritiene che, in presenza sopravvenienze atipiche squilibranti, risponda all’interesse delle parti la possibilità di valersi di un rimedio manutentivo, anziché caducatorio, che consenta di adeguare il contratto alle circostanze verificatesi in epoca successiva alla sua conclusione.

Ed è proprio nella cornice di questa teoria che una parte della dottrina, ha valorizzato il parametro della buona fede nell’esecuzione del contratto, ex art. 1375 cod. civ.

Quale ruolo gioca la clausola generale di buona fede in una situazione di squilibrio contrattuale?

L’art. 1375 cod. civ., è bene sottolinearlo, non assurge al rango di norma imperativa-precettiva, ma si pone come regola di integrazione del contratto, fonte di obblighi ulteriori rispetto a quelli già individuati nel contratto.

Dalla regola di buona fede, che assume un certo tipo di contenuto in relazione alle circostanze del caso concreto, si ricaverebbe un obbligo di rinegoziare il contratto, qualora la sopravvenienza atipica abbia alterato l’equilibrio dello scambio.

L’obbligo di rinegoziare, secondo la maggior parte degli autori, si concretizza in un obbligo di contrattare, cioè in un obbligo di ridiscutere il contenuto del contratto alla luce delle sopravvenienze intervenute, al fine di individuare un nuovo equilibrio dello scambio.

La rinegoziazione, secondo un orientamento allo stato decisamente minoritario, si sostanzia, invece, in un vero e proprio obbligo di contrarre, cioè di modificare il contratto per ripristinarne l’equilibrio economico.

Accedendo alla tesi della rinegoziazione come obbligo di contrarre, il rifiuto della parte avvantaggiata dalla sopravvenienza di rinegoziare renderebbe esperibile, per l’altra parte, il rimedio previsto dall’art. 2932 cod. civ., ovvero l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere il contratto.

Si introduce, in tal modo, un rimedio giudiziale-conservativo, perché la sentenza del giudice tiene luogo del contratto riequilibrato, non rinegoziato per la mancanza del consenso di una delle parti: è il giudice, in questo caso, che modifica il contenuto del contratto garantendo la proporzionalità dello scambio.

Ma vi è un limite enorme che pone un freno (direi invalicabile) alla praticabilità di questa soluzione. L’art. 2932, infatti, nasce come rimedio attuativo della volontà delle parti, pensiamo alla vicenda del preliminare inadempiuto: il giudice non si sostituisce alle parti nella regolazione dei loro interessi, ma emette una pronuncia, di tipo costitutivo, che tiene luogo del contratto definitivo non concluso, il

cui contenuto è già stato definito dal contratto preliminare.

Il giudice, quindi, non può determinare autonomamente il contenuto del contratto, non essendoci nel nostro ordinamento alcuna norma che preveda questo potere giudiziale-conservativo sul contratto che, per circostanze sopravvenute, è divenuto economicamente squilibrato.

L’obbligo di rinegoziare come obbligo di contrattare, invece, se da una parte consente alle parti di esplicare la loro autonomia negoziale e di addivenire ad un accordo sulla modifica del contratto squilibrato, dall’altra si presenta come un rimedio manutentivo debole, perché al mancato consenso di una parte alla rinegoziazione, la controparte può solo reagire con la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno.

La rinegoziazione, quindi, da rimedio manutentivo del contratto, finisce per trasformarsi in un rimedio caducatorio, di tal che l’interesse della parte svantaggiata dalla sopravvenienza squilibrante alla prosecuzione del rapporto contrattuale non viene soddisfatto.

Fin qui abbiamo dato atto del panorama delle soluzioni che sono state prospettate dalla dottrina, che in tempi recenti ha concentrato l’attenzione soprattutto sulla clausola generale di buona fede come rimedio nel caso di squilibrio sopravvenuto delle prestazioni contrattuali.

Ma veniamo ora alla risposta al problema data dalla giurisprudenza di legittimità.

Le Sezioni unite, con la sentenza n. 24675/2017, hanno negato qualsivoglia rilevanza alla sopravvenienza atipica squilibrante rappresentata, nella fattispecie sottoposta al vaglio della Corte, dall’usura sopravvenuta, in considerazione del fatto che il giudizio sul carattere usurario degli interessi può riferirsi solo al momento in cui gli stessi vengono pattuiti, poiché è solo così che si valorizza “il profilo della volontà e dunque della responsabilità dell’agente”.

La Corte, pertanto, ha scelto la prima opzione, consistente nel considerare prive di effetto le circostanze successive alla stipulazione del contratto, in omaggio al principio pacta sunt servanda e al ruolo essenziale che la volontà delle parti ricopre al momento della negoziazione degli interessi nel contratto di mutuo.

In relazione alla regola di buona fede nell’esecuzione del contratto, la Suprema Corte ha sottolineato che “la buona fede è criterio di integrazione del contenuto contrattuale rilevante ai fini dell’esecuzione del contratto stesso (art. 1375 cod. civ.), vale a dire della realizzazione dei diritti da esso scaturenti. La violazione del canone di buona fede non è riscontrabile nell’esercizio in sé considerato dei diritti scaturenti dal contratto, bensì nelle particolari modalità di tale esercizio in concreto, che siano appunto scorrete in relazione alle circostanze del caso. In questo caso può allora affermarsi che, in presenza di particolari modalità o circostanze, anche la pretesa di interessi divenuti superiori al tasso soglia in epoca successiva alla loro pattuizione potrebbe dirsi scorretta ai sensi dell’art. 1375; ma va escluso che sia da qualificare come scorretta la pretesa in sé di quegli interessi, corrispondente ad un diritto validamente riconosciuto dal contratto”.

Nell’iter argomentativo delle Sezioni Unite si coglie come il creditore-mutuante abbia il diritto di pretendere il pagamento degli interessi, anche se divenuti medio tempore superiori al tasso soglia, mentre la buona fede potrebbe operare, al più, come limite all’esercizio di tale diritto, cioè come criterio di valutazione del comportamento del creditore, che, se si traducesse in una pretesa abusiva, potrebbe essere legittimamente paralizzata dal debitore-mutuatario.

Concludendo, appare evidente la battuta d’arresto della Cassazione sul tema della rilevanza delle sopravvenienze atipiche squilibranti, soprattutto considerando l’ampiezza e l’innovatività degli studi dottrinali sulla clausola generale di buona fede e sui rimedi manutentivi del contratto.



[1] Relazione tenuta al convegno del 14 settembre 2018 in Treviso, dal titolo “Rimedi risolutori nel diritto vivente. Cass. n. 23868 del 2015 e n. 19043 del 2016”.

 

 
 
 
 
 
 

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