1. Premessa
Con riferimento all’oggetto della mia relazione, la prima considerazione riguarda proprio il titolo della stessa come scelto dalla SSM struttura territoriale di Roma: infatti, per come intitolata, la relazione sembra consideri scontata l’esistenza e pacifica la stessa nozione di giurisprudenza difensiva. Eppure, non può non osservarsi come, almeno allo stato e a livello, per così dire, della dottrina ufficiale, non è dato riscontrare nella letteratura giuridica scientifica una specifica attenzione su tale argomento.
In definitiva, mi sentirei di affermare che il fenomeno in esame se nella prassi e nelle conversazioni informali è quanto mai diffuso e discusso, ciò nonostante non pare che sia stato superato un inconfessato pudore a parlarne apertamente. Se è così, è quanto mai importante che in un luogo istituzionale dedicato alla formazione dei magistrati si abbia – sia concesso dirlo – il coraggio di prendere di petto il fenomeno, al fine di intraprendere un approccio anche scientifico e analitico a tale delicatissima problematica e ciò dico, ben inteso, nell’assoluta consapevolezza dei rilevanti limiti, carenze, e forse contraddizioni che caratterizzano questa relazione; consapevolezza, tuttavia, anche dei prezzi da pagare quando si intraprende un percorso di ricerca su argomenti poco o per nulla ancora esplorati.
2. La nozione di giurisprudenza difensiva
E’ evidente che l’espressione “giurisprudenza difensiva” si ispira al più noto fenomeno della c.d. “medicina difensiva” con cui si allude alla sempre più diffusa prassi nella classe medica di disporre una serie di indagini non tanto e non solo allo scopo di tutelare la salute del paziente, ma anche e soprattutto, per diminuire il rischio che il sanitario incorra in responsabilità vuoi civile che penale.
In definitiva, in ragione dell’aumento delle azioni civilistiche di danni e delle denunzie penali il professionista tende, per un verso, a “burocratizzare” sempre più la sua attività invitando i pazienti a sottoscrivere pagine e pagine del c.d. consenso informato; per altro verso tende soprattutto a prescrivere esami, terapie e quant’altro in realtà non necessari ma che – in caso di azioni e/o denunzie – potranno servire al sanitario per dimostrare di aver fatto tutto ciò che era in suo potere per evitare il danno lamentato.
In buona sostanza, grazie alla medicina difensiva l‘attenzione del professionista è come si focalizzi sulla preventiva necessità di evitare di incorrere in responsabilità personale e solo in subordine sulla cura del paziente.
Ciò determina plurimi danni ed infatti:
a) il paziente rischia di essere sottoposto ad accertamenti strumentali e/o a terapie non veramente necessari se non, a volte, addirittura dannosi;
b) la spesa sanitaria tende fatalmente a crescere ogni qualvolta tale fenomeno si manifesti in occasione di servizi legati alla assistenza sanitaria pubblica;
c) lo stesso professionista perde motivazione e passione per la sua attività e si assiste ad una sua sostanziale demotivazione.
A ben vedere, del resto, l’atteggiamento psicologico alla base della medicina difensiva è surrettiziamente presente in non pochi rami della pubblica amministrazione.
Si pensi alle gare d’appalto fatte vincere aprioristicamente al concorrente che abbia proposto il prezzo più basso, senza che si effettui un vero raffronto qualità/prezzo tra le varie offerte. Oppure, si pensi all’ossessione di burocratizzare ogni minimo passaggio all’interno delle varie amministrazioni al fine di evitare di incorrere nella responsabilità erariale o disciplinare: condotte, queste, che non di rado rendono l’azione amministrativa estenuante e, potenzialmente, sterile, oltre che frustrante per l’amministrato.
Si assiste, in definitiva, ad una pubblica amministrazione nel suo complesso schizofrenica caratterizzata, per un verso, da aggiramenti tanto fantasiosi, quanto talvolta fraudolenti, dei relativi strumenti di controllo, con condotte illecite finanche spavalde; per altro verso dal fatto che non pochi dipendenti pubblici (e non di rado i più onesti) sono, come detto, quasi “ossessionati” dal timore di incorrere in qualche forma di responsabilità, in ragione della natura quasi sempre meramente formalistica dei controlli posti in essere.
Infine, a ben vedere, anche se questa osservazione può apparire azzardata, una forma di atteggiamento difensivo si riscontra negli stessi contribuenti nei confronti degli accertamenti fiscali.
Sotto questo profilo, l’esperienza come giudice tributario mi pare illuminante.
Si pensi, in particolare, agli studi di settore e comunque a tutti gli accertamenti posti in essere su criteri meramente formalistici e modelli statistici; modelli statistici peraltro spesso oscuri in ordine al loro funzionamento tecnico, e di cui sia il giudice che il contribuente si devono, per così dire, fidare quasi “alla cieca”.
Ebbene, pur in presenza di un diritto vivente che tende a mitigare la rigidità di questi strumenti, a fronte di ciò non di rado si assiste a contribuenti che preferiscono fatturare anche più del reale pur di poter stare, per così dire, “tranquilli” ed evitare controlli estenuanti e fondati sostanzialmente su oneri probatori non facili da soddisfare.
Anche qui si assiste, perciò, non tanto ad una condotta improntata al rispetto oggettivo delle regole e della correttezza, bensì a condotte preventive talvolta non dovute, ma che si ritengono opportune per evitare di essere sottoposti a controlli della cui serenità e affidabilità si nutrono fondati dubbi.
Ed anche in questo settore si assiste al paradosso di una vera schizofrenia: l’evasione fiscale è stanzialmente quasi non intaccata nei suoi aspetti più rilevanti e cioè quella dei grandi evasori che solitamente si identificano in soggetti entificati, i quali non di rado concordano il pagamento di maxi multe senza però che venga compromessa la loro libertà d’azione e senza che ne discendano significative responsabilità a carico del management; nel contempo, il cittadino e il contribuente probo non di rado vive continui stati d’ansia per accertamenti che, per loro tortuosità e talvolta intrinseca iniquità, sono percepiti come forieri di conseguenze non prevedibili ex ante, e dai quali non e’ ne’ agevole ne’ spesso economicamente sopportabile difendersi.
E’, ovviamente, difficile indicare le ragioni che sono a monte di tali diffuse condotte “difensive” e non è certo questa la sede per esaminarle, né lo scrivente ha la capacità e gli strumenti adatti per indagarle. Di certo, però, sembra che si possa individuare un minimo comune denominatore tra tutti questi fenomeni, poiché’ si assiste in modo trasversale a un apparato sostanzialmente basato su:
a) “abbandono” del singolo alle disfunzioni organizzative, su cui non si incide se non con meri annunzi di riforme destinate a restare sulla carta;
b) enfatizzazione dei profili di responsabilità individuale, ponendo il singolo in posizione servente rispetto ad un astratto sistema per così dire immaginato in laboratorio (che sia sanitario, tributario, giustizia etc) pretendendosi che il singolo si adegui al modello astratto/artificiale, senza alcun adattamento alle concrete esigenze: cosi’ ad esempio viene imposto di adeguarsi al processo telematico, ma senza adeguata assistenza e supporto tecnico, basti pensare che addirittura i sistemi manutentivi sono attivati nel cuore della giornata con conseguente impossibilità medio tempore per il magistrato di lavorare;
c) controlli spesso e volentieri meramente formalistici e burocratici e che non toccano la sostanza dei fenomeni: il caso dell’evasione fiscale e del depotenziamento continuo della repressione penale e di sanzioni ammnistrative efficaci è, in questo senso, eclatante; così come è significativa la quasi ossessione nel controllare il rispetto dei termini processuali di deposito, senza tener conto del numero delle sentenze depositate, del carico, delle condizioni di lavoro e cosi’ via;
d) sostanziale irresponsabilità dei dirigenti degli uffici, che adottano modelli organizzativi ancora una volta meramente burocratici e volti a determinare, per così dire, uno “scaricamento” verso il basso delle responsabilità, creandosi così un’apparenza di efficienza spendibile al momento giusto: si pensi ad esempio al fatto di alcuni dirigenti degli uffici giudiziari che decidono di aumentare il numero delle udienze civili, laddove è pacifico che per alcuni settori il numero maggiore di udienze non solo è inutile, ma rischia anche di essere dannoso comportando costi organizzativi e di cancelleria esorbitanti;
e) non di rado il singolo soggetto rispettoso della legalità vive con più ansia i controlli in ragione del numero eccessivo delle regole, mentre nel contempo il più spavaldo utilizza proprio il caos organizzativo e normativo per poter perseverare nelle proprie condotte illegali;
f) continue riforme meramente normative e “cartacee” che creano sempre più incertezze applicative e che sono funzionali a perseguire un “effetto annunzio”, ma che puntualmente tralasciano le gravissime e drammatiche inefficienze molto concrete del sistema oggetto di una riforma, riforma che resta, appunto, meramente virtuale.
3. Le cause della giurisprudenza difensiva: un fenomeno forse in nuce presente da tempo.
Ci si deve, a questo punto, chiedere se un fenomeno siffatto si stia per manifestare o si sia già manifestato nell’ambito della giurisdizione.
A sommesso parere di chi scrive, il fenomeno non solo si sta diffondendo ma, anzi, è già forse sedimentato in non pochi settori, non c’è dubbio infatti che due fattori abbiano molto inciso sulla serenità dei singoli magistrati.
Ci si riferisce, in particolare, all’enfatizzazione degli aspetti quantitativi e alle sempre maggiori azioni disciplinari fondate su controlli meramente formali come la tempestività dei depositi delle sentenze, da cui il rischio che questo o quel magistrato, pur di far innalzare il numero di provvedimenti e di rispettare i termini di scadenza, scelga di decidere le cause più facili, abbandonando e rinviando quelle più complesse: e ciò sul fondato presupposto che, ove abbia numeri inferiori agli standard o ritardi determinati dalla decisione di cause complesse, si potrebbe aprire una vera e propria via Crucis fatta di giustificazioni di per sé già umilianti e che non è detto trovino ascoltatori comprensivi a partire proprio dai dirigenti degli uffici.
Si sono cioè, negli anni, introdotti obiettivi iperproduttivistici, che hanno addirittura indotto il CSM ad approvare -ancorché a maggioranza e sostanzialmente ineseguite- delibere che impongono standard di produttività al buio e cioè non conoscibili in anticipo dal magistrato .
Ebbene, la nuova responsabilità civile dei magistrati può incidere enormemente su questi aspetti, rafforzando nel singolo magistrato la convinzione di essere oramai sottoposto ad una tenaglia sempre più invasiva e sempre più formalistica: l’azione disciplinare e quella civilistica di danno, ancorché in sede di rivalsa.
In particolare, questo timore si sta diffondendo – a parere di chi scrive – in specie tra i più giovani e tra coloro che lavorano in condizioni organizzative disastrate.
Si può in particolare azzardare a distinguere, sotto il profilo descrittivo, tre tipi di condotte difensive:
- condotte difensive individuali;
- condotte difensive di gruppo;
- condotte difensive di tipo organizzativo.
Le condotte difensive individuali sono quelle poste in essere dal magistrato singolarmente nella gestione giurisdizionale del suo ruolo. Ecco quindi che, ad esempio, si tende a negare la provvisoria esecutività dei decreti ingiuntivi, non solo in sede di emanazione dello stesso inaudita altera parte, ma anche in seguito al contraddittorio; ci si irrigidisce sui presupposti di concessione dei provvedimenti cautelari imponendo, ad esempio, una prova rigorosissima del periculum in mora (così anche nel penale si assiste ad interpretazioni restrittive in materia di misure cautelari reali che, come noto, possono determinare effetti economici di rilevantissima entità); si tende ad ammettere le prove testimoniali anche in violazione dell’art. 2721 c.c. (i cui valori monetari di riferimento incredibilmente non sono stati adeguati nel tempo dal legislatore), oppure ad ascoltare un numero eccessivo di testi per dimostrare di aver compiuto un’adeguata istruttoria, oppure “per prendere fiato” ed evitare l’ “imbuto” delle cause prese in decisione. Ancora, si assiste ad un appiattimento sempre più acritico verso la giurisprudenza di legittimità, le cui massime e decisioni vengono applicate quasi acriticamente, rinunziando a quel ruolo di stimolo della giurisprudenza di merito che non di rado ha determinato significativi revirement proprio della Corte di Cassazione (si pensi alla storica discussione che vi fu in materia di fideiussione c.d. omnibus; oppure, all’attuale contrasto giurisprudenziale in materia di clausole claims made in materia di contratti di assicurazione , problematica che oramai riguarda molto da vicino gli stessi magistrati, in seguito proprio alla riforma della responsabilità civile).
Infine, è evidente a tutti (e quindi anche al singolo magistrato) che taluni soggetti saranno nelle condizioni propizie per proporre azioni di responsabilità nei confronti dello Stato per presunto errore del magistrato: è chiaro, cioè, che si tratterà, specularmente, dei soggetti economicamente più forti oppure di coloro i quali oramai, per una ragione o per un’altra, non avranno molto da perdere.
Le condotte difensive “di gruppo” sono quelle determinate dal perdurante abbandono strutturale, dalla cronica carenza di organico e, infine, da dirigenze del tutto inadeguate; in presenza di tali condizioni strutturali “ambientali” disastrate, apparentemente ex abrupto interi uffici giudiziari rischiano di vedere i propri organici quasi del tutto scoperti, a causa di trasferimenti richiesti in massa dai magistrati oppure a causa di un turn over continuo; trasferimenti sempre più necessari quanto più si tocchi con mano che, per un verso, gli strumenti di cancelleria e di struttura sono fatiscenti e malandati; per altro verso, che si è in presenza di dirigenti degli uffici desiderosi di far apparire che, nonostante questi problemi strutturali, i loro uffici siano ciò nondimeno i più produttivi.
Si è, poi, si teme, facili profeti nel dire che sono alla porta ulteriori forme di condotte difensive, che presumibilmente saranno determinate dalle gravissime inefficienze del processo telematico. Ci si riferisce, cioè, all’ultima categoria di condotte difensive enucleate e cioè alle condotte difensive di tipo organizzativo.
Si pensi al magistrato che si vede attribuite telematicamente sentenze depositate in ritardo, in realtà non da lui ma da altro giudice oppure da un GOT, e che si trova nella quasi impossibilità di porre rimedio all’errore (il tutto aggravato dalla cronica difficoltà anche di recuperare le proprie sentenze depositate, come puntualmente si verifica ogni qualvolta si deve affrontare una valutazione di professionalità e predisporre l’autorelazione, allegando i propri provvedimenti).
Si pensi anche al fatto – altrettanto grottesco – che nel cambio di sezione il giudice si trovi ad essere e risultare telematicamente titolare di entrambi i ruoli, quello di provenienza e quello di arrivo. Le sentenze collegiali civili sono telematicamente registrate come ritardi anche se depositate entro i 60 giorni, perché il sistema prevede il termine di 30 giorni, termine, come noto, valevole per le monocratiche e non già per le collegiali e per l’appello.
Da qui a breve, quindi, si assisterà a produzione di lettere, raccomandate etc con cui giustamente i singoli vorranno premunirsi da eventuali azioni disciplinari e di responsabilità determinate da tali inaccettabili errori di sistema. Così come si potrebbe assistere a contenziosi sempre più incisivi sull’organizzazione delle tabelle, ove le stesse siano percepite, a torto o a ragione, da questo o da quel magistrato, come sensibilmente peggiorative rispetto a quanto previsto per altri colleghi.
La responsabilità reale di tutte queste disfunzioni ovviamente ricade sul Ministero della Giustizia e, purtroppo, talvolta anche sui dirigenti degli uffici e in ultima analisi sullo stesso CSM, non sempre attento a verificare la funzionalità delle proposte tabellari; proposte tabellari, infatti, spesso e volentieri valutate sul piano del rispetto formale delle delibere e non già su quello sostanziale della buona amministrazione e cioè sul piano della loro razionalità, appunto, organizzativa.
E’ chiaro che oggi, con il rischio concreto di azioni di responsabilità civile, questo potenziale conflitto tra il singolo ed Enti inadempienti di riferimento rischia di rappresentare una vera e propria mina nella stabilità e serenità di rapporti, che, invece, dovrebbero essere fisiologicamente fondati sulla reciproca stima e fiducia e non già sulla reciproca ostilità. Tutto questo, poi, sarà ancora più esasperato se si arriverà a prevedere che le valutazioni di professionalità debbano essere sottoposte anche al parere dell’avvocatura: è chiaro che ciò potrebbe determinare ulteriori condotte difensive, in specie nei confronti degli esponenti dell’avvocatura più autorevoli e dei relativi Enti rappresentativi istituzionali.
4. Dalla difesa all’attacco…: responsabilità solidale ex art. 2055, c.c. degli Enti responsabili per difetti di organizzazione
malgrado i profili negativi sopra evidenziati, se da un lato le perduranti modalità organizzative invariate e la costante carenza di mezzi e la nuova normativa sulla responsabilità civile del magistrato possono consolidare la giurisprudenza difensiva che ritengo già in atto, tutto ciò potrebbe tuttavia dar luogo all’inizio di una vera e propria “riscrittura emotiva” dei rapporti tra singolo magistrato, da un lato, e Ministero della Giustizia, dall’altro (e, in parte, anche nei confronti del Csm).
è invero noto a tutti che da anni gli studiosi della responsabilità sanitaria hanno enucleato l’ipotesi di responsabilità della struttura per difetto di organizzazione .
In definitiva, nella letteratura scientifica si è preso atto e dimostrato che le perduranti disfunzioni organizzative prima o poi si risolveranno nell’errore di qualcuno che, per puro accidente, resterà con la pistola fumante in mano.
In definitiva, il trascurare il difetto di organizzazione come concausa dell’evento inevitabilmente “porta ad incolpare l’ultimo elemento identificabile nella catena causale: la persona che impugna la pistola fumante”, con l’ulteriore conseguenza per cui “l’idea che gli eventi sfavorevoli della vita possano essere imputati all’incapacità di certi soggetti nel prevenirli è molto seduttiva; tuttavia punire l’ultima persona della serie causale di solito impedisce di riconoscere i problemi sottostanti” .
E’ evidente che tutto ciò è la premessa perché il magistrato convenuto in rivalsa spieghi domande riconvenzionali nei confronti dello stesso Ministero e, in ipotesi, non escluda di coltivare azioni di corresponsabilità nei confronti dello stesso CSM, ove ritenga che siano stati approvati progetti tabellari del tutto inadeguati e/o errati rispetto alle reali esigenze organizzative.
L’eventualità è tutt’altro che peregrina. Basti pensare alle gravissime sperequazioni di carichi di lavoro esistenti tra vari uffici e quindi tra i vari magistrati, all’interno non già della penisola ma talvolta della stessa Regione o tra Regioni confinanti; a fronte di giudici civili con carichi di lavori di circa 200 cause e poche sopravvenienze annue, si assiste a magistrati con carichi anche oltre le 1000 cause e con sopravvenienze annue triple o quadruple o anche maggiori; a fronte di strutture ottimamente organizzate con sufficiente personale di cancelleria e forniture telematiche costanti, vi sono uffici abbandonati di fatto a se stessi: non v’è chi non veda che tutto ciò determina una responsabilità non solo politica, ma potenzialmente anche giuridica degli Enti preposti ad evitare tali inaccettabili difetti di organizzazione.
5. L’intrinseca ingiustizia della giurisprudenza difensiva. I rimedi organizzativi e culturali da predisporre
Sembra quasi superfluo sottolineare come la c.d. giurisprudenza difensiva sia, per quanto detto, la negazione stessa del nostro lavoro di magistrati, in quanto sacrifica l’interesse del cittadino e, infine, della stessa funzionalità del sistema, alla prioritaria esigenza di autotutela da parte del singolo.
E’ doveroso quindi chiedersi in modo serio e responsabile quali soluzioni trovare per contenere e possibilmente prevenire la diffusione di un fenomeno che appare, tutto sommato, ancora agli inizi. Per fare ciò, ovviamente, la prima cosa da evitare è stigmatizzare come riprovevoli, immorali e inaccettabili tali condotte; è chiaro, infatti, che proprio tale stigmatizzazione sarebbe essa si inevitabilmente moralmente inaccettabile per la sua ipocrisia, perché tenderebbe ancora una volta ad enfatizzare la responsabilità del singolo, senza farsi carico, invece, delle reali cause del problema di tipo organizzativo.
A parere di chi scrive è oramai a tal fine inevitabile interrogarsi sui moduli organizzativi oggi utilizzati, al fine di ripensarne il fondamento concettuale e culturale, adottando finalmente soluzioni organizzative che si fondino sui seguenti principi:
- semplificazione radicale della normativa primaria e secondaria di riferimento;
- chiare assunzioni di responsabilità da parte dei dirigenti degli uffici: probabilmente la normativa consiliare del CSM, spesso non del tutto lineare anche per la sua abbondanza, pur se mossa dall’intento sacrosanto di tutelare l’autonomia ex 104 Cost., non di rado è essa stessa invocata per giustificare modelli organizzativi inefficienti e irragionevoli pur se formalmente ineccepibili;
- introduzione di controlli di risultato trasparenti e contestuale abbandono di controlli meramente burocratici, in modo da valorizzare l’aspetto intellettuale e non impiegatizio del lavoro del magistrato e dei dirigenti;
- introduzione di criteri di priorità che non si esauriscano nella burocratica preferenza delle cause più vecchie, ma che tengano conto anche di criteri sostanziali e valoriali di efficienza e di equità ;
- introduzione di soglie di produttività per i magistrati che siano: ragionevoli, esigibili e conoscibili ex ante e non ex post dai singoli magistrati e che, quindi, siano, per così dire, il grimaldello per distinguere le responsabilità dei singoli, dei dirigenti e del Ministero della Giustizia .
Antonio Lepre