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PENALE  

Recensione de Il Processo di LUIGI CAVALLARO

  Penale 
 mercoledì, 15 gennaio 2025

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Recensione de "Il Processo" di Lugi Cavallaro
Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2024 (pagg. 1-116, € 12).

 
 

Il “processo” oggetto dell’agile, ma non leggero, libro di Luigi Cavallaro è formalmente quello che vide imputato Sergio Cusani dinanzi al Tribunale penale di Milano negli anni 1993-1994 e che viene considerato uno dei più significativi episodi dell’indagine c.d. “mani pulite”, che i pubblici ministeri milanesi condussero a decorrere dall’anno 1992.

          Di quel processo è ricostruita la progressione giudiziaria: le indagini, la custodia cautelare, le strategie procedurali, il dibattimento, la sentenza, senza ignorare il clima di enfasi emozionale e di esaltazione mediatica in cui gli eventi si svolsero. Tale ricostruzione, estremamente chiara nei passaggi essenziali, è arricchita dall’analisi del più ampio significato che gli eventi stessi assumevano nella fase storica che la società civile italiana viveva nello scorcio conclusivo del secolo scorso. La dinamica e le premesse dei fatti sono ricostruite con rigore nei loro tratti sociali, economici nonché politici, e fornisce al lettore ulteriori elementi di riflessione a proposito di quello che non fu solo processo giudiziario, ma (quantomeno nell’immaginario collettivo) anche momento conclusivo di quella fase della politica nazionale (e della classe politica che l’aveva impersonata) che per lo più si riassume nella definizione di “Prima Repubblica”.

          L’Autore, tuttavia, oltre quell’evento, ricostruisce un “altro” processo, ricorrendo alla logica concatenazione degli argomenti e a raffinati rimandi letterari, per dimostrare come la vicenda giudiziaria trovi origine in un costume politico-sociale di spessore ben diverso che non i singoli episodi corruttivi contestati dai pubblici ministeri. È quanto egli promette fin dal sottotitolo che ha assegnato alla sua opera: “Una parodia”, da intendere, secondo quanto indicato nell’esergo di terza pagina, come “arte di comporre versi con l’uso de’ versi altrui, recando il serio a ridicolo”.

          Quali sono i “versi altrui”? Cavallaro richiama Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini, che, fin dagli anni Sessanta del secolo passato, con alcuni fondamentali scritti effettuarono accorate denunzie sulla degenerazione del costume politico nazionale. Costoro, da acuti osservatori della realtà, ora utilizzando l’enfasi della narrazione letteraria (strepitosa la descrizione degli “esercizi spirituali” dei notabili di partito nel Todo modo sciasciano), ora interpretando il corale sentimento civico insito nella collettività (come fece Pasolini, ad esempio, nelle Lettere luterane), svelarono ciò che era evidente ma non manifesto, e cioè che la storia, prima che la giustizia, stava “processando” la politica e gli uomini che ne erano protagonisti. I due, senza ergersi a giudici, colsero le pulsioni vive della pubblica opinione e intuirono la (sempre più manifesta) sentenza di condanna che la stessa stava emettendo.

          Quando i pubblici ministeri milanesi esercitarono l’azione penale ed istruirono il “loro” processo, l’opinione pubblica aveva già compiuto la sua analisi introspettiva ed era pronta a recepire, moralmente e materialmente, le condanne che la legge, e per essa il Tribunale, imponeva. La sfilata dei politici dinanzi ai giudici ed il confronto con i pubblici ministeri (della quale Cavallaro ricostruisce tutta la tensione umana, degli auditi e del pubblico all’interno e fuori dall’aula), rappresenta dunque solo la, pur necessaria in uno Stato di diritto, trasposizione giudiziaria di “quel” processo, e il presupposto che poi avrebbe dato consistenza materiale alla successiva realtà della politica nazionale.

          Cose già dette o quantomeno intuite, si potrebbe obiettare, e per nulla ridicole. Se non che l’Autore non confonde i termini del confronto e, all’invocazione di P.P. Pasolini di un processo condotto dall’opinione pubblica-collettività, contrappone un concetto giuridico basilare: una parte (l’opinione pubblica) non può sostituirsi al giudice (per definizione “terzo”), altrimenti si cadrebbe nella “«punizione” e non nel giudizio. E, riprendendo Salvatore Satta, annota: la punizione può essere irrogata da chiunque, “perché il punire non è che azione”, senza essere (quindi) “giudizio”.

Dunque, tornando alla parodia, il processo – con tutte le puntualizzazioni fatte – è uno strumento di rivelazione della realtà (di quella realtà) praticato tanto nella sede della Giustizia che nella sede dell’opinione pubblica, per quest’ultima intendendo gli scritti di chi si fece interprete dei suoi umori. E tuttavia – e qui sta la chiave di lettura della “parodia” – l’Autore sente di dover “dubitare che da un processo possa scaturire qualcosa di minimamente paragonabile a una verità storica inconfutabile”; “… la riprova è che l’unica ‘certezza’ che può discendere da un processo è quella del ‘giudicato’ … che solo pro veritate accipitur”.

          A questo punto, di fronte a questo abile gioco di contrasti, preso dalla lettura, il lettore (che è fermo cultore dello Stato di diritto) cade nel dubbio: il processo milanese cosa è stato in realtà, un ragionato procedimento giudiziario concluso con l’applicazione di una sanzione penale o un rito collettivo praticato per irrogare la punizione di una colpa atavica non più tollerata?

          Ai lettori la risposta.

 

 
 
 
 
 
 

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