Sommario: 1. I termini della questione. 2. L’orientamento del CSM sugli incarichi all’estero. 3. Il dogma delle “carriere parallele”: un dialogo tra sordi. 4. Uno sguardo all’esperienza francese, spagnola e tedesca. 5. Interessi strategici nazionali e ruolo dei magistrati. 6. Qualche proposta operativa. 7. Conclusioni
1. I termini della questione
Tra i temi che animano le discussioni tra i magistrati italiani, pochi hanno trasversalmente riscosso così poca attenzione ma allo stesso tempo aprioristiche chiusure come quello del collocamento fuori ruolo all’estero.
Mentre infatti il più ampio dibattito sui fuori ruolo nazionali, sia per ragioni numeriche che per l’esposizione mediatica di certi incarichi, ha stimolato più ampie riflessioni e vigorose prese di posizione – compendiate nelle numerose risoluzioni, circolari e risposte a quesito del CSM che si lascia volentieri al lettore il piacere di compulsare – quella sull’impiego del personale di magistratura all’estero è questione che riguarda pochi soggetti.
Il che, lungi dal costituire una giustificazione per il disinteresse con cui è affrontato, è invece, come si cercherà di dimostrare più avanti, proprio una delle ragioni del generale fraintendimento e della chiusura che riscuote ogni timida proposta di allargamento dell’istituto, per non parlare delle ancor meno gradite ipotesi di estensione (e finanche abolizione) del limite decennale derivante dall’art.50(2) del D. Lgs. n.160/2006
Nondimeno, chi scrive crede che plurime ed importanti siano le ragioni per cui questo dibattito dovrebbe essere ricondotto nell’alveo di una più generale riflessione sul concetto di “interesse nazionale” e sganciato dalla fuorviante polemica sugli organici di magistratura all’interno della quale finisce per diluirsi.
Ebbene, se il punto di partenza delle attuali riflessioni sul tema è che si tratti di questione che interessa solo uno sparuto gruppo di privilegiati ai quali è risparmiato l’affanno quotidiano delle udienze e l’incubo delle statistiche, pare evidente come ben poco spazio vi sia per considerare con onestà intellettuale pro e contro del sacrificio di poche unità (attualmente) o poche decine (in prospettiva) di posti sull’altare delle esigenze di copertura dell’organico di magistratura in Italia.
Il fatto, poi, che la vera posta in gioco sia talvolta evidente solo a chi effettivamente svolge tali funzioni – e riesce a cogliere appieno le ricadute benefiche che l’intera categoria avrebbe da un suo maggiore coinvolgimento nei tavoli europei ed internazionali – innesca un circolo perverso che impedisce un sereno dibattito sul punto.
Sembra inoltre che il diffuso malessere dei magistrati italiani, riconducibile alle difficili condizioni di lavoro nella maggior parte degli uffici giudiziari, renda poco appetibile per i rappresentanti dei magistrati nei consessi associativi sposare un’idea così culturalmente lontana dallo stereotipo del giudice o procuratore che deve “stare in ufficio” piuttosto che occuparsi di questioni “altre” rispetto all’esercizio delle funzioni giurisdizionali.
Sennonché, la netta separazione tra l’esercizio da parte dei magistrati di funzioni giurisdizionali da un lato, e para-giurisdizionali o amministrative dall’altro, è prerogativa quasi esclusiva del nostro Paese, laddove altri Stati membri dell’Unione Europea hanno da tempo compreso che soprattutto il processo legislativo nei contesti multilaterali deve essere presidiato da coloro che – per ovvie ragioni – sono più in grado di cogliere l’impatto della legge europea sul tessuto normativo nazionale.
Si imporrebbe, a parere di chi scrive, un cambio totale di prospettiva, con l’adozione di una strategia nazionale chiara e meditata che, partendo dai meccanismi di reclutamento dei magistrati più idonei ad operare in tali contesti, passi attraverso la creazione di percorsi di crescita e valorizzazione delle loro competenze per approdare infine alla istituzione di figure professionali che pur restando nell’ordine giudiziario siano in grado di riversare le loro competenze sui colleghi al contempo difendendo e perseguendo gli interessi strategici del Ministero della Giustizia e del Governo italiano sotto la supervisione del Consiglio Superiore della Magistratura.
2. L’orientamento del CSM sugli incarichi all’estero.
Come è noto, ed in via di estrema sintesi, l’istituto del collocamento fuori ruolo trova la sua fonte primaria nell’art.58 D.P.R. n.3/1957, esteso ai magistrati dall’art.276, comma 3, R.D. n.12/1941, ed incide sul rapporto di servizio comportando una modifica dell’attività lavorativa consistente nell’instaurazione temporanea di un rapporto con un ente diverso da quello di appartenenza.
Successivamente, l’art.50, comma 2, D.Lgs. n.160/06 ha previsto un limite complessivo decennale di permanenza fuori ruolo, con esclusione – per quanto qui di interesse – dei soli incarichi di “componente delle Corti internazionali, comunque denominate” (art.1, comma 70, L. n.190/2012) che è stato ribadito dalle disposizioni secondarie di settore: incarichi che pure non hanno trovata una piana interpretazione dell’obbiettivamente chiaro dettato normativo, come si vedrà oltre.
Muovendosi in tale cornice normativa, l’organo di autogoverno della Magistratura ha nel tempo fissato dei limiti piuttosto rigidi rispetto all’autorizzazione di incarichi all’estero, da un lato assicurando il condivisibile obiettivo di fare sì che l’acquisizione di competenze “eccentriche” rispetto a quelle proprie del magistrato non ne depauperino eccessivamente il bagaglio di conoscenze – anche in vista del suo obbligatorio rientro in ruolo – ma dall’altro esprimendo un evidente disfavore per l’impiego di personale di magistratura in contesti che, forse in modo troppo frettoloso, sono stati giudicati come non importanti.
Si sono quindi susseguite plurime prese di posizione, non sempre del tutto coerenti, che in alcuni casi hanno tracciato una discutibile (a parere di chi scrive) differenza tra attività internazionali nei quali i magistrati hanno agito per conto del CSM (beneficiando del mantenimento in ruolo, ma con esonero totale dall’attività giudiziaria) e attività internazionali che – pur autorizzabili – non costituiscono “compiti istituzionali” dell’amministrazione ove essi prestano servizio e pertanto necessitano del previo collocamento fuori ruolo.
Ora, non è questa la sede per procedere ad una dettagliata disamina delle ragioni che hanno portato nel tempo il Consiglio Superiore dapprima a creare questo “doppio binario” (cfr. circolare 6.12.2012) ed in seguito ad abolirlo (cfr. circolare 22.07.2020) ma ci pare che un approccio che predilige delle attività di cooperazione internazionale basate sulla stipula di accordi nel quadro di programmi di allargamento o sostegno alle riforme di un Paese terzo – come tali a partecipazione non obbligatoria – rispetto all’espletamento di incarichi presso Istituzioni a cui l’Italia è invece tenuta a partecipare in ossequio agli accordi internazionali, sia poco convincente.
A ciò si aggiunga che l’impianto normativo, primario e secondario, che ha creato una rigida divisione tra posizioni in ruolo e posizioni fuori ruolo costituisce – come si dimostrerà nel prosieguo – una peculiarità tutta italiana.
Lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura lo riconosce quando, nell’attuare un revirement sulla nomina del membro nazionale di Eurojust che ai sensi dell’art.7 del Reg. (UE) n.1727/2018 deve avere “lo status di magistrato del pubblico ministero, giudice o rappresentante dell’autorità giudiziaria con prerogative equivalenti a quelle di un pubblico ministero o giudice a norma del diritto nazionale” si trova ad ammettere che “la distinzione dell’attività dei magistrati in ruolo e fuori ruolo non trova applicazione nella maggioranza degli ordinamenti degli altri Stati membri (…) e ciò spiega perché la normativa europea non abbia considerato tale problematica e si sia da tempo indirizzata sic et simpliciter verso la creazione di nuove figure di magistrati dei diversi Stati membri operanti in territorio europeo ed esercenti anche vere e proprie funzioni giurisdizionali” (cfr. la recente risoluzione del 18.11.2020).
All’interno del genus delle posizioni fuori ruolo, la strada senza uscita che il ragionamento dell’organo di autogoverno è costretto a percorrere gli impone una ulteriore distinzione tra species: attività meramente amministrative (come sono ad esempio considerate quelle svolte all’interno dei servizi della Commissione europea, o nelle stesse Rappresentanze Permanenti presso le organizzazioni internazionali, con buona pace per queste ultime del fatto che si tratti di attività in un certo senso “a copertura necessaria” in quanto parte integrante del processo legislativo sovranazionale); attività propriamente giurisdizionali che tuttavia – chissà perché – sono tali solo se esercitate in qualità di giudice delle Corti di Giustizia di Lussemburgo o di Strasburgo e non presso un Tribunale internazionale costituito in un Paese terzo (cfr. delibera 9.09.2020) ed infine di quello che la sopra citata risoluzione individua come un “tertium genus di attività espletabile da parte dei magistrati italiani, venendo in causa l’esercizio di poteri misti, amministrativi e giudiziari, al servizio anche, ma non solo, dell’amministrazione della giustizia italiana ed in un ambito operativo che supera i confini nazionali”.
Non sfuggirà a chi legge che quest’ultima affermazione ha il sapore di un’epifania: si riconosce per la prima volta che l’esercizio di un’attività non strettamente giurisdizionale rende un servizio all’amministrazione della giustizia italiana. In altre parole, non si tratta di soddisfare un capriccio personale del magistrato, ma di arricchire – per suo tramite – l’intero ordine giudiziario e di influire attivamente sulle scelte sovranazionali che hanno ricadute nel proprio Paese e che condizioneranno direttamente l’amministrazione della giustizia.
La distinzione tra attività in ruolo e fuori ruolo costituisce dunque, a modesto parere di chi scrive, una sovrastruttura ideologica che non solo non trova un reale corrispondente nella realtà, come dimostra la figura ibrida del magistrato di collegamento (creato con l’Azione comune, del 22 aprile 1996, 96/277/GAI per svolgere “qualsiasi attività intesa a facilitare nonché accelerare, in particolare tramite l'istituzione di contatti diretti con i servizi competenti e con le autorità giudiziarie dello Stato di destinazione, tutte le forme di cooperazione giudiziaria in campo penale e, se del caso, civile”) ma che imbriglia l’azione del Ministero della giustizia e del Consiglio Superiore in una difficile attività di selezione – sulla base di interpretazioni talora del tutto soggettive delle caratteristiche effettive dell’attività svolta – di funzioni che non sempre è facile inquadrare in uno schema predeterminato, e che comunque si riverbera nella estrema difficoltà del magistrato italiano ad accedere alle posizioni aperte in ambito internazionale.
Insomma, se per un magistrato francese o tedesco la corsa ad ostacoli si svolge solo sul terreno della competizione con gli altri aspiranti, per quello italiano il percorso inizia già in Italia.
Peraltro, viene da chiedersi, se la cooperazione giudiziaria transfrontaliera costituisce estrinsecazione e proiezione esterna dell’attività giurisdizionale, per quale motivo solo alcuni segmenti di quella cooperazione sono valutati come giurisdizionali ed altri sono reputati amministrativi?
Si pensi, ancora a titolo di esempio, al posto di referendario alla Corte di Giustizia: che etichetta merita l’attività di un magistrato nazionale che entra a far parte del gabinetto di un giudice della Corte e che da questi viene incaricato di studiare la causa, proporne la soluzione e redigere personalmente la motivazione? Si tratta di una attività evidentemente non giurisdizionale in senso stretto perché il referendario non firma la sentenza, ma indubbiamente ne è l’artefice ed il redattore della motivazione. È ammissibile che il mero dato formale della mancanza di sottoscrizione, recidendo il nesso di collegamento tra l’atto materiale e la sua imputazione giuridica all’autore, comporti un downgrade del suo operato a mera attività amministrativa?
Si potrebbe forse pensare che chi sostiene tale approccio formalistico perda di vista l’importanza – per il giudice della Corte chiamato a valutare la compatibilità di una norma nazionale con l’atto normativo europeo – di avere al suo fianco un testimone diretto dell’applicazione della prima, della sua interpretazione giurisprudenziale nazionale, dei margini di manovra per assicurarne un giudizio di conformità al dettato normativo sovraordinato. Ciò al contempo attuando un benefico trasferimento di conoscenze che dal magistrato nazionale si comunicano al giudice europeo, e viceversa, assicurando una indispensabile osmosi tra rappresentanti di diverse giurisdizioni.
Eppure, compulsando le varie risoluzioni del Consiglio Superiore è possibile rinvenire delle prese d’atto ragionevoli come quella contenuta nella già citata delibera del 6.02.2012 che – nell’esaminare la posizione degli esperti reclutati dallo stesso CSM per collaborare ad importanti progetti internazionali – aveva giustamente rilevato come “l’impegno in contesti internazionali di cooperazione costituisce, peraltro, anche un’utilità per la qualità della giurisdizione, riversandosi inevitabilmente, le esperienze maturate dal singolo magistrato, nel circuito di comunicazione interno alla magistratura” e sottolineato che nell’ambito di quei progetti “i magistrati interessati esercitano funzioni che il Consiglio ha assunto come proprie”, così giungendo a decidere che gli stessi avrebbero potuto godere dell’esonero totale dall’attività giurisdizionale piuttosto che essere collocati fuori del ruolo organico.
Questo approccio, che già abbiamo criticato per aver capovolto l’ordine logico delle priorità tra attività volontarie ed obbligatorie, nondimeno aveva il pregio di riconoscere che alcune di esse meritassero un esonero totale dall’attività giudiziaria ed avrebbe potuto essere esteso a tutte le attività all’estero ritenute strategiche, previa correzione delle sue ricadute negative (scopertura di fatto del posto a fronte di una sua occupazione virtuale da parte del magistrato assegnatario) attraverso l’intervento di cui si dirà nell’ultimo paragrafo.
Spiace, invece, constatare che esso non ha retto alla furia iconoclasta che si è abbattuta sull’espletamento di funzioni diverse da quelle giurisdizionali, ed è stato da ultimo abbandonato dal Consiglio.
3. Il dogma delle “carriere parallele”: un dialogo tra sordi.
Orbene, come è evidente dalla lettura delle delibere consiliari che riguardano il tema che ci occupa, comune denominatore del ragionamento dell’organo di autogoverno – se non addirittura una delle direttrici principali – è l’esigenza di evitare le c.d. carriere parallele, ovverosia il distacco del magistrato dalla giurisdizione per un periodo di tempo giudicato talmente lungo da far insorgere il rischio che si recida completamente il legame tra il medesimo e l’ordine a cui appartiene.
Senonché, ritiene chi scrive che il concetto di carriera parallela – e ve ne è prova nell’esperienza di segno opposto fatta in altri Paesi dell’Unione Europea protagonisti delle decisioni sovranazionali – non contraddica necessariamente la specialità dell’appartenenza all’ordine giudiziario, e dall’altro sia in fondo niente più che un portato della generale noncuranza con cui nella vita pubblica del nostro Paese sono stati sempre considerati gli impegni negli scenari internazionali; noncuranza che a sua volta genera diffidenza, e porta a ritenere che a parità di urgenza debba prevalere quella interna, ragione per cui sottrarre una risorsa ad una categoria professionale per impiegarla laddove si gestiscono affari “altrui” è sbagliato.
La stessa noncuranza che, con buona pace della tendenza all’approfondimento che dovrebbe contraddistinguere chi esercita la giurisdizione, porta molti di essi a considerare una sine cura il distacco all’estero, e che su un piano più generale risente storicamente delle incertezze della nostra politica estera ed in particolare delle ragioni opportunistiche che portarono l’Italia a condividere (senza mai abbracciarlo pienamente) il progetto europeo.
Su questo substrato ideologico si innesta una peculiarità propria della magistratura: la diffusa convinzione di appartenere ad un ordine la cui alta funzione può essere esercitata solo da professionisti che non hanno altro desiderio che quello di vivere in un’aula giudiziaria; persone che vivono il loro lavoro come una missione che, per definizione, non ammette né legittima lo svolgimento di mestieri della giustizia diversi dalla partecipazione al processo.
Tuttavia, è modesta opinione di chi scrive che da questo angolo visuale si riesca in fondo a cogliere solo una parte del dipinto.
Innanzitutto, non può negarsi che i magistrati siano tra loro profondamente diversi.
C’è chi ha una spiccata attitudine alla speculazione intellettuale e scrive dotti provvedimenti, e chi scrive meno ma riesce a conciliare più cause degli altri; ci sono formidabili dirigenti e c’è chi ha difficoltà ad organizzare il proprio stesso ruolo; ci sono i colleghi appassionati e competenti nell’uso degli strumenti informatici, e quelli particolarmente sensibili alla dimensione internazionale delle tematiche giuridiche. Si potrebbe continuare a lungo, ma è forse più importante sottolineare come l’assecondare queste inclinazioni dovrebbe essere visto come un valore aggiunto e non un sintomo di poca affezione all’esercizio della giurisdizione.
Allo stato, invece, pare che il dibattito di cui trattasi si risolva nell’antinomia tra il modello positivo del magistrato in ruolo, sacrificato sull’altare di una esasperata produttività, e il modello negativo del magistrato fuori ruolo, perso in uffici di cui si presume l’inutilità.
Spostare il focus del ragionamento significa allora considerare che un magistrato sottratto alla giurisdizione non è un magistrato perso: è un magistrato guadagnato ad un’altra funzione altrettanto importante, per la sua o per altra amministrazione.
Acquisendo una consapevolezza di questo genere, viene meno lo stesso concetto di “carriera parallela”, di cui peraltro l’elaborazione consiliare non chiarisce del tutto i contorni negativi (salvo in generale dare per scontato che si tratti di qualcosa da evitare a tutti i costi, ed in particolare insistere sul concetto di “allontanamento dalla giurisdizione”) e che nei dibattiti tra magistrati nelle mailing list addirittura si riduce – ancor più tristemente – all’equazione “carriera parallela-doppio stipendio”.
Sennonché, quanto all’allontanamento dalla giurisdizione, siano consentite due osservazioni.
La prima è che, se lo si vuole evitare, tutti gli attori nazionali coinvolti dovrebbero porre una maggiore attenzione all’attività svolta oltre frontiera e cercare attivamente di consolidare il legame con il magistrato distaccato all’estero sulla base di uno scambio virtuoso di conoscenze, supporto ed informazioni, sostenendone le aspirazioni che coincidono con l’interesse della propria amministrazione.
Se ciò non avviene, e si abdica al dovere di governare il fenomeno, allora ciò che si verifica non è l’inizio di una carriera parallela ma ben più seriamente l’inizio di un allontanamento irreversibile dall’ordine giudiziario per perseguire (spesso in totale autonomia) un percorso lavorativo che porterà beneficio solo al magistrato interessato.
La seconda considerazione attiene al timore dell’organo di autogoverno che un’esperienza troppo lunga al di fuori del ruolo organico si tramuti in una incapacità sopravvenuta di fare il giudice o il procuratore (il che peraltro andrebbe dimostrato nel caso concreto, e non considerato come un assioma): se così è, tuttavia, la soluzione può agevolmente trovarsi – come in altri Paesi dell’UE – nel disporre che quel magistrato sia riassorbito nei ruoli amministrativi del Ministero della Giustizia o di altra amministrazione dello Stato dove le sue competenze possano essere valorizzate.
Niente di diverso, peraltro, rispetto a quanto gli odierni progetti di legge sembrano proporre per risolvere il problema delle c.d. porte girevoli tra politica e magistratura.
Quanto, invece, alla preoccupazione che il magistrato non percepisca un doppio stipendio, anche quest’ultimo rilievo andrebbe ricondotto nell’alveo di un’indagine ancorata a dati normativi: non esiste alcun posto nazionale o internazionale in cui si percepisca un doppio stipendio, ma al più un cumulo tra stipendio e indennità di varia natura (che nel caso degli incarichi internazionali sono peraltro destinate a sopperire agli ingenti costi della vita all’estero, e sono peraltro previste dalla legge e non lasciate alla libera contrattazione individuale o al libero arbitrio dell’amministrazione presso cui egli viene distaccato).
Chi scrive, sicuramente per sua incapacità, non riesce ad intravedere una ragione dirimente – anche tenuto conto delle peculiarità dello status del magistrato – per la quale non possa immaginarsi che la sua competenza sia messa al servizio di un’altra amministrazione senza che ciò debba inevitabilmente tradursi in una sua perdita di legittimazione all’esercizio delle funzioni giurisdizionali, fosse anche dopo un lungo periodo di tempo.
4. Uno sguardo all’esperienza francese, spagnola e tedesca.
I cugini d’oltralpe, come pure i magistrati spagnoli e quelli tedeschi, non devono invece preoccuparsi troppo di incorrere nella tagliola dei limiti temporali imposti dal nostro legislatore, e non a caso frequentano più assiduamente – in numero ed in durata dei rispettivi mandati – i palazzi delle Istituzioni, come pure le varie entità sovranazionali ove non mancano di fornire il loro apporto tecnico, ed al contempo tutelare l’interesse nazionale dei rispettivi Paesi.
La scelta operata nei rispettivi ordinamenti giudiziari è stata, difatti, radicalmente diversa e tradisce il diverso approccio culturale: più orientato al vantaggio che il distacco produce, magari nel contesto di una complessiva strategia nazionale, rispetto al disagio della vacanza creatasi nell’organico di magistratura.
Non è infatti infrequente imbattersi, nei contesti multilaterali, in colleghi stranieri che nel corso della loro carriera hanno più volte alternato periodi, anche brevi, di esercizio effettivo dell’attività giudiziaria ad altri, decisamente più lunghi, di distacco nelle varie Istituzioni ove il proprio bagaglio di competenze era richiesto (magistrato di collegamento, membro nazionale di Eurojust, consigliere diplomatico o giuridico del Ministro della Giustizia, membro del gabinetto di un commissario europeo, etc.).
E così un esame delle rispettive leggi di ordinamento giudiziario rivela, ad esempio, che i magistrati francesi si distinguono tra loro in tre categorie: i magistrati requirenti, quelli giudicanti e quelli destinati al Ministero della Giustizia, per i quali ultimi nemmeno si pone – dunque – un problema di “fuori ruolo”, essendo essi considerati a pieno titolo come magistrati nell’esercizio delle loro funzioni e non essendo soggetti a limiti temporali durante il loro distacco (cfr. art.1 della Ordonnance n° 58-1270 du 22 décembre 1958 portant loi organique relative au statut de la magistrature) di talché essi possono anche percorrere l’intera carriera da magistrato all’interno dell’amministrazione centrale della giustizia.
Peraltro, a norma dell’art.69 della stessa legge, le funzioni svolte in posizione di distacco sono considerate “a tutti gli effetti” come svolte nell’inquadramento d’origine, così realizzandosi una perfetta equiparazione ai fini della loro carriera tra funzioni amministrative e giurisdizionali[1].
Quanto alla Spagna, l’art.348 della Ley Orgánica 6/1985, de 1 de julio, del Poder Judicial, chiarisce che i magistrati durante il servizio possono trovarsi giuridicamente in cinque situazioni diverse, tra le quali il “servizio attivo” e i “servizi speciali”, e che in tali ultimi casi – tra i quali a mente dell’art.351 rientrano quelli di distacco all’estero – essi hanno diritto non solo al cumulo delle retribuzioni eventualmente previste ma anche alla considerazione che i servizi svolti in regime di distacco valgano ad ogni fine di carriera (art.354)[2]. Non è inoltre previsto un termine massimo di distacco presso il Ministero della Giustizia o altra amministrazione.
In Germania la Deutsches Richtergesetz (BGBl. I S. 713) del 1972 e successive modificazioni, ovvero la legge organica sulla magistratura, prevede genericamente la possibilità di distacco dei magistrati sia al Ministero della Giustizia e della protezione dei consumatori (facoltà peraltro ampiamente utilizzata, atteso che gli ultimi dati disponibili indicano che ve ne sono ben 107) che all’estero, ma senza che ne sia regolata esplicitamente né la procedura né la durata, che possono pertanto essere concordate con i superiori gerarchici ed adattate alle circostanze del caso di specie.
Come emerge, dunque, dalla sommaria indagine di cui sopra, nei Paesi a noi più vicini il tema della destinazione di magistrati a funzioni diverse da quelle giurisdizionali è altrettanto sentito – tanto da essere più o meno analiticamente regolato – ma risolto adattandone le regole rispetto al fine ultimo, che è per l’appunto quello di poter contare sul profilo più adatto al posto che si intende coprire, senza che a tanto sia di ostacolo un complesso di norme che nella loro attuazione pratica possono creare più svantaggi che benefici.
In definitiva, mentre nei Paesi vicini si pianifica una sistematica “occupazione” di posti chiave da parte dei magistrati nazionali, efficacemente sostenuti dai rispettivi Governi, in Italia la diabolica combinazione tra requisiti dei bandi internazionali e limiti di autorizzabilità nazionali porta a situazioni paradossali, quali quella oggetto di recente delibera del CSM in data 10.12.2020 laddove il richiedente ha acutamente argomentato (ma senza successo) che per un posto presso una Istituzione europea per il quale il bando richiedeva il doppio requisito di una concreta esperienza giudiziaria e di una esperienza internazionale di almeno 7 anni, gli unici concorrenti italiani legittimati a concorrere sarebbero stati quelli che avevano almeno 7 ma non più di 10 anni fuori ruolo (così riducendosi drasticamente la platea di candidati nostrani a vantaggio dei colleghi degli altri Stati membri, per i quali valeva solo il primo limite).
5. Interessi strategici nazionali e ruolo dei magistrati.
Ciclicamente rispolverato in funzione dei mutamenti di scenario nella politica internazionale, il dibattito di matrice geopolitica sul concetto di interesse nazionale viene spesso liquidato dai non addetti ai lavori come poco attraente e talvolta confuso con il diverso tema del nazionalismo.
Frutto forse di un mai chiarito equivoco sul ruolo effettivo che il nostro Paese può giocare nei contesti multilaterali, questo atteggiamento può riverberarsi sul “modo di essere” della nostra azione diplomatica che – a sua volta – è condizionata dalla poca chiarezza degli input politici e, in definitiva, dalla mancanza di stabili linee direttrici della nostra politica estera.
Nei tavoli negoziali può pertanto accadere che le posizioni rappresentate non siano adeguatamente meditate, né coordinate, e come tali si stemperino timidamente in una opaca adesione (mascherata da europeismo) alle proposte delle Istituzioni o di gruppi di Stati che agiscono invece sulla base di più chiare istruzioni e finalità; perché ciò non avvenga è quanto mai necessario che la fase della rappresentazione sia preceduta da una attività di studio accurato dei testi in discussione, affidata ai migliori professionisti del settore.
A questo proposito non può revocarsi in dubbio che per i negoziati che hanno ad oggetto proposte legislative in materia di giustizia civile e penale i magistrati siano i più adatti a cogliere i riflessi di una determinata soluzione europea rispetto al nostro ordinamento, atteso che la loro conoscenza della normativa sostanziale e processuale nonché dei meccanismi di concreto funzionamento del processo li rende in grado di valutare con obiettività e professionalità la bontà di una scelta piuttosto che di un’altra, senza che possa adombrarsi nei loro confronti il sospetto che quella sposata sia una soluzione da cui potrebbero trarre vantaggio professionale (il che potrebbe invece verificarsi se, ad esempio, a negoziare quegli stessi testi siano altri pur qualificati attori del panorama giudiziario).
Ma, come si diceva nei paragrafi che precedono, perché ciò sia possibile occorrerebbe prima prendere coscienza del fatto che l’intera filiera delle Istituzioni europee ed internazionali dovrebbe essere un terreno elettivo per il distacco di magistrati all’estero, ai quali dovrebbe essere spianata la strada per l’accesso e non già ostacolata.
Si pensi, ad esempio, alla necessità strategica – da altri Paesi compresa da tempo – di avere un magistrato nel gabinetto del Commissario europeo alla Giustizia, dove si decidono le sorti non solo delle proposte legislative in materia ma anche delle procedure di infrazione che riguardano questo settore, o si veicolano ai servizi tecnici della competente Direzione Generale determinate direttive con cui si accorda maggiore o minore flessibilità rispetto alle richieste di determinati Stati membri in fase di negoziato.
Si pensi anche alla sottovalutata figura del Magistrato di collegamento, specialmente con gli Stati extra-europei con cui l’Italia ha maggior bisogno di collaborazione sia sul terreno del contrasto a forme di criminalità tipiche di quei Paesi che sul più generale piano della cooperazione giudiziaria; eppure, il nostro è il Paese che – tra quelli di dimensioni più significative – ha il minor numero di figure del genere. Non altrettanto può rimproverarsi, ad esempio, alla Francia che, secondo gli ultimi dati ufficiali disponibili e risalenti al febbraio 2016, ne annoverava ben 19 ripartiti tra i quattro angoli del globo.
Ma si pensi pure alla figura del referendario, di cui si è già accennato, come di tutte le posizioni strategicamente rilevanti (e non necessariamente apicali) all’interno delle Istituzioni europee ed internazionali: un semplice policy officer della Commissione Europea o del Segretariato Generale del Consiglio dell’UE ha talvolta più possibilità di incidere concretamente sull’esito di un negoziato rispetto ad una figura di grado superiore, e purtuttavia si tratta di posizioni troppo spesso neglette a livello dell’amministrazione nazionale.
A chi non cogliesse appieno l’utilità di avere in quei posti un magistrato italiano potrebbe facilmente ricordarsi – tra i tanti esempi – che è grazie anche all’opera discreta ma tenace di qualcuno di loro se uno dei più validi strumenti di contrasto alla criminalità organizzata (le confische di prevenzione) è oggi ricompreso nell’ambito di applicazione del Reg. (UE) n.1805/2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca; o se la Direttiva (UE) n.1023/2019 sui quadri di ristrutturazione preventiva contiene delle norme ampiamente armonizzate al nostro codice della crisi d’impresa; o se nel Reg. (UE) n.1111/2019 in materia di famiglia vi è una norma che consentirà agli accordi di separazione e divorzio italiani di circolare all’interno dell’Unione Europea anche se elaborati in sede di negoziazione assistita; o che la Commissione Europea, a distanza di anni dall’apertura di un procedimento pilota sulla condizione della magistratura onoraria, ha sino ad ora rinunciato ad aprire una procedura formale di infrazione (con esplicita richiesta di assunzione tout court di tutti i giudici e procuratori onorari alle stesse identiche condizioni retributive di quelli togati).
Ed a chi, non ancora pago, obiettasse, che una svolta in questo senso implicherebbe – tra l’altro – la devoluzione di risorse economiche (tradizionalmente insufficienti anche solo per il fabbisogno interno) ed umane (non facili da reperire e comunque incidenti sull’organico nazionale) potrebbero opporsi facilmente argomenti altrettanto validi.
Sul piano delle risorse sarebbe un buon passo in avanti realizzare che l’Unione Europea mette a disposizione cospicui finanziamenti agli Stati membri capaci di presentare progetti validi, e l’Italia – in particolare nel settore della digitalizzazione e delle iniziative legate al settore giustizia – ha sempre avuto ottimi riscontri in termini di progetti assentiti; sarebbe sufficiente ragionare seriamente sulle regole che presiedono alla concessione delle sovvenzioni europee per scoprire che si possono finanziare iniziative che hanno un forte impatto nazionale se opportunamente presentate (beninteso, valorizzandone le implicazioni transfrontaliere).
Sul piano del reperimento di adeguate professionalità è facile rilevare che, sussistendone la volontà politica, il reclutamento e la formazione delle figure più idonee dovrebbe passare per un percorso trasparente ed effettivo che parta dalla selezione di aspiranti dotati della necessaria base linguistica per poi progredire attraverso una serie di esperienze coerenti con il posto al quale sarebbero destinati; quanto all’incidenza sull’organico, come si avrà modo di evidenziare nel paragrafo che segue, la soluzione potrebbe essere più semplice del previsto se solo si accettasse l’idea che il già citato concetto di “carriere parallele” non riflette quello di interesse nazionale.
In definitiva, a parere di chi scrive, una magistratura che voglia realmente farsi attrice del cambiamento ed abbia a cuore l’interesse nazionale, dovrebbe iniziare a riflettere con meno pregiudizio sullo svolgimento di attività para-giurisdizionali all’estero; evitando di considerarle come una vacanza retribuita e riflettendo in termini di costi-benefici sul medio e lungo periodo.
6. Qualche proposta operativa.
Chi scrive ha, per ragioni connesse alla sua esperienza di Esperto alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’UE, maggiore dimestichezza con il contesto dell’Unione Europea e pertanto si limiterà a proporre qualche idea per un salto di qualità nella presenza dei magistrati italiani in questo ambito specifico.
L’esperienza di altri Paesi, sommariamente tratteggiata nei paragrafi che precedono, dimostra che un progetto stabile di formazione e distacco dei magistrati nazionali non può prescindere da un radicale ripensamento del loro assetto ordinamentale: in tanto può contarsi al momento giusto sulla disponibilità del candidato giusto per il posto giusto, in quanto costui non debba preoccuparsi di lacci e lacciuoli amministrativi, di procedure di nomina bizantine o di calcoli del residuo periodo di fuori ruolo.
Vi è poi un altro fattore da tenere in considerazione: soprattutto nei contesti multilaterali è quasi più importante la relazione di stima e fiducia personale tra negoziatori, costruita e mantenuta nel tempo, rispetto alla posizione nazionale che si rappresenta; chiunque abbia almeno una volta assistito ad una sessione negoziale sa per certo che questo tipo di dinamiche che si instaurano tra i delegati fanno il successo o l’insuccesso di un negoziato. Ciò è evidentemente molto difficile che si realizzi se non vi è il tempo per creare una rete efficace di conoscenze o se la permanenza in un dato ruolo è condizionata da esigenze di calendario.
Anche solo per questa ragione, che è del tutto peculiare rispetto alle posizioni di fuori ruolo nello Stato di origine, vi sarebbe in primo luogo l’esigenza di affrancarsi dai rigidi limiti temporali di cui al D. Lgs. n.106/2006.
Ma non solo: il bagaglio di conoscenze che un magistrato si costruisce durante un’esperienza di lavoro all’estero o nei corrispondenti uffici del Ministero della Giustizia è solo parzialmente riutilizzabile in sede di esercizio della giurisdizione; il che non vuol dire – come maliziosamente taluno sostiene – che questa sia la prova della necessità di non distogliere i magistrati dal lavoro in Tribunale. Vuol dire, semplicemente, che quelle conoscenze possono essere messe al servizio di tutti i magistrati in contesti diversi, quali la formazione permanente o l’esercizio di analoghe attività in Italia.
Al contrario, fino ad ora l’expertise di questi colleghi si è sostanzialmente esaurita con il loro mandato, anche in mancanza di una pianificazione del turn over e di un efficace passaggio di consegne tra il perdente posto ed il sostituto, mentre l’intera amministrazione della giustizia avrebbe beneficiato di un loro mantenimento nel “circuito” internazionale a servizio di tutti i colleghi in ruolo e del Paese.
Come già sopra affermato, più che concentrarsi sull’idea che il magistrato fuori ruolo è una unità in meno in organico, sarebbe auspicabile pensare che egli è una risorsa in più per un’altra amministrazione che è pur sempre parte integrante del nostro apparato statale.
Si imporrebbe in definitiva, per l’impiego dei magistrati all’estero, una rivoluzione copernicana che potrebbe realizzarsi con un intervento normativo che istituisca una pianta organica separata (aggiuntiva rispetto a quella ordinaria) specificamente dedicata a magistrati disponibili ad occupare un posto presso le Istituzioni europee ed internazionali e sottratta al limite del decennio; oppure individuando comunque un ventaglio di posizioni internazionali di particolare interesse, in aggiunta a quelle di giudice presso una Corte internazionale, soggette a collocamento fuori ruolo ma sottratte al medesimo limite temporale.
La differenza tra le due opzioni è evidente: solo nella prima ipotesi il distacco non inciderebbe né giuridicamente né di fatto sulla pianta organica degli uffici di provenienza e libererebbe il Consiglio Superiore dall’ingrato compito di procedere con equilibrismi valutativi all’istruttoria delle relative pratiche.
A questo proposito può essere interessante notare come la creazione di una pianta organica ad hoc – che necessiterebbe di un intervento normativo primario, volto ad istituirla, e di uno secondario, volto a determinarne l’entità ed i criteri di adeguamento rispetto alle variazioni di fabbisogno – costituisca una eventualità già presa in considerazione con riferimento alla situazione degli organici nazionali ed è stata recentemente giudicata dal Ministero della Giustizia quale soluzione ottimale (peraltro mutuata dalla riuscita esperienza di altri Stati membri come la Francia e la Spagna) per rispondere ad esigenze specifiche connesse alla variabilità dei carichi di lavoro tra i distretti.
Come può leggersi nella Relazione tecnica sul progetto di determinazione delle piante organiche flessibili distrettuali del personale di magistratura in attuazione della legge 27 dicembre 2019, n.160 trasmessa dal Ministero della Giustizia al CSM il 30.l0.2020, questo nuovo strumento “crea una nuova categoria di pianta organica, sempre calata su base territoriale distrettuale, ma ampliando[le] ed innovando le competenze. Si tratta della istituzione di una vera e propria task force da destinare in situazioni critiche a supporto e in aggiunta agli organici esistenti”; essa “risponde all’esigenza di consentire un utilizzo più puntuale e rapido delle risorse che, all’interno di un distretto, possono soccorrere uno o più uffici in precise circostanze di “sofferenza”, quali il contenimento dell’arretrato o la gestione di situazioni di emergenza organizzativa” e – punto centrale rispetto al tema del presente contributo – “costituisce parte di una strategia di azione più ampia, fondata sulla complementarietà̀ tra interventi di stampo più tradizionale, finalizzati a un più corretto dimensionamento degli organici delle singole sedi giudiziarie, e l’introduzione di strumenti più flessibili e innovativi di gestione delle risorse, nella convinzione che da questa sintesi possano derivare maggiori recuperi di efficienza”.
La ratio della proposta di cui sopra, pur sganciata dal riferimento ai carichi di lavoro ed alla necessità di rispondere alle variazioni di sopravvenienze e di presenze negli uffici, manterrebbe inalterata la sua validità anche con riferimento al personale di magistratura distaccato all’estero.
Da un lato, infatti, essa consentirebbe al Paese di poter contare su un contingente fisso ed estremamente qualificato di magistrati operanti in un contesto così peculiare e strategico per gli interessi nazionali; d’altro lato, poiché anche in tale settore il fabbisogno può variare nel tempo e nei luoghi (si pensi, ad esempio, alla necessità di rafforzare gli organici nelle Rappresentanze Permanenti durante il semestre di turno della Presidenza del Consiglio dell’UE oppure in concomitanza con la presentazione di più proposte normative che necessitano della ripartizione tra più Consiglieri invece che su uno solo) essa permetterebbe di coprire le reali necessità di organico in funzione di congiunture temporali che spesso sono prevedibili con un certo anticipo.
Questa soluzione, come si è anticipato sopra, avrebbe inoltre un impatto sugli organici di magistratura davvero limitato: se infatti si considera che al momento di redigere questo contributo risultano collocati fuori ruolo all’estero 28 magistrati, ovvero circa l’11 per cento di tutti quelli fuori ruolo (che sono 252) ed addirittura lo 0,26 per cento dei magistrati in organico (ovvero 10.751) quand’anche tale numero fosse triplicato è evidente come l’entità del temuto depauperamento degli uffici resti confinata all’area dello statisticamente irrilevante, mentre l’azione collettiva in seno agli uffici ed alle Istituzioni di destinazione avrebbe un impatto significativo.
7. Conclusioni
Un’approfondita riconsiderazione del ruolo dei magistrati italiani all’estero dovrebbe implicare una serie di scelte ragionate: l’elaborazione in prima battuta di una strategia nazionale volta all’individuazione dei posti che il nostro Paese ritiene di interesse primario; la creazione per via normativa di una pianta organica di magistratura ad hoc; l’implementazione di percorsi di reclutamento e formazione specificamente orientati al distacco all’estero; la promozione attiva della presenza dei magistrati all’estero attraverso un’efficace azione di lobbying (termine che solo in Italia ha un’accezione negativa) da parte del Ministero della Giustizia, in sinergia con la Presidenza del Consiglio, il Ministero degli Affari Esteri ed il Consiglio Superiore della Magistratura per quanto di loro rispettiva competenza; la valorizzazione in Italia delle competenze acquisite all’estero; l’ideazione di processi osmotici tra amministrazioni dello Stato (si pensi alla Farnesina, o al Dipartimento per le politiche europee) al fine di mettere reciprocamente a disposizione le specifiche competenze di cui sopra; infine, una maggiore divulgazione dei risultati della loro attività, di modo che i colleghi in ruolo possano apprezzare il beneficio concreto in termini di qualità della legislazione sovranazionale applicata e di contaminazione della stessa con gli istituti e le tradizioni giuridiche che ci appartengono.
Nell’immaginario di tanti magistrati l’esperienza di un distacco all’estero si esaurisce, infatti, nell’esercizio di non meglio precisate incombenze attribuite ad una ristretta cerchia di colleghi e svolte a beneficio esclusivo di entità sovranazionali senza concreto ritorno per coloro che in Italia sono soffocati dagli insopportabili carichi di lavoro della giurisdizione.
Non è così, come si è sommariamente cercato di spiegare, ma la pressoché totale mancanza di informazioni sul lavoro svolto all’estero contribuisce in effetti ad alimentare un reciproco fraintendimento che allontana entrambe le parti.
Tuttavia, un’analisi seria volta ad individuare dapprima quali posti sia davvero rilevante coprire e quali magistrati abbiano il profilo giusto per concorrervi contribuirebbe a far luce sul reale fabbisogno, in termini di risorse, e getterebbe le basi per un radicale ripensamento dell’attuale insoddisfacente situazione da cui si evincerebbe – è convinzione di chi scrive – che il tanto decantato timore di un esodo biblico dalla giurisdizione non è altro che una petizione di principio.
Se vi fosse il coraggio di discuterne apertamente, affrancandosi da dibattiti sterili e vagamente populisti su benefit e indennità, si potrebbero davvero gettare le basi per un rinnovato protagonismo nei consessi multilaterali che a sua volta renderebbe giustizia alla grande professionalità dei magistrati italiani all’estero e li farebbe forse sentire meno isolati dal resto dei colleghi rimasti in ruolo.
L’auspicio è che in un prossimo futuro, per un candidato italiano che volesse concorrere ad un posto bandito in una Istituzione internazionale, gli unici ostacoli da superare siano quelli della competizione con i candidati di altri Paesi.
[1] Art.69 « Les services assurés en cette qualité sont considérés comme des services effectifs accomplis dans le cadre d'origine »
[2] Art.354 “1. Los jueces y magistrados en situación de servicios especiales percibirán la retribución del puesto o cargo que desempeñen, sin perjuicio del derecho a la remuneración por su antigüedad en la carrera judicial. 2. A los jueces y magistrados en situación de servicios especiales se les computará el tiempo que permanezcan en tal situación a efectos de ascensos, antigüedad y derechos pasivos. Tendrán derecho a la reserva de la plaza que ocupasen al pasar a esa situación o la que pudieren obtener durante su permanencia en la misma y se les tendrán en cuenta los servicios prestados en los mismos, a efectos de promoción y de provisión de plazas, como si hubieran sido efectivamente prestados en el orden jurisdiccional de la plaza que ocupasen al pasar a esa situación o la que pudieren obtener durante su permanencia en la misma”.
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