La Commissione europea definisce la radicalizzazione come “il fenomeno delle persone che abbracciano opinioni, punti di vista e idee che potrebbero portare ad atti di terrorismo” (Commissione europea, 2005). Tuttavia, nell’ambito del progetto J-SAFE (Strategia giudiziaria contro tutte le forme di estremismo violento in carcere) è emerso, da parte dei partecipanti ai seminari svoltisi nei Paesi coinvolti, che permane la mancanza di modelli legali e teorici che spieghino come e perché gli individui attraversino processi di radicalizzazione, come si rapportino alla violenza e al terrorismo e quindi quale sia la strategia legale e giudiziaria più appropriata per la prevenzione.
Nonostante la radicalizzazione sia considerata, dalle dottrine di sicurezza europee, legata al terrorismo nella sua fase embrionale, così come argomentato nel corso di questa trattazione, le presenti Linee guida affrontano con determinazione la necessità di problematizzare e chiarire quali e di che tipo siano i rapporti che sussistono tra radicalizzazione e terrorismo, considerata la mancanza di consenso a livello accademico su cosa sia la radicalizzazione, ma soprattutto su quali siano le effettive differenze legali tra radicalizzazione e terrorismo e, infine, quale sia lo spazio di azione del potere giudiziario in questi ambiti che sono stati definiti come “pre-crimine”.
Una risposta di grande efficacia ermeneutica che questo volume fornisce risiede nell’enunciazione che la radicalizzazione presenta le caratteristiche di un fenomeno “ibrido”, situato nel continuum individuabile tra azione penale, misure di prevenzione e sicurezza ed attività di riabilitazione sociale. Tale ibridazione è probabilmente anche alla base del rischio di strumentalizzazioni e forzature ma, soprattutto, della difficoltà a qualificare giuridicamente i fenomeni di radicalizzazione rispetto alla violenza e al terrorismo.
A partire dal mio ruolo di giudice minorile e di magistrato coinvolto nella lotta alla criminalità organizzata, anche in questa sede vorrei fare riferimento al parallelismo che sempre più di sovente si pone tra i figli di mafia e i giovani jihadisti, laddove i termini del confronto sono, per i primi, tra i fattori di appartenenza culturali e familiari e la militanza in organizzazioni criminali mentre, per i secondi, tra le esperienze di radicalizzazione e l’adesione a reti terroristiche.
Molti ragazzi che ho incontrato nella mia esperienza di magistrato minorile in Calabria e che, stando alle loro biografie, sono entrati nel limbo dell’onore deviato dell’organizzazione criminale – ragazzi cui è stato insegnato a usare le armi, a nascondere cocaina, adolescenti cui è chiesto di eliminare il nemico – sono stati allevati, i maschi in particolare, proprio come soldati dell’Isis, tra lavaggi del cervello e addestramento militare, mentre le femmine sono educate a stare al loro posto e prepararsi al ruolo di ancelle, madri e serve.
Com’è noto anche a livello internazionale, per un numero crescente di questi adolescenti, attraverso il loro ingresso nel progetto denominato Liberi di scegliere,[1], si è riusciti ad agire sulla correlazione tra appartenenza familiare e militanza in organizzazioni criminali e ad allontanarli dai boss di ’Ndrangheta grazie all’intervento del Tribunale per i Minorenni di Reggio Calabria. Il degrado educativo di cui sono vittime è stato considerato come trasmissione di valori mafiosi e perciò trattato alla pari di un maltrattamento (fisico e psicologico) nei provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale. Da questo incubo molti giovani sono usciti anche grazie alle madri, “vedove bianche” e donne sole perché i mariti sono in carcere, proprio come le madri sole e le vedove dell’Isis. Solo qualche anno fa non si fidavano dello Stato, non sapevano che ci fosse quest’opzione, e ora invece ne possono vedere i risultati.
Il progetto Liberi di scegliere, valorizzando le categorie dell’appartenenza familiare dei minori e della responsabilità genitoriale, prevede percorsi di educazione individuali rivolti ai minori, al fine di fornire agli stessi una valida alternativa al contesto sociale fortemente caratterizzato da una cultura mafiosa; contempla l’attivazione di équipe specializzate per fornire ai destinatari il supporto necessario a favorire scelte di vita estranee alle dinamiche criminali delle regioni di nascita.
Anche rispetto a fenomeni di radicalizzazione, ciò che occorre capire, dunque, sono i processi tramite i quali le persone adottano credenze che giustificano la violenza e come passino dal pensiero all’azione. Inevitabilmente bisogna fare riferimento ad un quadro interpretativo che sia in grado di integrare i meccanismi micro (individuali) con quelli macro (sociali/culturali e giuridici): solo in questo modo potranno essere messe in campo tecniche efficaci di prevenzione nella lotta al terrorismo.
Il percorso progettuale alla base delle Linee guida documenta, infatti, che non è verificato che un’ideologia radicalizzata sia una premessa necessaria per abbracciare il terrorismo: esistono percorsi e meccanismi di coinvolgimento differenti a seconda dei soggetti e dei contesti. Radicalismo, radicalizzazione, coinvolgimento nel terrorismo sembrano, dunque, rimandare a una serie di processi diversi. Avere idee radicali e abbracciare ideologicamente una causa non significa impegnarsi concretamente in atti terroristici.
Rispetto alla cosiddetta deradicalizzazione, quindi, vi è la consapevolezza di quanto presenti problematiche nonché dinamiche complesse almeno tanto quanto quelle rinvenibili nella radicalizzazione che la precede. Prima in Francia e poi in Inghilterra, la deradicalizzazione è stata intesa come percorso rieducativo guidato nell’ambito dell’esperienza religiosa islamica, condotto anche con l’ausilio di Imam, per comprendere le reali radici di tale credo religioso e consentire al soggetto riabilitando di rifuggire consapevolmente da ogni logica ed uso distorti della religione islamica e dei suoi precetti comportamentali. Nonostante i risultati non proprio incoraggianti, è noto l’impegno dell’Unione Europea in questa direzione, con programmi di deradicalizzazione in chiave interculturale e interreligiosa.
Tuttavia, non può esistere ovviamente una soluzione unica, valida per tutti casi e, inoltre, risulta importante la creazione di una serie d’incentivi (legali, familiari, ambientali) che possono spingere il radicalizzato all’adesione ai programmi di recupero, fermo restando che l’impulso primario verso tale processo deve essere volontario. La deradicalizzazione deve essere considerata come un continuum in cui differenti esperti e attori (dalle strutture carcerarie alle comunità locali, dagli esperti di supporto sociale al personale religioso, per finire con la famiglia) intervengono in maniera modulata e senza compartimenti stagni nell’accompagnare il soggetto verso l’allontanamento dalla violenza.
Infine, in termini di strumenti di prevenzione, vorrei citare significativamente la recente approvazione in Italia della legge sul nuovo ordinamento penitenziario per le persone minorenni.
La prospettiva offerta dalla riforma è quella di una giustizia penale “a misura di minore”, secondo le Regole di Pechino, la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza e la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori. Per la prima volta in Italia, infatti, è stato disciplinato, in maniera organica e per alcuni profili innovativa l’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati (per reati commessi quando erano minorenni), che introduce novità di rilievo soprattutto per quanto riguarda le misure alternative alla detenzione e che tiene conto della loro personalità in formazione. Il riconoscimento che ogni ragazzo ha una storia a sé, che va valutata caso per caso, che l’accesso a misure di comunità, ai permessi premio e al lavoro esterno deve poter prescindere dalla tipologia di reato e dall’entità della condanna è un esito rilevante che consente al giudice di poter dare una possibilità in più ai ragazzi, perché essi possano cambiare, ed è nostro dovere renderlo possibile. Faccio notare che con l’uso del termine “comunità” da parte del Legislatore al posto di “alternativa”, si coinvolge direttamente la collettività nel progetto di recupero e inserimento del condannato con la creazione di un sistema esecutivo aperto e inclusivo nei confronti dei minorenni.
In particolare vorrei porre l’accento, dal mio punto di vista, sulla novità tra i principi cardine dell’intera impalcatura normativa, di consentire i percorsi di giustizia riparativa e di mediazione con le vittime del reato, spesso trascurati nella loro importanza nella legislazione precedente, anche perché di assai ardua attuazione, o al più delegati ad attività facoltative lasciate alla buona volontà degli operatori minorili. Un’altra novità di sicuro rilievo è la regolamentazione dei colloqui e la tutela dell’affettività che allarga di molto la possibilità di contatto con il mondo esterno e in particolare con le figure, quando ci sono, che rappresentano un saldo e positivo riferimento per il minorenne, sia dal punto di vista affettivo, sia educativo. Questa tutela rafforzata del diritto all’affettività è data concretamente dall’istituto delle visite prolungate con familiari o con altre persone con le quali sussiste un significativo legame affettivo all’interno di spazi attrezzati negli istituti, che consentono la preparazione e la consumazione di pasti e riproducono, per quanto possibile, un ambiente di vita familiare. Mi pare che sia così offerto uno squarcio di quotidianità familiare in un ambito dove le relazioni personali faticano a ritagliarsi spazi di normalità.
Concludo queste mie considerazioni in termini personali e, sorretto da una fede incrollabile nelle nuove generazioni, vorrei citare un film presentato al Festival di Cannes 2019 e che mi ha molto colpito: “L’età giovane” di Jean-Pierre e Luc Dardenne. Si tratta della storia di un giovanissimo musulmano belga, entrato nella spirale dell’integralismo grazie all’indottrinamento di un Imam che, tra le altre cose, gli ripete che la sua insegnante di lingua araba, anch’essa musulmana, è un’apostata. Ahmed che venera un cugino martire dell’Islam, decide allora di procedere autonomamente e di passare all’azione nei suoi confronti. La sfida dei registi è quella di descrivere esattamente quello che passa nella testa del giovanissimo Ahmed, assumendo una posizione nettamente anti-integralista ma non per questo antimusulmana. Nel film mancano servizi sociali negligenti o una famiglia e una comunità disinteressata, anzi. L’ansia di purezza tipica di quest’età si scontra continuamente contro le pareti del Belgio laico e mondano nel quale l’adolescente si trova a vivere, posseduto quindi dalla fragilità interiore di un ragazzino che scambia l’intransigenza per passione e l’intolleranza per amore. Al di là degli aspetti drammaturgici, non possiamo esimerci dal considerare lo sguardo “innocente” del giovane protagonista senza dimenticare che spesso le colpe sono di singoli cattivi maestri e non di intere comunità.
[1] Cfr. , Il progetto Liberi di scegliere. La tutela dei minori di 'ndrangheta nella prassi giudiziaria del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, Rubbettio, Catanzaro, 2019.