Fondamento dell’istituto e conseguenze.
Quantomeno a far data dall’Ottocento, il fondamento dell’estinzione del reato per decorso del tempo è controverso.
Anche allora, infatti, i Classici si chiedevano, esattamente come del resto avviene ancor oggi, se la prescrizione avesse natura sostanziale o processuale.
Da un lato, la stretta parentela dei termini prescrizionali con i limiti edittali stabiliti a seconda della gravità della violazione sembrerebbe far propendere per la tesi sostanzialista.
Eppure, d’altro lato, una più attenta disamina dell’istituto alla luce delle funzioni della pena sta a smentire tale prima impressione e pare spianare la strada ai fautori della natura processuale dell’istituto.
Va infatti premesso, dal punto di vista metodologico, come l’ubi consistam della prescrizione penale non possa essere determinato in astratto, ma soltanto alla luce della conformazione ad essa impressa dalle concrete scelte politiche del Legislatore , come tali tradottesi in diritto positivo.
Alla luce di ciò, allora, si deve considerare come il Codice vigente, fissando il dies a quo di decorrenza del termine di prescrizione in corrispondenza della consumazione del reato, offra una chiara indicazione al riguardo.
Invero, se solo si riflette sul fatto che l’evento del reato può astrattamente giungere anche a notevole distanza di tempo dalla realizzazione della condotta illecita, unico segmento della fattispecie nella piena signoria del reo, occorre allora concludere che alla base della prescrizione non possono stare, perlomeno nel nostro sistema, considerazioni né di prevenzione generale, né di prevenzione speciale.
E infatti, la prima (sia essa intesa come minaccia/deterrenza, sia in senso positivo/pedagogico) incentra evidentemente la propria efficacia sul momento di realizzazione della condotta, onde esercitare quella nota controspinta psicologica a che il soggetto la compia o, in caso contrario, fallito l’effetto di tale primo freno inibitorio, reagendo prontamente per evitare che altri ne emulino le scellerate gesta.
Del pari, la seconda (intesa come neutralizzazione o come risocializzazione) postulerebbe un intervento il più possibile ravvicinato al momento della condotta delittuosa, posto che – altrimenti – si rischierebbe di arrivare troppo tardi sia rispetto alle potenziali vittime, incarcerando un soggetto che ha già ampiamente dimostrato di essere socialmente pericoloso, sia rispetto allo stesso autore, sanzionando chi – magari – si sia già ravveduto e reintegrato per conto suo.
In conclusione, come del resto autorevolmente indicato dalla Commissione Pagliaro , è evidente che la natura dogmatica dell’estinzione del reato per decorso del tempo non può che risiedere in una causa d’improcedibilità sopravvenuta, parametrata alla gravità dell’illecito commesso .
In altri termini, il Legislatore, oltre che con la previsione del tipo e l’individuazione della relativa cornice edittale, implementa ulteriormente, e in concreto, il giudizio normativo di rilievo penale di una certa classe di comportamenti attraverso una causa di successiva irrilevanza del fatto per decorso del tempo, una condizione di procedibilità di tipo non già sospensivo, bensì risolutivo.
Solo così, dopo tutto, si spiega la presenza nel sistema di reati imprescrittibili perché puniti con la pena dell’ergastolo.
Infatti, altrimenti, non vi sarebbe alcun motivo al mondo per escludere (dal punto di vista della prevenzione speciale) che anche l’autore di un crimine efferato, con il passare degli anni, possa redimersi e votarsi a una nuova vita; né a notevole distanza dal fatto (dal punto di vista della prevenzione generale) è possibile immaginare una seria efficacia deterrente di un’ormai tardiva sanzione.
Soltanto ravvisando nell’imprescrittibilità la conferma, sul piano processuale, di un giudizio retributivo sostanziale particolarmente severo è allora possibile dar conto di tale qualità, posseduta unicamente dai più gravi reati.
Ma dalla classificazione della prescrizione fra le cause di improcedibilità quali conseguenze discendono?
Sebbene la natura formalmente processuale del regime di perseguibilità di un reato sembrerebbe a tutta prima far propendere per l’inapplicabilità del divieto di retroattività in senso sfavorevole al reo e per la sottrazione della materia alla riserva di legge in senso stretto , tale conclusione sarebbe a nostro sommesso avviso eccessivamente affrettata, se solo si pensi che più volte la Suprema Corte di cassazione si è pronunciata per la natura mista (sostanziale e processuale) della procedibilità a querela, come tale pienamente soggetta agli enunciati princìpi di garanzia .
Prescrizione dell’azione e prescrizione del processo in rapporto all’esigenza di riduzione dei tempi della giustizia penale.
Che la prescrizione abbia una funzione deflattiva rispetto al carico di lavoro degli Uffici giudiziari non è poi così scontato.
Bisogna infatti distinguere e tenere ben separati due diversi profili.
Sotto un primo profilo, certamente, essa funge da strumento selettivo, imponendo all’Organo della Pubblica Accusa una deroga di fatto al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
Invero, l’imperativo – rivolto ai Magistrati del Pubblico Ministero – in cui questo principio si traduce, e cioè che “tutti i reati vanno perseguiti”, si rivela un’affermazione astratta, posto che i mezzi per darvi concerta attuazione non sono ovviamente illimitati.
Ne consegue la necessità, da parte degli Inquirenti, di concentrare le proprie forze sull’accertamento della responsabilità di determinati fatti, ritenuti più gravi ed allarmanti rispetto ad altri, con l’effetto di lasciare questi ultimi sostanzialmente impuniti, perché appunto destinati ad essere falcidiati dal meccanismo della estinzione per decorso del tempo.
Se dunque è fisiologico il ruolo di filtro svolto dalla prescrizione nella determinazione di ciò che è effettivamente punito (c.d. depenalizzazione di fatto), è però pure vero che il Legislatore, omettendo di attuare il disposto dell’art. 112 Cost. con la previsione di una scala legale di priorità da seguire nell’attività di investigazione dei fatti di rilevanza penale, espone il Pubblico Ministero, al cospetto dell’opinione pubblica, all’esiziale censura di compiere scelte dettate dall’opportunità, quando non addirittura arbitrarie.
Dall’altro lato, sotto il secondo evocato profilo, la prescrizione decreta l’estinzione del reato anche a processo già iniziato, cioè ad azione penale già esercitata e quindi funzionando, in tal caso, non già come prescrizione dell’azione, che si verifica nel corso delle indagini preliminari, bensì come prescrizione del processo, con corollari di tutt’altra natura e di ben altra portata.
Infatti, mentre è sicuramente un bene che, pendenti le ricerche dell’Autorità, cioè nel corso delle indagini, il termine di prescrizione sia tendenzialmente breve, non registrandosi – in tale fase – il pericolo di tattiche dilatorie da parte delle Difese, non ancora investite nel pieno delle proprie funzioni, ed essendo l’addebito ancora avvolto da un alone di incertezza, a scapito dell’indagato e dei suoi diritti alla certezza e alla prova, al contrario appare sommamente opportuno che, una volta formalizzata l’accusa con l’esercizio dell’azione penale, il termine fissato a pena di perenzione del reato sia tendenzialmente assai lungo.
In questa fase, invero, la contestazione del fatto e con essa le fonti di prova sono ormai cristallizzate, sicché scemano notevolmente i perigli per i diritti di difesa e di prova.
Inoltre, un termine estintivo troppo breve finirebbe per trasformare la prescrizione da una sanzione per l’inerzia degli Uffici giudicanti (come dovrebbe essere) in un premio per una difesa astuta e defatigante (come non dovrebbe mai accadere e come, invece, troppo spesso accade).
Si aggiunga poi un aspetto da sottolineare particolarmente.
Tutto il complesso delle garanzie di un sistema processuale che ambisca a definirsi veramente di tipo accusatorio non può funzionare a regime se non facendo sì che – come del resto accade lì dove tale modello è stato creato – la stragrande maggioranza dei procedimenti (almeno più del 90%) venga definito mediante riti semplificati (patteggiamento e abbreviato).
Mentre è per converso chiaro che la previsione di termini di prescrizione troppo brevi, tali appunto da farne un obiettivo, come si usa dire, ‘lucrabile’ da parte delle Difese, induce i più a scegliere il rito ordinario, così di fatto impedendo la piena realizzazione dell’ideale accusatorio, necessitante, visti i tempi richiesti dagli elevati standard garantistici che lo contraddistinguono, di udienze istruttorie sgombre e non certo sovraccariche di fascicoli così come – viceversa – si registra puntualmente nel nostro Paese .
Vigente l’attuale disciplina dei termini prescrizionali (molto spesso di 7 anni e 6 mesi, cioè addirittura più brevi di quelli – decennali – stabiliti per far valere un inadempimento contrattuale), è infatti un preciso obbligo deontologico dell’Avvocato, come tale assolutamente non censurabile, quello di tentare di ‘lucrare la prescrizione’.
Accade spesso e volentieri, dunque, che Difese ben attrezzate (e parimenti retribuite) riescano effettivamente a far saltare il banco, arrivando ad ottenere la prescrizione del processo.
I dati degli ultimi anni, del resto, parlano chiaro .
Dal 2003 al 2013 circa un milione di procedimenti penali si è prescritto ancora prima di esercitare l’azione penale, cioè in fase di indagini, il che - come si diceva - è piuttosto fisiologico, posto che è in questa fase che la prescrizione svolge, con le precisazioni di cui sopra, una legittima e del tutto fisiologica funzione di filtro selettivo nella costruzione del penalmente rilevante.
Lo scandalo è, piuttosto, che nello stesso arco temporale (10 anni) ben mezzo milione di reati si siano estinti – si badi bene – a processo già iniziato.
La responsabilità di questo immenso scempio, come detto, è del Legislatore, non certo del Foro, che ha invece giustamente messo a frutto ogni strumento utile a sottrarre il proprio cliente al rullo della macchina penale.
Né si può abboccare all’idea, ormai da qualche anno messa artatamente in circolazione, che la prescrizione, persino così come attualmente congegnata, stia lì a presidiare il canone della ragionevole durata del processo.
È infatti intuitivo, ed è stato comunque ben dimostrato , che la prescrizione non può assolutamente garantire, quantomeno in modo diretto , la realizzazione del principio della ragionevole durata, per il semplice fatto che il Costituente, con la formulazione di tale principio, ha preteso che ad intervenire in tempi sufficientemente celeri sia una sentenza di merito, cioè di accertamento della responsabilità o meno dell’imputato; non certo una pronuncia vuota come quella di avvenuta estinzione del reato.
Del resto, la disarmonia del meccanismo perentivo rispetto al principio di ragionevole durata è plasticamente dimostrata dalla legittima presenza, nel sistema, di reati non prescrittibili, rispetto ai quali – trattandosi solitamente di quelli più gravemente puniti – non si capirebbe il perché di una rinuncia alle tutele dell’art. 111 Cost. proprio nei casi dove è più forte l’esigenza di sottrarre il presunto innocente al pugno costrittore del magistero penale.
Dunque, per trarre una prima conclusione, se la prescrizione dell’azione penale può ancora svolgere un’utile funzione di filtro nella definitiva individuazione del raggio d’azione della pretesa punitiva dello Stato, al contrario la prescrizione del processo si rivela soltanto come un inutile quanto enorme dispendio di uomini e di mezzi, una sconfitta per tutti i protagonisti della vicenda processuale (in verità, a ben considerare, anche per molti imputati, che magari avrebbero potuto ottenere un’assoluzione nel merito).
La soluzione però – già lo si accennava – non può consistere in nient’altro che in una distinzione dei termini prescrizionali per fasi: un termine breve (2 anni e mezzo o al limite 3 anni dal fatto ) per l’esercizio dell’azione penale e un termine lungo (almeno 10 anni) per lo svolgimento del processo penale, a partire dall’esercizio dell’azione penale.
Questo secondo termine, quantomeno decennale, utile al compiuto svolgimento del processo penale, decorrente dal momento di formulazione dell’imputazione, dovrebbe poi essere posto comunque al riparo dalle manovre più di frequente messe in campo per consumarlo: non sarebbe una cattiva idea, sotto tale profilo, quella di prevedere nuove cause di sospensione della prescrizione, ad esempio nel caso di assenza giustificata di un teste, o di diniego del consenso, da parte della Difesa, all’utilizzo degli atti in caso di mutamento del Giudice.
E ben si comprende che, in tali casi, l’effetto sospensivo dovrebbe coprire tutto il tempo necessario ad acquisire gli elementi di prova mancanti: il teste assente giustificato, o la rinnovata audizione di tutti i testi già sentiti, in caso di mutamento della persona fisica del Giudicante, o di un membro del Collegio.
A quel punto, così congegnato il meccanismo dell’estinzione del processo, si ritiene che le Difese sarebbero messe all’angolo rispetto a un tentativo di allungare i tempi processuali (anche magari per cercare di beneficiare, un domani, di un provvedimento legislativo di clemenza o, a voler pensar male, semplicemente alla stregua dell’antico ma sempre valido precetto dum causa pendet...).
Infatti, l’Avvocato che non avesse fatto optare il proprio assistito per il rito abbreviato non potrebbe più invocare, onde giustificare le tattiche dilatorie messe in campo, il sacro diritto alla difesa , ma sarebbe piuttosto esposto al rischio di un’azione per responsabilità professionale, se un domani il cliente, una volta condannato, dovesse reclamare lo sconto di pena (1/3) non ottenuto.
In questo modo, l’istituto della prescrizione – del processo – sarebbe conservato, anche a garanzia dell’imputato, ma al tempo stesso restituito alla sua autentica funzione di sanzione di improcedibilità (in relazione alla gravità del fatto) per l’inerzia dell’Organo giudicante, e per altro verso sottratto ad abusi e strumentalizzazioni.
Inoltre, di fronte all’eventualità di un accertamento processuale dai tempi davvero intollerabili, verrebbe conservata la teorica possibilità, ma giustamente relegata ad extrema ratio, di ‘mandare tutto a carte quarantotto’.
Va tuttavia necessariamente chiarito che tale sorta di clausola di salvezza non è affatto un meccanismo di salvaguardia della ragionevole durata del processo , il cui limite, in quei casi, è già stato evidentemente di gran lunga oltrepassato, bensì un rimedio a garanzia dell’imputato, specie se innocente , rispetto al quale il buon senso impone di considerare che, a un certo punto, diventa preferibile un proscioglimento purchessia , piuttosto che dover attendere ancora anni, sottoposti al penoso giogo della macchina giudiziaria, pur di attendere il definitivo accertamento della verità dei fatti.
Infine, non è ozioso sottolineare che una riforma di tal segno avrebbe l’effetto di migliorare sensibilmente la qualità del lavoro di tutti gli operatori del diritto: dai Magistrati, cui sarebbe consentito di concentrarsi sui processi davvero più delicati e sui casi seriamente controversi, contrastando così la preoccupante progressiva burocratizzazione della funzione giurisdizionale, agli stessi Avvocati, rispetto ai quali la ‘nuova prescrizione’ fungerebbe – perlomeno nel settore penale – come una sorta di naturale criterio selettivo, facendo emergere i soli veramente capaci di affrontare il merito di un processo.
Al contrario, non si può assolutamente accogliere l’idea , lanciata evidentemente in una prospettiva di riforma dell’istituto di tipo monista , di non far decorrere la prescrizione fin tanto che la notitia criminis non sia pervenuta in possesso degli Inquirenti.
Tale soluzione, ispirata a un broccardo valevole in realtà soltanto in materia civile (contra non valentem agere non currit praescriptio), muove palesemente da un’erronea supposizione di fondo, e cioè che le Forze di Polizia non siano dotate di sufficienti poteri ispettivi da poter scoprire un fatto di reato sin dal momento immediatamente successivo alla sua consumazione .
Essa, inoltre, avrebbe l’effetto di annichilire d’un sol colpo ogni certezza del diritto sotto il profilo dei tempi processuali e, come è stato autorevolmente osservato, finirebbe per trasformare ogni reato in un illecito indefinitamente perseguibile, cioè praticamente imprescrittibile .
I progetti di legge all’ordine del giorno.
Allo stato attuale (si fa riferimento all’agosto 2016), il disegno di legge in materia di prescrizione è in discussione al Senato della Repubblica e reca il numero 2067: si tratta del progetto di iniziativa governativa, che ha assorbito quello (n. 1844) d’iniziativa parlamentare.
In questa sede, più che un’esegesi didascalica dell’articolato , è interessante compiere un tentativo di cogliere la ratio della riforma in cantiere.
Va premesso che la stessa sembra anzitutto ibridare due distinti modelli: quello della interruzione del corso della prescrizione in forza di determinati atti (che viene mantenuto, con alcune specificazioni) e quello della sospensione del procedimento per tempi determinati, di recente proposto in dottrina .
Quest’ultimo, in particolare, perseguirebbe la finalità di garantire la stasi dei termini di prescrizione fintantoché pendano, per un certo tempo ragionevole, rispettivamente il 1°, il 2° e il 3° grado del giudizio (questo, come si sa, di sola legittimità) .
Ora, le modifiche in corso di discussione al Senato introdurrebbero, se approvate, una disciplina spuria, nella misura in cui – da un lato – il modello della sospensione per tempi determinati imporrebbe la contestuale abrogazione del meccanismo della interruzione, invece mantenuto, come detto, dal d.d.l.; e dall’altro, perché la predetta sospensione del processo è ipotizzata per i soli gradi di gravame (un anno e mezzo per l’appello e un anno e mezzo anche per il ricorso per cassazione) e non anche per il primo grado, che continuerebbe pertanto ad essere esposto alle più fantasiose tattiche ostruzionistiche delle Difese.
Segnalata questa pecca di organicità e di coerenza sistematica, va tuttavia apprezzato il tentativo di garantire più tempo e più agio all’accertamento processuale nel suo complesso.
Quel che davvero non convince è, piuttosto, la disposizione secondo cui, in caso di assoluzione dell’imputato in secondo grado ovvero di annullamento della sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità ovvero di dichiarazione di nullità, i periodi di sospensione predetti (1 anno e 1/2 più 1 anno e 1/2) vanno ricomputati nel calcolo della prescrizione.
A parte l’incertezza giuridica prodotta dal dover computare i termini di estinzione di un reato secundum eventum litis, la norma sembra avere l’effetto di comprimere di fatto l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, reintroducendo per altra via una disparità delle armi nell’impugnare la decisione dell’organo giudicante già a suo tempo sanzionata con dichiarazione di illegittimità costituzionale .
Infine, ecco il principale motivo di censura del disegno di legge attualmente all’esame del Parlamento: esso muove ancora da una prospettiva ‘monista’ o ‘unitaria’ dell’istituto della prescrizione che a nostro avviso deve ritenersi superata, non cogliendo, secondo l’approccio dualistico qui condiviso, la diversissima funzionalità del meccanismo di perenzione a seconda che sia già stata esercitata, o meno, l’azione penale.
Merita invece sottolineare ancora una volta, onde rimarcare l’importanza di distinguere due separati termini di prescrizione, uno decorrente prima e l’altro dopo la chiusura delle indagini preliminari, che le due fasi sono governate da princìpi (ed esigenze) sostanzialmente antinomici.
Prima della formulazione dell’imputazione l’indagato è posto in una condizione di totale incertezza circa la propria sorte; non vi è stata ancora – specie se il reato è (in diritto o in fatto) bagatellare – quell’enorme profusione di energie processuali che caratterizza invece la fase del dibattimento; la Difesa è ancora di fatto impossibilitata a mettere in campo espedienti ostruzionistici o dilatori; le esigenze sono dunque quelle di una fisiologica selezione dei fatti più meritevoli di definitivo accertamento.
Dopo l’esercizio dell’azione penale, viceversa, l’addebito è ormai certo, ossia determinato, e con esso le relative fonti di prova; la locomotiva processuale si è messa interamente in moto; la Difesa è investita di tutti le proprie prerogative; l’esigenza è dunque quella di giungere, salvo casi davvero eccezionalissimi, ad un giudizio finale di innocenza o di colpevolezza.
Ebbene, a nostro avviso, un Paese che ambisca a coniugare efficienza e garanzia non può disconoscere tale naturale, notevole ambivalenza dell’estinzione del reato per decorso del tempo.