Sommario: Sezione I. Matrimonio e omosessualità. Le legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. – 1. La giurisprudenza tradizionale della Corte Suprema di Cassazione italiana sull’inesistenza giuridica del matrimonio tra persone dello stesso sesso. – 2. La questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di merito italiani e il problema della compatibilità del divieto di matrimonio omosessuale con le regole della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani. – 3. La pronuncia della Corte Costituzionale italiana sulla questione di legittimità del divieto del matrimonio omosessuale. – 4. L’orientamento della Corte europea dei diritti umani. – 5. La successiva giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione italiana. – 6. La legge 20 maggio 2016, n.76 e la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in Italia. – Sezione II. Filiazione e omosessualità. Le pronunce della Corte di Cassazione italiana sulla stepchild adoption e sulla trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero del figlio di due madri. – 1. Le fattispecie. – 2. L’adozione nella coppia omosessuale in Italia. – 3. La trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero del figlio di due madri.
Sez. I. Matrimonio e omosessualità. Le legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
1. La giurisprudenza tradizionale della Corte Suprema di Cassazione italiana sull’inesistenza giuridica del matrimonio tra persone dello stesso sesso.
Il codice civile italiano è entrato in vigore nel 1942. Il libro I del codice, dedicato alle persone e alla famiglia, è stato profondamente novellato con la legge di riforma del 1975[2] e, con particolare riguardo alla filiazione, con la legge del 2012[3] e il decreto legislativo delegato del 2013[4].
In nessuna disposizione del libro I del codice si rinviene una norma volta a vietare espressamente il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
L’uguaglianza di sesso, inoltre, non si rinviene tra gli impedimenti matrimoniali previsti dal medesimo libro I, tra i quali sono elencati la minore età (art.84), l’interdizione per infermità di mente (art.85), la mancanza di stato libero (art.86), la parentela, l’affinità, l’adozione (art.87), l’impedimento da delitto (art.88) e il c.d. lutto vedovile (art.89).
La mancata previsione della diversità di sesso tra le condizioni necessarie per contrarlo non può indurre, tuttavia, a ritenere ammesso il matrimonio tra persone di orientamento omosessuale.
Piuttosto, l’omissione legislativa deve essere spiegata alla luce della considerazione che solo di recente la realtà sociale ha posto all’attenzione del giurista la questione del matrimonio omosessuale, non considerata né dal legislatore del 1942 né dal legislatore del 1975, per i quali la diversità di sesso dei contraenti costituiva invece un presupposto indefettibile dell’istituto, come risulta inequivocabilmente sia dalle norme sulla celebrazione (artt.107 e 108 c.c.) sia da quelle sui diritti e doveri derivanti dal matrimonio (artt.143 e 143 bis c.c.) e dalla separazione (art.156 bis), in cui vengono ripetutamente utilizzati i termini “marito” e “moglie” con evidente riferimento, rispettivamente, al coniuge di sesso maschile e al coniuge di sesso femminile.
Movendo da tali considerazioni la giurisprudenza tradizionale di legittimità riteneva che la manifestazione di volontà matrimoniale da parte di due persone di sesso diverso, espressa in presenza di un ufficiale celebrante, costituisse il requisito minimo per la stessa giuridica configurabilità del matrimonio nell’ordinamento italiano, in assenza del quale esso avrebbe dovuto reputarsi, non semplicemente nullo, ma persino inesistente, per mancanza della realtà naturalistica della fattispecie[5] .
Alla luce di questo orientamento si soleva dunque ritenere che le norme del codice civile, sistematicamente interpretate, non consentissero il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
2. La questione di legittimità costituzionale sollevata dai giudici di merito italiani e il problema della compatibilità del divieto di matrimonio omosessuale con le regole della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani.
Posto tale orientamento, alcuni giudici italiani[6] si erano chiesti se il divieto desumibile dalle norme del codice civile non fosse contrario alla Costituzione repubblicana.
Tra i profili di illegittimità costituzionale individuati dai giudici italiani, era emerso in particolare quello del possibile contrasto con il nuovo art.117, come riformulato in seguito alla riforma del Titolo V della Costituzione, operata con legge costituzionale n.3 del 2001[7].
La nuova formulazione dell’art.117 della Costituzione impone che la potestà legislativa sia esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Per effetto di questa previsione, le norme di diritto internazionale pattizio, ed in particolare quelle della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali (Convenzione EDU), hanno assunto la natura di regole interposte tra la legge e il parametro costituzionale che sono deputate ad integrare.
In ragione di ciò, le eventuali antinomie tra norme interne e norme convenzionali non sono più regolate dal mero criterio cronologico di raccordo tra le fonti del diritto[8], ma dal diverso criterio in base al quale la prevalenza spetta sempre alla norma della convenzione, con la conseguenza che, sebbene al giudice non sia consentito procedere all’applicazione diretta di quest’ultima, tuttavia egli è tenuto ad interpretare le norme di diritto interno in senso conforme alle norme convenzionali, e, nei casi in cui l’interpretazione conforme non risulti possibile, a sollevare la questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione del citato parametro costituzionale, come integrato dalla norma convenzionale[9].
Tanto premesso, i giudici italiani avevano considerato quali regole interposte, integrative del parametro di cui all’art.117 della Costituzione, gli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani, che sanciscono, rispettivamente, il diritto alla vita privata e familiare[10], il diritto al matrimonio[11] e il divieto di discriminazione[12].
Ci si era chiesti quindi se il divieto di contrarre matrimonio tra persone dello stesso sesso non introducesse una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale in ordine alla possibilità di esercitare il diritto alla vita familiare o quanto meno alla vita privata o in ordine alla possibilità di esercitare il diritto a sposarsi e a costituire una famiglia.
Con particolare riguardo al diritto di contrarre matrimonio, il sospetto di illegittimità costituzionale del divieto di matrimonio omosessuale per contrasto della norma interna con quella sovranazionale si era rafforzato in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1° dicembre 2009).
Come è noto, questo nuovo trattato, volto a modificare quello sull’Unione Europea e quello istitutivo della Comunità Europea[13], ha introdotto per la prima volta, nel diritto comunitario, la tutela dei diritti fondamentali della persona, attraverso un duplice rinvio.
Con un primo rinvio, sono state recepite le norme consacrate nella “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e già destinata ad essere parte integrante della sfortunata Costituzione europea, il cui processo di ratifica nei singoli Stati membri si era interrotto a seguito degli esiti negativi delle consultazioni referendarie indette in Francia e in Olanda nel 2005[14].
Con un secondo rinvio, è stato confermato che le norme della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali sono principi generali del diritto dell’Unione, di tal che esse cessano di essere mere regole di diritto internazionale pattizio per entrare a far parte delle fonti del diritto comunitario[15].
Le novità introdotte dal Trattato di Lisbona avevano assunto notevole rilevanza in ordine al problema del divieto posto dal diritto interno al matrimonio omosessuale, in quanto l’introduzione tra le fonti comunitarie della Carta di Nizza, e cioè di una Carta cui non era stata ancora attribuita efficacia, aveva rafforzato il sospetto di illegittimità costituzionale del divieto.
L’art.9 della Carta[16] ripete nella sostanza il dettato dell’art.12 CEDU, ma con due significative differenze.
In primo luogo, non vi è più lo specifico riferimento all’ “uomo” e alla “donna” come destinatari del diritto, che viene invece riconosciuto come diritto fondamentale della persona, senza alcuna specificazione in ordine al sesso, con conseguente eliminazione, anche meramente testuale, di ogni possibile riferimento al presupposto della diversità di sesso dei contraenti.
In secondo luogo, la nuova formula normativa, parlando del “diritto di sposarsi” e del “diritto di costituire una famiglia” chiarisce, conformemente all’orientamento espresso dalla Corte europea dei diritti umani[17], che si tratta di due diritti distinti, ognuno dei quali riceve tutela autonoma, per modo che, se da un lato l’interesse a formare una famiglia viene considerato meritevole di tutela indipendentemente da quello di contrarre matrimonio (ciò che si traduce in un evidente riconoscimento delle convivenze di fatto), dall’altro lato anche l’interesse a sposarsi è considerato meritevole di essere tutelato in sé e per sé, indipendentemente da quello a costituire una famiglia.
3. La pronuncia della Corte Costituzionale italiana sulla questione di legittimità del divieto del matrimonio omosessuale.
Con la sentenza n.138 del 2010 la Corte Costituzionale italiana ha pronunciato sulla questione di illegittimità costituzionale sollevata dai giudici di merito[18].
Con riguardo ai profili concernenti l’eventuale contrasto del divieto di matrimonio omosessuale con gli artt.3 e 29 Cost., la Corte Costituzionale ha ritenuto non fondata la questione, sulla base delle osservazioni seguenti.
A) L’art.29, primo comma, della Costituzione italiana stabilisce, che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Questa norma – ha chiarito la Corte Costituzionale – pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, che l’assemblea costituente definì “società naturale” per sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti al diritto positivo dello Stato, che questo doveva riconoscere. Quale società naturale, essa si distingue dalle altre formazioni sociali contemplate dall’art.2, pur meritevoli di tutela in quanto in esse si svolge la personalità dell’uomo e vengono esercitati i diritti fondamentali della persona: diversamente da queste, infatti, la famiglia legittima trova fondamento nel matrimonio, che ne costituisce l’elemento distintivo[19].
B) Tanto premesso, la Corte si è chiesta se la nozione di matrimonio, quale elemento distintivo della famiglia legittima secondo la Costituzione, debba essere riferita alle sole unioni tra persone di sesso diverso oppure possa essere allargata anche alle unioni tra persone dello stesso sesso. Al riguardo la Corte Costituzionale ha evidenziato che l’art.29, secondo comma, della Costituzione, prevede che “Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare”. Sebbene debba tenersi conto dell’evoluzione del concetto di famiglia e di matrimonio nella società e nei costumi, tuttavia l’interpretazione della norma non può spingersi fino alla creazione di una norma nuova, completamente diversa da quella che i costituenti avevano voluto scrivere. Al riguardo – ha aggiunto la Corte Costituzionale – deve tenersi presente che l’assemblea costituente, pur conoscendo la condizione omosessuale, non prese in alcuna considerazione la questione delle unioni omosessuali ritenendo di accogliere nell’art.29 la nozione di matrimonio definita nel codice civile del 1942, in ragione della quale l’istituto matrimoniale deve intendersi riferito esclusivamente a persone di sesso diverso. In tal senso – ha ulteriormente precisato la Corte Costituzionale – depone l’accento posto dai costituenti sull’esigenza di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi quale esigenza di attribuire pari dignità e diritti alla donna, parte debole e tradizionalmente discriminata nel rapporto coniugale[20].
C) Sulla base di queste considerazioni, la Corte Costituzionale italiana ha concluso che le norme del codice civile sospettate di illegittimità costituzionale non violano né l’art.3 né l’art.29 della Costituzione: non violano l’art. 3 perché le unioni omosessuali, pur rientrando tra le formazioni sociali di cui all’art.2 Cost., non sono equiparabili al matrimonio; non violano l’art.29 perché il matrimonio contemplato da questa norma è quello tradizionale che presuppone l’unione tra persone di sesso diverso[21].
Con riguardo ai profili concernenti l’eventuale contrasto del divieto di matrimonio omosessuale con gli artt. 2 e 117 della Costituzione, la Corte Costituzionale ha ritenuto inammissibile la questione, sulla base delle osservazioni seguenti.
A) Una volta individuate le norme interposte integrative dell’art.117 della Costituzione negli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani, la Corte ha ritenuto che deve farsi riferimento all’art.12, quale norma speciale rispetto alle altre, essendo specificamente deputata alla disciplina del diritto al matrimonio e alla costituzione della famiglia. Essa – ha aggiunto la Corte Costituzionale – deve essere letta tenendo presente anche l’art.9 della Carta di Nizza che contempla il medesimo diritto con due varianti testuali cui possono ricondursi effetti di carattere sostanziale[22].
B) Ciò posto, la Corte ha evidenziato come tanto l’art.12 CEDU quanto l’art.9 della carta di Nizza stabiliscano che il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia è tutelato secondo le leggi nazionali che ne regolano l’esercizio. Il rinvio alle leggi nazionali sta a significare – precisa la Corte – che l’ordinamento sovranazionale non vieta né impone il riconoscimento dello status matrimoniale alle unioni tra persone dello stesso sesso. Spetta infatti ad ogni singolo Stato decidere il quomodo della tutela di queste unioni: essa può essere realizzata o attraverso l’allargamento dell’istituto matrimoniale oppure attraverso la previsione di un nuovo istituto connotato da uno specifico regime e volto ad attribuire uno specifico status che presupponga tuttavia il riconoscimento normativo dell’unione omosessuale e ne preveda l’adeguata tutela[23].
C) Tali conclusioni – ad avviso della Corte – trovano conferma nel riferimento all’art.2 della Costituzione. Le unioni omosessuali infatti, pur non essendo omogenee al matrimonio tra uomo e donna, rientrano tra le formazioni sociali ove si svolge la personalità umana e nelle quali vengono esercitati i diritti fondamentali della persona che lo Stato è tenuto a riconoscere e garantire. Dunque, secondo la Corte Costituzionale, il legislatore è tenuto a regolare il fenomeno delle unioni omosessuali onde riconoscere la dignità di queste formazioni sociali e garantirne la tutela mediante l’attribuzione ai membri di esse di uno specifico status[24].
4. L’orientamento della Corte europea dei diritti umani.
L’orientamento della Corte Costituzionale italiana sembra conforme a quello emerso in seno alla Corte europea dei diritti umani in ordine all’interpretazione degli artt. 8, 12 e 14 della Convenzione EDU.
Come è noto la Corte di Strasburgo si è pronunciata sull’argomento con la ormai storica sentenza del 24 giugno 2010, sul caso “Schalk e Kopf c. Austria”, provocato dal ricorso di due cittadini viennesi ai quali, in quanto coppia omosessuale, era stata negata la possibilità di contrarre matrimonio[25].
Il codice civile austriaco, infatti, prevede espressamente che possano unirsi in matrimonio solo persone di sesso opposto (art.44 Allgemeines Burgeliches Gesetzbuch del 1812) mentre le unioni omosessuali sono riconosciute e tutelate dalla apposita Legge sulle Unioni registrate (Eingetragene Partnerschaft-Gesetz), entrata in vigore il 1° gennaio 2010, e presentano un regime che assomiglia a quello matrimoniale, discostandosene per taluni aspetti che concernono in particolare i diritti genitoriali, essendo vietata ai membri dell’unione omosessuale l’adozione, l’adozione del figlio del partner e la procreazione artificiale.
Tanto premesso, con riguardo all’asserita violazione dell’art.12 CEDU, premessa la necessaria comparazione di questa norma con l’art.9 della Carta di Nizza, La Corte europea dei diritti umani ha rilevato che il riferimento alla legislazione nazionale rende evidente come si sia voluta conservare discrezionalità ai singoli Stati circa la scelta se ammettere o meno il matrimonio omosessuale. Se, da un lato, il diritto al matrimonio non deve essere necessariamente limitato ai soli casi di unione tra persone di sesso opposto, dall’altro lato, esso diritto non deve neppure essere necessariamente esteso alle unioni tra persone dello stesso sesso, spettando la scelta al legislatore nazionale. Ciò trova giustificazione nella circostanza che il matrimonio è un istituto che riflette gli specifici valori sociali e culturali dei diversi paesi, rispetto al quale dunque è giusto conservare un margine di discrezionalità ai singoli Stati. Il divieto di matrimonio omosessuale non viola dunque l’art.12 CEDU perché questa norma non obbliga i singoli Stati a concederlo[26].
Con riguardo all’asserita violazione dell’art.14 in relazione all’art.8 CEDU, premesso che la stabile relazione di una coppia omosessuale rientra non solo nella nozione di vita privata ma manche in quella di vita familiare, analogamente alla relazione stabile di una coppia eterosessuale, la Corte di Strasburgo ha ricordato che per esservi una discriminazione (in tesi fondata sull’orientamento sessuale) non basta una disparità di trattamento delle persone ma occorre che tale disparità sia posta in essere con riguardo a persone “in situazioni relativamente simili”, ossia non risulti giustificata dalla diversità delle situazioni oggetto di comparazione. Le coppie omosessuali sono in situazione “relativamente simile” alle coppie eterosessuali perché hanno la stessa capacità di costituire stabili relazioni impegnative. Come le coppie eterosessuali anche le coppie omosessuali che vivono un rapporto stabile devono dunque trovare nell’ordinamento statuale riconoscimento e tutela in mancanza dei quali vi sarebbe violazione dell’art.8 CEDU. Questo riconoscimento e questa tutela, tuttavia, non necessariamente devono essere sovrapponibili a quelli attuati attraverso l’istituto del matrimonio, in quanto lo status conferito alle unioni omosessuali può anche non corrispondere allo status matrimoniale, purché siano regolati i diritti e doveri reciproci della coppia. Di conseguenza, allorché un ordinamento, come quello austriaco, attraverso una legge speciale, conferisca alle unioni omosessuali uno status simile al matrimonio (salve le differenze relative ai diritti genitoriali) non può ritenersi che vi sia un trattamento discriminatorio e non può ritenersi violato l’art.14 in relazione all’art.8 CEDU[27].
5. La successiva giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione italiana.
Dell’orientamento della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti umani ha preso atto la Suprema Corte di Cassazione italiana.
La circostanza che, per un verso, il legislatore di ogni singolo Stato possa decidere di estendere l’istituto matrimoniale alle coppie omosessuali, mentre, per altro verso, tale estensione non sia imposta dall’ordinamento sovranazionale (sicché la normativa interna ben può continuare a prevedere il divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso purché tale divieto sia accompagnato da una disciplina di riconoscimento e di tutela specifica delle unioni omosessuali), ha indotto la Suprema Corte di Cassazione a rivedere l’orientamento tradizionale che individuava nella diversità di sesso dei coniugi la condizione naturalistica di esistenza del matrimonio.
Dinanzi alla richiesta di trascrizione in Italia di un atto di matrimonio contratto in Olanda da due cittadini italiani dello stesso sesso, la Corte ha quindi bensì confermato la sentenza di merito che aveva respinto il ricorso degli sposi contro il diniego di trascrizione, ma ne ha corretto la motivazione, basando la decisione negativa, non già sull’inesistenza del matrimonio contratto all’estero, ma sulla sua giuridica inefficacia nell’ordinamento italiano[28].
6. La legge 20 maggio 2016, n.76 e la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso in Italia.
Con un certo ritardo il legislatore italiano ha preso atto delle pronunce della Corte Costituzionale e della Corte europea dei diritti umani e ha emanato una legge per il riconoscimento e la tutela delle unioni tra persone dello stesso sesso.
Esercitando la discrezionalità riconosciuta dall’art.12 CEDU e dall’art.9 della Carta di Nizza, il legislatore italiano ha omesso di estendere l’istituto del matrimonio alle coppie omosessuali; peraltro, adempiendo all’obbligo imposto dall’art.8 in combinato disposto con l’articolo 14 CEDU (ed in conformità all’art.2 della Costituzione repubblicana) ha predisposto una normativa volta a riconoscere le unioni omosessuali e a prevedere la regolamentazione dei doveri e diritti reciproci della coppia attraverso l’attribuzione di uno specifico status.
Questa disciplina è contenuta nella legge 20 maggio 2016, n.76, (“Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”), la quale prevede che due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un’unione civile mediante dichiarazione di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni (art.1, co.2).
La costituzione di un’unione civile attribuisce ai membri della coppia diritti e doveri comparabili a quelli del matrimonio ed uno status complessivamente simile a quello matrimoniale, sia sul piano personale che sul piano patrimoniale.
Sul piano personale, la legge prevede che con la costituzione dell’unione civile tra persone dello stesso le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’ assistenza morale e materiale e alla coabitazione; entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni (art.1, co. 11); le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo concordato (art.1, co.12).
Si tratta di previsioni che ricalcano quelle contenute nel codice civile con riguardo ai diritti e doveri nascenti dal matrimonio, con l’unica eccezione dell’obbligo reciproco alla fedeltà (artt.143 e 144).
Sul piano patrimoniale, la legge prevede che il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso è costituito dalla comunione dei beni. Questo regime, analogamente a quanto accade nel matrimonio, può tuttavia essere modificato, attraverso una convenzione matrimoniale (art. 1, co.13).
Le differenze più marcate con lo status matrimoniale concernono dunque i diritti genitoriali. Alla coppia omosessuale che ha costituito un’unione civile non è infatti consentita l’adozione in quanto la legge stabilisce che in materia di adozione resta fermo quanto previsto e consentito dalle norme vigenti (art.1, co.20).
Sez. II. Filiazione e omosessualità. Le pronunce della Corte di Cassazione italiana sulla stepchild adoption e sulla trascrizione nei registri di stato civile dell’atto di nascita straniero di figlio di coppia omosessuale.
1. Le fattispecie.
I casi in cui un rapporto di filiazione può instaurarsi nell’ambito di una coppia omosessuale sono i seguenti:
a) Il caso della coppia gay o lesbica che voglia adottare un bambino con adozione piena o legittimante;
b) Il caso dell’omosessuale che abbia avuto un figlio nell’ambito di una precedente relazione eterosessuale o attraverso una tecnica di procreazione artificiale o di maternità surrogata e che voglia far adottare il figlio dal proprio partner (c.d. second parent adoption o stepchild adoption);
c) Il caso della coppia gay che decida di avere un figlio. La tecnica è quella della maternità surrogata: viene fecondato in vitro l’ovocita di una donatrice con il seme maschile di uno dei due uomini della coppia che diventerà il padre del nascituro; l’ovocita viene quindi introdotto nell’utero della gestante che inizia la gravidanza; dopo il parto, il bambino sarà adottato dal secondo membro della coppia; il figlio avrà due padri.
d) Il caso della coppia lesbica che decida di avere un figlio. La tecnica è quella della fecondazione eterologa: viene fecondato in vitro l’ovocita di una delle due donne componenti della coppia; l’ovocita viene quindi introdotto nell’utero dell’altra che inizia la gravidanza; il figlio avrà due madri.
2. L’adozione nella coppia omosessuale in Italia.
Nell’ordinamento italiano l’adozione dei bambini e, in genere, dei minori di età (cc.dd. adozione piena o legittimante) è disciplinata dalla legge 4 maggio 1983, n.184, riformata dalla legge 28 marzo 2001, n.149 e, da ultimo, dalla legge 19 ottobre 2015, n. 173 (“Diritto del minore ad una famiglia”).
La legge proclama anzitutto il diritto fondamentale del minore di crescere ed essere educato nella sua famiglia di origine (art.1, co.1) e prevede che di questo diritto debba essere assicurata l’effettività, stabilendo che lo Stato e gli altri enti territoriali sostengano con idonei interventi i nuclei familiari a rischio, in particolare quelli che versano in condizioni di povertà e di indigenza (art.1, co.2 e 3).
Nell’ipotesi in cui, nonostante tali interventi, la famiglia di origine non sia in grado di provvedere alla crescita e alla educazione del bambino, questo può essere dato in affidamento eterofamiliare se la situazione di inidoneità della famiglia d’origine sia temporanea (artt.2, 3, 4, 5); può essere dato in adozione se la situazione di inidoneità della famiglia di origine sia definitiva.
Presupposto dell’adozione, precisamente, è la situazione di abbandono del bambino derivante dalla privazione non temporanea dell’assistenza morale e materiale che la famiglia d’origine dovrebbe prestargli (art.8). In tal caso il minore mantiene il diritto di crescere ed essere educato in una famiglia e, non potendo esercitarlo in quella d’origine, acquisisce il diritto succedaneo ad una idonea famiglia sostitutiva.
I requisiti degli adottanti sono i seguenti. Occorre: 1) che siano uniti in matrimonio; 2) che la loro convivenza sia stabile e continuativa da almeno tre anni; 3) che siano affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i bambini che vogliono adottare; 4) che abbiano un’età che superi di almeno 18 anni e di non più di 45 anni quella dell’adottando (art.6).
La necessità della previa unione in matrimonio esclude la possibilità di adozione per le coppie omosessuali.
Queste infatti, come si è visto, sono regolate dalla legge 20 maggio 2016, n.76, la quale prevede che due persone maggiorenni dello stesso sesso possono costituire un’unione civile, ma non unirsi in matrimonio.
La stessa legge inoltre, come si è visto, non conferisce diritti genitoriali all’unione civile tra persone dello stesso sesso, in quanto stabilisce che in materia di adozione resta fermo quanto previsto e consentito dalle norme vigenti (art.1, co.20).
Deve invece ritenersi consentita, nell’ambito della coppia omosessuale, la limitata misura dell’affidamento eterofamiliare, nell’ipotesi in cui il distacco del bambino dalla famiglia di origine sia solo temporaneo.
La legge infatti prevede che il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno (art.2, co.1) e che ove non sia possibile l’affidamento ad una famiglia o ad una persona singola, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato (art.2, co.2).
Se dunque il minore può essere dato in affidamento anche ad una persona singola, a maggior ragione può essere dato in affidamento ad una coppia omosessuale che abbia i requisiti di idoneità previsti dalla norma, incorrendosi altrimenti in una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale[29].
Al verificarsi di specifici presupposti, deve inoltre ritenersi consentita, secondo l’orientamento della Corte Suprema di Cassazione italiana, l’adozione in casi particolari, o adozione non legittimante.
Essa è disciplinata dall’art.44 della legge n.184/1983, il quale prevede che i minori possono essere adottati anche quando non siano stati dichiarati in stato di adottabilità secondo la procedura propria dell’adozione legittimante: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) da chiunque quando oltre ad essere orfano di entrambi i genitori, il minore sia portatore di handicap; d) da chiunque quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo. Nei casi di cui alle lettere a), c) e d) l’adottante può anche essere persona non coniugata (c.d. adozione del single).
Sulla base di questa norma, recentemente la Corte Suprema di Cassazione italiana[30] ha confermato la sentenza di merito che aveva pronunciato l’adozione da parte della partner omosessuale del minore figlio dell’altra partner che aveva fatto ricorso ad una tecnica di fecondazione artificiale.
Nella fattispecie, le due donne erano legate da una relazione sentimentale e di convivenza sin dal 2003 e la nascita del bambino era stata il frutto di un progetto genitoriale maturato insieme. La decisione di scegliere la più giovane, ai fini della gravidanza, era stata dettata dalle maggiori probabilità di successo delle procedure di procreazione medicalmente assistita effettuate in Spagna. Peraltro, il bambino era vissuto con entrambi sin dalla nascita. Ricevuta la richiesta di adozione della partner non genitrice, il Tribunale dei minorenni di Roma, acquisito il consenso della madre, aveva disposto l’adozione con aggiunta del cognome dell’adottante a quello che l’adottata aveva preso dalla madre. La decisione, a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero, era stata confermata dalla Corte di Appello di Roma.
La Corte Suprema di Cassazione ha respinto l’ulteriore ricorso del procuratore generale presso la Corte di Appello, sulla base dei seguenti rilievi:
A) nella fattispecie, se non si applica la lettera b) dell’art.44 legge n.184/1983 (che prevede la second partner adoption solo a favore del coniuge), può tuttavia trovare applicazione la lettera d) del medesimo articolo, che subordina l’adozione alla sola condizione della “constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. Diversamente da quanto ritenuto dal pubblico ministero, questa norma va interpretata non già in senso restrittivo (quale impossibilità di fatto, che presuppone l’accertamento dello stato di abbandono del minore e la dichiarazione di adottabilità non seguiti dalla disponibilità di coppie coniugate ad avere il minore in affidamento preadottivo e poi in adozione) ma in senso estensivo (quale impossibilità di diritto che sussiste anche nell’ipotesi in cui non possa farsi luogo alla dichiarazione di adottabilità perché non sussiste il presupposto dell’abbandono del minore[31]).
B) In questo caso l’adozione del minore (che non versa in stato di abbandono perché già assistito moralmente e materialmente da un genitore o un parente tenuto a provvedervi) si giustifica tuttavia in relazione al suo superiore interesse (il best interest del minore, emerso sia nell’ordinamento interno che nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani) la tutela del quale impone di formalizzare e conservare la stabile e positiva relazione di fatto instauratasi con un’altra persona in funzione della salvaguardia della continuità affettiva[32].
Il riconoscimento della stepchild adoption nell’ambito della coppia omosessuale da parte della giurisprudenza italiana deve essere inquadrato nell’ambito dell’ordinamento sovranazionale tenendo conto delle pronunce della Corte europea dei diritti umani.
La Corte di Strasburgo in una prima pronuncia aveva ritenuto non discriminatorio il divieto previsto dall’ordinamento francese (nell’ambito del quale la second parent adoption è consentita solo tra coppie coniugate) sul rilievo che in questo caso le coppie omosessuali di fatto sono trattate alla stessa stregua della coppie eterosessuali di fatto e che la diversità di trattamento non è fondata sull’orientamento sessuale ma sulla circostanza che lo status riconosciuto alle coppie di fatto (omosessuali o eterosessuali) unite civilmente (nella fattispecie si trattava di una coppia di donne omosessuali, che avevano costituito un unione civile – pacte civil de solidarité, applicabile sia alle coppie omosessuali che a quelle eterosessuali – l’una delle quali desiderava adottare il figlio avuto dall’altra con una tecnica di procreazione artificiale) non è sovrapponibile a quello derivante dal matrimonio[33].
In altra pronuncia, invece, la Corte europea dei diritti umani ha ritenuto discriminatorio il divieto sancito dall’ordinamento austriaco (nell’ambito del quale la stepchild adoption è consentita alle coppie eterosessuali di fatto ma non alle coppie omosessuali) sul rilievo che in questo caso la coppia di fatto omosessuale sarebbe trattata diversamente da quella eterosessuale e tale diversità di trattamento, non basata sul riconoscimento di uno status diversificato, sarebbe fondata unicamente sull’orientamento sessuale[34].
Nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo il tertium comparationis è dunque costituito dalle coppie eterosessuali non unite in matrimonio, dovendosi riconoscere alle coppie omosessuali uno status non deteriore rispetto a queste. Laddove, come in Francia, l’adozione del figlio del partner non è consentita alla coppia eterosessuale di fatto, il divieto posto alle coppie omosessuali è stato ritenuto non discriminatorio; laddove, invece, come in Austria, le coppie eterosessuali non unite in matrimonio possono accedere alla stepchild adoption, il divieto posto alle coppie omosessuali è stato ritenuto discriminatorio.
Il riconoscimento, da parte della Suprema Corte di Cassazione italiana, della second parent adoption nell’ambito delle coppie omosessuali apre alla possibilità che l’istituto sia utilizzato anche nel caso della coppia gay che ricorra alla surrogazione di maternità per avere un figlio. In tale ipotesi viene fecondato in vitro l’ovocita di una donatrice con il seme maschile di uno dei due uomini della coppia che diventerà il padre del nascituro; l’ovocita viene quindi introdotto nell’utero della gestante che inizia la gravidanza; dopo il parto, poiché il bambino è figlio soltanto di uno dei membri della coppia (il genitore biologico), l’altro membro avrà interesse all’adozione al fine di formalizzare il legame familiare già esistente di fatto e attribuire al bambino un secondo padre[35].
3. La trascrizione in Italia dell’atto di nascita straniero del figlio di due madri.
L’ulteriore ipotesi in cui un rapporto di filiazione può instaurarsi all’interno di una coppia omosessuale si riconduce al caso della coppia lesbica che decida di avere un figlio utilizzando la tecnica della fecondazione eterologa: viene fecondato in vitro l’ovocita di una delle due donne componenti della coppia con il seme di un donatore anonimo; l’ovocita viene quindi introdotto nell’utero dell’altra che inizia la gravidanza; il figlio avrà due madri, una genetica una uterina.
Questo caso è stato portato all’attenzione della Corte Suprema di Cassazione italiana.
Nella fattispecie due donne, una cittadina spagnola e una cittadina italiana, si erano unite in matrimonio in Spagna e in costanza di tale matrimonio era nato un bambino, concepito mediante procreazione medicalmente assistita attraverso l’introduzione nell’utero dell’una degli ovuli dell’altra previamente fecondati in vitro. Dal certificato di nascita risultava che per l’ordinamento spagnolo il bambino era figlio di entrambe le madri (identificate come “Madre A” e “Madre B”), era cittadino spagnolo e portava il cognome di entrambe.
Le due donne avevano chiesto congiuntamente la trascrizione dell’atto di nascita in Italia ma l’ufficiale dello Stato civile l’aveva negata per ragioni di ordine pubblico.
Successivamente le donne avevano consensualmente divorziato in Spagna e il minore era stato dato in affidamento congiunto ad entrambe con condivisione della responsabilità genitoriale.
Esse avevano quindi impugnato dinanzi al giudice il diniego dell’ufficiale dello Stato civile.
In primo grado il Tribunale aveva respinto il ricorso ritenendo che la domanda di trascrizione contrastasse con l’ordine pubblico italiano. Il giudice aveva argomentato dalla norma che consente il riconoscimento in Italia di provvedimenti amministrativi stranieri relativi all’esistenza di rapporti di famiglia solo quando essi non siano contrari all’ordine pubblico (art.65 legge 31 maggio 1995, n. 218, Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato)[36]. Secondo il tribunale un principio di ordine pubblico sarebbe espresso dalla norma imperativa contenuta nel codice civile, secondo cui nell’ordinamento italiano madre è soltanto colei che ha partorito il bambino (art.269, terzo comma)[37]. Secondo il tribunale, dunque, l’invocata trascrizione contrastava con l’ordine pubblico perché avrebbe consentito di attribuire lo status di madre anche a colei (la madre genetica) che non aveva partorito il bambino.
La pronuncia del tribunale era stata riformata dalla Corte di Appello la quale aveva ordinato all’ufficiale dello stato civile di procedere alla trascrizione dell’atto di nascita, traendo argomento da una diversa concezione dell’ordine pubblico: la nozione di ordine pubblico rilevante ai fini del diritto internazionale privato sarebbe – secondo la Corte di Appello – l’ordine pubblico internazionale, e cioè il complesso dei principi caratterizzanti l’ordinamento interno in un determinato periodo storico e fondati sulle esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona, comuni ai diversi ordinamenti e promananti da valori condivisi nella comunità giuridica sovranazionale, valori che trovano espressione, in particolare, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. La Corte di appello aveva inoltre richiamato l’esigenza di tutela del superiore interesse del minore la quale imponeva la conservazione di una situazione (il rapporto genitoriale con la madre genetica) che si era prolungata nel tempo, atteso che il bambino, di fatto, era cresciuto ed educato da entrambe le donne (entrambi riconosciute come madri dalla legge spagnola) sicché il disconoscimento di tale rapporto avrebbe leso il suo diritto all’identità personale e il suo status, arrecandogli concreti pregiudizi determinati: dall’impossibilità di intrattenere rapporti giuridicamente rilevanti con la madre genetica e con i parenti di lei; dalla mancanza, in Italia, del soggetto titolare della responsabilità genitoriale e del potere di rappresentarlo con le istituzioni sanitarie e scolastiche; dalla perdita dei diritti successori.
La Corte Suprema di Cassazione, anche in questo caso adìta dal ricorso del procuratore generale della Corte di Appello, ha confermato la pronuncia di quest’ultima, muovendo da due considerazioni, l’una attinente al limite dell’ordine pubblico, l’altra attinente al best interest del minore.
A) Con riguardo all’ordine pubblico la Corte Suprema di Cassazione ha evidenziato come nell’elaborazione del concetto vi sia stata un’evoluzione nella giurisprudenza italiana da una concezione statualista ad una concezione di apertura agli ordinamenti esterni. Nella concezione statualista, l’ordine pubblico era una barriera eretta dall’ordinamento giuridico nazionale funzionale alla salvaguardia di determinati valori etici e politici. Esso dunque escludeva la possibilità di applicare norme straniere - o di consentire l’operatività in Italia di atti amministrativi stranieri - che fossero espressione di principi etici e politici contrastasti con quelli dell’ordinamento interno. In questa concezione la veste che l’ordine pubblico assumeva era quello delle norme imperative. Una legge o un atto amministrativo straniero contrastanti con le norme imperative era dunque sempre un atto contrario all’ordine pubblico. Nella concezione aperta agli ordinamenti esterni l’ordine pubblico è il complesso dei principi ispirati ad esigenze di tutela dei diritti fondamentali della persona comuni ai diversi ordinamenti e collocati ad un livello sovraordinato rispetto alla legislazione ordinaria. In questa concezione a) la tutela dei diritti fondamentali è il contenuto dell’ordine pubblico mentre b) la fonte di esso va ricercata nelle fonti normative che si pongono, a livello gerarchico, su una posizione superiore rispetto alla legge ordinaria, vale a dire, anzitutto, la Costituzione repubblicana, ma anche, in secondo luogo, i trattati fondativi e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché la Convenzione europea dei diritti umani. Una legge o un atto amministrativo straniero che sia funzionale ad assicurare la tutela dei predetti valori costituzionali o comunque sovraordinati deve dunque trovare riconoscimento nell’ordinamento italiano anche se contrastante con norme imperative poste dalla legislazione ordinaria. Al riguardo la Corte di Cassazione ha portato l’esempio della giurisprudenza che negli anni sessanta del secolo scorso aveva negato l’ingresso alle sentenze straniere di divorzio solo perché la legislazione ordinaria dell’epoca stabiliva l’indissolubilità del matrimonio, sebbene tale indissolubilità non esprimesse alcun principio o valore costituzionale essenziale ai fini della tutela dei diritti fondamentali della persona; questa giurisprudenza – ha chiarito la Corte – si giustificava nell’ambito della concezione statualista dell’ordine pubblico ma non sarebbe conforme alla nuova concezione dell’ordine pubblico internazionale quale complesso di principi nascenti dalle fonti costituzionali o sub costituzionali e funzionali alla tutela dei diritti fondamentali. La contrarietà all’ordine pubblico (con conseguente necessità di negare l’applicazione o l’efficacia in Italia alla legge o all’atto amministrativo straniero) si avrebbe invece nell’ipotesi in cui si trattasse di recepire una norma straniera analoga a quelle che allo stesso legislatore interno ordinario sarebbe inibito di introdurre, in quanto incompatibile con valori costituzionali primari. Sulla base di queste considerazioni la Corte di Cassazione italiana ha escluso che nella fattispecie l’atto di nascita straniero di cui si chiedeva la trascrizione nei registri dello stato civile italiano contrastasse con l’ordine pubblico italiano non costituendo la norma imperativa di cui all’art.269 terzo comma c.c. un principio di ordine pubblico nel senso sopra richiamato ma soltanto un’ordinaria norma imperativa.
B) Con riguardo all’interesse superiore (best interest del minore) la Corte Suprema di Cassazione ha rilevato che l’esigenza di tutela di tale interesse, anche sotto il profilo dell’identità personale, permea tanto l’ordinamento interno quanto l’ordinamento sovranazionale: con riguardo all’ordinamento interno vengono ricordate, oltre alle norme costituzionali (artt.2, 3, 30, 31 e 32 della Costituzione), le già citate leggi sulla riforma del diritto di famiglia del 1975 e sull’adozione del 1983 (con le modifiche ed integrazioni apportate nel 2001 e nel 2015), nonché la pure citata riforma del diritto della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154); con riguardo all’ordinamento sovranazionale vengono ricordate la Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo fatta dal Consiglio d’Europa a Strasburgo nel 1996, e, in particolare, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza nel 2000, la quale dispone che “in tutti gli atti relativi ai minori siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente” (art.24). Nella fattispecie, l’interesse superiore del minore – quale interesse a conservare una situazione di fatto (il rapporto genitoriale con la madre genetica) il cui disconoscimento sarebbe lesivo del suo diritto all’identità personale e del suo status – si sostanzia nel diritto a conservare lo status di figlio (diritto alla conservazione dello status filiationis) già riconosciutogli da un atto validamente formato in un altro paese dell’Unione europea, l’eliminazione del quale comporterebbe: a) l’impossibilità di proseguire il rapporto ormai consolidato con la madre genetica e con i parenti di lei, attribuendo ad esso giuridica rilevanza; b) l’impossibilità di conseguire la cittadinanza italiana; c) la lesione dei diritti successori nei confronti della madre genetica e dei parenti di lei; d) l’impossibilità per il bambino di essere rappresentato dal genitore genetico nei rapporti con le istituzioni italiane; e) la lesione del suo interesse ad avere due genitori tutelato dall’art.24 della Carta di Nizza.
La specificazione del best interest del minore nel diritto alla conservazione di una situazione la cui rimozione gli arrecherebbe pregiudizio trova conferma - secondo la Corte di Cassazione – nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani ed in particolare nelle pronunce sui casi M. e L. c. Francia, e P. e C. c. Italia, con le quali, rispettivamente, la Quinta e la Seconda Sezione della Corte di Strasburgo hanno ravvisato la violazione dell’art.8 CEDU nel diniego opposto dallo Stato al riconoscimento del rapporto di filiazione e alla trascrizione degli atti di nascita di bambini, legalmente formati in uno stato estero, da coppie eterosessuali che avevano fatto ricorso alla pratica della maternità surrogata, vietata nei paesi di appartenenza.
Nei casi M. e L. c. Francia[38] due coppie di coniugi, cittadini francesi, a causa dell’infertilità delle mogli, si erano recate negli Stati Uniti per fare ricorso alla surrogazione di maternità. Nell’utero delle gestanti erano stati dunque impiantati embrioni fecondati con il gamete maschile dei rispettivi mariti. Ne erano nati bambini che avevano un legame biologico soltanto con il membro maschile della coppia. Le autorità francesi avevano rifiutato di trascrivere l’atto di nascita in ragione del divieto della surrogazione di maternità vigente nell’ordinamento francese.
La Corte europea ha escluso la violazione dell’art.8 (diritto alla vita familiare) nei confronti delle coppie, ma ha ritenuto perpetrata tale violazione (diritto alla vita privata) nei confronti dei figli, i quali per effetto del mancato riconoscimento vengono lesi nella loro identità personale e nel loro status perdendo un legame giuridico (il rapporto di filiazione) quando la realtà biologica di tale legame è accertata rispetto ad uno dei membri della coppia; per effetto di ciò il minore inoltre viene a trovarsi in una situazione di incertezza giuridica perché potrebbe avere difficoltà ad ottenere la cittadinanza francese, pur avendo un padre biologico francese, nonché a far valere le sue aspettative ereditarie nei confronti dei genitori intenzionali di cui uno è genitore biologicamente effettivo. La Corte ha dunque concluso nel senso che impedendo il riconoscimento e l’instaurazione di rapporti giuridici tra i bambini e il loro padre biologico, lo Stato francese aveva oltrepassato il margine consentito di apprezzamento, ledendo il preminente interesse del minore.
Nel caso P. e C. c. Italia[39] due coniugi italiani si erano recati in Russia per avere un bambino con la tecnica della maternità surrogata. A differenza della vicenda precedente, in questo caso non vi era legame biologico del bambino con nessuno dei membri della coppia in quanto nell’utero della gestante erano stati impiantati embrioni fecondati con il gamete maschile di un terzo donatore. Dopo avere accertato con la prova del dna la mancanza di legame genetico del bambino con la coppia, il tribunale dei minorenni competente ne aveva dichiarato lo stato di adottabilità, dandolo in affidamento ad un’altra famiglia e ponendo fine ad un rapporto di fatto che si era protratto per circa sei mesi.
Sul ricorso della coppia, la Seconda Sezione della Corte europea dei diritti umani ha ravvisato nel comportamento delle autorità italiane una violazione dell’art.8 (diritto alla vita familiare della coppia) sul rilievo che, sebbene la decisione di allontanare il minore dai ricorrenti fosse stata presa per porre fine ad una situazione di illegalità derivante da un comportamento illecito della coppia integrante persino gli estremi del reato, tuttavia la necessità di porre rimedio a una situazione illegittima non era sufficiente per giustificare l’adozione di qualsiasi misura, in quanto lo Stato deve avere in ogni caso riguardo all’interesse superiore del minore. La misura adottata, dunque, era sproporzionata e si era tradotta in un’illegittima interferenza nella vita familiare dei ricorrenti in quanto sussisteva il preminente interesse del bambino a continuare la relazione affettiva iniziata con la coppia di genitori intenzionali. La misura dell’allontanamento del minore dal contesto familiare è una misura estrema che può essere giustificata soltanto in caso di pericolo immediato per il bambino, di talché, secondo la Seconda Sezione della Corte, le autorità italiane, nel decidere tale allontanamento in assenza della predetta condizione, avevano oltrepassato il proprio margine di apprezzamento, a discapito del superiore interesse del minore. In considerazione di tale preminenza, tra l’altro, la Corte ha accordato soltanto un indennizzo di carattere economico, senza spingersi ad ordinare la restituzione del bambino alla coppia ricorrente, avuto riguardo al rapporto nel frattempo consolidatosi con la famiglia affidataria.
POSTILLA
Il presente scritto riproduce la lezione tenuta agli studenti della Facoltà di Diritto dell’Università di Siviglia in data 25 novembre 2016.
In esso dunque non si dà conto della pronuncia emessa il successivo 24 gennaio 2017, con cui la Grande Camera della Corte EDU si è pronunciata in seconda istanza sul caso P. e C. c. Italia, ribaltando la precedente decisione della Seconda Sezione, ed escludendo la violazione dell’art. 8 Convenzione EDU da parte dello Stato italiano.
La Corte ha infatti ritenuto che l’art. 8 non possa trovare applicazione quanto alla violazione del diritto al rispetto della vita familiare, avuto riguardo alla breve durata della relazione tra i genitori intenzionali e il bambino, nonché all’assenza di legame biologico tra quest’ultimo ed entrambi i membri della coppia.
Secondo la Corte è invece applicabile il predetto art. 8 quanto alla violazione del diritto al rispetto della vita privata, atteso che le misure adottate dalle autorità italiane costituiscono un’interferenza nella vita privata dei ricorrenti in quanto incidenti sul progetto familiare e genitoriale da loro perseguito. Questa interferenza tuttavia appare giustificata perché posta in essere, conformemente alla legge, in funzione del raggiungimento del legittimo obiettivo di proteggere il minore a fronte di un contegno illegittimo dei genitori intenzionali.
[1] Lezione tenuta agli studenti della Facoltà di Diritto dell’Università di Siviglia in data 25 novembre 2016.
[2] Legge 19 maggio 1975, n.151, riforma del diritto di famiglia.
[3] Legge 10 dicembre 2012, 219, disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali.
[4] Decreto legislativo 28 dicembre 2013, n.154, revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione.
[5] In tal senso cfr. già Corte Suprema di Cassazione, 20 maggio 1976 n.1808, in Giurisprudenza italiana, 1977, I, 1, 1378. Più recentemente v. Corte Suprema di Cassazione, 22 febbraio 1990 n.1304, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, 1991, III, 726; Corte Suprema di Cassazione, 9 giugno 2000 n.7877, in Giustizia civile, 2000, I, 2897.
[6] Tribunale di Venezia, Ord. 3 aprile 2009, in GU n.26/2009; Corte di Appello di Trento, Ord.29 luglio 2009, in GU n.41/2009; Corte di Appello di Firenze, Ord. 3 dicembre 2009; Tribunale di Ferrara, Ord. 14 dicembre 2009.
[7] Altri profili di illegittimità costituzionale avevano riguardato l’eventuale contrasto del divieto con gli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione repubblicana.
Art.2 Cost. La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Art.3 Cost. I. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
II. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Art.29 Cost. I La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
II. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.
[8] Tale criterio, operante tra le fonti di pari grado e fondato sulla prevalenza della fonte successiva rispetto alla precedente, era stato tradizionalmente ritenuto applicabile dalla Corte Costituzionale italiana ai rapporti tra norme di legge interna e norme della Convenzione Europea dei Diritti Umani, sul presupposto che queste ultime, avendo natura di norme di diritto internazionale pattizio, non trovassero una copertura costituzionale né nell’art.10 della Costituzione (riferibile esclusivamente alle norme di diritto internazionale consuetudinario) né nell’art.11 della Costituzione, la cui operatività presuppone una limitazione di sovranità nazionale non riscontrabile nella mera attuazione di un trattato (v., per tutte, Corte Costituzionale 22 dicembre 1980 n.188).
[9] Cfr. Corte Costituzionale 24 ottobre 2007 n.348 e Corte Cost.24 ottobre 2007 n.349, in GU n.42/2007.
Nello stesso senso, successivamente, Corte Costituzionale 26 novembre 2009 n.311, in GU n.48/2009 e Corte Costituzionale 4 dicembre 2009 n.317, in GU n.49/2009.
Il sistema è rimasto inalterato successivamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (1°dicembre 2009) con cui sono stati modificati il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (già trattato istitutivo della Comunità Europea), in quanto la Corte Costituzionale italiana non ritiene, allo stato, che l’avvenuta “comunitarizzazione” della Convenzione EDU – operata mediante il riconoscimento (art.6, par.1, nuova formulazione, del Trattato sull’Unione Europea) dei diritti, delle libertà e dei principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza) – consenta di ricondurre le norme della Convenzione sotto la copertura dell’art.11 della Costituzione, e di accedere conseguentemente alla possibilità di una loro diretta applicazione da parte del giudice nazionale, con contestuale disapplicazione della norma interna contrastante (cfr. Corte Costituzionale 11 marzo 2011 n.80, in GU n.12/2011; Corte Costituzionale 7 aprile 2011 n.113, in GU n.16/2011; Corte Costituzionale 22 luglio 2011 n.236, in GU n.32/2011).
[10] Articolo 8 CEDU (Diritto al rispetto della vita privata e familiare). I. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
II. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.
[11] Articolo 12 CEDU (Diritto al matrimonio). A partire dall’età minima per contrarre matrimonio, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto.
[12] Articolo 14 CEDU (Divieto di discriminazione). Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione.
[13] Per effetto delle modifiche contenute nel Trattato di Lisbona, il secondo trattato muta anche denominazione, in quanto da “Trattato che istituisce
[14] Il “nuovo” art.6, par. 1, del Trattato sull’Unione Europea, come sostituito dal Trattato di Lisbona, recita: “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”.
[15] I “nuovi” parr. 2 e 3 del predetto art.6 del Trattato sull’Unione Europea, come sostituito dal Trattato di Lisbona, confermano la previsione, secondo cui “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali … I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”.
Per quanto concerne i rapporti tra la Carta di Nizza e la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, essi sono disciplinati negli artt.52, par.3, e nell’art.53 della Carta medesima.
L’art.52, par.3, stabilisce che “laddove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa”.
L’art.53 aggiunge che “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono contraenti, in particolare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle Costituzioni degli Stati membri”.
[16] Articolo 9 Carta di Nizza. Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio.
[17] Corte europea dir. umani, Grande Camera, caso Christine Goodwin c. Regno Unito, 11 luglio 2002, in ItalgiureWeb – Corte di Cassazione, Sezione sentenze e abstract Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ove si afferma che il diritto di costituire una famiglia non è una condizione del diritto di sposarsi e che l’incapacità di una coppia di concepire o di procreare un figlio non limita il diritto di contrarre matrimonio.
[18] Corte Costituzionale 23 marzo -15 aprile 2010, n.138, in GU n.21/2010.
[19] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 9 del Considerato in Diritto: “La questione sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost. non è fondata.
Occorre prendere le mosse, per ragioni di ordine logico, da quest’ultima disposizione. Essa stabilisce, nel primo comma, che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, e nel secondo comma aggiunge che “Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare.
La norma, che ha dato luogo ad un vivace confronto dottrinale tuttora aperto, pone il matrimonio a fondamento della famiglia legittima, definita “società naturale” (con tale espressione, come si desume dai lavori preparatori dell'Assemblea costituente, si volle sottolineare che la famiglia contemplata dalla norma aveva dei diritti originari e preesistenti allo Stato, che questo doveva riconoscere)”.
[20] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 9 del Considerato in Diritto: “è vero che i concetti di famiglia e di matrimonio non si possono ritenere “cristallizzati” con riferimento all'epoca in cui la Costituzione entrò in vigore, perché sono dotati della duttilità propria dei principi costituzionali e, quindi, vanno interpretati tenendo conto non soltanto delle trasformazioni dell’ordinamento, ma anche dell’evoluzione della società e dei costumi. Detta interpretazione, però, non può spingersi fino al punto d'incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata.
Infatti, come risulta dai citati lavori preparatori, la questione delle unioni omosessuali rimase del tutto estranea al dibattito svoltosi in sede di Assemblea, benché la condizione omosessuale non fosse certo sconosciuta. I costituenti, elaborando l'art. 29 Cost., discussero di un istituto che aveva una precisa conformazione ed un'articolata disciplina nell'ordinamento civile. Pertanto, in assenza di diversi riferimenti, è inevitabile concludere che essi tennero presente la nozione di matrimonio definita dal codice civile entrato in vigore nel 1942, che, come sopra si è visto, stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso. In tal senso orienta anche il secondo comma della disposizione che, affermando il principio dell'eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, ebbe riguardo proprio alla posizione della donna cui intendeva attribuire pari dignità e diritti nel rapporto coniugale.
Questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, perché non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema o di abbandonare una mera prassi interpretativa, bensì di procedere ad un'interpretazione creativa.
Si deve ribadire, dunque, che la norma non prese in considerazione le unioni omosessuali, bensì intese riferirsi al matrimonio nel significato tradizionale di detto istituto”.
[21] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 9 del Considerato in Diritto: “In questo quadro, con riferimento all'art. 3 Cost., la censurata normativa del codice civile che, per quanto sopra detto, contempla esclusivamente il matrimonio tra uomo e donna, non può considerarsi illegittima sul piano costituzionale. Ciò sia perché essa trova fondamento nel citato art. 29 Cost., sia perché la normativa medesima non dà luogo ad una irragionevole discriminazione, in quanto le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio”.
[22] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 10 del Considerato in Diritto: “sia gli artt.8 e 14 della CEDU, sia gli artt. 7 e 21 della Carta di Nizza contengono disposizioni a carattere generale in ordine al diritto al rispetto della vita privata e familiare e al divieto di discriminazione, peraltro in larga parte analoghe. Invece gli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta di Nizza prevedono specificamente il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. Per il principio di specialità, dunque, sono queste ultime le norme cui occorre fare riferimento nel caso in esame”.
[23] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 10 del Considerato in Diritto: “con il rinvio alle leggi nazionali, si ha la conferma che la materia è affidata alla discrezionalità del Parlamento.
Ulteriore riscontro di ciò si desume, come già si è accennato, dall'esame delle scelte e delle soluzioni adottate da numerosi Paesi che hanno introdotto, in alcuni casi, una vera e propria estensione alle unioni omosessuali della disciplina prevista per il matrimonio civile oppure, più frequentemente, forme di tutela molto differenziate e che vanno dalla tendenziale assimilabilità al matrimonio delle dette unioni fino alla chiara distinzione, sul piano degli effetti, rispetto allo stesso”.
[24] Corte Costituzionale n.138/2010, cit., Punto 8 del Considerato in Diritto: “L’art. 2 Cost. dispone che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Orbene, per formazione sociale deve intendersi ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico. In tale nozione è da annoverare anche l’unione omosessuale, intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone - nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge - il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri.
Si deve escludere, tuttavia, che l’aspirazione a tale riconoscimento – che necessariamente postula una disciplina di carattere generale, finalizzata a regolare diritti e doveri dei componenti della coppia - possa essere realizzata soltanto attraverso una equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio. È sufficiente l'esame, anche non esaustivo, delle legislazioni dei Paesi che finora hanno riconosciuto le unioni suddette per verificare la diversità delle scelte operate.
Ne deriva, dunque, che, nell’ambito applicativo dell’art. 2 Cost., spetta al Parlamento, nell'esercizio della sua piena discrezionalità, individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette”.
[25] Corte europea dir. umani, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf c. Austria, 24 giugno 2010, in ItalgiureWeb – Corte di Cassazione, Sezione sentenze e abstract Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
[26] Cfr. Corte europea dir. umani, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf c. Austria, 24 giugno 2010, in Rivista giuridica Diritti Umani in Italia, Database CEDU, massima redatta a cura della Redazione della rivista: “Non costituisce violazione dell’articolo 12 da parte di uno Stato membro la mancata estensione dell’accesso al matrimonio alle coppie costituite da individui dello stesso sesso. Ciò perché, si tratta di un istituto giuridico profondamente connesso alle radici storiche e culturali di una determinata società e rispetto al quale non è ravvisabile un’univoca tendenza negli ordinamenti interni degli Stati membri. Pertanto, rientra nell’ambito della discrezionalità proprio di uno Stato la scelta in merito all’introduzione di una normativa in tal senso, secondo le ragioni di opportunità politica e sociale che ritenga preponderanti”.
[27] Cfr. Corte europea dir. umani, Prima Sezione, caso Schalk e Kopf c. Austria, 24 giugno 2010, in Rivista giuridica Diritti Umani in Italia, Database CEDU, massima redatta a cura della Redazione della rivista: “A parere della Corte, ad oggi all’interno del concetto di “vita familiare”, il cui rispetto è garantito dall’articolo 8, devono potersi ricondurre anche le relazioni sentimentali e sessuali tra persone dello stesso sesso. Pertanto, costituirebbe una violazione dell’articolo 8 in combinato disposto con l’articolo 14 la mancanza di tutela e riconoscimento adeguato all’interno di uno Stato membro delle coppie omosessuali. Nel caso in cui, dunque, uno Stato si dotasse di uno strumento giuridico che permettesse la tutela dell’unione familiare tra soggetti dello stesso sesso, anche se ciò avvenisse in ritardo rispetto ad altri Stati membri, non incorrerebbe nella suddetta violazione. Tale conclusione è, anche in questo caso, giustificata dall’assenza di un comune orientamento condiviso dai legislatori nazionali”.
[28]Corte Suprema di Cassazione 15 marzo 2012, n.4184, in ItalgiureWeb – Corte di Cassazione: “Il matrimonio civile tra persone dello stesso sesso, celebrato all’estero, non è inesistente per l’ordinamento italiano, ma soltanto inidoneo a produrre effetti giuridici; anche ai sensi dell’art. 12 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come evolutivamente interpretato dalla Corte di Strasburgo (sentenza del 24 giugno 2010, “Schalk e Kopf c. Austria”), la diversità di sesso dei nubendi non costituisce presupposto “naturalistico” di “esistenza” del matrimonio. (Fattispecie relativa a cittadini italiani dello stesso sesso, i quali, unitisi in matrimonio nei Paesi Bassi, avevano impugnato il rifiuto di trascrizione dell’atto, opposto dall'ufficiale di stato civile italiano; la S.C., in applicazione del principio, pur respingendo il ricorso degli sposi, ha corretto la motivazione del decreto della Corte territoriale, che aveva legittimato il rifiuto di trascrizione dell’atto in difetto della sua “configurabilità come matrimonio”)”.
[29] Tra le pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto consentito l’affidamento eterofamiliare dei minori presso coppie omosessuali, si segnala la pronuncia del Tribunale di Palermo, 9 dicembre 2013, in Famiglia e diritto, 2014, IV, 351, con cui la misura è stata disposta nei confronti di un minore ormai prossimo alla maggiore età ed in favore di una coppia omosessuale iscritta nel registro istituito dal Comune di Palermo.
[30] Corte Suprema di Cassazione 22 giugno 2016, n.12962, in Italgiure Web – Corte di Cassazione.
[31] Corte Suprema di Cassazione 22 giugno 2016, n.12962, cit., in motivazione: “Al riguardo, deve ritenersi che vi siano due modelli di adozione, quella legittimante, fondata sulla condizione di abbandono del minore, e quella non legittimante, fondata su requisiti diversi sia in ordine alla situazione di fatto nella quale versa il minore, sia in ordine alla relazione con il richiedente l’adozione. All'interno di questa diversa categoria di genitorialità adottiva prevista dal nostro ordinamento, deve rilevarsi che delle quattro fattispecie di adozione in casi particolari descritte nell'art. 44, quella contrassegnata dalla lettera d) è caratterizzata da un grado di determinazione inferiore alle altre tre: nella prima, infatti, vengono esattamente definite le situazioni del minore (orfano di padre e madre) e dell’adottante (parente entro il sesto grado con preesistente rapporto stabile e duraturo con il minore); nella seconda, ugualmente, il minore adottando deve essere figlio, anche adottivo, di un coniuge e l’adottante non può che essere laltro coniuge; nella terza, il minore deve essere orfano di entrambi i genitori e portatore di handicap, mentre non è richiesta alcuna condizione in ordine all’adottante; nella lettera d), invece, nessun requisito viene indicato per definire i profili dell’adottante e dell’adottando, essendo soltanto prevista la condicio legis della «constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo» (…).
In conclusione, l’interpretazione della espressione «constatata impossibilità dell’affidamento preadottivo» da prescegliere non può che essere quella adottata dalla Corte d’Appello di Roma: coerentemente con il sistema della tutela dei minori e dei rapporti di filiazione biologica ed adottiva attualmente vigente, deve ritenersi sufficiente l'impossibilità “di diritto” di procedere all'affidamento preadottivo e non solo quella “di fatto”, derivante da una condizione di abbandono in senso tecnico giuridico o di semi abbandono”.
[32] Corte Suprema di Cassazione 22 giugno 2016, n.12962, cit., in motivazione: “Il quadro della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani è del tutto coerente con le conclusioni raggiunte, dal momento che si sta sempre più affermando, in particolare nei procedimenti adottivi, il principio secondo il quale il rapporto affettivo che si sia consolidato all'interno di un nucleo familiare, in senso stretto o tradizionale o comunque ad esso omologabile per il suo contenuto relazionale, deve essere conservato anche a prescindere dalla corrispondenza con rapporti giuridicamente riconosciuti, salvo che vi sia un accertamento di fatto contrario a questa soluzione (cfr., tra gli altri, il caso Moretti e Benedetti contro Italia - ricorso n. 16318 del 2007 - deciso con la sentenza 27 aprile 2010, nella quale viene affrontato un conflitto analogo a quello sopra illustrato in ordine alla sentenza di questa Corte n. 22292 del 2013, ma con soluzione che privilegia la relazione istaurata con gli affidatari provvisori; il medesimo principio è stato affermato nella sentenza Paradiso e Campanelli contro Italia del 27 gennaio 2015 - ricorso n. 25358 del 2012 - la cui fattispecie riguarda un progetto procreativo realizzato mediante gestazione per altri, vietato nel nostro ordinamento)”.
[33] Corte europea dir. umani, , caso Gas e Dubois c. Francia, 15 marzo 2012, in Rivista giuridica Diritti Umani in Italia, Database CEDU, massima redatta a cura di Caterina Fatta: “Non costituisce violazione dell’art. 14, in combinato disposto con l’articolo 8, la previsione in materia di adozione di minori di una norma che disciplina diversamente le condizioni di esercizio della potestà genitoriale per le coppie dello stesso sesso unite civilmente e per quelle sposate. La disparità di trattamento non è discriminatoria, poiché lo status giuridico di una coppia di fatto (omosessuale o eterosessuale) non è comparabile a quella di una coppia di coniugi, ben potendo, infatti, l’istituto matrimoniale – tutelato dall’articolo 12 della Convenzione – conferire un status giuridico privilegiato da cui derivino particolari conseguenze sociali e giuridiche”.
[34] Corte europea dei diritti umani, caso X e Altri c. Austria, 19 febbraio 2013, in http://www.articolo29.it/genitori-2/adozione-e-affidamento-familiarecedu/ “Costituisce violazione dell’art. 14, in combinato disposto con l’articolo 8, la previsione in materia di adozione di minori di una norma che disciplina diversamente le condizioni di esercizio della potestà genitoriale per le coppie di fatto dello stesso sesso e per quelle di diverso sesso; la disparità di trattamento è discriminatoria, poiché gli status giuridici di una coppia di fatto omosessuale e di una coppia di fatto eterosessuale sono comparabili fra loro, mentre il governo resistente ha mancato del tutto di dimostrare che possa cagionare nocumento ad un bambino essere allevato da una coppia dello stesso sesso o da due madri o da due padri”.
[35] L’adozione potrà essere disposta ai sensi dell’art.44 lett. d) legge n.184/1983, salvo che la coppia non si sia unita in matrimonio all’estero e l’efficacia di tale matrimonio sia riconosciuta in Italia superando l’orientamento espresso dalla Corte Suprema di Cassazione 15 marzo 2012, n.4184, nel qual caso potrà farsi applicazione dell’art.44 lett. b).
[36] Art. 65 legge n.218/1995. Riconoscimento di provvedimenti stranieri. 1. Hanno effetto in Italia i provvedimenti stranieri relativi alla capacità delle persone nonché all'esistenza di rapporti di famiglia o di diritti della personalità quando essi sono stati pronunciati dalle autorità dello Stato la cui legge è richiamata dalle norme della presente legge o producono effetti nell’ordinamento di quello Stato, anche se pronunciati da autorità di altro Stato, purché non siano contrari all’ordine pubblico e siano stati rispettati i diritti essenziali della difesa.
[37] Art. 269, terzo comma, del codice civile italiano. La maternità è dimostrata provando la identità di colui che si pretende essere figlio e di colui che fu partorito dalla donna, la quale si assume essere madre.
[38] Corte europea dir. umani, Quinta Sezione, casi M. e L. c. Francia, 26 giugno 2014, in ItalgiureWeb – Corte di Cassazione, Sezione sentenze e abstract Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
[39] Corte europea dir. umani, Seconda Sezione, caso P. e C. c. Italia, 27 gennaio 2015 ItalgiureWeb – Corte di Cassazione, Sezione sentenze e abstract Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.