ultimo aggiornamento
giovedì, 21 novembre 2024 23:36
Magistratura Indipendente

PENALE  

L’ordinamento penitenziario all’indomani del d.lgs. n. 123 del 2018 e della legge n. 3 del 2019

  Penale 
 mercoledì, 20 febbraio 2019

Print Friendly and PDF

Quali conseguenze sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale?

di ADRIANA BLASCO, sostituto procuratore della Repubblica di Milano

 
 

 

 

1. Premessa

L’articolo 656 cod. proc. PEN. detta le coordinate attraverso cui la pena che residua da espiare al momento del passaggio in giudicato della sentenza viene messa concretamente in esecuzione dal Pubblico Ministero che ne cura, per l’appunto, l’esecuzione.

Ove lo schema di decreto legislativo recante la riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della legge delega del 23-6-2017 nr. 103, che è stato lungamente sottoposto al parere del Parlamento, fosse entrato in vigore nella sua originaria formulazione si sarebbero decisamente aperti nuovi scenari sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale.

Ed invece, il 10 novembre del 2018 sono entrate in vigore le modifiche apportate all’ordinamento penitenziario contenute in due distinti decreti legislativi, il nr. 123 e il nr. 124, emanati dal Governo il 2 ottobre 2018 a seguito del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 2018, in attuazione della legge delega del 23 giugno 2017 nr. 103 e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 26-10-2018 [serie generale nr. 250], che - con riferimento al codice di procedura penale - hanno compendiato nell’articolo 4 comma 1 lett. a) del d.Lgs. nr. 123/2018 l’unico intervento della novella sull’articolo 656 del codice di procedura penale.[1]

Più in particolare:

il d.lgs. nr. 123 reca integrazioni e modifiche all’ordinamento penitenziario in tema di:

-   assistenza sanitaria;

-   semplificazione del procedimento di sorveglianza;

-   competenze dell’UEPE;

-   sospensione cautelativa della misura alternativa in corso;

-   revoca della misura alternativa in corso in caso di sopravvenienza di nuovi titoli esecutivi;

-   disposizioni relative alla vita penitenziaria.

il d.lgs. nr. 124 reca invece integrazioni e modifiche all’ordinamento penitenziario in tema di:

-   lavoro all’interno delle carceri;

-   organizzazione della stanza di pernottamento e delle aree comuni;

-   lavori di pubblica utilità;

-   disposizioni assicurative e previdenziali.

 

2.  Le coordinate attraverso cui allo stato della vigente legislazione deve muoversi il Pubblico Ministero nell’individuazione del modulo esecutivo della pena. Il pre-vigente testo dell’articolo 656 del codice di procedura penale.

Ciò premesso, si richiama la ratio che storicamente ha indirizzato il legislatore nella formulazione del vigente articolo 656 del codice di procedura penale, dal momento che - chi scrive - ritiene che non si possa compiutamente intendere il senso e la portata della riforma di una norma se non si intendono le motivazioni per cui, in origine, la norma aveva quel contenuto su cui il legislatore intende [o avrebbe inteso] intervenire.

L’articolo 656 cod. proc. PEN. prevede, in apertura, che quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette l’ordine di esecuzione con cui, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione.

Secondo l’impianto originario del codice di rito, all’esecuzione delle pene detentive doveva darsi luogo sempre attraverso l’ordine di immediata carcerazione, secondo il principio generale statuito nell’articolo 656 comma 1 cod. proc. PEN., a tenore del quale <quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva il Pubblico Ministero emette ordine di esecuzione con il quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione>; sicché – nei confronti dei soggetti liberi al momento del passaggio in giudicato della sentenza – il transito presso l’istituto di pena era un passaggio necessariamente obbligato.

Questo principio, per effetto della legislazione sopravvenuta, ha subito rilevanti modifiche, perché la formulazione originaria dell’articolo 656 cod. proc. PEN. è stata profondamente innovata dalla L. 27 maggio 1998, nr. 165 [c.d. legge Simeone], dalla L. 19 gennaio 2001, nr. 4, dalla L. 5 dicembre 2005, nr. 251, dalla L. 21 febbraio 2006, nr. 49 e infine dalla L. 24 luglio 2008, nr. 125.

La novella del 1998 è stata - a tutta evidenza - ispirata dalla necessità di evitare la carcerazione ai condannati a pene detentive brevi che si trovassero nelle condizioni astratte per poter accedere alle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario, compendiato nella L. 26-07-1975 nr. 354.

La modifica ha così risposto ad una triplice esigenza:

-   è stata tesa a diminuire, a tutta evidenza, il sovraffollamento carcerario;

-   è stata tesa a garantire una effettiva parità di trattamento tra i detenuti, alcuni dei quali – per cause socio-economico-culturali – erano sforniti di una adeguata informazione circa le proprie facoltà;

-  si è fatta carico di evitare che la lentezza della magistratura di sorveglianza competente a decidere sulle istanze di misure alternative, conseguente alle note carenze di personale e di risorse, potesse tradursi in un danno per i condannati.

Le modifiche sopra accennate hanno trovato nell’attuale disposto dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. la loro naturale collocazione: la norma, nella formulazione previgente l’intervento compendiato nella decisione nr. 41 del 6 febbraio 2018 della Corte Costituzionale [che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. “nella parte in cui si prevede che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro”] stabiliva che, qualora la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggior pena, non fosse superiore a tre anni, quattro nei casi previsti dall’articolo 47 ter comma 1 della L. 26.7.1975 nr. 354 oppure sei anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309 [riguardanti i benefici previsti per l’accesso a programmi di recupero dei tossicodipendenti ed alcol-dipendenti], il Pubblico Ministero – salvo quanto previsto dai commi 7 e 9 del medesimo articolo 656 cod. proc. PEN. - ne dovesse sospendere l’esecuzione. In siffatti casi, l’ordine di esecuzione ed il decreto di sospensione sono notificati al condannato ed al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o in mancanza a quello che lo ha assistito nella fase del giudizio, con avviso della facoltà di presentare, entro trenta giorni dalla ricezione del provvedimento, istanza tesa ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione previste dagli articoli 47 (affidamento in prova al servizio sociale), 47 ter (detenzione domiciliare), 50 comma primo (semilibertà) della L. 26.7.1975 nr. 354 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309 ovvero la sospensione dell’esecuzione prevista dall’articolo 90 del medesimo decreto presidenziale nr. 309/1990.

In definitiva, l’attuale formulazione dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. àncora la possibilità di sospendere l’esecuzione della pena detentiva alla ricorrenza di due presupposti, che devono coesistere:

-  l’entità della pena [che deve essere contenuta nel limite previsto nel corpo della norma medesima: tre anni (limite, come si è detto, elevato a quattro per effetto della decisione n. 41 del 6 febbraio 2018 della Corte Costituzionale), quattro nei casi considerati nell’articolo 47 ter c. 1 della L. 26-07-1975 nr. 354, sei nei casi considerati nell’articolo 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309];

-   l’astratta possibilità per il condannato di accedere ad una delle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.

Tanto debitamente premesso, il richiamo al principio della sospensione dell’esecuzione, introdotto nell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. a far data dalla novella del 1998, impone una premessa essenziale alla sua interpretazione: il principio citato in premessa ed a cui il codice di rito originariamente era ispirato [quello compendiato nell’articolo 656 comma 1 cod. proc. PEN. a tenore del quale l’esecuzione della pena detentiva è eseguita mediante l’adozione di un ordine di carcerazione] era all’epoca dell’entrata in vigore del codice di rito, ed è rimasto per effetto della legislazione sopravvenuta, un principio di carattere generale; la norma contenuta nell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., introdotta nel codice di rito a far data dal 1998, è invece norma che presenta un carattere innegabilmente derogatorio rispetto al principio generale, la quale – come tale ed in ossequio al principio di tassatività – non può trovare applicazione al di fuori dei casi tassativamente ivi previsti.

L’assunto che precede deve essere ribadito anche alla luce di un recente contrasto di posizioni che si è registrato tra alcuni Uffici della Procura della Repubblica e taluni Giudici deputati ad assolvere le funzioni di giudice dell’esecuzione.

Ed infatti, alcuni Tribunali, investiti a seguito di incidente di esecuzione della legittimità degli ordini di carcerazione emessi dal Pubblico Ministero per pene detentive superiori ad anni tre di reclusione ma contenute nel limite degli anni quattro, hanno teorizzato la giuridica ammissibilità di un’interpretazione evolutiva dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., assumendo - in epoca antecedente alla sentenza nr. 41/2018 della Corte Costituzionale - che in tutti i casi in cui la pena da mettere in esecuzione fosse inferiore alla soglia dei quattro anni di reclusione [che è tra i limiti di pena stabiliti dall’articolo 47 comma 3-bis della L. 26-07-1975 nr. 354 per l’accesso alla misura alternativa dell’affidamento in prova in casi particolari] il titolo esecutivo avrebbe dovuto essere sospeso a norma dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., ove risultasse già presentata istanza di affidamento in prova.

Detto orientamento riflette una nota linea di pensiero che muove dalla circostanza che il legislatore, al fine di adeguare l’ordinamento interno alle prescrizioni imposte dalla Corte EDU con riferimento alla situazione degli Istituti di pena italiani, con la Legge 21 febbraio 2014, nr. 10 ha introdotto nell’articolo 47 L. 26.7.1975 nr. 354 il comma 3-bis, così innalzando la soglia di pena per accedere al benefico dell’affidamento in prova da tre a quattro anni di reclusione, senza che, tuttavia, la riforma in questione abbia interessato la previsione dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., la quale ha mantenuto ferma per la sospensione della esecuzione della pena la soglia degli anni tre di reclusione, quella degli anni quattro ma solo per le ipotesi richiamate nell’articolo 47 ter c. 1 della L. 26-07-1975 nr. 354 [che disciplina la c.d. detenzione domiciliare umanitaria],[2] e quella degli anni sei di reclusione, per i condannati che si trovano nelle condizioni astratte per poter essere ammessi alla misura dell’affidamento in prova terapeutico.[3]

La praticabilità, nel caso in esame, di un'interpretazione evolutiva o comunque costituzionalmente orientata della norma sospettata di illegittimità costituzionale a giudizio di quelle Procure che hanno reso parere nel contesto degli incidenti di esecuzione proposti [tra le altre la Procura della Repubblica di Milano] era da escludere, perché il caso in questione era, per l’appunto, uno di quelli in cui <l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale>.[4]

Orbene, nel senso sostenuto [tra le altre] dalla Procura della Repubblica di Milano, nel contesto dei ricorsi per Cassazione[5] con cui sono state impugnate le ordinanze rese dal Tribunale Ordinario di Milano a seguito degli incidenti di esecuzione accennati in premessa, si è recentemente espressa la prima sezione della Suprema Corte di Cassazione,[6] che – superando alcuni arresti giurisprudenziali in senso contrario e censurando l’interpretazione evolutiva della norma così come sostenuta nel precedente reso dalla prima sezione della medesima Corte di Cassazione[7] – ha affermato che la sospensione dell’ordine di carcerazione con prosecuzione del regime degli arresti domiciliari, in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza, è prevista unicamente quando la pena residua da espiare non è superiore ad anni tre, “dovendosi escludere la possibilità di accedere ad un’interpretazione evolutiva della norma perché snatura la funzione del giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge, tenuto conto peraltro che, a differenza dei casi descritti nell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., l’ipotesi introdotta dall’articolo 47 c. 3 bis della L. 26.7.1975 nr. 354 non può avere una applicazione automatica da parte dell’organo dell’esecuzione penale, essendo richiesta una speciale valutazione di merito da parte del tribunale di sorveglianza.”

Chi scrive ha ragione di ritenere che la Corte di Cassazione abbia colto esattamente nel segno le criticità della tesi sostenuta con i precedenti arresti giurisprudenziali in senso contrario e che lo abbia fatto ben consapevole della linea di confine tra le competenze del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale e quelle della magistratura di sorveglianza. Non va dimenticato, infatti, che la sospensione dell’ordine di esecuzione di cui all’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. opera - non solo allo stato della vigente disciplina ma anche per effetto delle modifiche al medesimo codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario conseguenti all’entrata in vigore del d.Lgs. 123/2018 - su un piano diverso: la sospensione dell’ordine di carcerazione, prerogativa del Pubblico Ministero, rappresenta unicamente un differimento della pena senza alcuna forma di vaglio da parte del medesimo Pubblico Ministero, che deve limitarsi a valutare il quantum di pena e (indirettamente) la fruibilità di misure alternative al carcere che escludano, tout court, la carcerazione. Al Pubblico Ministero - e dopo di lui al giudice dell’esecuzione investito della questione nel caso di mancata sospensione dell’ordine di esecuzione - non è rimesso alcun giudizio (di merito) sul se il condannato “meriti o meno” la misura dell’affidamento in prova c.d. “allargato” di cui all’articolo 47, comma 3 bis, L. 26.7.1975 nr. 354, trattandosi di un giudizio che, tale norma, rimette esclusivamente alla magistratura di sorveglianza.

Tutte le norme dell’ordinamento penitenziario di cui - sia allo stato della vigente disciplina che per effetto delle modifiche al medesimo codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario conseguenti all’entrata in vigore del d.Lgs. 123/2018 - il Pubblico Ministero in fase esecutiva [era ed] è tenuto a fare applicazione non prevedono alcuna valutazione discrezionale dell’organo requirente: a titolo esemplificativo, infatti, nelle ipotesi in cui il Pubblico Ministero sospende l’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati ultrasettantenni [ovvero, nei confronti dei medesimi, che già si trovano in detenzione domiciliare ex articolo 47 ter comma 01 della L. 26.7.1975 nr. 354, ne anticipa provvisoriamente la prosecuzione - in una ottica di favor rei - facendo applicazione dell’articolo 51 bis della L. 26.7.1975 nr. 354],[8] l’organo deputato all’esecuzione delle pene detentive è chiamato a considerare unicamente il dato, meramente oggettivo, dell’età anagrafica del condannato (oltre all’assenza di reati ostativi, della recidiva e della declaratoria di delinquenza abituale); nelle parallele ipotesi in cui il Pubblico Ministero sospende l’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati che si trovano nelle condizioni elencate nell’articolo 47 ter comma 1 della L. 26.7.1975 nr. 354 [ovvero, nei confronti dei medesimi, che già si trovano in detenzione domiciliare ex articolo 47 ter comma 1, ne anticipa provvisoriamente la prosecuzione facendo applicazione - in una ottica di favor rei - dell’articolo 51 bis della L. 26.7.1975 nr. 354], l’organo deputato all’esecuzione delle pene detentive è chiamato a considerare unicamente la ricorrenza di elementi di natura oggettiva (stato di gravidanza, AIDS conclamata, prole entro l’anno di età) e nei soli casi in cui eventuale preesistente certificazione medica agli atti del fascicolo non lasci margini alla valutazione discrezionale della competente magistratura di sorveglianza; nelle ulteriori ipotesi in cui il Pubblico Ministero sospende l’ordine di esecuzione nei confronti dei condannati che si trovano nelle condizioni elencate negli articoli 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309 [ovvero, nei confronti dei medesimi che già si trovano in affidamento terapeutico ex articolo 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309, ne anticipa provvisoriamente - in una ottica di favor rei - la prosecuzione facendo applicazione dell’articolo 51 bis della L. 26.7.1975 nr. 354], nella stessa dottrina ed in giurisprudenza, prevale l’opinione di chi ritiene che al Pubblico Ministero sia consentita una verifica limitata all’esame della stretta legittimità e regolarità formale dei documenti presentati dal condannato con riferimento alle condizioni di concedibilità della misura alternativa, essendo riservato alla competente magistratura di sorveglianza il vaglio sul merito della domanda.

Diversamente opinando, il Pubblico Ministero dovrebbe impropriamente anticipare una valutazione discrezionale, che a lui non compete, sul merito del comportamento del condannato.

Ove - in epoca antecedente all’intervento della Corte Costituzionale compendiato nella decisione nr. 41/2018 - fosse stata diversamente ritenuta ammissibile la sospensione delle pene detentive brevi fino a quattro anni a condizione che il Pubblico Ministero ravvisasse sussistente i presupposti dell’articolo 47 comma 3 bis della L. 26.7.1975 nr. 354, questa operazione giuridica avrebbe imposto all’Ufficio del Pubblico Ministero l’esercizio di un potere altamente discrezionale che esula dalle sue competenze, perché il principale presupposto a cui è subordinata la concessione della misura dell’affidamento in prova c.d. “allargato” è la circostanza che il condannato abbia serbato, nell’anno precedente la presentazione della domanda, un comportamento tale da consentire di affermare che egli abbia conseguito l’obiettivo della rieducazione e che sia venuto meno il pericolo di reiterazione del reato. Trattasi, a tutta evidenza, di un giudizio carico di una elevatissima componente discrezionale, che non può essere assolto con l’accertamento (meramente formale) dell’assenza di condanne per ulteriori reati.

Solo per completezza, si fa breve cenno al fatto che il dovere del Pubblico Ministero di sospendere l’esecuzione, imposto dall’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., incontra tuttavia due ordini di limitazioni nelle situazioni di seguito descritte:

- lo stato di detenzione del condannato nelle forme della detenzione carceraria [secondo quanto previsto dall’articolo 656 comma 9 lett. b) cod. proc. PEN.]. La sospensione dell’esecuzione non può essere concessa, ai sensi del comma nove, lett. b) dell’articolo 656 cod. proc. PEN., nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovino in stato di custodia cautelare al momento in cui la sentenza sia divenuta definitiva (ovvero in espiazione pena, in regime carcerario, per altro titolo esecutivo); in tal caso la sospensione della pena non può essere concessa neanche in presenza di un residuo pena inferiore a anni tre di reclusione (quattro anni all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale nr. 41/2018).[9] Al condannato in custodia cautelare va equiparato il condannato che si trovi in stato di latitanza al momento del passaggio in giudicato delle sentenza, ovvero per altro titolo esecutivo. Tale limitazione non opera nei confronti di coloro che si trovino in stato di custodia cautelare per altro titolo non ancora definitivo; sicché, in tal caso si applicherà il normale regime della sospensione;

-  la sussistenza tra i titoli in esecuzione di un reato c.d. ostativo [secondo quanto previsto dall’articolo 656 c. 9 lett. a) cod. proc. PEN., che stabilisce che la sospensione dell’esecuzione non può essere concessa nei confronti di soggetti condannati per delitti di cui all’articolo 4 bis della L. 26.7.1975 nr. 354, nonché per i delitti di cui agli articoli 423 bis codice penale (incendio boschivo), 624 bis codice penale (nell’interpretazione data di recente dalla Consulta che ha contenuto il divieto alle sole ipotesi di furto in abitazione e non di furto con strappo),[10] 572 comma 2 codice penale e 612 bis comma 3 codice penale. La circostanza aggravante della clandestinità (articolo 61 nr. 11 bis codice penale), pure inizialmente contemplata dal legislatore quale condizione ostativa all’accesso alla sospensione, come è noto è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale]. Il limite del reato ostativo vale anche con riguardo ai condannati tossicodipendenti - liberi o in regime di arresti domiciliari al momento del passaggio in giudicato della sentenza - che potrebbero essere ammessi ai benefici di cui agli articoli. 90 e 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309,[11] con la sola eccezione per coloro che si trovino in regime di arresti domiciliari disposti ex articolo 89 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309.[12]

In definitiva, il principio - derogatorio rispetto al principio generale compendiato nella previsione di cui all’articolo 656 comma 1 cod. proc. PEN. - a cui, a far data dall’entrata in vigore della novella del 1998, si è ispirato il legislatore nel definire il modulo esecutivo delle pene detentive, è quello della sospensione dell’esecuzione codificato nell’attuale testo dell’articolo 656 comma 5 del codice di procedura penale, che trova un limite nei casi in cui sussista una presunzione di pericolosità, specificatamente desumibile:

- dall’ammontare della residua pena esigibile [ove superiore ad anni 4 di reclusione (salvo i casi di soggetti tossico-dipendenti che abbiano in corso un programma terapeutico o che ad esso intendano sottoporvisi, per i quali vale il limite dei sei anni di reclusione)];

- dalla tipologia del reato o dei reati in esecuzione [i c.d. reati ostativi (salvo i casi di soggetti tossico-dipendenti che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovino in regime di arresti domiciliari c.d. residenziali ex articolo 89 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309, i quali, ove la pena sia contenuta nel limite degli anni 4 di reclusione, possono permanere nello stato detentivo in cui si trovano];

-  ovvero dalla personalità del condannato, che a sua volta può evincersi dal fatto che il condannato sia detenuto in custodia cautelare in carcere per il fatto da eseguire ovvero sia in espiazione pena per altro titolo definitivo in esecuzione.[13]

Al di fuori delle ipotesi normativamente previste, la sospensione dell’esecuzione potrà essere richiesta dal condannato anche per altre cause, e con riferimento alla concessione ad altri benefici, ma in tal caso essa potrà essere disposta solo dal magistrato o dal tribunale di sorveglianza.[14]

L’invito che chi scrive intende formulare - non solo allo stato della pre-vigente disciplina ma anche all’indomani dell’entrata in vigore la riforma dell’ordinamento penitenziario - è a non sostenere la giuridica ammissibilità del dispiegarsi di poteri discrezionali di valutazione, nell’esecuzione della pena, che il Pubblico Ministero non ha.

E ciò in quanto - come si diceva in apertura del presente contributo - ipotizzare un potere discrezionale del Pubblico Ministero nella sospensione dell’esecuzione si pone in termini eccentrici rispetto alle tradizionali coordinate lungo le quali si muove il Pubblico Ministero in fase esecutiva, coerenti con il ruolo di mero impulso procedimentale attribuito alla parte pubblica e al correlato carattere officioso e semi-automatico del procedimento sospensione ex articolo 656 cod. proc. PEN.

Si può ora comprendere meglio come funziona il complesso meccanismo dell’esecuzione.

Nell’ipotesi di condannato libero al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva che, in ragione dell’ammontare della residua pena esigibile (se superiore agli anni 4 di reclusione ovvero agli anni 6 per i soggetti tossicodipendenti ammessi a programma terapeutico) ovvero in ragione della sussistenza tra i titoli in espiazione di reati ostativi all’accesso ai benefici penitenziari, non possa beneficiare della sospensione dell’esecuzione della pena, il Pubblico Ministero deve emettere ordine di cattura, a norma dell’articolo 656 comma 1 cod. proc. PEN., con cui se il condannato non è detenuto ne dispone la carcerazione.

Nell’ipotesi di condannato libero al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva che, in ragione dell’ammontare della residua pena esigibile ovvero dell’assenza tra i titoli in espiazione di reati ostativi all’accesso ai benefici penitenziari, possa beneficiare della sospensione dell’esecuzione della pena, il Pubblico Ministero deve emettere ordine di esecuzione con contestuale decreto di sospensione del medesimo a norma dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN.: dalla notifica del provvedimento decorrerà il termine (perentorio) di trenta giorni per chiedere l’accesso ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario. Allo stesso modo si dovrà procedere in presenza di soggetto condannato che risulti in custodia cautelare in relazione ad un titolo non ancora irrevocabile al momento del passaggio in giudicato della sentenza irrevocabile per ultima. Nell’ipotesi invece di condannato che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza si trovi ristretto in regime di arresti domiciliari, e che, al pari di un soggetto <libero>, possa beneficiare, in ragione dell’ammontare della residua pena esigibile ovvero dell’assenza tra i titoli in espiazione di reati ostativi all’accesso ai benefici penitenziari, della sospensione dell’ordine di esecuzione a norma dell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., il Pubblico Ministero dovrà, per effetto dell’integrale rinvio operato dall’articolo 656 comma 10 alle medesime situazioni previste nell’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., sospendere l’ordine di immediata traduzione in carcere e trasmettere gli atti al tribunale di sorveglianza perché provveda all’applicazione di una delle misure alternative contemplate dallo stesso comma 5 dell’articolo 656 cod. proc. PEN. Sino alla decisione del tribunale di sorveglianza il condannato rimarrà nel regime detentivo in cui si trova.

Nell’ipotesi di condannato che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna a pena detentiva, risulti in stato di custodia cautelare per uno dei titoli definitivi da mettere in esecuzione, l’esecuzione non potrà essere sospesa in nessun caso ed il Pubblico Ministero dovrà emettere l’ordine di carcerazione a norma dell’articolo 656 comma 2 cod. proc. PEN., ferma restando la facoltà per il condannato detenuto, di presentare comunque al tribunale di sorveglianza richiesta di ammissione alle misure alternative. In termini analoghi si procederà nei casi di condannati latitanti e evasi.

 

3.   La riforma dell’ordinamento penitenziario nelle originarie intenzioni del legislatore e all’indomani del d.lgs. nr. 123/2018.

Come si accennava in apertura del presente contributo, il 10 novembre del 2018 sono entrate in vigore le modifiche apportate all’ordinamento penitenziario contenute in due distinti decreti legislativi, il nr. 123 e il nr. 124, emanati dal Governo il 2 ottobre 2018, a seguito del Consiglio dei Ministri del 27-9-2018, in attuazione della legge delega del 23-6-2017 nr. 103, e pubblicati nella Gazzetta Ufficiale del 26-10-2018 [serie generale nr. 250].

Va premesso che con grande rammarico sia per alcuni operatori del settore che per quel movimento culturale e giuridico che aspirava ad un ripensamento complessivo dell’ordinamento penitenziario, è del tutto sfumata la possibilità che i lavori della commissione Giostra confluissero nel testo definitivo della riforma penitenziaria, dal momento che lo schema di decreto legislativo sulla giustizia riparativa [anch’esso comparso solo nell’agosto 2018] si è arenato alle Camere con parere negativo, mentre tutta la parte relativa alle misure alternative ed alle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari è stata integralmente espunta da tutti gli schemi di decreto legislativo comparsi negli ultimi mesi, fino alla conferma dell’ultimo Consiglio dei ministri del 27-9-2018.

Ed infatti, ove lo schema di decreto legislativo recante la riforma dell’ordinamento penitenziario in attuazione della legge delega del 23-6-2017 nr. 103, che è stato lungamente sottoposto al parere del Parlamento, fosse entrato in vigore nella sua originaria formulazione, si sarebbero invece aperti decisamente nuovi scenari sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale.

Può dunque, a questo punto, agevolmente introdursi il tema oggetto del presente contributo, che si ritiene utile ancorare a due profili di riflessione, e segnatamente:

Ø     l’impatto che il decreto legislativo nr. 123/2018 ha avuto sul vigente testo dell’articolo 656 cod. proc. PEN., e, più in generale, sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale;

Ø  l’impatto che lo schema di decreto legislativo avrebbe avuto sul vigente testo dell’articolo 656 cod. proc. PEN., e, più in generale, sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale ove invece lo schema di decreto legislativo fosse stato approvato nella sua originaria formulazione. Detto in altri termini, chi scrive si propone di fare qualche considerazione su quanto il legislatore si proponeva in origine di fare e non ha fatto e su quanto il legislatore avrebbe potuto fare e non ha fatto.

 

3.1    La riforma dell’ordinamento penitenziario all’indomani del d.Lgs. nr. 123/2018: le modifiche al testo dell’articolo 656 del codice di procedura penale.

Con riferimento alle modifiche al codice di procedura penale, va evidenziato che l’articolo 4 comma 1 lett. a) del d.Lgs. nr. 123/2018 racchiude l’unico intervento della novella sull’articolo 656 cod. proc. PEN.

L’unica modifica che allo stato si è registrata sull’articolo 656 cod. proc. PEN. riguarda il comma 6 ed è il seguente: nell’articolo 656 comma 6 cod. proc. PEN. il periodo: «Il tribunale di sorveglianza decide entro quarantacinque giorni dal ricevimento dell'istanza> è sostituito dal seguente: «Il tribunale di sorveglianza decide non prima del trentesimo e non oltre il quarantacinquesimo giorno dalla ricezione della richiesta».

In definitiva, è stato introdotto per la decisione del tribunale di sorveglianza sulla concessione della misura alternativa un termine dilatorio di 30 giorni, decorrente dalla ricezione dell’istanza, che va ad aggiungersi a quello – di natura invece acceleratoria – di quarantacinque giorni, entro il quale tale decisione dovrebbe essere adottata, che si aggiunge all’ulteriore termine dilatorio di almeno dieci giorni per l’avviso di fissazione dell’udienza, ai sensi dell’articolo 666 comma 3 cod. proc. PEN. Detta modifica - nella parte in cui risponde, a tutta evidenza, alle prescrizioni contenute nell’articolo 1 comma 85 lett. d) della legge-delega (ove prescrive al legislatore delegato di prevedere «una necessaria osservazione scientifica della personalità da condurre in libertà, stabilendone tempi, modalità e soggetti chiamati a intervenire») - parrebbe, dunque, rispondere alla funzione di quantificare la durata minima di tale attività di indagine personologica, in termini del tutto equivalenti a quella dell’osservazione intramuraria, da condurre per almeno un mese, a norma dell’articolo 47 comma 2 della L. 26.7.1975 nr. 354. Alcuni Autori[15] - ma la tesi non convince - hanno teorizzato la possibilità di ricondurre la ragione ispiratrice della norma - nella parte in cui ha introdotto un termine dilatorio - ad una finalità di matrice difensiva, nella misura in cui potrebbe servire al condannato, a titolo esemplificativo, per reperire un’occupazione o un’abitazione idonea,[16] o per presentare un’offerta reale di risarcimento alla vittima del reato; con la conseguenza che la fissazione dell’udienza prima del termine potrebbe dare luogo ad una nullità a regime intermedio, ai sensi degli articoli 178 lett. c) e 180 del codice di procedura penale.[17]

 

3.2   La riforma dell’ordinamento penitenziario nelle iniziali intenzioni del legislatore: le originarie modifiche previste sul testo dell’articolo 656 del codice di procedura penale.

A giudizio di chi scrive, per cogliere compiutamente il senso e la portata dell’attuale riforma sul testo dell’articolo 656 cod. proc. PEN. [nonché, più in generale, sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale], appare opportuno analizzare l’impatto che lo schema di decreto legislativo avrebbe avuto sul vigente testo dell’articolo 656 cod. proc. PEN. [e, più in generale, sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale] ove invece lo schema di decreto legislativo fosse stato approvato nella sua originaria formulazione.

Detto in altri termini, chi scrive si propone di fare qualche considerazione su quanto il legislatore si proponeva in origine di fare e non ha fatto, e su quanto il legislatore avrebbe potuto fare e non ha fatto.

Come si diceva in apertura del presente contributo, la riforma dell’ordinamento penitenziario entrata in vigore il 10 novembre del 2018 e compendiata nell’attuale testo di ambedue i decreti legislativi emanati dal Governo il 2 ottobre 2018, a seguito del Consiglio dei Ministri del 27 settembre 2018, è stata salutata con un certo rammarico sia da parte di alcuni operatori del settore, che da parte di quel movimento culturale e giuridico che aspirava ad un ripensamento dell’ordinamento penitenziario complessivo - e, a tutta evidenza, mancato -, atteso che tutta la parte relativa alle misure alternative ed alle preclusioni all’accesso ai benefici penitenziari è stata integralmente espunta da tutti gli schemi di decreto legislativo comparsi negli ultimi mesi, fino alla conferma dell’ultimo Consiglio dei ministri del 27 settembre 2018.

Ed in effetti, confrontando il testo del previgente schema di decreto legislativo nelle parti di interesse per l’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale e quello scaturito dal Consiglio dei ministri dello scorso 27 settembre, sembra innegabile come via sia una siderale differenza rispetto all’impatto che la riforma, secondo l’impostazione originaria, si proponeva di conseguire.

Ed invero, sia l’articolo 5 dell’originario schema di decreto legislativo recante modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione, che si accingeva a modificare l’articolo 656 cod. proc. PEN. che l’articolo 7 del medesimo originario schema di decreto recante modifiche alle norme dell’ordinamento penitenziario in tema di divieto di concessione dei benefici, che si accingeva a modificare l’articolo 4 bis della L. 26.7.1975 nr. 354, avevano invece inteso prevedere una complessiva <rivisitazione del sistema e dei presupposti di accesso alle misure alternative, anche alla luce di una decisa rimodulazione, in chiave ablativa, degli automatismi preclusivi alla loro fruizione>; in tal senso essendosi espressa sia la relazione illustrativa che la relazione tecnica allo schema di decreto legislativo all’epoca sottoposto al parere del Parlamento.

Orbene, se si ha riguardo al testo dell’originario schema di decreto legislativo, significative - a riguardo - erano sembrate a chi scrive due modifiche, ambedue apportate al testo dell’articolo 656 del codice di procedura penale:

-  la modifica al comma 5 dell’articolo 656 cod. proc. PEN., attraverso l’innalzamento del limite massimo di pena (elevato da tre a quattro anni di reclusione) entro il quale il Pubblico Ministero avrebbe avuto l’obbligo di sospendere l’ordine di carcerazione, per consentire al condannato di chiedere l’ammissione a misure alternative e per garantirgli un migliore programma rieducativo ai fini del suo reinserimento sociale;

-  la modifica dell’articolo 4 bis della L. 26.7.1975 nr. 354, così come richiamato dall’articolo 656 comma 9 lett. a) del codice di procedura penale, che – come è noto – sin dal 1991[18] ha introdotto nell’ordinamento penitenziario il divieto di concessione di benefici per i condannati per taluni delitti, allo scopo di ridurre drasticamente le ipotesi preclusive all’accesso ai benefici penitenziari. Ove la modifica fosse entrata in vigore, secondo le originarie intenzioni del legislatore, il divieto della sospensione dell’esecuzione avrebbe operato unicamente:

o          nei confronti degli autori di poche fattispecie di delitti monosoggettivi previsti dal codice penale [e segnatamente la Riduzione in schiavitù (articolo 600 codice penale), la Prostituzione minorile (articolo 600 bis comma 1 codice penale), la Tratta di persone (articolo 601 codice penale), la Violenza sessuale di gruppo (articolo 609 octies codice penale)];

o          nei confronti dei condannati per delitti di mafia e terrorismo nonché nei confronti di coloro che abbiano rivestito ruoli chiave all’interno di altre tipologie di organizzazioni criminali operanti nei soli settori specificati dalla legge.

Tanto debitamente premesso, è evidente come la modifica legislativa non abbia in alcun modo toccato la previsione del comma 5 dell’articolo 656 cod. proc. PEN., attraverso l’innalzamento del limite massimo di pena entro il quale il Pubblico Ministero ha l’obbligo di sospendere l’ordine di carcerazione per consentire al condannato di chiedere l’ammissione alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.

La circostanza che il comma 5 dell’articolo 656 cod. proc. PEN. non sia stato modificato nella parte relativa all’innalzamento al tetto di pena per poter fruire della sospensione della esecuzione e che, quindi, il legislatore delegato non ha ritenuto – pur avendone la facoltà, ai sensi dell’art. 1 comma 85 lett. c) della legge-delega – di elevare a quattro anni il limite di pena per la sospensione dell’ordine di esecuzione, in modo da assorbire nel tessuto normativo il dictum della sentenza della Corte costituzionale nr. 41 del 2018, è innegabilmente una scelta non casuale alla luce delle linee di politica criminale dell’attuale esecutivo – antitetiche rispetto all’ampliamento di operatività della sospensione ex articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. operato della Consulta – ma è altrettanto innegabilmente una scelta priva di alcuna conseguenza sul piano pratico. A comprova del fatto che l’unico limite di pena da prendere in considerazione per l’accesso da parte del condannato libero alle misure alternative previste dalla legge penitenziaria è ormai quello dei quattro anni, va osservato che tale limite è stato espressamente inserito nell’articolo 11 del d.Lgs. 121/2018, inerente alla sospensione dell’ordine di esecuzione per il condannato “giovane adulto”.

La circostanza che, invece, alcuna modifica sia intervenuta sul testo dell’articolo 4 bis della L. 26.7.1975 nr. 354, così come richiamato dall’articolo 656 comma 9 lett. a) cod. proc. PEN., e che quindi il catalogo dei delitti ostativi sia rimasto sostanzialmente invariato, è stata – invece - vista con grande rammarico da parte di alcuni operatori del settore e di quel movimento culturale e giuridico che aspirava ad un ripensamento complessivo dell’ordinamento penitenziario.

 

3.3  Gli obiettivi inizialmente dichiarati dal legislatore [e non attuati] e gli obiettivi [mai dichiarati e] mancati.

Ed è proprio, a questo riguardo, che chi scrive ritiene doveroso introdurre, nel presente contributo, una riflessione sull’impatto che lo schema di decreto legislativo avrebbe avuto sul vigente testo dell’articolo 656 cod. proc. PEN., e più in generale sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale, ove invece il decreto fosse stato approvato nella sua originaria formulazione.

Come si diceva in apertura, chi scrive si propone di fare alcune considerazioni su quanto il legislatore si proponeva, in origine, di fare e non ha fatto e su quanto il legislatore avrebbe potuto fare e non ha fatto, facendo richiamo – di seguito – ai principali commenti che avevano accompagnato la riforma quando era ancora in corso il parere del Parlamento sull’originario testo dello schema di decreto legislativo.

I. In epoca antecedente all’approvazione dei vigenti decreti legislativi, quando era ancora in corso il parere del Parlamento sull’originario testo dello schema di decreto legislativo, era stato sostenuto che la mancata approvazione della riforma o anche una sua regressiva rimodulazione [ciò che di fatto è accaduto] avrebbe offuscato quella messa a punto costituzionale del sistema penitenziario, che a quarant’anni dall’ultimo organico intervento avrebbe dovuto imporre lo spostamento del baricentro dell’esecuzione penale dal carcere verso le misure alternative alla detenzione, accompagnato dalla <selettiva rimodulazione dei presupposti per la concessione delle stesse e delle modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte>. Ed è stato altrettanto autorevolmente sostenuto che solo in questo deve poter consistere la certezza della pena che, nella sua effettività rieducativa, è l’unica ragionevole risposta ad una opinione pubblica confusa e impaurita da un generalizzato clima di insicurezza.

Chi scrive non intende in alcun modo, neppure all’interno del presente contributo, entrare nel merito degli scopi e delle scelte di politica criminale che, secondo l’originaria impostazione della riforma, il legislatore mirava a conseguire e neppure esprimere il proprio personale convincimento sulla portata della riforma, ove i lavori della Commissione Giostra fossero interamente confluiti nel testo definitivo della riforma penitenziaria, anche perché – molto probabilmente – sarebbe una voce fuori dal coro.

Ma ci si permette di rammentare che identificare la certezza della pena unicamente nella sua effettiva finalità rieducatrice, quale unica ragionevole risposta ad una opinione pubblica impaurita da un generalizzato clima di insicurezza, dimentica che quello che è prioritario nel bilanciamento degli interessi in gioco, è quel valore supremo costituito, non già (semplicisticamente) dalla pretesa punitiva dello Stato, bensì dalla tutela della collettività e dei diritti inviolabili del singolo che la Repubblica riconosce e garantisce (articolo 2 della Costituzione), e rispetto alla quale la pretesa punitiva dello Stato è un mero strumento di azione. Detto in altri termini, affinché si possa soggiungere ad una sintesi soddisfacente degli interessi in gioco, la contrapposizione non va posta tra la pretesa punitiva dello Stato e la rieducazione del condannato, bensì tra le esigenze di tutela del singolo e della collettività ed i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti alla popolazione carceraria, ivi compreso il diritto alla rieducazione. Ma l’indiscussa prevalenza che – a giudizio di chi scrive - deve essere accordata alla tutela della collettività non può e non deve condurre alla automatica subvalenza di tutte le presunzioni fondate sulla oggettiva gravità di determinati delitti o sulla oggettiva gravità di determinate condotte.

E - a questo riguardo - chi scrive ritiene che – prima ancora che ad una rivisitazione del sistema dell’esecuzione penale e di quello penitenziario – forse occorrerebbe rimeditare sul sistema complessivo della determinazione della pena in fase di cognizione, perché una pena che determinata quasi sempre nel minimo edittale e che, in fase esecutiva, arriva già sgretolata per effetto dell’abbattimento conseguente al pressoché automatico riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e dell’abbattimento, obbligato, conseguente al rito è una pena che di per sé non può più rispondere all’effettivo disvalore penale del fatto.

II. Sempre in epoca antecedente all’approvazione dei vigenti decreti legislativi, quando era ancora in corso il parere del Parlamento sull’originario testo dello schema di decreto legislativo, era stato altresì sostenuto che sarebbe stato davvero amaro se il destino di quella stagione riformatrice iniziata nel 2015 con la felice intuizione degli Stati Generali dell’esecuzione penale si fosse conclusa con la beffarda presa d’atto che solo il carcere - e non anche, e soprattutto, le misure alternative alla detenzione - può efficacemente svolgere la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e di ridurre il rischio di recidiva.

Ma ci si permette di ricordare che il richiamo ai c.d. tassi di recidivanza - che assegnerebbe[19] ai condannati in regime carcerario una percentuale pari al 85% del tasso di recidiva ed a quelli in regime alternativo una percentuale pari al 15% - può essere fuorviante, perché non considera che le misure alternative, per definizione, vengono concesse ai condannati più meritevoli; sicché è logico ritenere che il tasso di recidivanza nei condannati in misura alternativa sia inferiore a quello dei condannati in regime carcerario. Ne consegue che non può aprioristicamente affermarsi che solo le misure alternative alla detenzione - e non il carcere - svolgono efficacemente la funzione di garantire la sicurezza dei cittadini e di ridurre il rischio di recidiva.

III. Era stato parimenti sostenuto, in epoca antecedente all’approvazione dei vigenti decreti legislativi, che il legislatore nelle sue originarie intenzioni aveva inteso affidare unicamente alla magistratura di sorveglianza, a cui per legge è assegnata istituzionalmente la realizzazione del finalismo rieducativo della pena di cui all’articolo 27 della Costituzione, la piena valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative ed il bilanciamento degli interessi in gioco.

Ma ci si permette di ricordare che se alla magistratura di sorveglianza - istituzionalmente preposta alla realizzazione del finalismo rieducativo della pena - spetta la valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative ed il bilanciamento degli interessi in gioco, tale compito non può - e non deve - essere esclusivo appannaggio della medesima e che la valutazione sulla meritevolezza delle misure alternative, purché avulsa da valutazioni discrezionali, il bilanciamento degli interessi e, soprattutto, la tutela della collettività dal rischio di recidivanza devono essere assicurati anche all’Ufficio del Pubblico Ministero, a condizione che si voglia realmente centrare l’obiettivo che - anche secondo l’originaria impostazione - la riforma pure si proponeva di conseguire, vale a dire quello di rivisitare il sistema ed i presupposti di accesso alle misure alternative, rimodulando al tempo stesso le modalità per assicurare l’effettività del rispetto delle prescrizioni imposte; sicché all’Ufficio del Pubblico Ministero – sempre vigile sulle modalità di esecuzione delle misure alternative – dovrebbero sempre essere assicurati, con effettività, i seguenti poteri:

- il potere di formulare, tempestivamente, alla competente magistratura di sorveglianza la richiesta di adottare quelle misure che l’articolo 51 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354[20] impone di assumere quando il condannato, in espiazione pena in regime di misura alternativa, pone in essere comportamenti suscettibili di determinarne la revoca della medesima;

- il potere di formulare, altrettanto tempestivamente, alla competente magistratura di sorveglianza la richiesta di revoca dei benefici penitenziari già fruiti, che l’articolo 54 comma 3 della L. 26 luglio 1975, n. 354[21] prevede in tema di liberazione anticipata quando interviene una condanna per delitto non colposo commesso, nel corso dell’esecuzione, successivamente alla concessione del beneficio;

- il potere, infine, di interloquire efficacemente con la competente magistratura di sorveglianza - chiamata a decidere sulle istanze di misura alternativa nei confronti dei condannati che ne abbiano già fruito - allo scopo di evidenziare alla medesima che il potere di concedere una misura alternativa incontra un limite, per effetto dell’articolo 58 quater della L. 26 luglio 1975, n. 354,[22] operante per la durata di un triennio, nei casi in cui il condannato riporti una condanna per evasione ovvero nei casi in cui sia intervenuta una pregressa revoca, per avere il condannato serbato un comportamento incompatibile con l’esito della prova.

E, si badi bene, che laddove chi scrive auspica efficaci interlocuzioni tra l’Ufficio del Pubblico Ministero e la magistratura di sorveglianza competente a decidere sulle istanze di misure alternative ovvero sulla concessione [o sulla revoca] di determinati benefici, non si fa certamente riferimento all’istituzionale intervento del Procuratore Generale presso la Corte di Appello nelle udienze che si tengono dinnanzi al tribunale di sorveglianza, ma si fa riferimento alla necessità di istituire un parere, obbligatorio ma non vincolante [al pari del parere che viene reso nel caso di concessione di benefici ex articolo 54 della L. 26 luglio 1975, n. 354], da parte del Pubblico Ministero che, istituzionalmente,[23] cura l’esecuzione penale secondo la competenza determinata dal codice di rito.[24] Perché, diversamente, il Pubblico Ministero presso il Tribunale Ordinario che cura l’esecuzione in ragione del titolo irrevocabile per ultimo, viene tenuto completamente estraneo dal contraddittorio ove si controverta [esemplificatamente] della concessione di una misura alternativa al condannato che abbia subito la revoca di una precedente misura alternativa per immeritevolezza [ex articolo 51 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354] o della revoca di altro beneficio [ex articolo 54 comma 3 della L. 26 luglio 1975, n. 354].

Alla luce delle considerazioni che precedono, desta una certa perplessità la circostanza che il legislatore, nel nuovo testo dell’articolo 51 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354, nella versione modificata per effetto dell’articolo 5 c. 1 lett. b) d.Lgs. 123/2018 – che regolamenta le ipotesi di revoca di misura alternativa nel caso in cui il condannato ponga in essere comportamenti suscettibili di determinarne la revoca della medesima - abbia reso facoltativo e non obbligatorio il tempestivo intervento, per quanto provvisorio, del magistrato di sorveglianza, che nel frattempo abbia inviato gli atti al tribunale di sorveglianza in ordine al potere di sospendere o meno la misura.

Nel testo antecedente la riforma si prevedeva che il magistrato di sorveglianza, in caso di prognosi di revoca della misura per trasgressione delle prescrizioni, «ne dispon[esse] la sospensione»; da questo momento in avanti, nella ricorrenza dei medesimi presupposti, il magistrato di sorveglianza «può disporre» il provvedimento cautelare, ma può anche limitarsi ad avviare ex officio (ex articolo 678 comma 1 cod. proc. PEN.)[25] il procedimento di fronte al collegio.

Ad onore del vero e nell’esperienza pratica delle aule di giustizia, la riforma [apparentemente] non pare avere avuto un impatto realmente dirompente nella misura in cui ha assorbito nel tessuto normativo l’orientamento giurisprudenziale a tenore del quale «la revoca della misura alternativa alla detenzione non deve necessariamente essere preceduta da provvedimento di sospensione cautelativa da parte del magistrato», poiché l'articolo 51 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354 facoltizza detto organo all'adozione di tale provvedimento, ma non subordina la regolarità della procedura all'emanazione del medesimo».[26]

Nondimeno, indipendentemente dalla presa d’atto che per effetto della novella si è incrementato il margine di discrezionalità da sempre insito nelle decisioni della competente magistratura di sorveglianza, il contenuto realmente innovativo della norma esiste[27] ed è celato nel primo comma della disposizione in esame, in base al quale il tribunale di sorveglianza, a prescindere dall’adozione del provvedimento interinale da parte del magistrato di sorveglianza, decide «in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca» della misura alternativa.

È evidente, quindi, come il legislatore delegato – nel definire il modulo precettivo del contenuto della decisione del tribunale di sorveglianza, investito della decisione sulla revoca della misura alternativa alla detenzione nei confronti del condannato che abbia serbato comportamenti incompatibili con l’esito della prova – abbia previsto un’opzione in più, vale a dire la <sostituzione> della misura in corso con altra misura [a tutta evidenza più restrittiva come, a titolo esemplificativo, ove si sostituisca la misura dell’affidamento in prova ex articolo 47 della L. 26 luglio 1975, n. 354[28] con la misura della detenzione domiciliare ex articolo 47 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354].[29]

Alcuni Autori[30] hanno osservato come, fino ad oggi, nessuna previsione della legge penitenziaria (né a livello generale, né con riferimento alle singole misure) consentisse espressamente la sostituzione in peius, essendo il sistema polarizzato sull’alternativa conferma, con eventuale aggravamento delle prescrizioni, oppure revoca, con prosecuzione della pena in regime carcerario. In realtà, l’ordinamento penitenziario non ignora, in termini generali, l’ipotesi della <sostituzione>, avendone fatto espressa menzione nell’articolo 47 ter comma 9-bis della L. 26 luglio 1975, n. 354 a norma del quale <se la misura di cui al comma 1-bis è revocata ai sensi dei commi precedenti la pena residua non può essere sostituita con altra misura>; previsione – quest’ultima – che, indipendentemente dall’impossibilità di individuare una misura più restrittiva della detenzione domiciliare, limita il potere di sostituzione conferito al tribunale di sorveglianza.

In realtà, indipendentemente dalle intenzioni del legislatore – che taluni hanno ricondotto alla surrettizia re-introduzione il principio del minor sacrificio possibile della libertà personale che figurava nell’originario progetto di riforma – la conseguenza che, nella esperienza giurisprudenziale, certamente determinerà la sperimentazione concreta del potere di <sostituzione> da parte dei tribunali di sorveglianza sarà la drastica riduzione dei casi di revoca e la conseguente [parziale] neutralizzazione della preclusione triennale prevista dall'articolo 58-quater comma 2 della L. 26 luglio 1975, n. 354.

La scelta del legislatore, dunque, non appare in alcun modo consapevole e gli effetti della nuova opzione precettiva il frutto prevedibile di una determinazione inconsapevole, atteso che se l’obiettivo [non dichiarato] della previsione normativa [nella parte in cui, per l’appunto, ha introdotto il potere della sostituzione in peius] fosse stato realmente la neutralizzazione della preclusione triennale prevista dall'articolo 58-quater comma 2 della L. 26 luglio 1975, n. 354, il legislatore avrebbe certamente proseguito sulla strada in origine intrapresa dell’abrogazione della disposizione da ultima citata; opzione che – come si dirà a breve – è stata radicalmente abbandonata.

Ed infatti, proprio a proposito della previsione di cui all'articolo 58-quater della L. 26 luglio 1975, n. 354 recante norme in tema di Divieto di concessione di benefici che – nel quadro delle considerazioni da cui ha preso le mosse il presente contributo – desta una certa perplessità la circostanza che l’originario schema di decreto legislativo al tempo sottoposto al parere del Parlamento ne avesse previsto l’abrogazione, perché sin da allora chi scrive aveva ritenuto che, appunto per effetto di detta abrogazione, la riforma non avesse in alcun modo inteso centrare l’obiettivo, pure dichiarato, di rivisitare per un verso il sistema ed i presupposti di accesso alle misure alternative, individuando al tempo stesso adeguati strumenti per assicurare il rispetto delle prescrizioni imposte con la misura alternativa; sicché, chi scrive non può che salutare con estremo favore la circostanza che la preclusione triennale non sia stata abrogata, dal momento che, sin da allora, era apparso estremamente contraddittorio da un lato ampliare le maglie del sistema con riferimento all’accesso alle misure alternative, con il proposito dichiarato di prevedere al tempo stesso adeguati meccanismi per assicurare il rispetto delle prescrizioni e, poi, abrogare la norma del sistema che, per definizione, costituisce il principale disincentivo a incorrere nella violazione delle prescrizioni imposte.

Ma, al tempo stesso, non si ritiene che sia da registrare con favore la circostanza che il decreto legislativo di riforma non abbia inteso modificare – integrandone la previsione – il divieto di concessione di benefici compendiato nell’articolo 58 quater della L. 26 luglio 1975, nr. 354 nella parte in cui al comma 1 nel fare richiamo a tutte le misure alternative [l'affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall'articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà] ha ‘dimenticato’ la misura dell’affidamento terapeutico ai sensi dell’articolo 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309, così, di fatto, consentendo al condannato che, in regime di affidamento terapeutico, ne abbia subito la revoca per effetto della consumazione di delitti in corso di affidamento, di fruire nuovamente di tale misura anche a distanza di pochissimi mesi dalla revoca, non operando, in detti casi, il limite del triennio.

D’altra parte, chi scrive ritiene che la prospettata modifica dell’articolo 58 quater della L. 26 luglio 1975, nr. 354 avrebbe dovuto ritenersi doverosa, alla luce della corrispondente modifica che il legislatore pure ha fatto con riguardo ai meccanismi previsti dall’articolo 51 bis e 51 ter della L. 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui – sia con riguardo all’ambito di operatività del meccanismo estensivo che con riguardo all’ipotesi di trasgressione delle prescrizioni - ha sostituito l’originaria elencazione analitica degli istituti con un più generico riferimento alla «esecuzione di una misura alternativa»; sicché, con riferimento a detti istituti da oggi in avanti saranno fugati i residui dubbi in merito all’applicabilità di ambedue le norme all’affidamento terapeutico ai sensi dell’articolo 94 del d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309.

Da ultimo – sempre nel quadro delle considerazioni da cui ha preso le mosse il presente contributo – desta pari perplessità la circostanza che l’attuale riforma non abbia inteso intervenire sul testo dell’articolo 54 della L. 26 luglio 1975, n. 354 rendendo automatica la previsione della revoca del beneficio della liberazione anticipata già concessa, in tutti quei casi in cui la condotta del condannato, serbata successivamente alla concessione del beneficio, segnali a tutta evidenza il senso della assoluta inutilità della rinunzia da parte dello Stato alla esecuzione della pena.

Chi scrive ritiene che l’impostazione ermeneutica proposta non sia in alcun modo in antitesi con l’intervento, sul testo della norma citata, appostato dalla Corte Costituzionale[31] nella parte in cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 54 comma 3 della L. 26 luglio 1975, n. 354 ove prevedeva la revoca del beneficio della liberazione anticipata nel caso di condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio anziché stabilire che <la liberazione anticipata è revocata solo se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio>. Ed infatti, ferma restando i dettami della Corte Costituzionale, il legislatore, se avesse inteso realmente centrare l’obiettivo di ampliare per un verso le maglie del sistema con riferimento all’accesso alle misure alternative o a determinati benefici [anche alla luce di una decisa rimodulazione, in chiave ablativa, degli automatismi preclusivi alla loro fruizione], prevedendo al tempo stesso adeguati meccanismi per assicurare il rispetto delle prescrizioni, avrebbe dovuto dettagliare i parametri cui ancorare la valutazione circa la incompatibilità della condanna con il mantenimento del beneficio, per evitare di introdurre nel sistema un incontenibile margine di discrezionalità nelle relative decisioni, prevedendo quindi nel sistema medesimo – per l’appunto – adeguati disincentivi a incorrere nella violazione delle prescrizioni imposte. Dettaglio ancor più dovuto se si considera che la Corte Costituzionale con la sentenza citata assolutamente nulla ebbe a precisare a riguardo, delegando all’amplissima valutazione della competente magistratura di sorveglianza il compito di stabilire “se la condotta del soggetto, in relazione alla condanna subita, appare incompatibile con il mantenimento del beneficio”. Se si ha riguardo alle motivazioni della Corte nella sentenza in questione si legge che: <sin dai primi commenti sviluppatisi in relazione alla disciplina dettata dalla legge n. 354 del 1975, la dottrina più avveduta non mancò infatti di stigmatizzare le gravi incongruenze cui dava luogo il carattere di rigido automatismo che il legislatore aveva impresso alla revoca dei provvedimenti di riduzione della pena a seguito di condanna per qualunque delitto non colposo commesso nel corso dell'esecuzione dopo la concessione del beneficio, segnalando a tal proposito le aberranti conseguenze che un siffatto meccanismo era in grado di determinare, non soltanto sul piano della inadeguatezza rispetto alla gravità del reato ed all'entità della condanna, addirittura macroscopica nelle ipotesi in cui per il delitto in questione fosse stata inflitta la sola pena pecuniaria, ma anche sotto il profilo della totale incoerenza rispetto alla finalità rieducativa che l'istituto della liberazione anticipata è chiamato a soddisfare>. Dunque la Corte, sul [sintetico per quanto efficace] rilievo che, stando alla lettera della legge l’unico elemento da prendere in valutazione pareva essere esclusivamente il dato rappresentato dalla condanna per qualunque delitto non colposo e che tale indifferenza normativa per qualsiasi tipo di apprezzamento in ordine alla compatibilità o meno degli effetti che scaturiscono dalla liberazione anticipata rispetto al valore sintomatico che in concreto può assumere l'intervenuta condanna, lasciasse quindi presupporre che al fondo di una simile rigorosa opzione vi fosse nulla più che un preciso disegno volto ad assicurare, attraverso un meccanismo di tipo meramente sanzionatorio, la sola <buona condotta> del soggetto in espiazione di pena, ha quindi dichiarato la norma impugnata costituzionalmente illegittima per contrasto con l'articolo 27, terzo comma, della Costituzione.

IV. Era stato, infine, parimenti sostenuto, in epoca antecedente all’approvazione dei vigenti decreti legislativi, che la riforma dell’ordinamento penitenziario nella sua originaria formulazione, riportando l’esecuzione penale entro una cornice di legalità costituzionale e sovrannazionale dopo le condanne europee, rappresentasse precipuamente il rifiuto ideale prima ancora che giuridico di presunzioni legali di irrecuperabilità sociale [di cui l’articolo 4 bis della L. 26 luglio 1975, n. 354 è stato, per anni, emblema], dal momento che nessuna pena deve rimanere per sempre indifferente all’evoluzione personale del condannato.

Ma ci si permette di rammentare - in chiusura della riflessione che la scrivente si proponeva di fare su quanto il legislatore si prefiggeva di fare e non ha fatto e su quanto, invece, avrebbe potuto fare e non ha fatto - che l’articolo 4 bis - originariamente inserito, nel corpo dell’ordinamento penitenziario, dal D.L. 13-5-1991 nr. 152 recante provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e, di lì a poco, inasprito ad opera del D.L. 8-6-1992 nr. 306 recante modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa, con la pretesa di una condotta collaborativa quale requisito essenziale per l’accesso ai benefici penitenziari - non fu espressione dell’isteria momentanea di un legislatore ferito dall’eccezionale aggravamento del fenomeno mafioso degli anni ’90, ma ha rappresentato lo snodo fondamentale per l’attuazione del regime penitenziario del doppio binario, individuando un nuovo circuito penitenziario per i condannati per quei gravissimi delitti espressamente individuati dalla stessa norma e che ha retto alle censure di costituzionalità, nella misura in cui si è preso atto che il doppio binario non è stato creato dal legislatore sul fondamento del <mero allarme sociale>, bensì su ragioni giustificative chiaramente riconoscibili.[32]

 

4.  Quali conseguenze sull’attività del Pubblico Ministero che cura l’esecuzione penale all’indomani della legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici?

I. Alla luce delle considerazioni con cui si è chiuso il paragrafo che precede, non appare certamente frutto della scelta casuale di un legislatore ondivago la circostanza che la legge 9 gennaio 2019, nr. 3, recante Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici (18G00170) (GU Serie Generale n.13 del 16-01-2019), entrata in vigore il 31/01/2019, abbia inglobato le nuove fattispecie corruttive nel testo dell’articolo 4 bis comma 1, della legge 26 luglio 1975 n. 354.[33]

Ci si richiama all’articolo 1 comma 6 della legge medesima che ha inserito nel testo dell’articolo 4 bis comma 1 un inciso per effetto del quale sono stati introdotti tra i reati ostativi c.d. “di prima fascia” quelli previsti dagli articoli 314 comma 1, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater comma 1, 320, 321, 322, 322 bis del codice penale.[34] Conseguentemente, la condotta prevista dall’articolo 323 bis comma 2 del codice penale[35] è stata inserita quale alternativa alle condotte di collaborazione previste nell’articolo 58 ter della legge 26 luglio 1975 n. 354, idonee a superare l’ostatività.

Ed è una scelta di politica criminale, quella intrapresa con la Legge nr. 3/2019 - nota con il termine sventurato, ma sintomatico dell’attuale approccio del legislatore, di <spazzacorrotti> - che risponde ad una logica coerente con quel percorso di lotta alla corruzione da molti anni ormai al centro dell’attenzione del legislatore.

Se per un verso è tristemente noto come la corruzione sia un male che si annida subdolamente nella società civile e nelle istituzioni dello Stato e che le statistiche internazionali vedano il nostro paese collocato in posizioni sempre più arretrate nella lotta alla corruzione, è altrettanto noto come l’indice di percezione della corruzione pubblicato nel 2018 da Trasparency International ci poneva al settantesimo posto a livello mondiale, sebbene all’indomani della Legge nr. 190/2012 c.d. Legge Severino – che notoriamente puntava, oltre che su misure di tipo repressivo per colpire i responsabili dei reati collegati al fenomeno della corruzione, su misure di tipo amministrativo - il nostro paese abbia scalato 12 posti nella graduatoria.

Dunque, nonostante la prospettata censura costituzionale della normativa per violazione dei principi di ragionevolezza da parte di alcuni Autori,[36] chi scrive non è per nulla stupito che la nuova legge – pur lasciando intatto l’impianto della Legge Severino – nell’ottica di privilegiare nuovamente misure di tipo repressivo e penalizzazioni ex post – abbia conglobato le nuove fattispecie corruttive nel testo dell’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354.

II. Resta quindi da capire quali scenari si aprono con l’entrata in vigore della legge c.d. spazza-corrotti.

La nuova legge – come si accennava – ha conglobato le nuove fattispecie corruttive nel testo dell’articolo 4 bis, a cui fa espresso rinvio l’articolo 656 c. 9) lett. a) del codice di procedura penale, che preclude il diritto alla sospensione dell’esecuzione previsto dall’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN. per tutti quei condannati che siano in espiazione pena per un reato c.d. ostativo; rinvio – quello fatto dal codice di rito all’articolo 4 bis - che notoriamente implica unicamente il richiamo all’elencazione dei reati per i quali detta sospensione non può essere disposta, senza recepire i presupposti di applicabilità che la norma richiamata considera necessari ai fini del divieto di concessione dei benefici penitenziari [37] e che, dunque, nella pacifica interpretazione resa anche a sezioni unite dalla Corte di Cassazione[38]esprime un rinvio formale (dinamico) e non recettizio (statico), perché non recepisce materialmente la norma richiamata e i suoi presupposti soggettivi di applicabilità, ma si limita ad affidare alla norma richiamata l’individuazione delle categorie di delitti per i quali non si applica la sospensione delle pene detentive brevi. Detto altrimenti, il catalogo dei delitti ostativi alla sospensione della carcerazione breve è identico a quello dei delitti che sono ostativi alle misure alternative alla detenzione. Il che risponde perfettamente alla ratio dell’istituto processuale di cui all’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., dal momento che la sospensione dell’ordine di carcerazione è direttamente funzionale alla eventuale applicazione delle misure alternative alla detenzione, anche se prescinde dal controllo sui requisiti soggettivi di applicabilità delle misure stesse, che è affidato soltanto al tribunale di sorveglianza.

Chi scrive ritiene, con convinzione, come non possa ragionevolmente porsi in discussione che il modulo esecutivo della pena applicabile a tutti gli ordini di esecuzione da emettersi per le fattispecie corruttive a far data dal 31-1-2019 debba essere governato dalle nuove disposizioni, che precludono il diritto alla sospensione dell’esecuzione per tutti quei condannati che siano in espiazione pena per un reato c.d. ostativo.

Questa conclusione discende dal principio del tempus regit actum accolto dall'articolo 11 delle preleggi,[39] da cui gli istituti processuali devono essere governati, risultando viceversa inapplicabili le regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo per le fattispecie di diritto sostanziale dall’articolo 2 del codice penale[40] e dall’articolo 25 della costituzione.[41]

Va doverosamente rammentato, a questo riguardo, che la necessità che gli istituti processuali vengano disciplinati dalla legge in vigore nel momento di realizzazione dell'atto, riassumibile nel canone tempus regit actum, risponde, infatti, a fondamentali e imprescindibili esigenze di certezza, razionalità, logicità che sono alla radice della funzione regolatrice della norma giuridica. Esso, proprio per tale sua connotazione, è particolarmente congeniale alla disciplina del processo penale. L'idea stessa di processo implica infatti l'incedere, attraverso il susseguirsi atomistico e puntiforme, di molti atti che ne compongono la costruzione. Tale edificazione rischierebbe di crollare dalle radici come un castello di carte se la cornice normativa che ha regolato un atto potesse essere messa in discussione successivamente al suo compimento per effetto di una nuova norma anche più favorevole alla precedente. Per questo, il principio tempus regit actum significa in primo luogo che, di regola, la norma vigente al momento del compimento di ciascun atto ne segna definitivamente, irrevocabilmente, le condizioni di legittimità e ne costituisce lo statuto regolativo.

D’altra parte, è la stessa Corte EDU che, se da un lato sottolinea la necessità di definire di volta in volta la natura sostanziale o processuale delle norme in discussione al di là del dato formale, nel contempo esclude una possibile applicabilità del principio implicitamente enunciato dall'articolo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo all'ambito processuale.[42]

Appare coerente, in definitiva, con la struttura stessa del sistema processuale, tener fede agli orientamenti espressi dalla giurisprudenza costituzionale e sovrannazionale in ragione, innanzitutto, delle già richiamate esigenze di certezza, razionalità e logicità, in modo che <l'assetto predisposto in considerazione di un certo modus procedendi non debba tendenzialmente essere sconvolto da norme sopravvenute, che rimettano in discussione l'unità e la coerenza dell'intera attività processuale, cioè l'unità e la coerenza dell'attività processuale già svolta, con quella futura> [principio di diritto espresso delle Sezioni Unite Penali della Cassazione, in relazione ad una fattispecie di norma processuale dichiarata costituzionalmente illegittima].[43]

Orbene, che il modulo esecutivo della pena applicabile a tutti gli ordini di esecuzione da emettersi per le fattispecie corruttive debba essere governato, secondo il principio del tempus regit actum, dalle nuove disposizioni che precludono il diritto alla sospensione dell’esecuzione e che, conseguentemente, a far data dal 31-1-2019 tutte le sentenze di condanna per dette fattispecie dovranno essere eseguite mediante l’adozione dell’ordine di immediata carcerazione a norma dell’articolo 656 comma 1 del codice di procedura penale (indipendentemente dalla data del commesso reato e dalla data di irrevocabilità della sentenza), è un principio di diritto già reso dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite con riferimento alle condanne per il delitto di violenza sessuale.[44]

Come è noto, la sopravvenuta inclusione di tale delitto tra quelli previsti dall’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 per effetto dell’articolo 15 della L. 6 febbraio 2006 nr. 38 (recante disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet), pose - a suo tempo - il quesito sul se tale inclusione comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione, in tutti i casi in cui il relativo procedimento esecutivo non risultasse ancora esaurito al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa.

Con l’articolo 15 della legge in questione, infatti, il legislatore inserì tra i reati ostativi ai benefici penitenziari (e quindi alla sospensione iniziale della pena detentiva breve) anche i delitti previsti dagli articoli “600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, 600 quinques, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 octies” del codice penale; ciò che pose il problema della sua applicabilità anche per i delitti commessi o per le condanne divenute esecutive prima della entrata in vigore della legge relativa.

Come è noto, al tempo, la dottrina non prese una specifica presa di posizione; ma è altrettanto noto come in linea generale questa[45] sia propensa a estendere il principio di irretroattività delle norme penali di cui all’articolo 25, comma 2, Costituzione a tutte le disposizioni limitative dei diritti di libertà, tra le quali rientrano indubbiamente anche quelle che escludono la sospensione della carcerazione e l’applicazione di misure alternative alla detenzione.

Diametralmente opposta è però la soluzione adottata dalla costante giurisprudenza di legittimità.[46] Questa infatti, da molti anni a questa parte, è concorde nell’affermare che le disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione, non riguardando l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma attenendo soltanto alle modalità esecutive della pena irrogata, non hanno carattere di norme penali sostanziali, e quindi ‑ in assenza di specifiche norme transitorie ‑ soggiacciono al principio tempus regit actum e non alla disciplina dell’articolo 2 del codice penale e dell’articolo 25 della Costituzione.

Detto principio di diritto è stato parimenti reso dalla Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite,[47] all’indomani dell’entrata in vigore della L. 27 maggio 1998, nr. 165, che – a suo tempo e come si accennava in apertura del presente contributo – modificò l’articolo 656 comma 5 cod. proc. PEN., introducendo l’obbligo per il Pubblico Ministero di sospendere l’esecuzione dell’ordine di carcerazione per le pene inferiori al prescritto limite di legge e di dare avviso al condannato della facoltà di presentare entro trenta giorni dall’avvenuta consegna del provvedimento istanza di ammissione ad una delle misure alternative alla detenzione in esso indicate. In quella circostanza, la Corte di Cassazione statuì che nei procedimenti di sorveglianza in corso al momento dell'entrata in vigore della L. 27 maggio 1998 n. 165 le nuove disposizioni [a tutta evidenza più favorevoli delle precedenti] si applicassero ai rapporti non ancora esauriti, con la conseguente sospensione dell'esecuzione della pena anche in favore del condannato che (esemplificatamente), al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovasse ristretto agli arresti domiciliari ed avesse richiesto l'affidamento in prova al servizio sociale, fatta salva la sussistenza di una delle condizioni ostative di cui al comma 9 dell'articolo 656 cod. proc. PEN. ovvero il sopraggiungere della decisione del tribunale di sorveglianza che, nelle more, avesse negato la concessione del beneficio.[48]

Naturalmente è innegabile che la pacifica inoperatività del principio di irretroattività di cui all’articolo 25 comma 2 della Costituzione ai casi di successione di leggi processuali nel tempo, ove la legge (processuale) successiva comprometta un diritto di libertà positivamente acquisito per effetto di una legge (processuale) antecedente, può prestarsi, anche fondatamente, a censure di irragionevolezza.

Per questo motivo, in determinati casi, le leggi intervenute su istituti processuali in origine diversamente disciplinati non di raro hanno previsto disposizioni transitorie.

A titolo esemplificativo, quando il D.L. 13 maggio 1991 nr. 152, recante provvedimenti urgenti in materia di lotta alla criminalità organizzata, convertito con modificazioni nella L. 12 Luglio 1991 nr. 203 - che inserì l’articolo 4 bis nell’ordinamento penitenziario e che introdusse ulteriori limiti per l’accesso a determinati benefici penitenziari[49]- innalzò la soglia di espiazione della pena che i condannati per i delitti di cui al 4 bis avrebbero dovuto superare per poter accedere ai relativi benefici, il legislatore introdusse però una disposizione transitoria (l’articolo 4) che stabiliva espressamente che le nuove norme si applicassero solo ai condannati per delitti commessi dopo l’entrata in vigore del decreto legge.

Ebbene, né la L. 6 febbraio 2006 nr. 38 - che ha inserito nel catalogo delle fattispecie ostative all’accesso ai benefici penitenziari anche la violenza sessuale -, né la L. 9 gennaio 2019, n. 3 - che ha inserito nel catalogo delle fattispecie ostative all’accesso ai benefici penitenziari anche le fattispecie corruttive -, contengono disposizioni transitorie in ordine all’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 nr. 354.

Sicché - appunto quando per effetto della sopravvenuta inclusione delle fattispecie di violenza sessuale per effetto dell’articolo 15 della L. 6 febbraio 2006 nr. 38 si pose il quesito sul se tale inclusione comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione in tutti i casi in cui il relativo procedimento esecutivo non risultasse ancora esaurito al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa - la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza resa a sezioni unite poc’anzi accennata,[50] ha affermato che la circostanza che la citata legge 38/2006 non contenesse alcuna disposizione transitoria analoga a quelle precedenti induceva a ritenere che le innovazioni introdotte con essa, lungi dall’applicarsi solo ai delitti commessi o alle condanne divenute esecutive dopo la entrata in vigore della legge stessa, dovessero essere governate dal generale principio del tempus regit actum a cui soggiace tutta la materia delle misure alternative alla detenzione e ogni altra modalità esecutiva della pena, dovendo, invece, il principio di irretroattività delle norme penali stabilito dall’articolo 25 comma 2 Costituzione e dall’articolo 2 del codice penale applicarsi solo per le pene inflitte dal giudice della cognizione.

Conclusione quest’ultima che la Corte, a maggior ragione, ha ritenuto applicabile con riguardo all’articolo 656 commi 5 e 9 cod. proc. PEN. che è quello propriamente applicabile al caso in questione nella parte in cui richiama l’articolo 4 bis della L. 26 luglio 1975 nr. 354, trattandosi della disciplina processuale che regola l’attività del pubblico ministero come organo deputato alla esecuzione delle pene e che definisce i presupposti del suo obbligo di sospendere l’esecuzione delle pene detentive inferiori a una soglia determinata, anche operando un rinvio all’articolo 4 bis della L. 26 luglio 1975 nr. 354 per individuare i delitti ostativi al detto obbligo di sospensione.

Nell’affermare, convintamente, detto principio di diritto, la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto di trovare conforto – nelle sue determinazioni – anche nella giurisprudenza della Corte Costituzionale,[51] la quale - pur avendo sostenuto la tesi secondo la quale “potrebbe meritare una seria riflessione” il sostenere idealmente l’operatività del principio di irretroattività, oltre che alla pena, anche alle disposizioni che ne regolano l’esecuzione, finisce per abbandonare la tesi stessa laddove aggiunge che “anche in materie non soggette al principio di irretroattività della legge, ( ... ) la vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente riconosciuto da una legge precedente non può sottrarsi al necessario scrutinio di ragionevolezza”.

In quella circostanza, infatti, il giudice delle leggi aveva ritenuto l’illegittimità costituzionale della norma scrutinata (che era il secondo comma del già citato articolo 15 del D.L. 306/92) solo in quanto violatrice dei principio di ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione, ma non in quanto lesiva del principio di irretroattività stabilito dall’articolo 25 comma 2 della Costituzione.

Conformemente a tale principio, la Suprema Corte di Cassazione ha quindi ritenuto che la sopravvenuta inclusione del delitto di violenza sessuale tra quelli previsti dall’articolo 4 bis della L. 26 luglio 1975 nr. 354 per effetto dell’articolo 15 della L. 6 febbraio 2006 nr. 38, comportasse l’operatività, altrimenti esclusa, del divieto della sospensione dell’esecuzione ‑ secondo il principio tempus regit actumnon essendo ancora esaurito il relativo procedimento esecutivo al momento dell’entrata in vigore della novella legislativa.

Il principio di diritto reso in quella circostanza dalla Suprema Corte di Cassazione è logico ritenere che vada applicato anche con riguardo ad ogni esecuzione penale in corso relativa alle fattispecie corruttive ricomprese - per effetto della sopravvenuta inclusione operata dalla legge 9 gennaio 2019, nr. 3 - nell’elenco dei delitti che ostano alla sospensione della carcerazione, rimanendone esclusi soltanto i rapporti esecutivi già esauriti.

L’obiezione – pure fatta da alcuni Autori[52] – è che tale conclusione si presti alla <ragionevole> obiezione delle <irragionevoli> disparità di trattamento conseguenti alle tempistiche che separano la fase del formale avvio della fase di esecuzione rispetto a quella della effettiva “lavorazione” del fascicolo, dal momento rispetto alla data in cui la sentenza diventa definitiva gli uffici della Procura della Repubblica, che ricevono gli estratti esecutivi delle sentenze, spesso accumulano significativi ritardi nella iscrizione degli estratti, cui conseguono altrettanti ritardi nell’emissione dell’ordine di esecuzione.

Sicché, i medesimi Autori[53] giungono ad ipotizzare la necessità di ancorare il dies a quo a partire dal quale ritenere operative le nuove disposizioni alla data della irrevocabilità della sentenza, trattandosi <dell’unico atto certo – perché non dipendente da fattori occasionali o da ritardi addebitabili agli uffici giudiziari – perché la fase di esecuzione possa dirsi avviata (e dunque perché a tale momento si debba far riferimento per l’individuazione della norma applicabile)>, non potendosi ritenere decisivo <il fatto che in concreto essa sia o meno in concreto “eseguita” (attraverso la formale emissione dell’ordine di esecuzione e la sua notificazione), in quanto – come detto – legato a variabili del tutto casuali>.

Chi scrive dissente profondamente da questa impostazione che giunge a ritenere che <anche gli ordini non materialmente emessi ma “emettibili” debbano essere disciplinati dalla disposizione precedente, posto che la fase di esecuzione deve ritenersi avviata e quindi vincolata alla disciplina vigente al momento del suo avvio>, non soltanto perché si tratta di un artificio giuridico che non pare trovare nel sistema fondamento alcuno (perché allora non ancorare il dies a quo a partire dal quale ritenere operative le nuove disposizioni alla data del commesso reato?), ma anche perché a chi scrive – che, peraltro, non ha memoria alcuna di analoga impostazione sostenuta al tempo in cui divennero ostativi alla sospensione dell’esecuzione i fatti di violenza sessuale – tale tesi appare una forzatura evidente che ingenera la sgradevole sensazione di volere in qualche modo preservare dalle forme di espiazione pena in regime carcerario i reati commessi dai white collars.

In ogni caso, sostenere che il Pubblico Ministero debba individuare, alla luce di superiori principi di ragionevolezza,  nella data di irrevocabilità della sentenza il criterio scriminante per ritenere operative le nuove disposizioni è una operazione in insanabile contrasto con il divieto tassativo ed assoluto per il giudice di sostituirsi al legislatore [anche mediante operazioni di interpretazione evolutiva della norma] laddove ha omesso, consapevolmente o meno, come nel caso in questione, di prevedere una disciplina transitoria, snaturandosi – diversamente - la funzione del giudice da organo di applicazione in quello di formazione della legge.

Non appare dunque percorribile, alla luce delle superiori considerazioni, la tesi secondo la quale una possibile soluzione interpretativa del contrasto con la garanzia dell’irretroattività conseguente alla mancata previsione di una disciplina transitoria, potrebbe essere quella di ritenere, almeno sul versante dei profili intertemporali, che il giudice impegnato nell’applicazione del <nuovo> articolo 4 bis ad uno dei delitti contro la pubblica amministrazione commessi precedentemente all’entrata in vigore della legge nr. 3/2019 potrebbe risolvere il contrasto senza necessariamente impegnare la Corte, avvalendosi a tal fine del rimedio <offerto da una interpretazione costituzionalmente orientata che – mutando l’indirizzo giurisprudenziale citato, prevalente ma non indiscusso né univoco – consideri la novazione legislativa in oggetto come disciplina processuale “ad effetti sostanziali”, evidenziandone le note di “intrinsecamente afflittività” – giacché incidenti sullo stesso accesso alle misure alternative e non solo sulle relative modalità esecutive – e conseguentemente assoggettandola al principio di irretroattività (in linea con le indicazioni desumibili dalla citata giurisprudenza della Corte EDU, e con una lettura “convenzionalmente orientata” dell’art. 25/2 Cost.)>.[54]

La riflessione deve quindi spostarsi a questo punto sulla questione, parimenti dibattuta, su cosa debba intendersi per situazioni processuali non ancora esaurite e quale sia conseguentemente la sorte di quegli ordini di esecuzione sospesi emessi in epoca antecedente alla vigenza della pregressa disciplina.

La materia qui controversa si specifica, quindi, nel verificare in quale momento gli effetti dell’ordine d’esecuzione debbano dirsi compiuti e quindi quando la situazione giuridica del condannato possa ritenersi esaurita e non più suscettibile di essere disciplinata dalla nuova normativa.

E’ innegabile che, da un punto di vista processuale, il rapporto esecutivo non si esaurisce con l’emissione dell’ordine di carcerazione, che rappresenta al contrario l’atto iniziale della vicenda esecutiva, ma si esaurisce con l’esecuzione dell’ordine medesimo.

Ed infatti, l’ordine di esecuzione – che è l’atto di natura amministrativa attraverso cui il Pubblico Ministero dà impulso al procedimento destinato all’esecuzione della pena – è una fattispecie complessa, nella quale - indipendentemente dal contenuto formale da cui è connotato e dalla diversa fisionomia che di volta in volta assume a seconda dello status giuridico del condannato - l’atto che segue [nella specie l’esecuzione della carcerazione nei casi di ordini di esecuzione non sospesi emessi a norma dell’articolo 656 comma 1 del codice di procedura penale] è strutturalmente collegato all’antecedente in vista del perseguimento del risultato.

Dopo questa fase inizia il rapporto tra la magistratura di sorveglianza ed il condannato, che si conclude con il momento della espiazione della pena.

La conseguenza di questo ragionamento è che, una volta accertata la legittima conclusione dell’attività che la legge attribuisce al pubblico ministero con l’emissione dell’ordine e la sua esecuzione, si apre il diverso rapporto tra il condannato e il giudice naturalmente precostituito per la fase di espiazione, ossia il tribunale o il magistrato di sorveglianza.

L’ulteriore conseguenza che scaturisce da questo ragionamento è che, a stretto rigore, gli ordini di esecuzione sospesi emessi per fattispecie corruttive e per pene contenute entro i quattro anni di reclusione prima dell’entrata in vigore della nuova normativa ma che, in epoca successiva, non abbiano ancora avuto esecuzione (con la conseguente ammissione al condannato a misura alternativa per effetto della positiva valutazione del tribunale di sorveglianza competente a decidere sull’istanza di misura alternativa), dovrebbero essere immediatamente revocati a fronte del dato impeditivo rappresentato dalla sopravvenuta presenza di un titolo ostativo alla sospensione dell’esecuzione, non potendo in detti casi il principio del tempus regit actum trovare un limite nell’esaurimento della fase processuale, deputata all’esecuzione delle pene detentive, di competenza del Pubblico Ministero.

La contraria tesi, pure convintamente sostenuta, non appare in alcun modo condivisibile.

È stato sostenuto[55] che non vi è dubbio che gli ordini di esecuzione con decreto di sospensione già emessi ai sensi dell’articolo 656 comma 5 del codice di procedura penale conservino la loro efficacia. E - a fondamento della sua impostazione - l’Autore si richiama ad un precedente della Corte di Cassazione,[56] ritenendo tuttavia che la contraria interpretazione sostenuta dalla Corte in quella circostanza [che aveva affermato che in virtù del principio "tempus regit actum", la normativa dettata dalla legge 27 maggio 1998 nr. 165 in tema di sospensione dell'esecuzione della pena avesse efficacia operativa immediata e si applicasse, quindi, anche all'esecuzione di tutti gli ordini di carcerazione, compresi quelli che formati prima della sua entrata in vigore, ma non eseguiti durante la vigenza della precedente disciplina dell'articolo 656 cod. proc. PEN.] non possa essere ritenuta riferibile al caso di specie, dal momento che il principio di diritto reso all’epoca riguardava la ben diversa situazione di un effetto favorevole per il condannato [vale a dire la sospensione dell’esecuzione] - rispetto alla disciplina previgente - nel momento in cui l’atto non aveva ancora avuto effetti.

L’obiezione appare, anche sotto tale profilo, disancorata dal sistema, perché non considera che, per definizione, il principio "tempus regit actum" accolto dall'articolo 11 delle preleggi, prescinde dagli effetti più o meno favorevoli della legge processuale sopravvenuta, essendo soltanto il principio della irretroattività della legge penale stabilito dall’articolo 2 del codice penale e dall’articolo 25 della Costituzione, preposto a garantire, per le fattispecie di diritto sostanziale, che nessuno venga punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato [c.d. divieto di ultrattività della legge penale].

Ne consegue, conclusivamente, che le disposizioni che hanno ricompreso le fattispecie corruttive nel catalogo dei gravi delitti previsti nel nuovo testo dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario dovranno trovare applicazione esclusivamente nei confronti:

-  di tutte le esecuzioni da compiersi nella vigenza della nuova disciplina, qualsivoglia sia la data del commesso reato o quella della irrevocabilità della sentenza;

-  di tutte le esecuzioni compiute in epoca antecedente alla entrata in vigore della nuova disciplina in relazione alle quali il condannato abbia in origine beneficiato della sospensione della esecuzione, ove gli ordini di esecuzione non abbiano ancora avuto esecuzione. Si tratta, in definitiva, del medesimo principio di diritto reso dalla Suprema Corte di Cassazione[57] con riguardo alle conseguenze giuridiche che scaturiscono dalla declaratoria di incostituzionalità di norme processuali. Perché con riferimento a tali fattispecie, la Corte – pacificamente – ha ravvisato <nella perduranza delle conseguenze giuridiche dell’atto> il limite oltre il quale la vicenda processuale è impermeabile alla declaratoria di incostituzionalità di una norma processuale>. Gli atti di quest'ultimo tipo (denominati permanenti) non sempre, infatti, sono suscettibili di regolamento unitario in quanto, esaurendo la loro funzione con il completarsi del proprio ciclo temporale, rimangono esposti agli eventuali mutamenti legislativi, a differenza degli atti (cosiddetti istantanei) che nel momento stesso in cui vengono formati consumano i loro effetti.

Al contrario, il principio dell’immediata operatività della legge processuale successiva rispetto agli atti posti in essere antecedentemente, incontrerà un limite di validità quando l’atto abbia compiutamente esaurito la propria funzione, per avere dispiegato tutti i suoi effetti nell’ambito del regime anteriore alla nuova normativa, modificativa o sostitutiva di quella esistente al tempo in cui è stato formato, perché allora da quest’ultima la sorte giuridica dell’atto resta regolata, dovendosi allo ius superveniens negare efficacia retroattiva.

Non appare, quindi, condivisibile alla luce delle superiori considerazioni la diversa tesi pure sostenuta da alcuni Autori,[58] la quale – in nome del principio di non regressione (o di tutela della progressione) trattamentale desumibile da una ampia gamma di pronunzie della Corte Costituzionale, generate da una serie di incidenti di costituzionalità sull’articolo 4 bis della L. 26 luglio 1975 nr. 354 dopo la sua introduzione – giunge a teorizzare, sul presupposto della non revocabilità degli ordini di esecuzione sospesi emessi nella vigenza della precedente disciplina, che prima ancora che sia iniziata la fase dell’effettiva espiazione della pena anche la <valutazione di ammissibilità della istanza di misura alternativa (in ogni caso da effettuarsi con riguardo al momento della sua proposizione, e dunque senza tenere conto di modifiche successive) avvenga tenendo conto del principio della progressione del trattamento>.

Detta tesi, infatti, oltre a non tenere conto dell’evoluzione della giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione - che ravvisa <nella perduranza delle conseguenze giuridiche dell’atto> il limite oltre il quale la vicenda processuale è impermeabile alla legislazione processuale sopravvenuta – confonde la condizione del condannato libero in <sospensione> [il cui percorso di reinserimento non può considerarsi in corso solo perché l’articolo 47 comma 4 della L. 26 luglio 1975 nr. 354 impone di valutare il comportamento in libertà per l’anno precedente] dalla condizione del condannato già in regime di misura alternativa alla detenzione ed infine altera il senso del principio di non regressione trattamentale, il quale – per definizione – postula che l’esecuzione della pena, pur in regime di misure alternative alla detenzione, sia in corso allo scopo di non vanificare o comunque di non interrompere quei percorsi trattamentali che già avessero dato segnali di riuscita, in assenza di comportamenti che avessero denotato mancanza di meritevolezza.

Tanto che quella stessa dottrina[59] – che pure si è decisamente espressa a favore <del principio di immutabilità del quadro normativo vigente nel momento in cui la pena inizia ad essere espiata, rispetto al patto tra lo stato (che garantisce la flessibilità del trattamento sanzionatorio) e il condannato (che si impegna nel percorso rieducativo)> – a fondamento delle sue teorizzazioni postula pur sempre che l’espiazione della pena sia già iniziata.

Dunque, se per un verso è innegabile che <l’accesso alle misure alternative senza osservazione….. tende ad evitare un “previo passaggio in carcere” che minaccia di produrre inutili ed improvvidi effetti stigmatizzanti e desocializzanti, come il dibattito sul ruolo criminogeno delle “pene detentive brevi” ha via via evidenziato>,[60] nondimeno è evidente, in questa prospettiva, che l’accesso alle misure alternative alla detenzione per i condannati per fattispecie corruttive sarà consentito solo a coloro i quali, già in espiazione pena in regime carcerario, beneficino della positiva valutazione che il magistrato di sorveglianza abbia fatto dell’istanza di misura alternativa: <la condanna per una delle fattispecie elencate, dunque, non potrà più essere “sospesa”, e conseguentemente potrà consentire l’accesso a misure alternative – ove ricompresa nei termini stabiliti dalla legge – solo a fronte dell’accoglimento, da parte del magistrato di sorveglianza, dell’istanza proposta dal condannato durante l’esecuzione della pena detentiva, accoglimento subordinato alla collaborazione del condannato “a norma dell’art. 323-bis, secondo comma, del codice penale”>.[61]

Dunque - e d’altra parte - ove l’ordine originariamente sospeso non venisse tempestivamente revocato su iniziativa del Pubblico Ministero, la revoca verrebbe semplicemente procrastinata al momento della valutazione della magistratura di sorveglianza competente a decidere sulla istanza di misura alternativa, il cui accesso a quel punto dovrebbe risultare, a stretto rigore, impedito dal reato ostativo, salvo positivo accertamento della collaborazione effettiva o “impossibile” con la giustizia,[62] all’esito dell’articolato procedimento previsto dagli articoli 4 bis comma 1 bis, comma 2, comma 2 bis, comma 3 e 3 bis e 58 ter comma 2 dell’ordinamento penitenziario.



[1] Tra gli altri commenti Veronica MANCA, Dal 10 novembre operative le “novità” penitenziarie, in Guida al Diritto, nr. 48, del 24-11-2018, pag. 12

[2] L’articolo 1 c. 1 lett. b) nr. 2 del D.L. 78/2013, convertito con modifiche dalla Legge 9 agosto 2013 nr. 94, ha modificato l’articolo 656 c. 5 c.p.p., inserendo – dopo le parole - <tre anni> le seguenti: <quattro anni nei casi previsti dall’articolo 47 ter c. 1> O.P. Il senso dell’intervento – anche a giudizio dei primi commentatori – è agevolmente ravvisabile nell’intento di estendere la <possibilità> di sospendere l’ordine di carcerazione da parte del Pubblico Ministero alle ipotesi in cui il condannato si trovi in una delle situazioni giuridico-fattuali sussumibili entro il quadro normativo della detenzione domiciliare. Sotto tale ottica, la modifica normativa è da registrare con favore anche perché provvedere a risolvere una contraddizione del previgente sistema della sospensione dell’ordine di esecuzione, che consentiva (ai sensi dell’articolo 656 c. 5 c.p.p.) l’emissione del decreto di sospensione dell’ordine di carcerazione in relazione a condanne recanti una pena detentiva inferiore al più elevato limite previsto dalla legge di ordinamento penitenziario ai fini dell’accesso alla detenzione domiciliare (quattro anni ai sensi dell’articolo 47 ter c. 1 O.P.), lasciando quindi privi di tale particolare salvaguardia (ed imponendo conseguentemente un obbligato passaggio per il carcere), proprio quei condannati che versavano in situazioni personali più difficili (le persone con prole in tenera età, i soggetti affetti da condizioni di salute particolarmente gravi, gli anziani). Questi soggetti <potranno> ora accedere alla misura della detenzione domiciliare direttamente dalla libertà, evitando una detenzione inopportuna e foriera oltretutto di pregiudicare ulteriormente la situazione personale o familiare che il legislatore ha inteso tutelare con il beneficio penitenziario di cui all’articolo 47 ter O.P. Quanto precede, alla sola e tassativa condizione che la situazione di pregiudizio familiare o personale, risulti oggettivamente all’atto della adozione dell’ordine di esecuzione (come esemplificatamente nel caso in cui già dalla mera lettura delle carte processuali risulti, ad esempio, che il condannato sia ultrasessantenne ed inabile). E ciò in quanto, indiscutibilmente, e sempre a giudizio anche dei commentatori della novella legislativa, la nuova disciplina può comportare difficoltà sul piano applicativo da parte dell’Ufficio del Pubblico Ministero, al quale non può essere riconosciuta alcuna discrezionale valutazione ai fini dell’accertamento delle condizioni di cui all’articolo 47 ter c. 1 O.P., che rientra nella prerogativa esclusiva degli uffici di sorveglianza. Ed infatti l’accertamento dei presupposti indicati dalla disposizione di matrice penitenziaria, comportando una approfondita disamina del singolo caso, si palesa quanto mai complesso e – implicando necessariamente il dispiegamento di valutazioni discrezionali - sembra porsi in termini eccentrici rispetto alle tradizionali coordinate lungo le quali si pone il Pubblico Ministero in fase esecutiva, coerenti con il ruolo di mero impulso procedimentale attribuito alla parte pubblica e al correlato carattere officioso e semi-automatico del procedimento sospensione ex articolo 656 c.p.p. Ed infatti, a norma dell’invocato articolo 47 ter c. 1 O.P., i soggetti ivi menzionati <possono> e non <devono> essere ammessi al beneficio della detenzione domiciliare nel caso in cui la pena residua sia inferiore ad anni 4. E detta valutazione discrezionale esula dalle prerogative del Pubblico Ministero, al quale – è bene rammentarlo – spetta solo ed esclusivamente un obbligo di informativa ai sensi dell’articolo 51 bis O.P. e dell’articolo 108 del regolamento recante norme sull'ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230). Si aggiunga che - solo ed esclusivamente nelle ipotesi di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena a norma dell’articolo 146 c.p. (e nei soli casi in cui la preesistente certificazione medica agli atti del fascicolo non lasci margini alla valutazione discrezionale della magistratura di sorveglianza) – per l’Ufficio del Pubblico Ministero è doveroso anticipare provvisoriamente gli effetti di tale decisione, in una ottica di favor rei, potendosi applicare per analogia l’articolo 672 c.p.p. che consente al Pubblico Ministero, in tema di libertà, di anticipare gli effetti dei benefici. In dottrina ed in giurisprudenza, prevale, infatti, l’opinione di chi ritiene che al Pubblico Ministero sia consentita una verifica limitata all’esame della stretta legittimità e regolarità formale dei documenti presentati dal condannato con riferimento alle condizioni di concedibilità della misura alternativa, essendo riservato al magistrato di sorveglianza il vaglio sul merito della domanda. Sempre - ovviamente - che detta documentazione fosse presente in epoca antecedente alla adozione dell’ordine di esecuzione; perché quando invece tale documentazione venga sottoposta al Pubblico Ministero dopo l’adozione dell’ordine (nulla risultando in precedenza dagli atti del fascicolo dell’esecuzione), questo dovrà ritenersi ininfluente ai fini della regolarità formale dell’ordine di esecuzione e, del merito della domanda, dovrà invece essere tempestivamente investita la competente magistratura di sorveglianza.

[3] Dunque il condannato, se libero, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, deve rendersi parte diligente e, prima che sia emesso ordine di carcerazione, deve rendere edotto il Pubblico Ministero dell’esistenza di un programma terapeutico o dell’intenzione di avviarlo, oppure dell’intervenuto espletamento dello stesso con esito favorevole ex articolo 90 D.P.R. 309/1990 citato, producendo la documentazione necessaria.

Vale la pena ripercorrere brevemente la ratio dell’invocato intervento normativo, vale a dire l’articolo 656 c. 5 c.p.p. nella parte in cui richiama gli articoli 90 e 94 d.P.R 309/1990.

L’articolo 656 c. 5 c.p.p. – che già, nel testo originario, prevedeva la possibilità per il P.M. di sospendere l’esecuzione della pena inferiore a 4 anni nei casi di cui all’articolo 94 d.P.R 309/1990 – è stato successivamente modificato dall’articolo 4 undevicies c. 1 lett. a) DL 30 dicembre 2015 nr. 272 convertito dalla L. 21-2-2006 nr. 49, che ha elevato a sei anni il limite di pena entro il quale il P.M. può sospendere l’esecuzione della carcerazione.

Il senso dell’intervento – anche a giudizio dei primi commentatori – è agevolmente ravvisabile nel complessivo e deciso revirement della politica legislativa del giro di vite che aveva caratterizzato invece la legge ex Cirielli nr. 251/2005, la quale si poneva in forte contrasto con le esigenze di recupero dei condannati tossicodipendenti, di fatto azzerando la possibilità di accesso ai programmi terapeutici esterni al carcere. In tal senso, particolare significato ha assunto l’articolo 4 del DL 30 dicembre 2015 nr. 272 che ha abrogato quelle norme [tra le altre l’articolo 94 bis d.P.R 309/1990 e la lettera c) dell’articolo 656 c. 9 c.p.p.], che precludevano l’accesso alle misure alternative alla detenzione per quei condannati cui era stata applicata la recidiva ex articolo 99 c. 4 c.p.

Dunque, nel meccanismo di sospensione della pena per i soggetti tossicodipendenti, ruolo di primo piano è assunto dal P.M. che cura l’esecuzione della condanna e che deve verificare la sussistenza dei presupposti che consentono l’applicazione del regime più favorevole, e dunque in buona sostanza:

·  l’esistenza di un programma terapeutico in corso;

·  il pregiudizio che l’interruzione del programma può arrecare sul percorso di disintossicazione.

Naturalmente, anche tale meccanismo – al pari della sospensione dell’esecuzione nei casi di soggetti che potenzialmente possono beneficiare della detenzione domiciliare c.d. umanitaria - sembra porsi in termini eccentrici rispetto alle tradizionali coordinate lungo le quali si pone il P.M. in fase esecutiva, coerenti con il ruolo di mero impulso procedimentale attribuito alla parte pubblica e al correlato carattere officioso e semi-automatico del procedimento sospensione ex articolo 656 c.p.p., atteso che, mentre la prima condizione (l’esistenza di un programma terapeutico in corso), può essere accertata su base documentale, invece l’accertamento del secondo requisito – comportando un’approfondita disamina del singolo caso terapeutico - si palesa quando mai difficoltoso, perché implica necessariamente il dispiegamento di valutazioni discrezionali; sicché alle Procure sarà demandato il compito di verificare, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, competente per la concessione della misura alternativa, che il condannato prosegua con successo il programma, a cui è correlato il potere-dovere di ripristinare la carcerazione nel caso di interruzione del programma stesso.

Peraltro, pure in dottrina ed in giurisprudenza, prevale, infatti, l’opinione di chi ritiene che al Pubblico Ministero sia consentita una verifica limitata all’esame della stretta legittimità e regolarità formale dei documenti presentati dal condannato con riferimento alle condizioni di concedibilità della misura alternativa, essendo riservato al magistrato di sorveglianza il vaglio sul merito della domanda.

[4] In tal senso la sentenza nr. 78/2012 della Corte Costituzionale.

[5] Tra gli altri, il ricorso presentato in data 15-5-2017 nel procedimento Nr. SIEP 4715/2016 iscritto presso la Procura della Repubblica di Milano, avverso l’ordinanza emessa il 11-5-2017dal Tribunale Ordinario di Milano, sezione XI penale, in funzione di giudice dell’esecuzione.

[6] Sentenza nr. 3084/2017 emessa nella camera di consiglio del 21-9-2017 (ricorrete GJINI FATJON).

[7] Trattasi della sentenza nr. 51864 del 31-5-20016

[8]La norma, nel testo così sostituito dall’art. 5 c. 1 lett. a) del d.Lgs. 123/2018, così recita: «51-bis (Sopravvenienza di nuovi titoli di privazione della libertà): «1. Quando, durante l'esecuzione di una misura alternativa alla detenzione, sopravviene un titolo esecutivo di altra pena detentiva il pubblico ministero competente ai sensi dell’articolo 655 del codice di procedura penale informa immediatamente il magistrato di sorveglianza e formula contestualmente le proprie richieste: il magistrato di sorveglianza se rileva, tenuto conto del cumulo delle pene, che permangono le condizioni di applicabilità della misura ne dispone con ordinanza la prosecuzione; in caso contrario ne dispone la cessazione ed ordina l’accompagnamento del condannato in istituto».

Il testo, nella sua precedente formulazione, era il seguente: - 1. Quando, durante l'attuazione dell'affidamento in prova al servizio sociale o della detenzione domiciliare o della detenzione domiciliare speciale o del regime di semilibertà, sopravviene un titolo di esecuzione di altra pena detentiva, il pubblico ministero informa immediatamente il magistrato di sorveglianza, formulando contestualmente le proprie richieste. Il magistrato di sorveglianza, se rileva, tenuto conto del cumulo delle pene, che permangono le condizioni di cui al comma 1 dell'articolo 47 o ai commi 1 e 1-bis dell’articolo 47-ter o ai commi 1 e 2 dell'articolo 47-quinquies o ai primi tre commi dell’articolo 50, dispone con ordinanza la prosecuzione della misura in corso; in caso contrario, ne dispone la cessazione.

2. Avverso il provvedimento di cui al comma 1 è ammesso reclamo ai sensi dell'articolo 69-bis.».

[9] Vds. i numerosi precedenti resi dalla Corte di Cassazione: tra gli altri sentenza, sez. 1, nr. 50172 del 08/10/2004 Rv. 230764.

Massime precedenti Conformi: N. 6503 del 1999 Rv. 215120, N. 23291 del 2001 Rv. 219363, N. 24710 del 2002 Rv. 222525, N. 21377 del 2003 Rv. 224520, N. 3054 del 2004 Rv. 226962, N. 28588 del 2004 Rv. 228735; nonché sentenza, sez. 4, nr. 18362 del 22/03/2007 Rv. 236413: <La sospensione dell'ordine di esecuzione di una pena detentiva breve, prevista dall'articolo 656, comma quinto, cod. proc. pen., non opera nei confronti del condannato che al momento dell'esecuzione della pena detentiva breve si trovi già in espiazione di pena inflitta per altro titolo, oppure in stato di detenzione cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire, essendo tale istituto volto, in sostanza, ad impedire l'ingresso in carcere di quanti possano aspirare ad uno dei regimi alternativi alla detenzione: esigenza, questa, insussistente nei riguardi di condannati che già si trovino ristretti in carcere, ancorché per titolo diverso da quello da eseguire>; nonché ordinanza, sez. 1, Nr. 24918 del 27/05/2009 (dep. 16/06/2009) Rv. 244652: <la sospensione dell'ordine di esecuzione di una pena detentiva breve non opera nei confronti del condannato che, al momento dell'esecuzione della pena, si trovi già in espiazione per altro titolo oppure in stato di detenzione cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire>.

Massime precedenti Vedi: N. 8498 del 2001 Rv. 219095, N. 38511 del 2002 Rv. 222530, N. 37174 del 2004 Rv. 230023, N. 377 del 2005 Rv. 230725, N. 5995 del 2009 Rv. 243362

[10] Trattasi della sentenza nr. 125/2016 del 06/04/2016 della Corte Costituzionale nella parte in cui – a seguito della impugnazione dell’art. 656, c. 9, lett. a), del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2, c. 1°, lett. m), del decreto-legge 23/05/2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, c. 1°, della legge 24/07/2008, n. 125 – ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui impedisce la sospensione della esecuzione delle pene detentive brevi per il delitto di cui all'art. 624 bis codice penale relativamente alle sole ipotesi di furto con strappo, per disparità di trattamento rispetto ad ipotesi di reato analoghe.

[11] Vi sono solo due casi in cui, pure in presenza di un reato c.d. ostativo, il condannato tossicodipendente, che potrebbe essere ammesso ai benefici di cui agli articoli 90 e 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309, può beneficiare della sospensione dell’esecuzione:

-   la prima ipotesi attiene al caso del condannato tossicodipendente, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, si trovi agli arresti domiciliari disposti ai sensi dell’art. 89 del d.P.R. 309/1990, vale a dire allorché trattasi di soggetto alcol-dipendente o tossico-dipendente ammesso al programma terapeutico di recupero che abbia per tale motivo beneficiato della concessione degli arresti domiciliari c.d. <residenziali>; in tal caso, il P.M. può disporre la sospensione dell’ordine di carcerazione, ai sensi dell’ultima parte del comma 9 lett. a) dell’art. 656 c.p.p., anche in presenza di pena riferibile a talune fattispecie di reati ostativi, purché la residua pena espianda sia contenuta nel limite degli anni 4 di reclusione. E ciò in quanto la possibilità di beneficiare degli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 89 d.P.R. nr. 309/1990 è esclusa in via generale allorché si proceda per i reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, ma è consentita nei soli casi di rapina aggravata ed estorsione aggravata, sempre che non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalità organizzata o eversiva;

-  la seconda ipotesi attiene al caso del condannato tossicodipendente che, al momento del passaggio in giudicato della sentenza, sia stato, per altro precedente titolo esecutivo, già ammesso alla misura dell’affidamento terapeutico ex art. 94 d.P.R 309/1990 da parte della competente magistratura di sorveglianza; in tal caso, il P.M. può disporre la sospensione dell’ordine di carcerazione consentendo al condannato, ai sensi dell’art. 51 bis O.P., di permanere nel regime in corso in attesa delle determinazioni della competente magistratura di sorveglianza, anche in presenza di pena riferibile a talune fattispecie di reati ostativi, purché la residua pena espianda sia contenuta nel limite degli anni 4 di reclusione.

[12] Il testo dell’articolo 89 d.P.R. 9 ottobre 1990, nr. 309 – rubricato provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcol-dipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici – è il seguente:

1. Qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere il giudice, ove non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, dispone gli arresti domiciliari quando imputata è una persona tossicodipendente o alcol-dipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116, e l'interruzione del programma può pregiudicare il recupero dell'imputato. Quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, il provvedimento è subordinato alla prosecuzione del programma terapeutico in una struttura residenziale. Con lo stesso provvedimento, o con altro successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossicodipendente o l'alcol-dipendente prosegua il programma di recupero ed indica gli orari ed i giorni nei quali lo stesso può assentarsi per l'attuazione del programma.

2. Se una persona tossicodipendente o alcol-dipendente, che è in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata ai sensi dell'articolo 116, la misura cautelare è sostituita con quella degli arresti domiciliari ove non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La sostituzione è concessa su istanza dell'interessato; all'istanza è allegata certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata accreditata per l’attività di diagnosi prevista dal comma 2, lettera d), dell'articolo 116, attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcool dipendenza, la procedura con la quale è stato accertato l'uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, nonché' la dichiarazione di disponibilità all'accoglimento rilasciata dalla struttura. Il servizio pubblico è comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell'interessato di sottoporsi a programma terapeutico. L’autorità giudiziaria, quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, subordina l'accoglimento dell'istanza all'individuazione di una struttura residenziale.

3. Il giudice dispone la custodia cautelare in carcere o ne dispone il ripristino quando accerta che la persona ha interrotto l'esecuzione del programma, ovvero mantiene un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione.

4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, ad eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purché' non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalità organizzata od eversiva.

omissis

[13] Anche nella conforme interpretazione resa dalla giurisprudenza di legittimità, [13] la sospensione dell'ordine di esecuzione di una pena detentiva breve non opera nei confronti del condannato che, al momento dell'esecuzione della pena, si trovi già in espiazione per altro titolo oppure in stato di detenzione cautelare in carcere per il fatto oggetto della condanna da eseguire Vds. precedenti già elencati - infra - nella nota nr. 9

[14] La richiesta di ammissione ai benefici. I benefici di cui si è detto, in vista dei quali è concessa, ricorrendone i presupposti, la sospensione dell’esecuzione della pena, devono essere richiesti entro trenta giorni dalla consegna o dalla notifica dell’ordine di esecuzione dal condannato o dal difensore; i termini decorrono, per ciascuno di essi, dal momento della consegna o della notifica; la richiesta deve pervenire, anche per posta, nel termine suddetto, di natura perentoria, presso l’ufficio del P.M. Gli interessati potranno tuttavia giovarsi dalla sospensione dei termini feriali, cui anche quello in discorso è soggetto (si veda, a riguardo, Cassazione, sez. 5, sentenza nr. 483 del 28.2.2000). La proposta tardiva deve essere rimessa ugualmente all’ufficio di sorveglianza. La proposizione tardiva dell’istanza, ovvero la sua presentazione direttamente al tribunale di sorveglianza, comporterà la revoca della sospensione da parte del P.M. e l’immediata esecuzione dell’ordine di carcerazione (si veda, a riguardo, Cassazione, sez. 1, sentenza nr. 12329 del 17.3.2005). Nel caso, invece, di presentazione tempestiva dell’istanza di concessione di una della misure alternative alla detenzione, l’esecuzione della pena rimarrà sospesa sino alla decisione del tribunale di sorveglianza, che dovrebbe intervenire entro il termine di 45 giorni. La sospensione dell’esecuzione non può essere concessa più di una volta: e ciò anche nell’ipotesi in cui il condannato riproponga nuova istanza per uno degli ulteriori benefici contemplati dalla norma, ovvero si tratti di istanza diversamente motivata. Pertanto, qualora l’istanza sia stata dichiarata inammissibile, scatta l’obbligo per il P.M. di revocare la sospensione dell’esecuzione e procedere senz’altro all’esecuzione della pena.

[15] Massimo RUARO, Riforma dell'ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, in Diritto Penale Contemporaneo, 9-11-2018.

[16] Si rammenta, a questo riguardo, che l’istanza di misura alternativa alla detenzione presentata dal condannato per soddisfare i requisiti essenziali richiesti dalla vigente legislazione ai sensi dell’art. 677 c. 2 bis c.p.p., affinché possa essere accolta deve essere corredata, a pena di inammissibilità, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio [così Cassazione, sentenza resa a SS.UU. il 17-12-2009, Mammoliti], vuoi che la richiesta sia presentata personalmente, vuoi che sia presentata dal difensore nell’interesse del condannato [con l’ulteriore conseguenza che – così come sono irrilevanti le dichiarazioni e/o le elezioni di domicilio effettuate dall’interessato nella precedente fase del giudizio – lo è anche una eventuale tardiva esecuzione dell’adempimento omesso, perché l’inammissibilità opera di diritto e non è suscettibile di sanatoria (così Cassazione sentenza 5 febbraio-26 ottobre 2016, nr. 45171)].

[17] A norma dell’art. 179 c.p.p.: <1. Sono insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità previste dall'articolo 178 comma 1 lettera a), quelle concernenti l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale e quelle derivanti dalla omessa citazione dell'imputato o dall'assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza.

2. Sono altresì insanabili e sono rilevate di ufficio in ogni stato e grado del procedimento le nullità definite assolute da specifiche disposizioni di legge>.

A norma dell’art. 180 c.p.p.: <1. Salvo quanto disposto dall'articolo 179, le nullità previste dall'articolo 178 sono rilevate anche di ufficio, ma non possono più essere rilevate né dedotte dopo la deliberazione della sentenza di primo grado ovvero, se si sono verificate nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo>.

[18] La norma è stata introdotta con il dl 13 maggio 1991 nr. 152, recante provvedimenti urgenti in materia di lotta alla criminalità organizzata, convertito con modificazioni nella L. 12 Luglio 1991 nr. 203

[19] Il dato statico è indicativo.

[20] L’art. 51 ter Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), rubricato Sospensione cautelativa delle misure alternative, introdotto dall’art. 16 della L. 10 ottobre 1986 nr. 663 recante modifiche all’ordinamento penitenziario, nel testo così sostituito dall’art. 5 c. 1 lett. b) del d.Lgs. 123/2018, così recita: «Sospensione cautelativa delle misure alternative: Se la persona sottoposta a misura alternativa pone in essere comportamenti suscettibili di determinarne la revoca il magistrato di sorveglianza, nella cui giurisdizione la misura è in esecuzione, ne dà immediata comunicazione al tribunale di sorveglianza affinché decida in ordine alla prosecuzione, sostituzione o revoca della misura. 2. Nell'ipotesi di cui al comma l, il magistrato di sorveglianza può disporre con decreto motivato la provvisoria sospensione della misura alternativa e ordinare l'accompagnamento in istituto del trasgressore. Il provvedimento di sospensione perde efficacia se la decisione del Tribunale non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti».

Il testo, nella sua precedente formulazione, era il seguente: <1. Se l'affidato in prova al servizio sociale o l'ammesso al regime di semilibertà o di detenzione domiciliare ((o di detenzione domiciliare speciale)) pone in essere comportamenti tali da determinare la revoca della misura, il magistrato di sorveglianza nella cui giurisdizione essa è in corso ne dispone con decreto motivato la provvisoria sospensione, ordinando l'accompagnamento del trasgressore in istituto. Trasmette quindi immediatamente gli atti al tribunale di sorveglianza per le decisioni di competenza. Il provvedimento di sospensione del magistrato di sorveglianza cessa di avere efficacia se la decisione del tribunale di sorveglianza non interviene entro trenta giorni dalla ricezione degli atti.

[21] L’art. 54 Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n.354), rubricato Liberazione anticipata, sostituito dall’art. 18 della L. 10 ottobre 1986 nr. 663 e integrato dall’art. 30 della L. 10 ottobre 1986 nr. 663 recante modifiche all’ordinamento penitenziario, così recita:

1. Al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all'opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata. A tal fine è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare o di detenzione domiciliare.

2. La concessione del beneficio è comunicata all'ufficio del pubblico ministero presso la corte d'appello o il tribunale che ha emesso il provvedimento di esecuzione o al pretore se tale provvedimento è stato da lui emesso.

3. La condanna per delitto non colposo commesso nel corso dell'esecuzione successivamente alla concessione del beneficio ne comporta la revoca.

4. Agli effetti del computo della misura di pena che occorre avere espiato per essere ammessi ai benefici dei permessi premio, della semilibertà e della liberazione condizionale, la parte di pena detratta ai sensi del comma 1 si considera come scontata. La presente disposizione si applica anche ai condannati all'ergastolo.

[22] L’art. 58 quater Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), rubricato Divieto di concessione di benefici, introdotto con il DL 13 maggio 1991 nr. 152, recante provvedimenti urgenti in materia di lotta alla criminalità organizzata, convertito con modificazioni nella L. 12 Luglio 1991 nr. 203, così recita:

1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio, l'affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall'articolo 47, la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi al condannato che sia stato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell'articolo 385 del codice penale.

2. La disposizione del comma 1 si applica anche al condannato nei cui confronti è stata disposta la revoca di una misura alternativa ai sensi dell'articolo 47, comma 11, dell'articolo 47- ter, comma 6, o dell'articolo 51, primo comma.

3. Il divieto di concessione dei benefici opera per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca indicato nel comma 2.

Omissis

5. Oltre a quanto previsto dai commi 1 e 3, l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI non possono essere concessi, o se già concessi sono revocati, ai condannati per taluni ((dei delitti indicati nei commi 1, 1-ter e 1quater)) dell'articolo 4-bis, nei cui confronti si pro- cede o è pronunciata condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a tre anni, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell'articolo 385 del codice penale ovvero durante il lavoro all'esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione.

Omissis

7. Il divieto di concessione dei benefici di cui al comma 5 opera per un periodo di cinque anni dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della custodia o della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca della misura.

Omissis

[23] Il P.M. presso il giudice competente cura d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti, formulando le necessarie richieste al giudice competente ed intervenendo in tutti gli atti dell’esecuzione, nonché all’occorrenza richiedendo il compimento di singoli atti al P.M. di altra sede.

Il P.M., dunque, è - a norma dell’art. 655 c. 1 c.p.p. - organo dell’esecuzione.

L'art. 655 c.p.p. così dispone:

1. Salvo che sia diversamente disposto, il pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 cura di ufficio l'esecuzione dei provvedimenti.

2. Il pubblico ministero propone le sue richieste al giudice competente e interviene in tutti i procedimenti di esecuzione.

3. Quando occorre, il pubblico ministero può chiedere il compimento di singoli atti a un ufficio del pubblico ministero di altra sede.

4. Se per l'esecuzione di un provvedimento è necessaria l'autorizzazione, il pubblico ministero ne fa richiesta all'autorità competente; l'esecuzione è sospesa fino a quando l'autorizzazione non è concessa. Allo stesso modo si procede quando la necessità dell'autorizzazione è sorta nel corso dell'esecuzione.

5. I provvedimenti del pubblico ministero dei quali è prescritta nel presente titolo la notificazione al difensore, sono notificati, a pena di nullità, entro trenta giorni dalla loro emissione, al difensore nominato dall'interessato o, in mancanza, a quello designato dal pubblico ministero a norma dell'articolo 97, senza che ciò determini la sospensione o il ritardo dell'esecuzione.

[24] Il P.M. deriva la sua competenza - a norma del successivo art. 665 c. 1 c.p.p. - da quella del giudice che ha deliberato il provvedimento da eseguire e che può essere il GIP, il Tribunale oppure la Corte di Assise. Dispositivo dell'art. 665 Codice di procedura penale

L’art. 665 c.p.p. così dispone:

1. Salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha deliberato.

2. Quando è stato proposto appello, se il provvedimento è stato confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, è competente il giudice di primo grado; altrimenti è competente il giudice di appello.

3. Quando vi è stato ricorso per cassazione e questo è stato dichiarato inammissibile o rigettato ovvero quando la corte ha annullato senza rinvio il provvedimento impugnato, è competente il giudice di primo grado, se il ricorso fu proposto contro provvedimento inappellabile ovvero a norma dell'articolo 569, e il giudice indicato nel comma 2 negli altri casi. Quando è stato pronunciato l'annullamento con rinvio, è competente il giudice di rinvio.

4. Se l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi, è competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Tuttavia, se i provvedimenti sono stati emessi da giudici ordinari e giudici speciali, è competente in ogni caso il giudice ordinario.

4-bis. Se l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi dal tribunale in composizione monocratica e collegiale, l'esecuzione è attribuita in ogni caso al collegio.

[25] L’art. 678 c.p.p., ha subito per effetto dell’art. 4 comma 1 lett. b) del decreto legislativo 123/2018 le seguenti modifiche:

- il comma 1 c.p.p. è stato sostituito dal seguente: «1. Il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, e il tribunale di Sorveglianza, nelle materie di sua competenza, se non diversamente previsto, procedono, a richiesta del pubblico ministero, de1l'interessato, del difensore o di ufficio, a nonna dell’articolo 666 c.p.p. Quando vi è motivo di dubitare dell'identità fisica di una persona, procedono comunque a norma dell'articolo 667 c. 4 c.p.p.»;

- il comma l-bis è stato sostituito dal seguente: «l-bis. Il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, il tribunale di sorveglianza, nelle materie relative alle richieste di riabilitazione, alla valutazione sull'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari, alla dichiarazione di estinzione del reato conseguente alla liberazione condizionale e al differimento dell'esecuzione della pena nei casi previsti dal primo comma, numeri l) e 2), dell'articolo 146 del codice penale, procedono a norna dell'articolo 667, comma 4.

- dopo il comma l-bis è stato inserito il seguente: << 1-ter. Quando la pena da espiare non è superiore a un anno e sei mesi, per la decisione sulle istanze di cui all'articolo 656, comma 5, il presidente del tribunale di sorveglianza, acquisiti i documenti e le necessarie informazioni, designa il magistrato relatore e fissa un termine entro il quale questi, con ordinanza adottata senza formalità, può applicare in via provvisoria una delle misure menzionate nell'articolo 656, comma 5. L'ordinanza dì applicazione provvisoria della misura è comunicata al pubblico ministero e notificata all'interessato e al difensore, i quali possono proporre opposizione al tribunale di sorveglianza entro il termine di dieci giorni. Il tribunale di Sorveglianza decorso il termine per l'opposizione, conferma senza formalità la decisione del magistrato. Quando io non è stata emessa o confermata l'ordinanza provvisoria o è stata proposta opposizione il tribunale di sorveglianza procede a norma del comma 1. Durante il termine opposizione e fino alia decisione sulla stessa, l'esecuzione dell'ordinanza è sospesa»;

- dopo il comma 3 sono stati inseriti i seguenti: «3.1. Quando ne fa richiesta l'interessato l'udienza si svolge in forma pubblica. Si osservano; in quanto compatibili le disposizioni degli articoli 471 e 472. 3.2 L'avviso di fissazione dell'udienza, notificato all'interessato, contiene, a pena di nullità, l 'avvertimento della facoltà di parteciparvi personalmente. Se l’interessato detenuto o internato ne fa richiesta, il giudice dispone la traduzione. Si applicano in ogni caso le forme e le modalità di partecipazione a distanza nei procedimenti in camera di consiglio previste dalla legge. La partecipazione all’udienza avviene a distanza anche quando l'interessato, detenuto o internato, ne fa richiesta ovvero quando lo stesso è detenuto o internato in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice. Ove lo ritenga opportuno, il giudice dispone la traduzione dell'interessato»;

Le modifiche apportate alla disciplina del procedimento di sorveglianza sono piuttosto corpose, atteso che la riforma - in detta parte - ha dato piena attuazione all’art. 1 comma 85 lett. a) della legge-delega, che prevede la «semplificazione delle procedure, anche con la previsione del contraddittorio differito ed eventuale, per le decisioni di competenza del magistrato e del Tribunale di sorveglianza, fatta eccezione per quelle relative alla revoca delle misure alternative alla detenzione». Già con il D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 alcune materie di competenza collegiale [richieste di riabilitazione, declaratoria di esito positivo dell’affidamento in prova, anche se disposto ai sensi dell’art. 94 d.PR. 309/1990] erano transitate dal modello a contraddittorio pieno a quello semplificato ex art. 667 comma 4 c.p.p. [che prevede l’adozione de plano del provvedimento, con eventuale opposizione delle parti che instaura il contraddittorio camerale] in ragione della non particolare complessità della regiudicanda e dell’elevata frequenza statistica delle decisioni di accoglimento. A tali materie, la riforma ha aggiunto, nel corpo del neo-introdotto comma 1-bis, la declaratoria di estinzione della pena all’esito della liberazione condizionale ai sensi dell’art. 177 comma 2 c.p. e 236 disp. coord. c.p.p.

[26] Così Cassazione, sez. 1, sentenza nr. 4146 del 07/07/1995 (dep. 29/06/1995) Rv. 203191.

[27] In senso conforme, tra gli altri, Massimo RUARO, Riforma dell'ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, cit.

[28] L’art. 47 Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), rubricato Affidamento in prova al servizio sociale così dispone:

1. Se la pena detentiva non supera tre anni il condannato può essere affidato al servizio sociale fuori dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare

2. Il provvedimento è adottato sulla base dei risultati della osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si può' ritenere che il provvedimento stesso, anche attraverso le prescrizioni di cui al comma 5, contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati.

3. L'affidamento in prova al servizio sociale può' essere disposto senza procedere alla osservazione in istituto quando il condannato, dopo la commissione del reato, ha serbato comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2.

3 bis L'affidamento in prova può, altresì, essere concesso al condannato che deve espiare una pena, anche residua, non superiore a quattro anni di detenzione, quando abbia serbato, quantomeno nell'anno precedente alla presentazione della richiesta, trascorso in espiazione di pena, in esecuzione di una misura cautelare ovvero in libertà, un comportamento tale da consentire il giudizio di cui al comma 2.

Omissis

[29] L’art. 47 ter Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), rubricato Detenzione domiciliare, così dispone:

01. La pena della reclusione per qualunque reato, ad eccezione di quelli previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale e dall'articolo 4-bis della presente legge, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell'inizio dell'esecuzione della pena, o dopo l'inizio della stessa, abbia compiuto i settanta anni di età purché' non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ne' sia stato mai condannato con l'aggravante di cui all'articolo 99 del codice penale.

1. La pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, nonché' la pena dell'arresto, possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero, nell'ipotesi di cui alla lettera a), in case famiglia protette, quando trattasi di:

a) donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente;

b) padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole;

c) persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali;

d) persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente;

e) persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia

1-bis. La detenzione domiciliare può essere applicata per l'espiazione della pena detentiva inflitta in misura non superiore a due anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, indipendentemente dalle condizioni di cui al comma 1 quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. La presente disposizione non si applica ai condannati per i reati di cui all'articolo 4-bis.

1-ter. Quando potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale, il tribunale di sorveglianza, anche se la pena supera il limite di cui al comma 1, può disporre la applicazione della detenzione domiciliare, stabilendo un termine di durata di tale applicazione, termine che può essere prorogato. L'esecuzione della pena prosegue durante la esecuzione della detenzione domiciliare.

1-quater. L'istanza di applicazione della detenzione domiciliare è rivolta, dopo che ha avuto inizio l'esecuzione della pena, al tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo di esecuzione. Nei casi in cui vi sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione, l'istanza di detenzione domiciliare di cui ai precedenti commi 01, 1, 1-bis e 1-ter è rivolta al magistrato di sorveglianza che può disporre l'applicazione provvisoria della misura. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all'articolo 47, comma 4.

4. Il tribunale di sorveglianza, nel disporre la detenzione domiciliare, ne fissa le modalità secondo quanto stabilito dall'articolo 284 del codice di procedura penale. Si applica il quinto comma del medesimo articolo. Determina e impartisce altresì le disposizioni per gli interventi del servizio sociale. Tali prescrizioni e disposizioni possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza competente per il luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare.

5. Il condannato nei confronti del quale è disposta la detenzione domiciliare non è sottoposto al regime penitenziario previsto dalla presente legge e dal relativo regolamento di esecuzione. Nessun onere grava sull'amministrazione penitenziaria per il mantenimento, la cura e l'assistenza medica del condannato che trovasi in detenzione domiciliare.

6. La detenzione domiciliare è revocata se il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appare incompatibile con la prosecuzione delle misure.

7. Deve essere inoltre revocata quando vengono a cessare le condizioni previste nei commi 1 e 1-bis.

8. Il condannato che, essendo in stato di detenzione nella propria abitazione o in un altro dei luoghi indicati nel comma 1, se ne allontana, è punito ai sensi dell'articolo 385 del codice penale. Si applica la disposizione dell'ultimo comma dello stesso articolo.

9. La condanna per il delitto di cui al comma 8, salvo che il fatto non sia di lieve entità, importa la revoca del beneficio.

9-bis. Se la misura di cui al comma 1-bis è revocata ai sensi dei commi precedenti la pena residua non può essere sostituita con altra misura.

[30] Massimo RUARO, Riforma dell'ordinamento penitenziario: le principali novità dei decreti attuativi in materia di semplificazione dei procedimenti e di competenze degli uffici locali di esecuzione esterna e della polizia penitenziaria, cit.

[31] Il riferimento è alla sentenza nr. 186 del 23-5-1995

[32] Vds. a riguardo la copiosa giurisprudenza costituzionale elaborata in sede cautelare che ha imposto al legislatore di non creare doppi binari fondati sul mero allarme sociale, bensì su ragioni giustificanti chiaramente riconoscibili.

[33] Per una prima analisi della riforma T. PADOVANI, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018, 1 ss.; A. MANNA, Il fumo della pipa (il c.d. populismo politico e la reazione dell’Accademia e dell’Avvocatura), in Archivio penale, n. 2/2018, 1 ss.; A. CAMON, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Diritto penale Contemporaneo, n. 3/2018, 1 ss.; R. CANTONE, Ddl Bonafede: rischi e opportunità per la lotta alla corruzione, in Giurisprudenza penale, 2018, 10; N. PISANI, Il disegno di legge “spazzacorrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, 3589 ss.; M. GAMBARDELLA, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, n. 1.5; V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale Contemporaneo, n. 2/2019.

[34] L’art. 1 comma 6 della legge nr. 13/2019 così dispone:

<<All'articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, sono apportate le seguenti modificazioni:

a)    dopo le parole: «collaborino con la  giustizia a norma dell'articolo 58-ter della presente legge» sono inserite le seguenti: «o a norma dell'articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale»;

b)   dopo le parole: «mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli» sono inserite le seguenti: «314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322-bis».

Il testo dell’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975 n.354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), così come modificato dalla legge di riforma, è dunque il seguente:

«Art. 4-bis (Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti). - 1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell'articolo 58-ter della presente legge o a norma dell'articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale:

delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322,  322-bis, 416-bis e 416-ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies e 630 del codice penale, all'articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e  norme  sulla  condizione dello straniero, di cui al decreto  legislativo  25 luglio 1998, n.  286, e successive modificazioni, all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni.».

[35] Il dispositivo dell'art. 323 bis c.p. è il seguente:

Se i fatti previsti dagli artt. 314, 316, 316 bis, 316 ter, 317, 318, 319, 319 quater, 320, 322, 322 bis e323 sono di particolare tenuità, le pene sono diminuite.

Per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319 ter, 319 quater, 320, 321, 322 e 322 bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l'attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati per l'individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite, la pena è diminuita da un terzo a due terzi.

[36] Valentina ALBERTA, L’introduzione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’art. 4 bis, co. 1, OP: questioni di diritto intertemporale, in Giurisprudenza penale. L’Autore si spinge sino a auspicare che la censura di irragionevolezza venga promossa, mediante incidente di costituzionalità, da qualche coraggioso Ufficio di Procura, ricimandosi al principio di diritto reso dalla Corte Costituzionale secondo cui <le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”> [così Corte Cost. sentenza nr. 139/2010]; nella medesima direzione V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale Contemporaneo, n. 2/2019: <…nel caso di specie – anche a prescindere dal reperimento (e dalla pertinenza) di eventuali tertia comparationis che potrebbero evidenziare irragionevoli disparità trattamentali e incongruenze sistematiche, secondo cadenze già scandagliate dalla Corte costituzionale anche con riferimento all’art. 4 bis ord. pen. – non sembra che vi sia alcuna evidenza empirica capace di giustificare la presunzione di pericolosità posta a base del regime derogatorio imposto per reati che – al di là della variabile gravità della cornice edittale, di per sé non univocamente sintomatica – non presentano alcuna indicazione specifica che avvalori la necessità di un forzoso “assaggio di pena” e di una previa osservazione in carcere. … Di qui la possibile violazione dell’art. 3 Cost., anche nella precipua prospettiva di una indebita compressione del principio rieducativo (art. 27/3 Cost.), e del principio del “minimo sacrificio necessario” che limita il ricorso alla massima sanzione custodiale>.

[37] Così Cassazione penale, sezione terza, sentenza nr. 26832 del 26/03/2004, Moncada, RV 229054: <l'obbligo di sospensione dell'esecuzione della pena detentiva, previsto dall'art. 656, comma quinto, cod. proc. pen., non si applica nei confronti di condannato per il reato di violenza sessuale, di cui all'art. 609 bis cod. pen., indipendentemente dal collegamento del condannato con la criminalità organizzata, atteso che il rinvio previsto dal comma nono lett. a) del citato art. 656 cod. proc. pen. ai delitti di cui all'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 individua semplicemente i reati per i quali tale sospensione non può essere disposta, senza recepire i presupposti di applicabilità della norma richiamata>.

[38] Cassazione, Sez. Unite sentenza del 30-5-2006 nr. 24561 depositata il 17-7-20016 RV 233976 in Cass. Pen., 2006, 12, 3963

[39] L’art. 11 delle preleggi stabilisce che la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo. Tale principio, in quanto privo di rango costituzionale, può essere discrezionalmente derogato dal legislatore ordinario. Ed infatti, sono retroattive le leggi penali più favorevoli al reo (art. 2 c.p.) e le leggi di interpretazione autentica, ossia le leggi che il legislatore emana per chiarire il significato di norme preesistenti.

[40] L’art. 2 c.p. stabilisce quanto segue:

-  Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato [25 Cost.].(1) Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali

-   Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.

-   Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo (5), salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile [648 c.p.p.].

-   Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

-   Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti.

[41] L’art. 25 della Costituzione stabilisce che nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.

[42] Tra le varie pronunzie della Corte EDU sull’art. 7 della Convenzione, a proposito del concetto di norma sostanziale delle disposizioni sulla esecuzione della pena, ci si richiama in particolare alla sentenza Corte EDU GC, Del Rio Prada v. Spagna, 21 ottobre 2013, ric. 42750/09.

[43] Si tratta della sentenza, Sez. Unite, nr. 44895 del 17/07/2014 (dep. 28/10/2014) Rv. 260927, che ha statuito che: <il principio di necessaria retroattività della disposizione più favorevole, affermato dalla sentenza CEDU del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola contro Italia, non è applicabile in relazione alla disciplina dettata da norme processuali, che è regolata dal principio "tempus regit actum" (Fattispecie relativa agli effetti della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, con la quale è stata dichiarata l'incostituzionalità degli articoli 4-bis e 4-vicies ter del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con modifiche dalla legge 21 febbraio 2006, n. 49)>.

[44] Il riferimento è a Cassazione, Sez. Unite sentenza del 30-5-2006 nr. 24561 depositata il 17-7-20016 RV 233976 in Cass. Pen., 2006, 12, 3963

[45] Vds., tra gli altri Autori, GIOSTRA, I delicati problemi applicativi di una norma che non c’è (a proposito di presunte ipotesi ostative alla liberazione anticipata speciale), in Diritto penale contemporaneo 2014, 3-4, p. 326, che scrive: “quando una norma relativa alla fase dell’esecuzione penale incide sul trattamento punitivo in modo così qualificante che, ove potesse operare alla fine del processo di cognizione, si rifletterebbe sul dispositivo della sentenza di condanna, per negarle natura di norma penale ci vuole un non comune talento di bizantinismo classificatorio”.

[46] Cfr. Cassazione, sez. I, sentenza 20 settembre 1995, n. 4421 Pm in proc. Molinas, RV. 202514 e Cassazione, sez. I, sentenza 17 novembre 1996, n. 6297, Brunello.

[47] Il riferimento è a Cassazione, Sez. Unite, sentenza nr 20 del 13/07/1998 cc. (dep. 28/10/1998) RV. 211467 – 01 Griffa.

[48] In senso conforme si è pronunziata la Corte di Cassazione, in altri numerosi casi e segnatamente dalla sentenza, della sezione prima, nr. 5976/98, De Fazio, RV. 212106, che ha fatto richiamo espressamente al principio tempus regit actum; dalla sentenza della sezione prima, nr. 6356/98, Galluccio, RV. 212713, che ha qualificato come norma processuale quella dell’articolo 656 c.p.p.; dalla sentenza della sezione prima, nr. 999/00, Patì, RV. 215502, secondo cui, in virtù dei principio tempus regit actum, il nuovo testo dell’articolo 656 c.p.p., in quanto norma processuale e non sostanziale, si applica immediatamente anche per gli ordini di carcerazione emessi prima dell’entrata in vigore della novella legislativa, che non abbiano avuto esecuzione durante il vigore della precedente disciplina e da ultimo dalla sentenza nr. 459 del 18-1-1999 depositata il 18-2-1999 RV 212584.

[49]} In particolare per quanto riguarda il lavoro all’esterno (articolo 21 O.P.), i permessi premio (articolo 30 ter O.P.) e l’ammissione alla semilibertà (articolo 50 O.P.)

[50] Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 30-5-2006 nr. 24561 depositata il 17-7-20016 RV 233976 in Cass. Pen., 2006, 12, 3963.

[51] Il riferimento è alla sentenza della Corte Costituzionale sentenza del 26-5-1993 nr. 306; ma nella stessa direzione anche Corte Costituzionale sentenza del 1-10-1997 nr. 376/97 che ha affermato il medesimo principio rispetto all’applicazione del regime di cui all’art. 41 bis OP ai reati commessi prima della sua entrata in vigore.

[52] Valentina ALBERTA, L’introduzione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’art. 4 bis, co. 1, OP: questioni di diritto intertemporale, cit.

[53] Particolare rilievo assume, al riguardo, il disposto di cui all’art. 28 del D.M. 30.09.1989 n. 334, che detta norme regolamentari del codice di rito e che pone a carico della cancelleria del Giudice, compresa quella della Corte di Cassazione, l’onere di trasmettere senza ritardo, e comunque entro cinque giorni, al P.M. competente per l’esecuzione l’estratto dei provvedimenti divenuti esecutivi. L’estratto è un documento fondamentale, che contiene le generalità del soggetto nei cui confronti il provvedimento deve essere eseguito, l’imputazione, il dispositivo, l’attestazione che non è stata proposta impugnazione od opposizione. Il primo adempimento spetterà, a tal punto, alla segreteria del P.M., tenuta agli incombenti dettati dal successivo art. 29 delle disposizioni regolamentari. Innanzi tutto, la segreteria dovrà provvedere ad iscrivere la sentenza di condanna a pene detentive nel registro delle esecuzioni; invece, le sentenze di condanna a pene pecuniarie o a sanzioni sostitutive, i decreti di condanna nonché le sentenze di condanna a pene detentive sospese a condizioni di legge sono iscritti solo nel caso di conversione in pena detentiva o di revoca della sospensione. In secondo luogo, la segreteria è tenuta a formare il fascicolo dell’esecuzione, contrassegnato da un numero progressivo, in cui sono inseriti l’estratto esecutivo, il certificato del casellario giudiziale, i dati acquisiti attraverso il servizio informatico previsto dall’art. 97 del D.L.vo nr. 271/1989, ovvero la banca dati del DAP, nonché copia degli atti relativi al procedimento di grazia e di quelli emessi dall’autorità giudiziaria in sede di esecuzione. La procedura è attualmente informatizzata ed è possibile collegarsi al SIES, servizio informatico del Ministero della Giustizia, che contiene i dati relativi all’esecuzione. Si suddivide in SIUS, gestito dagli uffici di sorveglianza, e SIEP, gestito dagli uffici di esecuzione delle procure. Il sistema è articolato su base distrettuale. Le banche dati distrettuali sono collegate tra loro e consentono di ottenere mediante interrogazione dati relativi ad un soggetto o ad un procedimento, e consentono anche di estrarre copia dei provvedimenti. Il sistema consente anche l’utilizzo di canali di trasmissione telematica a livello nazionale tra uffici di sorveglianza ed uffici del P.M. Il fascicolo così formato sarà sottoposto al P.M. per l’adozione dei provvedimenti di sua competenza previsti dagli artt. 657/663 c.p.p., rivolti a determinare la pena da espiare in concreto.

Ricevuto l’estratto, il P.M deve procedere all’esecuzione senza ritardo. L’originaria formulazione della disposizione prevedeva che il PM promuovesse l’esecuzione entro cinque giorni dalla ricezione dell’estratto esecutivo. L’eliminazione di detto termine – peraltro di natura meramente ordinatoria – ha realizzato l’esigenza di contemperare la pretesa punitiva dello stato con gli accertamenti, talora complessi, prodromici all’esecuzione della pena.

[54] V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, in Diritto penale Contemporaneo, cit.

[55] Valentina ALBERTA, L’introduzione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’art. 4 bis, co. 1, OP: questioni di diritto intertemporale, in Giurisprudenza penale.

[56] In tal senso Cassazione sez. I, 11 febbraio 2000, n. 999, Rv. 215502, che ha stabilito che in virtù del principio "tempus regit actum", la normativa dettata dalla legge 27 maggio 1998 n. 165 in tema di sospensione dell'esecuzione della pena ha efficacia operativa immediata e si applica, quindi, anche all'esecuzione di tutti gli ordini di carcerazione, compresi quelli che siano stati formati prima della sua entrata in vigore, ma non abbiano avuto esecuzione durante la vigenza della precedente disciplina dell'art. 656 cod. proc. pen. E invero le norme che regolano l'esecuzione della pena e le misure ad essa alternative non hanno contenuto di diritto penale sostanziale e, come tali, non sono soggette al principio, di rango costituzionale, sancito dall'art. 2 cod. pen., che fa divieto alla legge posteriore di operare con efficacia retroattiva. (Sulla base di tale premessa, la S.C. ha anche ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 656 cod. proc. pen., come novellato dalla legge n. 165 del 1998, dedotta per preteso contrasto con gli artt. 3, 24 e 25 Cost.).

[57] Così Cassazione, sez. I, sentenza nr. 33062 del 19-9-2006 depositata il 4-10-2006 RV 234384: <L'art. 659, comma nono, lett. c), cod. proc. pen., come modificato dalla legge 5 dicembre 2005 n. 251, siccome norma di natura processuale, è immediatamente applicabile a tutti i rapporti esecutivi che non siano ancora esauriti. (Nella specie la Corte ha ritenuto che avendo il giudice di cognizione concretamente applicato la recidiva reiterata nella configurazione recepita nell'art. 99, come modificato dall'art. 4 della legge n. 251 del 2005, operando il bilanciamento di essa con le circostanze attenuanti generiche, possa ritenersi operativo il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena detentiva stabilito dall'art. 656 comma nono lettera c), introdotto dalla legge n. 251 del 2005)>; conforme a Cassazione, sez. I, sentenza nr. 25113/2006 e nr. 29508/2006.

[58] Valentina ALBERTA, L’introduzione dei reati contro la pubblica amministrazione nell’art. 4 bis, co. 1, OP: questioni di diritto intertemporale, in Giurisprudenza penale.

[59] COPPETTA, Il permesso premio come strumento di rieducazione: ancora una declaratoria di illegittimità dell’art. 4 bis ord. penit.,in Cass. Pen. 1997, II, p. 1265; DELLA CASA, Successione di leggi penitenziarie: modifiche “peggiorative” e limiti inerenti allo jus superveniens, in Cass. Pen. 1992, p. 402-403; FIORIO, Le disposizioni esecutive e penitenziarie, in Dir. Pen. Proc. 2006, 3, p. 320.

[60] Così V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, cit., che richiama, in nota, anche F. BRICOLA, L’affidamento in prova al servizio sociale: «fiore all’occhiello» della riforma penitenziaria, in Quest. crim., 1976, 373 ss., ed anche in ID., Scritti di diritto penale, vol. I, tomo II, Bologna, 1997, 1103 ss.

[61] Così V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, cit.

[62] Per un profilo di incostituzionalità ravvisabile nel richiamo ai principi della collaborazione vds. V. MANES, L’estensione dell’art. 4-bis ord. pen. ai delitti contro la p.a.: profili di illegittimità costituzionale, cit., che osserva: <Un ulteriore difetto di ragionevolezza “intrinseca” sembra emergere, poi, dalla condizione richiesta per poter accedere alla misura alternativa, ossia l’aver collaborato con la giustizia “a norma dell’art. 323-bis c.p.”: disposizione ai sensi della quale – come noto – si prevede una attenuazione di pena “Per i delitti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati, e per l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”. Da un lato, infatti, tale norma evoca una serie di attività, molte delle quali sono difficilmente attuabili (ed esigibili) in capo al condannato in stato di detenzione (così, ad esempio, la richiesta di “adoperarsi per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori”), e più in generale condotte persino difficili da concepire – sul piano logico prima che cronologico – al di fuori del processo di cognizione e della fase del giudizio. Dall’altro, e soprattutto le condotte “collaborative” evocate – originariamente pensate per il fenotipo del crimine organizzato – appaiono persino difficilmente compatibili, sul piano strutturale, con alcuni reati ora qualificati come ostativi: basti pensare al peculato (art. 314 c.p.), normalmente declinato in chiave monosoggettiva, o alla concussione (art. 317 c.p.), costruita su uno schema di plurisoggettività necessaria impropria (dove l’intraneus è autore e l’extraneus è “vittima”). La “collaborazione”, in sostanza, sarebbe dunque “strutturalmente” difficile, se non impercorribile, con un evidente profilo di incongruenza normativa (ben oltre il difetto di coordinamento sistematico); a meno di non ipotizzare che la stessa debba prender forma di un mero edere contra se o in un monologo simile a quello di Krapp davanti al suo “ultimo nastro”: una “inquisizione” non particolarmente “soave” né utile, dunque, ovvero appunto in una collaborazione “impossibile” o “irrilevante”, che però dovrà essere giudicata tale – ai sensi dell’art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen. – solo all’esito della valutazione del magistrato di sorveglianza, mentre il condannato è ristretto in vinculis>.

 

 
 
 
 
 
 

© 2009 - 2024 Associazione Magistratura Indipendente
C.F.: 97076130588
Via Milazzo, 22 - CAP 00165 - Roma, Italia
segreteria@magistraturaindipendente.it

 

    

CONTATTI
PRIVACY POLICY

RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

Powered by Activart

 

Il Diritto Vivente utilizza cookies tecnici e di profilazione. Alcuni cookies essenziali potrebbero già essere attivi. Leggi come poter gestire i ns. cookies: Privacy Policy.
Clicca il pulsante per accettare i ns. cookies. Continuando la navigazione del sito, acconsenti all'utilizzo dei cookies essenziali.