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Magistratura Indipendente

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO  

Lo statuto della dirigenza e le nuove ipotesi di responsabilità disciplinare alla luce dell’art. 107 terzo comma della Costituzione

  Giudiziario 
 mercoledì, 17 gennaio 2024

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di Paolo CORDER, Presidente del Tribunale di Udine

 
 

Lo statuto della dirigenza e le nuove ipotesi di responsabilità disciplinare alla luce dell’art. 107 terzo comma della Costituzione[1].

Venezia 11 novembre 2023

 

Elogio dell’art. 107 della Costituzione.

Nobile. Chiedo di parlare.

Presidente Terracini. Ne ha facoltà.

Nobile. Desidero un chiarimento. L'ultimo comma del nuovo testo Conti stabilisce che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di grado.

Ora, ad un profano come me, sembrerebbe che questo significhi che per i magistrati non debbano esservi i gradi come per gli altri funzionari dello Stato. È esatta questa mia interpretazione?

Presidente Terracini. L'onorevole Leone Giovanni ha facoltà di rispondere per la Commissione.

Leone Giovanni. Questa formula esprime questa nostra opinione: che, essendosi creato l'ordine giudiziario, nel seno di questo ordine occorre una gerarchia di funzioni. Così la Corte di cassazione è la competenza più alta rispetto agli organi inferiori di merito; ma in questa gerarchia non devono giocare i gradi come per gli impiegati dello Stato. Non occorre per la Magistratura mantenere quella diversità di gradi che, se non erro, è dovuta al fascismo, cioè la equiparazione ai gradi militari. Occorre cominciare a sgretolare questo sistema di equiparazione di gradi. Occorre sovrattutto esprimere questo desiderio e questa aspirazione: che in seno alla Magistratura non si discuta di gerarchia di gradi (non ci sia un grado IX, inferiore all'VIII, rispetto al quale deve mantenere un particolare contegno di obbedienza e di subordinazione), ma che ci siano diversità di funzioni, cioè di attribuzioni di organi, che possono essere maggiori o minori, ma esprimono maggiore o minore ampiezza di giurisdizione, non di grado.

Era il pomeriggio del 26 novembre 1947, l'Assemblea Costituente proseguiva l'esame degli emendamenti agli articoli del Titolo IV della Parte seconda del progetto di Costituzione: «La Magistratura» e approvava, fra gli altri, l’art. 107, terzo comma, che recita «i magistrati si distinguono soltanto per diversità delle funzioni»).

L’art. 107 Cost. è uno scrigno prezioso che va gelosamente preservato in quanto contiene in sé alcuni dei principi decisivi per distinguere una dittatura da una democrazia e forse anche per tenere distinte una democrazia compiuta e una democrazia recitativa come l’ha definita Emilio Gentile nel suo saggio “Il capo e la folla”. Accanto al basilare principio della soggezione del giudice solamente alla legge, l’indipendenza del giudice è assicurata anche attraverso il paradigma del terzo comma che prevede la possibilità di distinguere i giudici solamente per funzioni. E, indubbiamente, la completa attuazione del principio in questione è stata realizzata, a conclusione della lunga e controversa stagione dei concorsi interni, con le leggi Breganze e Breganzone. Occorre però chiedersi oggi se è in corso un’erosione progressiva, carsica, surrettizia dell’art. 107, 3° comma, Cost.
In particolare, occorre chiedersi se la legge delega n. 71 del 2022, con norme programmatiche (stiamo attendendo i decreti delegati) e norme immediatamente precettive (es. vigenza quadriennale tabelle o legge elettorale CSM), contribuisca o meno a tale destrutturazione ed erosione del principio di indipendenza.

Sotto osservazione sono le seguenti norme:
- Art. 8 sulla distribuzione degli affari e dei ruoli;
- Art. 14 sulle modifiche all‟art. 37 d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111/2011;
- Art. 3 sulle valutazioni di professionalità;
- Art. 11 sui nuovi illeciti disciplinari.
Il titolo dell‟intervento che mi è stato affidato fa riferimento allo “statuto del dirigente”.
Ma, più che di un nuovo statuto del dirigente, perché culturalmente rifiuto l‟idea che il dirigente abbia uno status diverso da quello del magistrato, tenterò di
intercettare e mettere insieme in uno stesso contenitore le nozioni di dirigenza, organizzazione, valutazione di professionalità e disciplinare.
In questa ricerca occorre però avere molto chiaro il fatto che da sempre non è operazione semplice quella che tenta di conciliare i due principi di responsabilità da un lato e di indipendenza dall‟altro.
Come è stato autorevolmente osservato, certamente si tratta di principi tra loro non inconciliabili, ma che pongono la necessità nella loro pratica attuazione di definire il tipo di responsabilità disciplinare, cioè quali sono gli illeciti disciplinari, qual è il giudice che giudica sugli stessi, qual è il procedimento che si segue e ancora quali sono i valori che si vogliono perseguire con la responsabilità disciplinare.
Così, ad esempio, sembra certamente da escludere che la finalità possa essere quella di spingere i giudici, pur nell‟ambito delle nuove esigenze di prevedibilità e possibile omogeneità delle risposte di giustizia, verso un tipo particolare di interpretazione, conformando ad ogni costo le loro decisioni, anziché quella di applicare una sanzione per aver compiuto o tenuto dei comportamenti sufficientemente descritti e vietati dalla legge e da questa considerati appunto quali illeciti disciplinari.
Parimenti, sembra di doversi escludere che tra le finalità del disciplinare via sia anche quella di spingere i giudici verso una sorta di dittatura dei numeri ovvero verso una deriva aziendalistica dell‟organizzazione in funzione ancillare del dato numerico, inevitabilmente a discapito della qualità della risposta giudiziaria.
Lo diamo ormai per scontato e non è a mio avviso un bene.
Perché occorre sempre ribadire che per ricercare il fondamento della legittimazione dell‟attività giurisdizionale non debbono essere seguite le regole della responsabilità politica, in quanto l‟attività del giudice trova la sua legittimazione nel principio di legalità e non nel principio del consenso popolare. Una legge si rispetta perché è approvata dai rappresentanti del corpo elettorale, i quali pertanto sono responsabili nei confronti dei propri elettori, per le scelte politiche che fanno attraverso l‟approvazione delle leggi.
Al contrario una sentenza del giudice non viene rispettata perché è una verità assoluta, né perché è una scelta politica, ma perché esprime il rispetto della legalità, in quanto è pronunciata da un soggetto realmente e apparentemente imparziale, tecnicamente preparato e professionalmente capace. E la legalità è fatta di qualità e quantità assieme, senza che la seconda debba prevalere sulla prima.
Fatta questa premessa, veniamo ai potenziali casi di erosione del principio di indipendenza sotteso al terzo comma dell‟art. 107 Cost. insiti nella legge n. 71 del 2020.


DISTRIBUZIONE RUOLI Art. 8
All'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto 30  gennaio 1941, n. 12, sono apportate le seguenti modificazioni:

b) all'articolo 7-ter, dopo il comma 2 è aggiunto il seguente: 

“2-bis.  Il dirigente dell’ufficio deve verificare che la distribuzione dei ruoli e dei carichi di lavoro garantisca obiettivi di funzionalità e di efficienza   dell'ufficio e assicuri costantemente l’equità tra tutti i magistrati dell’ufficio, delle sezioni e dei collegi”. 

Principio indubbiamente condivisibile.

E, del resto, si tratta di una norma forse superflua, in quanto già le norme secondarie del CSM prevedono che il dirigente debba prestare attenzione all’equiparazione dei ruoli, non solo in funzione di una equa distribuzione del lavoro tra i magistrati, ma anche al fine di non esporre l’ufficio a squilibri contrari ad un generale principio di efficienza amministrativa. Nelle Circolari in materia tabellare è addirittura previsto un apposito procedimento per il cd. riequilibrio dei ruoli. Ma credo sia significativo, nel quadro che andrò a delineare, che il legislatore abbia inteso ribadire il dovere dirigenziale in un’apposita norma che però ha in sé altrettanto significative criticità e incongruenze. Vorrei attirare l’attenzione sulle nozioni generiche di funzionalità ed efficienza. Vorrei attirare l’attenzione sull’avverbio “costantemente”, del tutto impraticabile, pena un inefficiente modello di continuo mutamento del giudice assegnatario.

Se a ciò si aggiunge che l’incremento dei ruoli può avere molteplici, talvolta imprevedibili e difficilmente accertabili cause, si deve concludere che non vi era alcuna necessità di introdurre questa norma-monito, la quale – come primo esempio di una pericolosa deriva aziendalistica – punta tutto sui numeri, sulla quantificazione dei ruoli, a prescindere dalla loro consistenza qualitativa.

E, a mio avviso, la schiavitù, la dittatura dei numeri porta inevitabilmente con sé comparazioni e classifiche tra magistrati. E le comparazioni e le classifiche finiscono per condizionare l’operato del magistrato, per distinguerlo non solamente in base all’ampiezza delle sue funzioni. In fondo, se si vuole classificare, si ricorre ai numeri perché è largamente più semplice; se si fanno prevalere i numeri, si finisce per dover classificare.

 

PROGRAMMI DI GESTIONE Art. 14

All'articolo  37  del  decreto-legge  6  luglio  2011,  n.  98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n.  111, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al comma 1, lettera b), le parole: «tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno,» sono sostituite dalle seguenti: «con  l'indicazione, per ciascuna sezione o, in  mancanza,  per  ciascun  magistrato, dei risultati attesi sulla base dell'accertamento dei  dati  relativi  al quadriennio precedente e di quanto  indicato  nel  programma  di  cui all'articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio  2006,  n.  240,  e, comunque, nei limiti dei carichi esigibili di lavoro individuati dai competenti organi di autogoverno, nonché'»; b) al comma 2, dopo  le  parole:  «degli  obiettivi  fissati  per l'anno  precedente»  sono  inserite   le   seguenti:   «   anche   in considerazione del  programma  di  cui  all'articolo  4  del  decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240»;

Orbene, la modifica introdotta, nel prevedere, quale criterio di riferimento per l’individuazione degli obiettivi di rendimento, quello della “indicazione per ciascun magistrato o per ciascuna sezione dei risultati attesi anche sulla base dell’accertamento dei dati relativi al quadriennio procedente e di quanto indicato nel piano di cui all’art.4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n.240”, non solo rischia di snaturare le caratteristiche del programma di gestione, correlandone l’ambito ad un aspetto, quello dei “risultati attesi” dall’attività del singolo magistrato, individuale e non più complessivo, ma, soprattutto, sposta l’asse valutativo degli obiettivi di rendimento incentrandolo sul singolo magistrato e non sull’andamento complessivo dell’Ufficio.

In tal modo, il programma di gestione si trasforma, in via surrettizia, da strumento di gestione dell’ufficio, in un’ottica di miglioramento complessivo del suo funzionamento e dunque della sua risposta ai mutevoli cambiamenti della domanda di giustizia, a pericoloso strumento di valutazione del rendimento del singolo magistrato e dei risultati attesi della sua attività, così aprendo a pericolose dinamiche di valutazione per risultati del lavoro del magistrato.

Ciò appare ancor più problematico laddove si tenga conto del fatto che tale spettro valutativo viene legato a un dato oggettivo rappresentato “dall’accertamento dei dati relativi al quadriennio precedente”. Ci si affida così a un criterio di valutazione pressoché automatico e senza via d’uscita, senza alcuna possibilità di far valere la situazione particolare dell’ufficio, del magistrato ovvero, ad esempio, la particolare qualità o complessità dei provvedimenti.

La descritta pericolosa dinamica valutativa esce ulteriormente rafforzata dalla previsione secondo la quale il già menzionato programma di gestione deve essere redatto anche alla luce del programma delle attività annuali redatto, a norma dell’art. 4 del D.lgs. n.240 del 25 luglio 2006, da parte del dirigente dell’ufficio giudiziario e del dirigente amministrativo preposto al medesimo ufficio. Si tratta di un programma che per prassi consolidata viene redatto senza alcuna interlocuzione o intervento del singolo magistrato, il quale, però, si trova a essere valutato anche sulla scorta di tale documento.

Anche in questo caso, dunque, si apre la strada a valutazioni del magistrato, su input del dirigente, impostate su automatismi quantitativi (risultati attesi sulla base dati quadriennio precedente), che rischiano, nel tempo, se non mitigate, a creare comparazioni parziali, graduatorie, classifiche in grado di condizionare l’attività giurisdizionale del singolo e dell’ufficio uscendo così dall’alveo del terzo comma dell’art. 107 Cost.

VALUTAZIONI DI PROFESSIONALITA’

In sintesi, le novità, per quel che qui interessa:

a) in riferimento all’espressione dei pareri da parte dei Consigli Giudiziari in seno al procedimento di valutazione della professionalità, è stata prevista l’attribuzione alla componente degli avvocati, quali componenti laici, della facoltà di partecipazione alle sedute con diritto di voto unitario, sulla base del contenuto (positivo o negativo) della eventuale segnalazione espressa dal consiglio dell’ordine (mentre è stata conservata l’attribuzione della facoltà di partecipazione alla discussione, senza diritto di voto, ai professori universitari componenti il consiglio);

b) avuto riguardo al parametro valutativo della capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro, in caso di valutazione positiva, quest’ultima dovrà essere espressa secondo criteri predeterminati, in una scala che va da discreto a buono, fino a ottimo;

c) nell’ambito del parametro della laboriosità, è stato aggiunto un ulteriore criterio rappresentato dal rispetto di quanto indicato nei programmi annuali di gestione;

e) la valutazione del parametro della capacità è stata ampliata sulla base del dato rappresentato dalle «gravi anomalie in relazione all’esito degli affari nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento», con estensione, in ogni caso, ossia anche in assenza di gravi anomalie, del campionamento ai provvedimenti emessi nella fase successiva del procedimento o del giudizio;

d) istituzione del fascicolo per la valutazione del magistrato o delle performance, contenente i dati statistici annuali e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell’attività svolta, ivi compresa la «sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi del procedimento e del giudizio».

Le criticità insite in tali scelte sono evidenti, anche se non vanno dimenticati gli aspetti positivi in tema di semplificazione delle procedure.

Dobbiamo dire no:
- a un richiamo non pertinente alla verifica della professionalità rappresentato dal criterio del rispetto dei programmi annuali di gestione ex art. 37 D.L. 98/2011, che attiene agli obiettivi di rendimento dell’intero ufficio e non del singolo magistrato.

- all’introduzione di parametri di “discreto”, “buono” o “ottimo”, con riferimento alle capacità del magistrato di organizzare il proprio lavoro».

Come osservato dal CSM nei pareri alla legge delega, la disposizione appare, disallineata rispetto allo schema disegnato dal legislatore del 2006-2007, imperniato sulla tricotomia del giudizio («positivo», «non positivo», «negativo»), deliberatamente e univocamente ricollegata alla sua natura non comparativa e, appuntandosi sulla verifica delle sole capacità auto-organizzative del magistrato, investe profili in certa misura trasversali ai parametri tipizzati (capacità, laboriosità, diligenza, impegno), destinati ad assumere rilevanza in altra sede, primariamente all’atto della selezione finalizzata al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi.

Viene poi introdotto un ulteriore aspetto di comparazione estraneo alla procedura di valutazione incentrata sulla verifica della permanenza dei requisiti di capacità, laboriosità, diligenza e impegno e rischia di creare una classifica tra magistrati che potrebbe creare tensione negli uffici. E un nuovo vulnus al terzo comma dell’art. 107 Cost.

Dobbiamo dire no al “fascicolo della performance”. Si tratta, come detto, di un fascicolo per la valutazione del magistrato, rilevante sia in sede di verifica di professionalità che ai fini delle valutazioni delle attitudini per il conferimento degli incarichi direttivi e semi-direttivi, diverso da quello personale.

Anzitutto, va sottolineato l’inutile appesantimento burocratico connesso alla presenza di diversi fascicoli personali. Inoltre, la presenza di più fascicoli imporrà una disciplina di raccordo chiara e senza dubbi interpretativi.

In conclusione, si può affermare che gli obiettivi veri del legislatore sembrano essere:

a) valorizzazione dei criteri aziendalistici tesi al raggiungimento degli obiettivi (anche stabiliti dai capi degli uffici) e al (pur condivisibile) contenimento dei tempi della complessiva risposta alla domanda di giustizia;

b) apertura alla verifica effettiva di possibili anomalie di tipo qualitativo del lavoro svolto dal singolo magistrato, realizzata però attraverso l’attribuzione del diritto di voto unitario alla componente forense e attraverso il reperimento massivo di informazioni circa la “tenuta” dei provvedimenti emessi dal magistrato nelle fasi successive o in sede di impugnazione;

c) incremento di poteri e responsabilità dei capi degli uffici, laddove i rapporti positivi consentono il procedimento semplificato.

Ancora una volta siamo di fronte a una scelta legislativa in bilico tra la condivisa necessità che i magistrati mantengano costantemente standard adeguati rispetto al servizio che sono chiamati a svolgere e il pericolo che l’attività di valutazione si traduca, magari surrettiziamente, in uno strumento di distorsione della costruzione orizzontale della magistratura voluta dal Costituente.

- Ampliamento dei poteri dei capi degli uffici, ancor più pericoloso se si pensa al modello gerarchico delle procure;
- primazia dei numeri;
- valutazioni fondate su parametri comparativi e classificatori;
- ricerche (difficili e scarsamente oggettive) di gravi anomalie rispetto ai gradi di giudizio;
- apertura ai giudizi degli avvocati;

rappresentano altrettante potenziali forme di condizionamento e di perdita dell’indipendenza egualitaria delineata dall’art. 107 Cost.



[1] Relazione tenuta in occasione del Convegno Nazionale “Le sfide della giurisdizione: i magistrati, la legge e la politica”, seconda sessione dedicata a “L’indipendenza della magistratura, tra riforme in vigore e riforme in fieri, organizzato da M.I. – Venezia, 10 e 11 novembre 2023.

 

 
 
 
 
 
 

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