L’idea del diritto vivente nella lezione dei Patres sulla capacità giuridica delle donne. Un’eredità concettuale che l’interprete del ventunesimo secolo non deve disperdere[1].
ABSTRACT: Lodovico Mortara, Pater della dottrina processuale italiana, e il suo più importante allievo, Carlo Lessona, illustre processualista di cui è appena trascorso il centenario della morte, sono stati esponenti di una concezione della scienza giuridica fondata sul primato della legge, in contrapposizione alla diversa concezione della scuola antagonista guidata da Vittorio Scialoja e animata dal genio di Giuseppe Chiovenda, che attribuiva preminenza al sistema ricostruito dall’interprete anche contro la lettera della norma. Al riconoscimento del primato della legge si è tuttavia accompagnata, nella concezione mortariana, l’esigenza di ricercarne il contenuto effettivo non già nella mera proposizione normativa scritta, come posta dalla fonte di produzione, ma nel significato ad essa attribuito dalla coscienza sociale, depositaria del principio di uguaglianza di diritto, instillato dalle rivoluzioni francese e americana della fine del 700 e criterio guida dei pubblici poteri verso la progressiva eliminazione della disuguaglianza di fatto. Si delinea, in tal modo, l’anticipata versione mortariana del principio di effettività, che conduce all’elaborazione di un diritto vivente ordinato al superamento delle discriminazioni e alla tutela dei diritti fondamentali, e che risulta peraltro fondato, non sulla malferma opinione dell’interprete, ma su basi oggettive date dalla misura e dal senso dell’accettazione sociale della norma positiva. Tale concezione, che nella costruzione giuridica dei due Patres è alla base del riconoscimento alla donna della piena capacità giuridica di diritto privato e di diritto pubblico, costituisce oggi, più in generale, un’eredità concettuale capace di guidare gli interpreti moderni nella individuazione del significato evolutivo delle norme giuridiche, senza rimanere imprigionati nei limiti semantici delle disposizioni scritte, ma senza neppure smarrirne la nozione obiettiva, che ne impone la ricerca nell’ambito dell’ordinamento giuridico e non nel foro interno dell’interprete.
Sommario: 1. Carlo Lessona e la questione della partecipazione delle donne, in qualità di giurate, ai processi per delitti d’amore. - 2. Processo, ordinamento e interpretazione delle norme giuridiche nella concezione di Lodovico Mortara. - 3. L’uguaglianza di genere come regola di diritto effettivo nella concezione mortariana. - 4. Il metodo del Laurent nella scuola di Mortara, ovverosia il primato della legge sull’idea interprete, e il suo fondamento politico. - 5. Diritto scritto, diritto vivente, idea dell’interprete quali piani distinti nella lezione di Mortara e di Lessona. L’eredità lasciata dai Patres all’interprete del ventunesimo secolo.
1. Carlo Lessona e la questione della partecipazione delle donne, in qualità di giurate, ai processi per delitti d’amore
Durante lo scorso anno si è avuta una ricorrenza non irrilevante per gli studiosi del diritto e, in particolare, per i cultori della scienza del processo: è caduto infatti il centenario della scomparsa del processualista Carlo Lessona, morto - prematuramente, a soli 56 anni - il 16 aprile 1919[2].
La ricorrenza non è passata sotto silenzio, essendo stata celebrata dal Consiglio Superiore della Magistratura con un convegno (onorato dalla partecipazione di autorevoli colleghi e di illustri cattedratici) dedicato al tema delle prove nel sistema civile e penale[3], tema che aveva rivestito particolare importanza negli studi di Lessona, tanto da costituire l’oggetto della sua opera più rilevante, Il trattato delle prove[4].
Il grande studioso è stato rievocato anche sulla Rivista di diritto processuale, che ha pubblicato, sotto altro titolo, la relazione con cui il Prof. Bruno Cavallone aveva aperto il convegno svoltosi presso il Consiglio Superiore della Magistratura[5].
Lessona era piemontese e si laureò a Torino. Fu avviato allo studio del processo da Luigi Mattirolo, il grande “procedurista” che, nel ricordo del suo studente più illustre, Luigi Einaudi, era «diritto come un fuso ed elegantissimo», faceva lezione «sempre alle quattro del pomeriggio, in cilindro e prefettizia», e colpiva l’uditorio per «la perfezione della frase e il rigore del linguaggio giuridico»[6].
Dopo la laurea divenne allievo di Lodovico Mortara, uno dei Patres più insigni della moderna scienza giuridica, non solo processuale, iniziatore e Maestro dello studio dell’ordinamento rivolto alla tutela dei diritti fondamentali[7].
Come Mortara, Lessona era sensibile alla questione femminile, la quale agli inizi del Novecento era posta non solo dagli studiosi, ma anche da un vigoroso movimento femminista che aveva portato, ad es., alcune commissioni provinciali ad iscrivere nelle liste elettorali diverse richiedenti[8].
Sul problema della capacità giuridica della donna, Lessona espresse la sua opinione in un momento particolarissimo della sua vita professionale e personale e in un volume che si segnala per la sua singolare distanza dai canoni delle pubblicazioni giuridiche.
Il momento - tra il 1905 e il 1906 - si colloca nell’immediatezza della sua sconfitta nel concorso alla cattedra di procedura civile dell’Università di Napoli, dopo che Mortara, licenziata la vasta riforma del procedimento sommario del 1901 ed acquisito il primato tra i processualisti italiani, aveva deciso di abbandonarla per diventare consigliere della Corte di Cassazione di Roma. Lessona, che già aveva ereditato dal suo maestro la cattedra pisana, confidava legittimamente di succedergli anche su quella napoletana, ma, per una serie di circostanze che lo dovettero amareggiare profondamente, il concorso fu vinto dal più giovane, nonché - a quel tempo - meno autorevole e meno fecondo Giuseppe Chiovenda[9]. In quegli stessi anni, inoltre, Lessona, fu colpito da una grave malattia, dalla quale uscì in seguito a due operazioni e alle cure meritorie di un medico, Antonio Ceci, che gli salvò la vita.
Il volume che Lessona diede alle stampe in questo momento di profonda amarezza professionale e di grande preoccupazione personale fu da lui intitolato Giurisprudenza animalesca[10]. In questo libro l’autore, fortificandosi nell’uso dell’ironia - l’arma che lo avrebbe sempre sorretto nelle non favorevoli vicende della professione e della vita; e della quale, peraltro, avrebbe in qualche caso fatto un uso eccessivo, attirandosi qualche inimicizia[11] - espose le sue opinioni, non solo giuridiche, sulle questioni più disparate, in alcuni casi traendo spunto da accadimenti reali, in altri rievocando leggende e favole per bambini.
Eccolo dunque parlare, con una inaspettata propensione al faceto, dei rapporti tra gli animali e la giustizia, dei temi sentitissimi dell’orbilianismo e dell’affratellamento, del duello[12] e, con maggior serietà, della responsabilità medica[13].
Ed eccolo soffermarsi sull’attuale questione della capacità giuridica delle donne, non per affrontarla da un punto di vista dogmatico, ma per esprimere la sua opinione personale su un tema di notevole interesse politico-giudiziario, sul quale in quegli anni aveva richiamato l’attenzione, tra gli altri, lo storico e sociologo Gugliemo Ferrero[14].
Il tema era se fosse opportuno ammettere o meno le donne a partecipare, in qualità di giurate, ai processi per delitti d’amore. Lessona risponde di no, sul rilievo che la «donna che ha amato e si è conceduta fuori della burocrazia sindacale e della stola del prete» non può essere giudicata con imparzialità da una «donna onesta», la quale tende ad odiare «per istinto» quella che «ai suoi occhi non è tale».
Le giurate, dunque, sarebbero, per un verso «implacabili contro le donne, comunque cadute» e, per altro verso, «straordinariamente miti verso quelle che si vendicano». Esageratamente clementi verso queste ultime, giudicherebbero le prime prescindendo «da ogni ricerca di cause e di attenuanti»[15].
Si tratta, ovviamente, di un’opinione inaccettabile. Vanamente si cercherebbe di modificarne il significato discriminatorio richiamando l’alta considerazione della purezza, dell’incompromettibilità e dell’incontaminabilità dei sentimenti delle donne in materia di amore, a cui essa sembra essere ispirata. Per Lessona, in sostanza, le donne non sarebbero giudici equilibrati e imparziali, quando fossero chiamate a giudicare le (altre) donne che hanno disobbedito alla morale sessuale basata sulla fedeltà ai propri mariti e sull’intoccabilità di quelli altrui. E anche se il difetto di equilibrio e di imparzialità è dovuto all’alto concetto in cui esse hanno quella morale - la loro «onestà», appunto - viene pur sempre in considerazione un difetto connesso alla loro condizione femminina, tale da giustificare una limitazione della loro capacità giuridica di diritto pubblico.
2. Processo, ordinamento e interpretazione delle norme giuridiche nella concezione di Lodovico Mortara
Viene allora il dubbio che la scuola di Mortara non fosse stata in grado di trasmettere ai suoi adepti la concezione dell’ordinamento giuridico e del suo fine che era stata propria del suo fondatore.
Mortara, come è noto, sin dall’opera giovanile Lo Stato moderno e la giustizia[16], aveva manifestato una concezione straordinariamente moderna del processo, allo studio del quale era arrivato - sono parole di Piero Calamandrei - «non salendovi dal diritto privato, ma scendendovi dal diritto costituzionale, cercando in esso non lo strumento per far vincere le cause ai litiganti, ma il mezzo per attuare lo scopo più augusto dello Stato che è la giustizia»[17].
Se il processo è il mezzo per l’attuazione della giustizia, questa è il fine dell’ordinamento. Quale fine dell’ordinamento, la giustizia non è però soltanto accertamento del diritto soggettivo azionato nel processo, ma è tensione continua dell’ordinamento medesimo verso l’uguaglianza di fatto tra le persone. Nella Prolusione del 1889 al corso di diritto costituzionale tenuto all’Università di Pisa - Prolusione recante il significativo titolo La lotta per l’uguaglianza[18] - Mortara aveva affermato che le rivoluzioni francese e americana, pur non avendolo creato, avevano reso perspicuo, alla coscienza dei popoli civili, un nuovo principio: il principio dell’uguaglianza di diritto tra gli uomini. Tale nuovo principio, fondamento indispensabile al progressivo consolidarsi del dominio della forza intellettuale su quella materiale, non contiene l’uguaglianza di fatto, anzi ha valore pratico solo in quanto ne suppone necessariamente la mancanza. Ma il principio dell’uguaglianza di diritto, applicato ad uno stato di disuguaglianza di fatto, stabilisce una ineluttabile tendenza alla diminuzione di quest’ultima e un’ineluttabile aspirazione al suo cancellamento[19]. In questa tendenza e in questa aspirazione è il fine ultimo di giustizia che l’ordinamento persegue con tutti i suoi istituti e le sue norme.
Le norme giuridiche, siano esse quelle costituzionali siano esse quelle legislative, vanno quindi lette, interpretate ed applicate alla luce di questo principio che è penetrato nelle società civili e le sta guidando dal dominio della forza materiale («signora del passato») a quello della forza intellettuale (che «dominerà l’avvenire»). Poiché «con l’impronta del nuovo principio», la «Costituzione», «tutta la legislazione» e persino l’attività esecutiva («l’opera governativa») riceveranno «indirizzi nuovi per le vie della civiltà e del progresso»[20].
È nell’ambito di questa concezione del processo, dell’ordinamento e dell’interpretazione delle norme giuridiche che si rinvengono sia le ragioni della scelta di Mortara di esercitare personalmente il «ministero essenziale» del giudice[21], sia quelle delle sue illuminate decisioni.
Il contenuto della norma giuridica, nell’interpretazione di Mortara, non si identifica con quello risultante dalla disposizione scritta ma con quello che essa riceve grazie all’impronta del nuovo principio dell’uguaglianza di diritto, che vive nella società e impegna i soggetti dell’ordinamento ad aspirare all’uguaglianza di fatto.
Correttamente Salvatore Satta avrebbe notato che nella visione di Mortara il processo costituisce il motore dell’ordinamento perché, attraverso il processo, l’ordinamento «diviene» verso il suo fine ultimo: la giustizia. E colui che consente a questo motore di funzionare è il giudice, del quale è importante assicurare la formazione e l’indipendenza[22].
Nella concreta applicazione giudiziale, il significato della norma supera quello fatto palese dal senso delle parole per riempirsi dei valori contenuti nel principio di uguaglianza, quale principio instillato nella coscienza sociale dagli avvenimenti rivoluzionari della fine del 700 e sentimento vivificatore della stessa. Dunque, non una regola posta da un ipotetico legislatore ma un fatto; un fatto giuridico che ha per effetto la conformazione delle norme scritte, dello ius positum, al sentimento della società.
Così, in Cass. Roma, Sez un., 16 novembre 1922, Pres. ed est. Mortara[23], il dibattuto problema del controllo giudiziario dei requisiti di urgenza posti a fondamento dell’emanazione dei decreti-legge da parte del governo, viene risolto con il superamento della tesi negativa fondata sul postulato che quel sindacato spetterebbe soltanto al parlamento. Mortara afferma che il requisito dell’urgenza si manifesta sotto due aspetti, sostanziale e formale: l’aspetto sostanziale concerne l’oggetto del provvedimento e il giudizio sulla necessità di apprestarne un’immediata regolamentazione; l’aspetto formale è dato da elementi esterni alla materia e al predetto giudizio, quali ad es., la temporanea sospensione dei lavori parlamentari, l’immediata esecuzione data al provvedimento, la pronta sua pubblicazione e l’entrata in vigore. Il giudice non può accertare il requisito dell’urgenza sotto il profilo sostanziale, ma ben può farlo sotto il profilo formale, verificando se sussista uno di quegli elementi esterni che giustificano il ricorso alla decretazione d’urgenza, così come può esaminare se il governo abbia o meno tempestivamente presentato il decreto al parlamento per la sua conversione. E ciò non soltanto perché tale accertamento, al contrario di quello che involge gli aspetti sostanziali dell’urgenza, non implica alcuna valutazione politica, riservata al parlamento; ma anche perché l’uso non parsimonioso da parte del governo di un potere legislativo estraneo alle proprie funzioni costituzionali rende insufficiente il solo sindacato parlamentare e accresce i doveri della magistratura cui spetta la custodia dei diritti individuali contro qualsiasi offesa. La magistratura, dunque, ove accertasse la mancanza degli elementi d’urgenza soggetti al suo sindacato, o verificasse l’intenzione del governo di non promuovere la deliberazione “sanante” del parlamento, dovrebbe negare l’efficacia legislativa del decreto in rapporto al diritto individuale di cui si lamenta in giudizio la lesione.
La tutela dei diritti individuali dalle offese illegittime, quand’anche provenienti dallo Stato, costituisce la ratio anche di Cass. Roma 30 dicembre 1922, Pres. ed est. Mortara[24]. Vi si afferma che le sanzioni penali previste per decreto-legge non possono essere applicate prima della sua conversione, giacché il decreto-legge possiede bensì autorità di legge, ma sottoposta a condizione risolutiva. L’azione penale per un reato introdotto con decreto-legge può dunque essere esercitata soltanto dopo la sua conversione.
In entrambi le sentenze l’esigenza di tutela dei diritti individuali trova fondamento nel principio di uguaglianza giuridica recepito nella coscienza sociale. La norma giuridica riceve applicazione alla luce di questo lume interpretativo che ne determina il significato e ne conforma il contenuto. Ma se questo principio è in grado di incidere sul contenuto delle norme in quanto recepito nella coscienza sociale, allora vuol dire che il significato delle norme non è quello risultante dal testo scritto ma quello ad esse attribuito dalla coscienza sociale. Il che, ancora, significa che la norma è giuridica se viene accettata e riconosciuta come tale dal corpo sociale, il quale può respingerla (facendola cadere in desuetudine), accettarla nella sua totalità oppure recepirla in un’accezione differente da quella corrispondente alla disposizione scritta, un’accezione che può anche mutare nel corso del tempo, assumendo significati nuovi e diversi.
Emerge così, nella concezione di Mortara, il principio di effettività riferito alle singole norme giuridiche, indipendentemente dalle sue enunciazioni ad opera delle dottrine sociologiche del diritto[25] e di quelle istituzionali[26], e ben prima che fosse recepito nella moderna dottrina civilistica[27].
Nell’ambito di questa dottrina il diritto effettivo si identifica con le norme socialmente accettate e con il significato ad esse attribuito dal corpo sociale. Esulano dal diritto effettivo e restano lettera morta le norme che il corpo sociale non accetta come tali, quand’anche formalmente valide; esula dal diritto effettivo anche il significato originario attribuito alla norma dal legislatore quando essa, nell’accettazione del corpo sociale, ne abbia assunto uno diverso, al quale soltanto deve aversi riguardo per ricostruirne il contenuto giuridico, sebbene non coincida con quello desumibile dal testo scritto[28].
Questo diritto effettivo - o, come anche si suole chiamarlo, diritto «vivente» - può desumersi in primo luogo dagli orientamenti giurisprudenziali consolidati e particolarmente dalle massime della giurisprudenza di legittimità, in quanto la concreta applicazione giudiziale della norma costituisce indice della sua accettazione sociale e in quanto la massima giurisprudenziale riflette il significato dalla stessa assunto nella coscienza sociale[29].
La differenza tra la moderna accezione del principio di effettività e quella emergente dalla concezione di Mortara riguarda allora unicamente il grado di determinatezza del contenuto del diritto effettivo. Il contenuto della norma, al tempo di Mortara, è conformato dal principio di uguaglianza giuridica che è penetrato nel corpo sociale attraverso gli eventi rivoluzionari della fine del Settecento. Negli ordinamenti moderni, invece, la coscienza sociale è animata da istanze composite e diversificate, che conferiscono alla norma un significato cangiante, in continua evoluzione. La differenza tuttavia si riduce, sin quasi ad elidersi, se si pensa che la linea di tendenza di questa evoluzione è segnata, peraltro, dall’esigenza di protezione dei diritti fondamentali, riconosciuti dalle moderne carte costituzionali e tutelati attraverso il dialogo delle Corti nazionali e sovranazionali.
3. L’uguaglianza di genere come regola di diritto effettivo nella concezione mortariana
Nella concezione di Lodovico Mortara e della sua scuola, tra le regole che costituiscono espressione del diritto effettivo si colloca quella che prescrive il riconoscimento alla donna della piena capacità giuridica di diritto privato e di diritto pubblico.
Nella sentenza probabilmente più famosa del giudice Mortara, che egli redasse in qualità di presidente della Corte di appello di Ancona nel 1906, si afferma - come è noto - che secondo il diritto vigente anche le donne hanno l’elettorato politico[30].
Nel 1906, nessuna norma riconosceva peraltro alle donne il diritto di voto, che sarebbe stato formalmente previsto solo nel 1946.
Con riguardo all’elettorato amministrativo, esso era anzi espressamente escluso dall’art. 22 del TU della legge com. e prov. 4 maggio 1898, n. 164 (in GU 23 maggio 1898, n. 119), per il quale le donne non erano né elettori né eleggibili, al pari degli analfabeti, degli interdetti e inabilitati, dei condannati, degli ammoniti, dei ricoverati negli ospizi di carità e dei commercianti falliti.
Con riguardo all’elettorato politico, il TU sulla legge elettorale politica 24 settembre 1882, n. 999 (in GU 24 settembre 1882, n. 226) non prevedeva alcunché ma era opinione comune che l’esclusione delle donne dalla partecipazione (anche) al suffragio politico fosse desumibile dall’art. 1 della stessa legge, che richiedeva per l’elettorato il godimento dei diritti politici. Questa categoria di diritti, infatti, veniva distinta da quella dei diritti di libertà (di cui godevano sia uomini che donne) e veniva ricondotta ai soli diritti «che si estrinsecano nell’esercizio di pubbliche funzioni o nella investitura di cariche pubbliche», il cui godimento era riservato ai soli uomini[31]. Si aggiunga che nei lavori preparatori il relatore della legge, Giuseppe Zanardelli, non solo aveva espresso la sua opinione contraria al voto femminile ma aveva anche evidenziato che non era stato proposto alcun emendamento volto a conferire in modo esplicito alle donne l’elettorato politico.
Al cospetto di queste norme di diritto positivo, la tesi che l’ordinamento vigente riconoscesse il diritto di voto politico alle donne viene coraggiosamente sostenuta da Mortara con una serie di argomenti che possono essere ricondotti in parte all’interpretazione letterale in parte all’interpretazione logico-sistematica. Essi consistono: nell’attribuzione all’espressione «regnicoli» (coloro che per l’art. 24 dello Statuto Albertino sono eguali dinanzi alla legge e godono ugualmente i diritti civili e politici) di un significato ampio, comprensivo non solo degli uomini ma anche delle donne; nell’allargamento della restrittiva nozione di diritto politico accolta dalla scienza del diritto pubblico del tempo; e nel rilievo che rispetto alla regola generale così desumibile dal citato art. 24 dello Statuto - tutti i regnicoli (tra cui le donne) godono dei diritti politici (tra cui il diritto elettorale) - l’ordinamento prevede per le donne un’esplicita esclusione solo con riguardo all’elettorato amministrativo, non anche con riguardo all’elettorato politico che, dunque, nel silenzio della legge, deve ritenersi riconosciuto alle donne stesse proprio in forza della regola generare statutaria.
Su questi argomenti si appuntano i rilievi dello sconcertato Vittorio Emanuele Orlando, nella nota critica in calce alla sentenza. Eppure, se ben si legga la sentenza medesima, questi argomenti, quantunque formulati tra i primi, costituiscono soltanto il contorno con cui l’estensore rafforza l’argomento principale, il vero argomento, fondato sull’analisi del diritto effettivo, e cioè sulla considerazione del significato che quel diritto vigente sopra richiamato - apparentemente così ostile, nella sua formulazione testuale, al riconoscimento del diritto di voto alle donne - ha assunto nella accettazione che di esso ha manifestato la coscienza sociale, animata e vivificata dalla forza trainante del principio di uguaglianza.
La sentenza afferma che «la legge è formula di precetto generale destinato a governare i bisogni e le contingenze della vita sociale per un tempo illimitato, adattandosi alla loro variabilità in modo da rispondere sempre al suo alto fine di tutela dell’ordinamento civile. Essa non si cristallizza in una forma iniziale per sempre irriducibile ma vive la vita stessa della civiltà, ed è animata dallo spirito di questa».
Il significato desumibile dalla formulazione letterale delle norme contenute nelle leggi elettorali non è dunque il vero significato. Esso infatti non va ricercato in quello formale, codificato nella fonte di produzione, ma piuttosto in quello recepito dalla società civile e accettato dal corpo sociale. Nessuna importanza può pertanto attribuirsi al rilievo del relatore della legge, contenuto nei lavori preparatori, secondo cui non sarebbe stato proposto alcun emendamento per conferire in modo esplicito alle donne il diritto di voto politico, poiché tale rilievo mostra di trascurare se, al contrario, «la mancanza di un’esplicita interdizione non bastasse, nel sistema del nostro diritto pubblico, ad appagare le aspirazioni delle donne all’ eguaglianza (il corsivo è nostro) cogli uomini di fronte a quella legge, sia pure che tali aspirazioni avessero a manifestarsi molti anni dopo la promulgazione della medesima».
4. Il metodo del Laurent nella scuola di Mortara, ovverosia il primato della legge sull’idea interprete, e il suo fondamento politico
La ricerca del significato effettivo della norma, nella sua dimensione vivente, non vuol dire rinuncia al primato della legge. In questo Mortara è chiarissimo sin dalla Prefazione al suo Manuale della procedura civile, pubblicato nel 1887: «L’esegesi della legge è da me fatta secondo il metodo e le raccomandazioni del Laurent: mi guardo cioè, con ogni cura, dal sostituire alla volontà del legislatore l’idea dell’interprete, anche quando la seconda sia fuor di dubbio migliore della prima»[32].
Il riconoscimento della primazia della legge è il bene che Mortara ha ricevuto in eredità dalla scuola esegetica italiana di ispirazione francese, che ha avuto l’ultimo grande maestro in Luigi Mattirolo. Salvatore Satta avrebbe osservato che Mattirolo era «esponente perfetto» di una precisa concezione, quella «legalistico-formalistica», nella quale lo sforzo esegetico si traduce in un esercizio continuo, inesauribile e quasi drammatico; uno sforzo che trova fondamento nella consapevolezza dell’«immenso valore» della norma, elevata ad oggetto di «adorazione»[33].
Il richiamo di Mortara al metodo del Laurent manifesta l’intenzione di non disperdere quell’eredità e di perpetuarla, anzi, nella propria scuola. Egli diviene quindi l’avversario principale della contrapposta scuola sistematica di ispirazione tedesca, la quale, movendo dall’affermata necessità di costruire un sistema fondato su concetti di teoria generale, destinato a sovrapporsi alla lettera della norma, finisce con l’affermare la prevalenza dell’idea dell’interprete sulla legge.
La scuola sistematica, di ispirazione roman-germanista ha, come è noto, il suo più alto esponente in Vittorio Scialoja[34] e presto potrà giovarsi del genio di Giuseppe Chiovenda[35]: essa ritiene che alla scuola italiana manchi la visione omnicomprensiva e sistematica dell’ordinamento; asserisce che questo sistema deve essere costruito sfruttando le conquiste dogmatiche della scienza giuridica tedesca; afferma che tutte le volte in cui tale sistema contrasti con la legge positiva è quest’ultima che deve ritrarsi, lasciando spazio alla soluzione armonizzante dell’interprete[36].
Il certamen tra le due scuole esula dalla contesa metodologico-scientifica, per invadere il campo ideologico-politico. In Mortara, e ancora di più nel suo allievo Lessona, la continuazione della scuola italiana non vuol dire solo difesa del primato della legge, ma anche difesa della giovane legislazione post-unitaria e delle istanze di rinnovamento politico e sociale che essa porta con sé. Negli esponenti della scuola germanista, l’affermazione della primauté del sistema consente di contestare quelle istanze attraverso il ridimensionamento o addirittura la disapplicazione della norma di legge. Lessona invece dimostrerà che il criterio esclusivamente esegetico può essere superato non solo rifugiandosi «nelle astrazioni filosofiche e spesso nebulose della dottrina tedesca» ma studiando «con metodo rigorosamente sistematico il diritto giudiziario», senza smarrire il primato della norma di legge e senza «rinunciare ad essere italiano»[37].
Il fondamento del riconoscimento del primato della legge risiede tuttavia, ancora, nell’operatività del principio di uguaglianza quale custode della tutela dei diritti individuali.
Ai vantaggi della concezione sistematica, fondata sulla coerenza dei concetti di teoria generale destinati a sovrapporsi al diritto vigente e a colmarne le eventuali lacune, Mortara e la sua scuola possono opporre i ben più preziosi vantaggi della concezione legalistica, fondata sulla difesa del primato della legge, la quale, con tutte le sue aporie, costituisce pur sempre un’irrinunciabile garanzia giacché consente di contare sull’intangibilità del diritto scritto, senza che alla volontà del legislatore, obiettivata nell’enunciato normativo, possa essere sostituita l’idea subiettiva e mutevole dell’interprete.
5. Diritto scritto, diritto vivente, idea dell’interprete quali piani distinti nella lezione di Mortara e di Lessona. L’eredità lasciata dai Patres all’interprete del ventunesimo secolo
Dunque, la necessità di andare oltre il significato risultante dall’enunciato scritto della norma, per individuare quello effettivo, dato dalla misura e dal senso dell’accettazione sociale di quell’enunciato, non vuol dire sostituire alla norma di legge, che mantiene una sua obiettività, l’idea subiettiva dell’interprete.
Sarebbe allora sbagliato rinvenire nella presa di posizione di Lessona sull’inopportunità di consentire alle donne di assumere la qualità di giurate nei processi per delitti d’amore, una regressione della scuola mortariana.
Lessona apparteneva a pieno titolo a quella scuola, della quale era, anzi, l’allievo più illustre. Egli, prima di abbracciare lo studio del processo, si era formato all’insegnamento dello storico Cesare Nani[38], esponente del socialismo giuridico, ed era, dunque, un progressista che, come il suo maestro, vedeva nel processo uno strumento di giustizia sociale e nell’interpretazione illuminata della legge un mezzo di progressiva attuazione dell’uguaglianza effettiva tra le persone.
La soluzione che Lessona avrebbe dato, ove fosse stato chiamato a pronunciarsi sullo stato del diritto vigente in ordine alla capacità giuridica della donna, presumibilmente non sarebbe stata dissimile da quella formulata da Mortara.
La diversa presa di posizione espressa nel libro sulla Giurisprudenza animalesca si spiega pertanto solo in quanto mera opinione personale, non sovrapponibile al dettato legislativo.
Del resto, per tornare alla questione del riconoscimento alle donne del diritto all’elettorato politico, si ha notizia che lo stesso Mortara, pochi giorni dopo la pubblicazione della sentenza volta a riconoscere quel diritto, ebbe a manifestare, in una intervista al Giornale d’Italia del 1°agosto 1906 la sua personale opinione sul tema, dicendosi contrario a tale riconoscimento[39]. Ma questa opinione, che egli affermò come cittadino, non aveva influenzato la sua esegesi del diritto vigente che era stata posta a fondamento del diverso giudizio che egli aveva dato come giudice.
Nella sentenza egli scrive che «la questione deve essere in questa sede esaminata e decisa colla scorta dei criteri puramente giuridici ed esegetici senza divagare in discussioni teoriche pertinenti alla scienza e all’ufficio del legislatore».
Mortara dunque si ripromette di tenere in disparte le sue opinioni personali e di decidere in base al diritto. Il diritto scritto però sembra deporre nello stesso senso della sua opinione personale. Egli potrebbe pertanto farne piana applicazione e negare, in conformità alla tesi comunemente condivisa, che alle donne spetti il diritto di elettorato alle elezioni politiche. Il diritto scritto non corrisponde tuttavia al diritto vivente, l’unico al quale deve riconoscersi efficacia, vivendo la formula normativa «la vita stessa della civiltà ed essendo animata dallo spirito di questa». La forza del giurista sta nel sapere individuare il significato effettivo della norma, nella sua dimensione vivente, quando esso non coincide con il diritto scritto; ma il giurista deve saper cogliere quel significato effettivo ancor di più quando esso, oltre a discostarsi dal diritto scritto, neppure coincide con la sua idea personale, poiché la nozione di diritto vivente non cessa di essere nozione obiettiva che va ricercata nell’ordinamento e non nel foro interno dell’interprete. Il giurista Mortara supera questa prova. Attraverso il metodo esegetico coglie la norma di diritto vivente che riconosce alle donne il diritto di voto, superando il significato racchiuso nella proposizione normativa scritta. Egli inoltre non abbandona la «buona esegesi» che lo conduce al contenuto vivente della norma, neppure nel momento in cui questo si discosta dalla sua opinione personale e persino allorché opinione personale e diritto scritto tendano a coincidere nel senso opposto di negare la sussistenza di quel diritto.
Al superamento di questa prova sono chiamati tutti i giuristi e particolarmente i giudici del ventunesimo secolo nell’interpretazione delle norme che riguardano i diritti delle persone. Il giudice comune è ormai educato al superamento dei limiti della legge scritta attraverso l’interpretazione costituzionalmente orientata e convenzionalmente conforme, che consente di conformare il significato delle norme alle istanze di tutela dei diritti fondamentali. Ma è necessario che il giudice sia altresì convinto della necessità di ricercare il significato effettivo della norma nei valori che vivono nella coscienza sociale (e che danno il senso e la misura della sua accettazione), e non in quelli che animano la coscienza dell’interprete, i quali, diversamente dai primi, non sono indici del grado di accettazione della regola scritta da parte del corpo sociale e non assumono dunque alcuna rilevanza ai fini della sua giuridicità.
L’idea dell’interprete può essere indice della norma di diritto effettivo, come lo sono gli orientamenti giurisprudenziali, ma può anche non corrispondere a quella norma, persino nell’ipotesi in cui - come si è visto nell’esempio di Mortara - tenda invece a coincidere con il diritto scritto, perché può accadere che, animato dalla coscienza sociale, il diritto vivente sopravanzi l’una e l’altro. In questo caso ogni giudice deve saper cercare il Mortara che è in sé e individuare lo stato del diritto vigente nel contenuto e nel significato in cui esso è effettivamente operante nella società, poiché in quell’effettività è la dimensione della giuridicità.
[1] Si ripubblica, con qualche modifica nel titolo e nel testo, l’articolo già pubblicato su giudicedonna.it n. 4 del 2018.
[2] Sulla figura di Lessona nel panorama della scienza processuale italiana, v., in generale, F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi - La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 40 s., 102 s., 125 s., 161 s., 196 s., 215 s.; Id., Le peripezie di Carlo Lessona tra Mortara, Chiovenda e Calamadrei, in Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 145 s.; B. Cavallone, Carlo Lessona nella scienza giuridica italiana, Relazione tenuta al Consiglio Superiore della Magistratura il 24 ottobre 2019.
[3] Giornate di studio in ricordo di Carlo Lessona nel centenario della morte. Il sistema delle prove civili e penali tra la disciplina tradizionale e le istanze di rinnovamento, Sala conferenze del CSM, 24 e 25 ottobre 2019.
[4] C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, Terza ediz., Voll. I-V, Firenze, 1914-1924.
[5] B. Cavallone, Carlo Lessona e le lucertole dello zio Michele, in Riv. dir. proc., 2020, 1, 108 s.
[6] Così L. Einaudi, Prefazione, in G. Solari, Studi storici di filosofia del diritto, Torino, 1949, V.
[7] V. G. Mortara, Appunti biografici su Lodovico Mortara (1955), in Quaderni fiorentini, XIX, Milano, 1990, 112 s.; S. Satta, Attualità di Lodovico Mortara (1967), in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 388 s.; F. Cipriani, Le dimissioni del professore Mortara e i «germanisti» del preside Scialoja, in Scritti in onore dei Patres, cit., 23 s.; Id., Storie di processualisti e di oligarchi, cit..
[8] Da una di queste vicende sorse la controversia sulla quale si pronunciò la Corte di appello di Ancona nel 1906, con la celeberrima sentenza redatta dal suo primo presidente, Lodovico Mortara, sulla quale v., infra, par. 3.
[9] Sulle vicende connesse allo svolgimento del concorso alla cattedra di procedura civile dell’Università di Napoli del 1903-1905, che sancì il trionfo di Chiovenda e la sconfitta di Lessona, v. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 99-110, nonché Id., Le peripezie di Carlo Lessona, ecc., cit., 157-158.
[10] C. Lessona, Giurisprudenza animalesca, Città di Castello, 1906. L’opera è dedicata al medico Prof. Antonio Ceci, con la riconoscenza dell’autore per essere stato da lui salvato.
[11] Alludo, in particolare, alla lettera di “rallegramenti” del 7 giugno 1912, che Lessona spedì a Chiovenda dopo che a questi era stato tributato il premio Linceo per le scienze giuridiche. In questa occasione, dinanzi all’ennesimo trionfo di Chiovenda, Lessona non riuscì a dissimulare il suo disappunto e le “congratulazioni” si trasformarono in una malcelata insolenza, che Chiovenda non avrebbe dimenticato: su queste vicende, v. F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 167, ove è pubblicata la lettera che lo stesso Cipriani aveva trovato tra le Carte di Chiovenda a Premosello.
[12] C. Lessona, Giurisprudenza animalesca, cit., 20 e s..
[13] C. Lessona, Tribunali e medici, in Giurisprudenza animalesca, cit., 181 s.
Per l’analisi di questo saggio e per rilievi sulla sua modernità, anche in rapporto alle attualissime questioni che la responsabilità medica pone alla luce della nuova legge 8 marzo 2017, n. 24, ci si permette di rinviare a P. Spaziani, Carlo Lessona e la responsabilità medica (riflessioni semiserie ispirate da un cattivo oculista che esercitò nell’Antica Persia), in Riv. dir. proc., 2020, 1, 121 s.
[14] C. Lessona, Giurisprudenza animalesca, cit., 99-101.
[15] C. Lessona, Giurisprudenza animalesca, ult. cit..
[16] Su questo breve libro che Mortara pubblicò nel 1885, quando aveva soltanto 30 anni, ma che è fondamentale per ricostruirne la concezione dell’ordinamento e dei suoi fini, v., oltre agli autori citati nelle note seguenti, A. Pizzorusso, Lo Stato moderno e la giustizia nel pensiero di Lodovico Mortara, in Foro it., 1993, V, 19-20, 25-26.
[17] Così P. Calamandrei, Lodovico Mortara, ora in Opere giuridiche, X, Napoli, 1985, 156 s.
[18] L. Mortara, La lotta per l’uguaglianza, Prolusione al corso di diritto costituzionale fatto per incarico nell’Università di Pisa, 14 gennaio 1889, in Quaderni fiorentini, XIX, cit., 145 s.
[19] L. Mortara, La lotta per l’uguaglianza, cit., 160.
[20] L. Mortara, La lotta per l’uguaglianza, cit., 161.
[21] L’espressione è di S. Satta, Attualità di Lodovico Mortara, cit., 390. Sulle ragioni per le quali Mortara lasciò la cattedra universitaria per passare in magistratura v. l’ampia analisi di F. Cipriani, Le dimissioni del professore Mortara e i «germanisti» del preside Scialoja, cit., 23 s.
[22] S. Satta, Attualità di Lodovico Mortara, cit., 390-391.
[23] In Giur. it., 1922, I, 929 s.
[24] In Giur. it., 1923, II, 1 s.
[25] V. E. Ehrlich, I fondamenti della sociologia del diritto, Milano, 1976, 585, secondo cui «il diritto vivente è il diritto che, non formulato in proposizioni giuridiche, regola tuttavia la vita sociale».
[26] Nella dottrina istituzionale il principio di effettività è riferito, peraltro, non alle singole norme giuridiche, ma all’ordinamento nel suo complesso o, più precisamente, all’ istituzione, la quale assume connotati di giuridica validità nel momento in cui si afferma come effettivamente esistente e svolge in concreto le sue funzioni: v. Santi Romano, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1962, 49 s., secondo cui l’origine dell’istituzione, ed in particolare dello Stato, non è determinata da una norma preesistente, ma dal fatto stesso di esistere e di esercitare effettivamente il proprio potere.
[27] Nella moderna dottrina civilistica, il principio di effettività, con riguardo alle singole norme giuridiche e non all’ordinamento nel suo complesso, è accolto nella concezione di Cesare Massimo Bianca, secondo cui la norma, al pari dell’istituzione, «deve avere un connotato di effettività per potere essere qualificata come norma di diritto privato» (cfr. C.M. Bianca, Ex facto oritur ius, in Riv. dir. civ., 1995, 787 s.).
[28] C.M. Bianca, ult. cit., 796.
[29] C.M. Bianca, ult. cit., 799, 802, ove si rileva che l’importanza del diritto vivente giurisprudenziale emerge anche dai giudizi di costituzionalità, i quali assumono ad oggetto le norme ordinarie così come interpretate dalla giurisprudenza.
[30] App. Ancona, 25 luglio 1906, in Foro it., 1906, I, 1060 e in Giur. it., 1906, III, 389. Come si è già accennato (Supra, nota 4), la decisione della Corte anconetana fu emessa nell’ambito di una vicenda giudiziaria originata dalla richiesta di alcune donne marchigiane di essere iscritte nelle liste elettorali per le elezioni politiche e dall’accoglimento di questa richiesta da parte della commissione provinciale di Ancona. La decisione della commissione provinciale fu impugnata dal pubblico ministero il cui ricorso, però, fu respinto dalla Corte di appello, che affermò il principio di diritto enunciato nel testo. La decisione del presidente Mortara, tuttavia, non resse al successivo sindacato di legittimità, perché fu annullata da Cass. Roma, 15 dicembre 1906, n. 883, in Foro it., 1907, I, 73. Sulla vicenda, e per una compiuta analisi delle decisioni della Corte di appello di Ancona e della Corte di Cassazione di Roma, v. P. Curzio, Le maestre di Senigallia, 1-9, relazione tenuta a Roma, Corte di Cassazione, il 27 settembre 2013 in occasione del convegno “Donne in magistratura 1963-2013 … 50 anni dopo”.
[31] Questa distinzione, comune alla scienza del diritto pubblico del tempo, è ribadita, proprio in nota alla sentenza della Corte anconetana del 1906, da un - più sconcertato che perplesso - V. E. Orlando, in Foro it. 1906, I, 1060, il quale tiene a precisare che i diritti di libertà (comuni anche alle donne), appartengono «ad una categoria affatto diversa da quegli altri, che tendono ad assicurare al cittadino una partecipazione effettiva al governo dello Stato» e che spettano ai soli uomini. L’autorevolezza dell’autore della critica (Vittorio Emanuele Orlando è considerato l’iniziatore di quell’opera di fondazione della moderna scienza italiana del diritto pubblico che avrebbe avuto come continuatori giuristi del calibro di Federico Cammeo, Oreste Ranelletti e Santi Romano: cfr., ad es., M.S. Giannini, Federico Cammeo il Grande, in Quaderni fiorentini, XXII, 1993, 11) rispecchia quella dell’estensore della sentenza: lo stesso Orlando, nella nota in esame, tributa a quell’estensore l’onore di riconoscerlo come «uno dei più forti giuristi dell’Italia contemporanea». La decisione della Corte anconetana costituisce pertanto occasione di confronto tra due autorevolissime ma antitetiche concezioni dell’ordinamento: la prima, fondata sulla coerenza sistematica e sulla rigorosa fedeltà alla proposizione normativa scritta, ribadisce la distinzione tra i diritti di libertà (che dipendono dagli «stadii di civiltà» e spettano sia agli uomini che alle donne) e i diritti politici (che dipendono dalle «forme di governo» e spettano solo agli uomini); la seconda, movendo dall’esigenza di superare la formulazione scritta delle norme e la stessa coerenza sistematica, in funzione della tendenza dell’ordinamento ad assicurare l’uguaglianza tra le persone, accede ad una nozione ampia di diritto politico, comprensiva dei diritti fondamentali, che non possono non essere comuni ai due generi.
[32] L. Mortara, Manuale della procedura civile, I, Torino, 1887, 6.
[33] S. Satta, Attualità di Lodovico Mortara, cit., 390.
[34] Vittorio Scialoja fu il massimo esponente di quella scuola roman-germanista che, movendo dalla riaffermazione della perdurante attualità del diritto romano e dalla asserita necessità di costruire, traendo ispirazione dalla scienza giuridica tedesca, un sistema fondato su concetti di teoria generale, destinato a sovrapporsi e a prevalere sulla lettera della legge, mirava a far recedere le istanze di rinnovamento politico e sociale alle quali si era aperta, nei suoi aspetti più progressisti, la giovane legislazione post-unitaria. Sul tema v. F. Cipriani, Vittorio Scialoja e la maiuscola reverenziale di Giuseppe Chiovenda, ora in Scritti in onore dei Patres, cit., 123 s., secondo cui Vittorio Scialoja «fu essenzialmente un politico del diritto», il cui ruolo «fu di gestire e controllare dall’alto il settore giuridico delle Università italiane, sì da assicurare che la scienza giuridica del giovane Regno d’Italia si evolvesse all’unisono con la linea politica dei potentes del tempo».
[35] V. M. Taruffo, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, in Riv. trim dir. proc. civ., 1986, 1133-1168, particolarmente 1140, secondo cui il sistema chiovendiano poggiava su «concetti generali ed astratti, a livello di teoria generale, in ipotesi destinati ad avere validità assoluta, e comunque tali da sovrapporsi alla realtà del diritto vigente».
[36] Così G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Napoli, 1923, 959.
[37] Così P. Calamandrei, Recensione a C. Lessona, Trattato delle prove in materia civile, I, in Mon. trib., 1914, 280.
[38] La notizia che negli anni universitari Lessona era stato discepolo dello storico Cesare Nani ci viene data da P. Grossi, Stile fiorentino, Milano, 1986, 76 e da F. Cipriani, Le peripezie di Carlo Lessona, ecc., cit., 150, 152,
[39] Questa notizia, già data da V. E. Orlando, cit., 1060, nella nota in calce alla sentenza della Corte anconetana, è riportata da P. Curzio, Le maestre di Senigallia, cit., 4, che ne trascrive il testo. Mortara, precisamente, dichiarò di non avere «entusiasmo per l’estensione del voto alle donne», sembrandogli «non ancora matura la preparazione della gran maggioranza di esse a questa importante funzione», ma tenne a precisare che «chiamato, però, come magistrato, a decidere la questione», si era dovuto «spogliare di ogni prevenzione personale per esaminare serenamente il testo della legge».