L’essere magistrato oggi: la prospettiva storica e l’itinerario attuale: una testimonianza[1]
Il mio intervento è una mera testimonianza della mia intensa, oserei dire appassionata, forse anche faziosa, partecipazione al dibattito ideale che ha coinvolto il corpo della magistratura ordinaria nei quasi cinquant’anni di mia attività giudiziaria. Sta a voi valutare se ed in che misura siano attuali gli interrogativi di cui vi farò cenno; e individuare le risposte che si attagliano alle vostre sensibilità, ai vostri tempi[2].
Ho partecipato ad un dibattito in cui hanno avuto un importante ruolo le correnti; ed oggi sappiamo che il termine stesso di “corrente” è percepito come negativo come qualcosa di disdicevole; ma per molti anni le correnti sono state uno dei fattori determinanti del nostro modo di “essere magistrati”. Sono entrato in magistratura nel 1967, per tutti o quasi i vincitori dei concorsi di quegli anni aderire ad una corrente veniva spontaneo, appariva come una modalità naturale di essere partecipi di una discussione che coinvolgeva l’essenza della nostra professione, che faceva parte del nostro impegno professionale.
Del resto, il dibattito, la polemica cui ho appassionatamente partecipato non rimaneva confinata nell’iperuranio delle mere teorie filosofiche; ha improntato di sé incisivi profili pratici e latu sensu “politici”, ha plasmando una categoria professionale che in quel cinquantennio ha svolto[3] (o è parsa svolgere) un ruolo protagonista nella trasformazione sociale del Paese[4].
Nel 1967 il dibattito interno del corpo giudiziario era stato reso più intenso ed incisivo dalla costituzione nel 1964 di un raggruppamento di magistrati, MD che si qualifica “di sinistra” e che raccoglieva e raccoglie una parte numericamente importante del corpo giudiziario (all’epoca circa il 25/30%). Il dibattito giunse al calor bianco quando nel 1969[5] -a seguito della approvazione da parte della assemblea di MD di un ordine del giorno di riprovazione di alcune interventi giudiziari ritenuti lesivi della libertà di manifestazione del pensiero- MD si è divisa in due[6], una parte più moderata; e l’altra forse “più coerente” che coniugava la sua “scelta a sinistra” con interventi di riprovazione su provvedimenti giudiziari, talvolta su interi indirizzi giurisprudenziali.
Per altro verso, il restante 70% della magistratura fece professione di “apoliticità” ed, in particolare condannò il fatto che md esprimesse giudizi anche negativi su provvedimenti giudiziari sottoscritti da colleghi.
Su questa linea si collocarono in termini particolarmente polemici due raggruppamenti: la ormai da tempo scomparsa Unione Magistrati Italiana (UMI) cui aderiva la quasi totalità degli alti gradi e della Corte di Cassazione, che aveva come punto qualificante la conservazione del meccanismo di promozioni interne (con concorsi e scrutini) e Magistratura Indipendente che propugnava ancor più dell’UMI la apoliticità del giudiziario ma chiedeva l’abolizione della carriera economica ed in genere l’adozione di un sistema di “promozioni a ruoli aperti”. Cioè, in buona sostanza, il sistema oggi vigente[7].
Personalmente io mi iscrissi dopo breve riflessione ad MI. Ed il confronto dialettico tra MD ed MI costituisce, a mia opinione, lo ribadisco, soggettiva, uno degli assi portanti del dibattito ideale interno al corpo giudiziario; quale si è andato sviluppando nel tempo: a volte dando luogo a nette contrapposizioni, anzi duri scontri, a volte invece a forme di convergenza e collaborazione; nell’ambito di un complesso rapporto in cui hanno svolto un rilevante ruolo anche altre aggregazioni ideali o “correnti” che dir si voglia. Mi scuso se per ragioni di tempo sono costretto a non affrontare neppur di sfuggita un quadro più completo, meno sincopato, di questa dialettica .
Per parte mia, constato (rectius credo di poter testimoniare) che le oscillazioni nel rapporto MI - MD non sono state occasionali o opportunistiche ma si sono inserite in un’ evoluzione della stessa concezione del modo di essere della giurisdizione.
Per quel che riguarda l’essenza della nostra funzione, al momento della entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la legge di ordinamento giudiziario (e il potere che tale ordinamento gestisce) poggiava su una precisa giustificazione logico-politica: nel 1948 era ancora diffusa l’opinione che primaria fonte del diritto sia esclusivamente la legge dello Stato, interpretata da una corporazione di saggi con al vertice la Cassazione: era altresì prevalente la concezione secondo cui l’interpretazione della legge è essenzialmente un’attività tecnica in cui ci si affina con la riflessione sia pratica sia di studio.
Una visione non priva di agganci con la realtà e che ha consentito alla magistratura di mantenere una certa indipendenza nel periodo fascista. In simile quadro è logico che, a somiglianza di quanto accade nelle università, la elite di coloro che si presume possiedano in grado sommo la capacità tecnica, in quanto cooptati e promossi nella elite stessa attraverso esami scritti, concorsi, scrutini, governino, sia pur blandamente, i non promossi e i non ancora promossi; occupino i posti apicali compresa la Cassazione. Il giudizio su questo sistema costituisce il forse meno attuale dei quesiti che ereditate da noi.
A me pare che la visione di cui ho riferito sia stata messa in crisi da un mutamento delle fonti del diritto, da una evoluzione sociale che di riflette anche nella magistratura. Ne è conseguita una riforma anche del sistema di composizione e di elezione del Consiglio Superiore, fondata sul principio del pari valore di ogni voto e perciò sulla prevalenza nel Consiglio dei componenti eletti dai (ben più numerosi) giudici di merito.
Il mutamento dei rapporti di forza e dello stesso “clima” all’interno della magistratura ordinaria è avvenuto sotto la spinta di molteplici fattori; ci fu certo una spinta sindacale: il desiderio dei giovani magistrati di allora ad avere assicurata una progressione economica senza patemi, a svincolarsi dal metus (a dire il vero piuttosto modesto) dei superiori, ma anche e forse soprattutto il mutare profondo nella concezione della applicazione della legge e nello sviluppo del diritto vivente cagionato dalla nascita (nel 1956) e dall’affermarsi della Corte Costituzionale; la Cassazione tentò di resistere a questo mutamento anche dichiarando manifestamente infondate la gran parte delle eccezioni di legittimità costituzionale che invece i pretori accoglievano, con l’unico risultato di sottolineare il “ponte” creatosi fra Corte Costituzionale e “giovane magistratura”[8]. Ecco un altro bel tema di riflessione.
Ma il profilo essenziale che ha, a mio avviso, mutato i termini della stessa dialettica politicità- apoliticità è stato un nuovo rapporto creatosi fra il giudice e il diritto. E in conseguenza di questo nuovo rapporto, mi è parso, mi pare sia scomparsa (o divenuta quasi impercettibile) la distinzione fra giudici “superiori” e giudici “inferiori”.
Ritengo che il ricorso ai principi contenuti nella Costituzione, nella Carta Europea dei Diritti dell’ Uomo, ed ora della Carta Europea dei Diritti, rende sempre più “apicale” l’operato dei singoli magistrati anche di merito, anche di primo grado… In questo intreccio di competenze e di giudizi , la giurisprudenza viene, secondo me (ma rispondere tocca a voi), in sostanza ad affiancarsi alla legge come fonte del diritto. Si realizza una democrazia giudiziaria[9] che integra e talvolta supera la democrazia elettorale[10].
Le magistrature oggi a mio credere (ma voi cosa ne pensate?) non si pongono come mere esecutrici delle leggi[11]; sono una componente della dinamica anche politica della società, in quanto attingono spesso la soluzione del caso concreto dai “sommi” principii contenuti nelle varie carte costituzionali (Costituzione, CEDU, Carta Europea dei diritti…); principii che per loro natura si prestano a molteplici interpretazioni[12]. Inoltre la giurisdizione deve dipanare le incertezze proprie della odierna legislazione italiana quali emergono dalla atecnicità del linguaggio legislativo, dalla coesistenza di norme diverse di dettaglio che mal si intersecano[13], dal definitivo abbandono della “codificazione”; intesa come creazione di organici testi legislativi fondati su un linguaggio coerente ed uniforme; dalle opinabilità nella individuazione delle “presunzioni” e degli “indizi”. E mi par ovvio che , nella rielaborazione di un quadro legislativo frammentato e complesso, il giudice venga ulteriormente ad esercitare un spiccata discrezionalità.
Possiamo dunque forse prender atto che la magistratura (rectius “le magistrature”) concorrono alla formazione del sistema giuridico con un apporto largamente discrezionale e creativo, combinando i dati normativi con valori provenienti dalla realtà sociale, e che non possiamo che definire come “politici”, diversi ma pericolosamente affini ai valori che animano, o dovrebbero animare, la “politica dei partiti”. E qui il punto interrogativo che butta la palla nel vostro campo è -di nuovo- doveroso.
Mentre cioè la discrezionalità del medico si nutre di scelte –almeno nella grande maggioranza dei casi- estranee alla dialettica ideale politica, la discrezionalità del magistrato si radica invece proprio in tale dialettica.
La modifica di un indirizzo giurisprudenziale[14]; l’abbandono di una presunzione prima utilizzata come pacifica; l’accettazione di una diversa presunzione, l’apertura di nuovi “filoni di indagine”, scandiscono le tappe di trasformazione di una società talvolta più di una riforma legislativa.
La politica giudiziaria e la politica dei partiti si differenziano certo per il loro oggetto (più volta all’evoluzione complessiva del sociale la politica giudiziaria più attenta al contingente la politica dei partiti), ma anche e soprattutto per il metodo, che mai come qui è sostanza; e proprio il metodo suscita -secondo me- l’esigenza che i magistrati siano “apolitici” nel senso che occorre siano al di fuori di ogni sospetto di collegamento con la “politica dei partiti”; diano la garanzia di decidere secondo la logica processuale; e non la logica di un gruppo anche di un gruppo di magistrati.
Nella politica dei partiti la elaborazione degli indirizzi avviene in forma pubblica nel dibattito collegiale, nella contrapposizione esplicita di visioni differenti e magari contrapposte. Nella politica giudiziaria la dialettica dei collegi non riflette proporzionalmente le ideologie presenti nel Paese, e la gran parte delle decisioni è monocratica. Tocca dunque al singolo giudice spogliarsi delle sue (legittime) convinzioni in ordine alla politica dei partiti e tentare di cogliere il complesso gioco di valori presenti nella legislazione e nelle aspirazioni sociali; ciascuno di noi deve dunque essere insieme maggioranza e opposizione. Il dubbio è lo scandaglio per esplorare la complessità del reale e dei suoi valori. Non solo è anche il presupposto ideale che ci deve spingere a riconoscere i limiti propri della nostra discrezionalità a prender atto che vi sono disposizioni talmente chiare da sfuggire alla “ortopedia giudiziaria”, pur se esercitata con gli strumenti della “interpretazione evolutiva”, della “interpretazione costituzionalmente orientata”, etc.
Solo il dubbio, frutto di una coscienza dei propri limiti istituzionali, legittima questo corpo di funzionari che hanno come unici titoli la vincita di un concorso per esami spesso lontano nel tempo, ed una serie di valutazioni positive formulate da loro stessi, a determinare la vita dei loro simili (ad affermare se vogliamo formulare un esempio che non suscita emozioni che la tal presunzione è grave e precisa e può giustificare un pepato accertamento dei redditi).
La dialettica che nella politica dei partiti dà – o può legittimamente dar luogo- ad un aspro e pubblico confronto fra soggetti diversi, nutrito se necessario di sana faziosità, nel giudice deve essere dialettica interiore, capacità di scorgere le ragioni di valori apparentemente contrapposti, coscienza della relatività delle proprie scelte. In altre parole, diviene dubbio, intendendo per dubbio non la scettica indifferenza, ma la coscienza che il vero e il giusto non sono privilegio ed appannaggio di nessuno, la consapevolezza che raramente il giudizio è frutto di una solare affermazione di verità, più spesso è laica composizione di legittimi valori contrapposti. Il magistrato anche del pubblico ministero deve cioè riassumere in sé maggioranza e opposizione. O per usare il felice paragone di Calamandrei avere in sé due avvocati in contraddittorio. Del resto la stessa terzietà del giudice viene meno nella sostanza se non nella forma quando il giudice non dubita, e quindi non incarna la parità delle parti. E il dubbio deve essere uno stimolo e non un sedativo.
Il pluralismo presente nel Paese si specchia – secondo me- nella magistratura non perché i singoli magistrati aderiscano a divergenti visioni politiche (cosa pur vera); ma parchè ciascun magistrato ha il dovere (ovviamente non giuridico ma morale) di sforzarsi di percepire le ragioni di tutti traendone l’humus per la indispensabile sintesi nel pqm decisionale. Nella consapevolezza che la trasformazione del dubbio in certezza sia pur contingente e meramente operativa è l’essenza della nostra bella e terribile professione.
Proprio il dovere del dubbio rende a mio avviso a dir poco inopportuno che le correnti della magistratura emanino documenti in cui si prende posizione sulla interpretazione ed applicazione della normativa vigente. Gli ordini del giorno, le delibere congressuali sono infatti strumenti per fugare i dubbi e dare certezze e dunque vengono a sovrapporsi agli atti giurisdizionali; ingenerando negli utenti della giustizia il naturale timore che il giudizio finale non sia frutto della dinamica della camera di consiglio, della riflessione individuale del giudicante, ma sia in qualche misura precostituita fuori dell’aula di udienza; timori non cancellabili dagli attestati di solidarietà rilasciati dal CSM o dalla ANM.
In questo quadro ideale MI, cui ho aderito nel lontano 1967 si professa apolitica[15] e moderata[16].. Respinge e contesta il ruolo politico delle correnti. Anzi ad essere precisi asserisce di respingere e contestare il ruolo politico delle correnti[17].
Ma… “contra factum non valet argumentum”.
Non può essere del tutto al di fuori della politica un dibattito ideale in cui uno dei partecipi (Magistratura Democratica - Area) rivendica con orgoglio un scelta politica “di campo” affermando che da tale scelta discendono non irrilevanti conseguenze operative. E naturalmente la natura stessa del dibattito politico nella magistratura muta significato e prospettiva a seconda del contenuto concreto che MD ed oggi Area traggono dalla loro politicità di sinistra.
Mi pare inutile esporre in dettaglio le complesse polemiche cui hanno dato luogo , all’interno ed all’esterno del corpo giudiziario, le prese di posizione di MD e successivamente MD-Area su questioni politiche con rilevanti risvolti giudiziari.
Mi limito a osservare come in un primo momento le posizioni in concreto assunte da MD abbiano suscitato e dato luogo a scontri aspri e contrapposizioni frontali[18]; e come queste contrapposizioni si siano andate attenuando quando nella prassi di MD sono entrate "direttrici di marcia" che coincidevano con spinte presenti in tutto il mondo occidentale[19].
La vera svolta si concretò quando i colleghi di Magistratura Democratica o comunque “di sinistra” si schierarono in prima fila nella lotta ai terroristi anche rossi e pagarono un alto contributo di sangue.
A ben vedere, non vi è ragione perché la “apolitica” MI non collabori con la “politica” MD ove questa politicità si esplichi in un impegno su valori “inclusivi”, o quali il contrasto alla corruzione ed alla criminalità, organizzata e non. La convergenza di MD ed MI in una certa fase della vita della Associazione Nazionale Magistrati, in cui ho avuto l’onore di presiedere la ANM si è costruita intorno alla convinzione che il problema dell’Italia che la magistratura deve concorrere a risolvere non è tanto scegliere fra le varie interpretazioni della legge; è applicare la legge. Non è tanto plasmare “nuovi diritti”, è assicurare i diritti essenziali e primordiali soffocati dal peso anche economico della criminalità organizzata e della corruzione.
Oggi però la sinistra giudiziaria mi sembrerebbe nuovamente instradata ad assumere posizioni “divisive” che rischiano di coinvolgere la magistratura nella frattura che si è creata nel Paese; penso al tema della immigrazione. Ma questo è un ulteriore interrogativo per una riflessione di cui voi siete gli attori.
Ogni generazione si trova coinvolta in una miriade di problemi, uno di essi è plasticamente evidenziato dalla circostanza che per timore di un contagio non abbiamo la possibilità di incontrarci di persona. Questo è però un problema che possiamo sperare anzi essere ragionevolmente sicuri che la tecnica, la scienza risolvano mettendo a punto un adatto vaccino.
Vi sono però anche problemi di natura sociale, politica, morale che, a mio avviso si ripresentano ad ogni generazione sia pure in forme e con modalità diverse; a cui ogni generazione, sovente ogni individuo, elabora una sua risposta. In un reiterato sforzo che Camus vede espresso nel mito di Sisifo, e lo induce a scrivere “anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un essere umano. Dobbiamo immaginare Sisifo felice”.
Prendiamo in considerazione il problema che oggi forse in maggior misura coinvolge la funzione sociale della magistratura:
È possibile conseguire una ragionevole “certezza del diritto”?
noi giuristi, in specie noi giudici, dobbiamo credere che la risposta sia positiva perché questa fiducia attribuisce dignità di scienza alle nostre riflessioni; ci da’ la speranza di comporre i conflitti in una risposta comune indicata con l’ausilio della scienza giuridica.
Ma dalla riflessione del passato ci giunge anche il cinico insegnamento di Azzeccagarbugli che ci propone la sua risposta: “a ben studiare le leggi nessuno è colpevole” e soprattutto, e questo è il più grave, per meglio dire agghiacciante, “nessuno è innocente”.
Speriamo ed operiamo affinchè Azzeccagarbugli non abbia ragione.
[1] Relazione tenuta all’incontro del 15 gennaio 2021 della Scuola superiore della magistratura. Verso le funzioni nella prima sede.
[2] A comporre il motore ideale che mi ha coinvolto sono state donne ed uomini spesso di spiccata personalità, con un forte sentimento di indipendenza, non agevolmente inquadrabili in schemi rigidi e precostituiti. Perciò le indispensabili semplificazioni proprie di ogni ricostruzione storica degli eventi non consentiranno mai di dare una visione completa ed esaustiva di questi anni di vita della magistratura. Ed è ovvio come le testimonianze di coloro che -come me- hanno operato all’interno del “continente giustizia” siano impregnate della visione soggettiva da cui ciascuno di noi prende le mosse.
[3] Ho scritto “svolto” e usando questa parola ho dato corpo ad una sensazione della cui corrispondenza al vero sovente ho dubitato; ho implicitamente dato risposta al primo dei dubbi che costelleranno la mia breve testimonianza: “è proprio vero che la magistratura italiana ha condizionato la trasformazione della nostra società, pensiamo alle inchieste di “mani pulite”? o invece non è stata la trasformazione, a livello mondiale, della realtà sociale a condizionare la vita interna del corpo giudiziario?”. Siamo stati, come ci piace credere, i motori (positivi o negativi) di una nuova realtà sociale o siamo stati i termometri misuratori di questa realtà?; forse anche gli inconsapevoli strumenti nelle mani di qualcun altro?.
[4] Per qualche dato e qualche considerazione in più rinvio al mio scritto: Le “correnti” della Magistratura Italiana: centri di potere? Espressione politica? Strumenti di dibattito ideale?– il ruolo di Magistratura Indipendente, in https://www.rivistaildirittovivente.it/attache/file/Il_diritto_vivente_n._2_2020_DEF.pdf
[5] Tanto “bianco” da costituire benzina nei motori di MI che alle successive elezioni del CSM, favorita da una legge elettorale folle (come di consueto le leggi elettorali del CSM), conquistò tutti i seggi assegnati a magistrati. Mi sia contenuto rinviare al mio scritto sulla legge elettorale del CSM pubblicato sul Foro Italiano.
[6] Ritengo utile riportare l’ordine del giorno (che è pubblicato anche sul sito di MD con la copia del manoscritto originale):
"L'Assemblea Nazionale di M.D. riunita a Bologna il 30 novembre 1969, di fronte a ripetuti recenti casi che hanno messo in pericolo in vari modi le libertà costituzionali di manifestazione e diffusione del pensiero, e provocato allarme e apprensione nell'opinione pubblica e nella stampa (la quale ha rilevato che i provvedimenti adottati hanno creato un clima di intimidazione particolarmente pesante verso determinati settori politici ai quali non può essere negata quella libertà);
esprime la propria profonda preoccupazione di fronte a quello che può apparire come disegno sistematico, operante con vari strumenti ed a diversi livelli, teso ad impedire a taluni la libertà di opinione, e come grave sintomo di arretramento della società civile:
chiede che i poteri dello Stato, ciascuno nell'ambito delle proprie attribuzioni, si impegnino con decisione per rimuovere le origini di tale fenomeno, mediante riforme legislative (abrogazione dei reati politici di opinione) e cambiamento di indirizzo nell'azione svolta, con particolare riguardo all'attività di p.s. di vigilanza sull'esercizio delle tipografie;
[7] L'UMI non riuscì ad impedire la evoluzione in senso egualitario delle leggi sull'ordinamento giudiziario avvenuta attraverso le "famose" leggi "Breganze" (25 luglio 1966, n. 570 sulla nomina a magistrato di Corte d'Appello) e "Breganzone" (20 dicembre 1973, n. 831, sulla nomina a Magistrato di Cassazione) che hanno abolito esami e scrutini prevedendo promozioni (ad essere precisi, aumenti di stipendio) “a ruolo aperto”, cioè in numero eccedente rispetto ai posti effettivamente disponibili. Si può ricordare che a favore della carriera si pronunciò due volte anche l'Assemblea Generale della Corte di Cassazione riunita il 26 aprile 1957 e il 26 aprile 1962 su convocazione del Primo Presidente (nel 1962 Silvio Tavolaro, che aveva redatto il documento del 1957).
[8]Con un pizzico (e forse qualcosa più di un pizzico) di fantasia si può immaginare un audace parallelo fra questa passata convergenza di giudici “inferiori” con la Corte Costituzionale, scavalcando la Cassazione, e recenti prese di posizione della Cassazione che ha interpellato la Corte di Giustizia della Unione Europea scavalcando la Corte Costituzionale. Cfr. l’ordinanza 19598 del 18 settembre 2020 con cui le Sezioni Unite della Cassazione hanno interpellato la Corte di Giustizia della Unione Europea chiedendone l’intervento per inserire nel “diritto vivente” una interpretazione dei limiti del sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato più ampia di quella indicata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 16/2018; in modo di consentire alla Cassazione di sindacare se le sentenze del Consiglio di Stato ledono il diritto comunitario. L’ordinanza 19598 orgogliosamente rivendica il ruolo di Corte Suprema italiana riconosciuto alla Cassazione dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario 12 /1941 secondo cui “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia, assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unita', del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”.
[9] Il ruolo “creativo” della giurisprudenza è del resto attestato dalla giurisprudenza della CEDU: si pensi ai casi “Contrada” e “Punta Perotti”.
[10] Si configurano due forme di democrazia: quella parlamentare, ove i cittadini costituiti in corpo elettorale esercitano un ruolo primario e tendenzialmente assoluto, e quella giudiziaria in cui i cittadini non svolgono direttamente un ruolo attivo ma soltanto stimolano, con ricorsi, azioni collettive e quant’altro, i giudici a procedere sulla via del progresso (rectius di ciò che il ceto ideologico dominante chiama progresso).
[11] Non mi nascondo che la dottrina tradizionale secondo cui la sentenza non è altro che l’esatta attuazione della volontà del legislatore offre facili argomenti per la difesa della corporazione giudiziaria. In fondo, se il provvedimento giudiziario non è altro che il frutto di automatica applicazione della legge, criticare una sentenza priva di macroscopici errori è assurdo, è come prendersela con un referto chimico.
[12] Con il nascere di fonti del diritto superiori alla legge (Costituzione, CEDU, Carta Europea… ) si è invertito il rapporto tradizionale fra principii e legge. In passato i principii esistevano in quanto recepiti e plasmati dalla legge; oggi invece i principii hanno assunto vita propria e sono i principii a condizionare l’esistenza e l’interpretazione della legge.
[13] In particolare nel diritto tributario si assiste ad una vera e propria pioggia di norme specifiche (in genere qualificate come “interpretative” e dunque retroattive) che svolgono un ruolo simile a quello proprio delle massime della cassazione cui si contrappongono. Sovente poi la Cassazione “si ribella” e qualifica tali norme come innovative e quindi non retroattive; una volta è anche accaduto che il legislatore abbia ribadito la sua posizione con una ulteriore norma ancora più esplicita, la Cassazione abbia sollevato eccezione di illegittimità costituzionale, respinta dalla Corte Costituzionale con sentenza 21 luglio 2020, n. 158
[14] Si pensi agli effetti dirompenti che ha avuto l’accoglimento da parte della Corte di Cassazione del “teorema Falcone”, cioè della presunzione secondo cui si ritiene che tutti i delitti di mafia commessi in un’area siano addebitabili al boss di quell’area. In probabile reazione a questo mutamento di giurisprudenza vennero uccisi Lima, Falcone e Borsellino.
[15] L’argomento richiederebbe una ampia ed articolata riflessione, qui desidero solo ribadire la mia opinione secondo cui oggi la giurisdizione è una componente primaria della dinamica politica della società, in quanto attinge spesso la soluzione del caso concreto dai “sommi” principi contenuti nelle varie carte costituzionali (Costituzione, CEDU, Carta Europea dei diritti…); principi che per loro natura si prestano a molteplici interpretazioni. Pertanto riferisco l’attributo della “apoliticità” alla corrente denominata MI e non alla giurisdizione.
[16] Per moderazione intendo non la mera pacatezza o l’indifferenza, bensì la consapevolezza del fatto che le società poggiano su una molteplicità di valori fra loro non coincidenti e talora addirittura contrapposti; e quindi la consapevolezza del relativismo insito in ogni scelta di carattere non religioso.
[17] Md ha ribaltato l’accusa sostenendo che sotto il velo della “apoliticità” spesso si sono assunte decisioni ispirate da concezioni politiche conservatrici se non reazionarie.
[18] I momenti di scontro più aspro fra "apolitici" e "politici di sinistra" coincisero con l’inizio del terrorismo. L’omicidio Calabresi (17 maggio 1972), il rapimento di Mario Sossi (18 aprile 1974), ed il conseguente omicidio (8 giugno 1976) del procuratore generale di Genova Francesco Coco, che si era virilmente opposto allo “scambio” fra Sossi e alcuni brigatisti detenuti, attizzarono il clima di sospetto e di frattura . A molti di noi, magistrati “non di sinistra”, sembrò che gli attacchi di Magistratura Democratica a Calabresi, Sossi e Coco avessero, certo involontariamente, concorso a formare un clima culturale prodromico di violenze; dopo l’omicidio di Francesco Coco, Magistratura Indipendente denunciò “la responsabilità morale di quanti, a qualsiasi livello e, purtroppo, anche all’interno dell’ordine giudiziario, hanno contribuito con faziose e distorte polemiche a fornire una sorta di ‘alibi psicologico’ ai barbari uccisori”.
[19] E', ad esempio, molto difficile sceverare quale parte della giurisprudenza che ha via superato il concetto di "spettacolo osceno" abbia rispecchiato un'adesione alla "rivoluzione sessuale rossa"; e quale invece sia semplicemente frutto della trasformazione edonistica e libertaria della nostra società. Certo i giudici che condannarono per oltraggio al pudore il regista del film "Ultimo tango a Parigi" erano di orientamento tradizionalista; ma non è vero il contrario, cioè che coloro che ritengono leciti i film di Bertolucci o di Pasolini siano tutti bolscevicchi Oggi nessuno si scandalizzerebbe più leggendo le interviste che pubblicate nel 1966 sul giornalino del Liceo "Parini" di Milano scatenarono un terremoto, le cui ripercussioni travolsero il Presidente della Associazione Nazionale Magistrati (reo di aver preso le distanze dal sostituto che istruiva il relativo processo penale). Per altro verso, accadeva - per fortuna- che specie nelle procedure ove era decisivo l'accertamento dei fatti, giudici comunemente indicati come "di sinistra" ricostruissero gli eventi in termini non graditi alla sinistra politica. Né sta scritto da nessuna parte che chi riconosce i diritti dei lavoratori in fabbrica sia necessariamente un eversore.
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