Sommario: 1. L’area “grigia” tra violazione della regola deontologica e tipizzazione dell’illecito. 2. Le decisioni del 2018 sulle fattispecie disciplinari di più comune applicazione: a) Ritardi nel deposito di provvedimenti. 3. Segue. b) i casi di ritardata scarcerazione (lett. g). 4. L’abuso dei social: a) la violazione dei doveri di correttezza, equilibrio ed imparzialità. 5. Segue. b) la violazione dei doveri di riserbo.
PARTE I
1. L’area “grigia” tra violazione della regola deontologica e tipizzazione dell’illecito.
La tipizzazione degli illeciti disciplinari per effetto del d. l.gs. n. 109 del 2006 ha realizzato una parziale trasposizione delle previsioni deontologiche in fattispecie tipiche di illecito, con una naturale contrazione dell’area delle condotte disciplinarmente rilevanti in ossequio alle disposizioni del d.lgs. 23 febbraio 2006 n. 109, ed in particolare delle fattispecie di illecito funzionale (art. 2), al di là dei casi in cui la condotta assuma rilevanza perché costituente reato (art. 4, comma 1, lett. d)).
Infatti, l’art. 1 del d. lgs. n. 109 del 2006 richiama il magistrato al rispetto dei doveri di “imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona” nell'esercizio delle funzioni e, al di fuori di esse, vieta “comportamenti, ancorchè legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell'istituzione giudiziaria”. Le violazioni dei citati obblighi funzionali e di condotta extrafunzionale rileva sul piano disciplinare (“è perseguibile”) sono nei limiti delle fattispecie tipizzate di cui agli articoli 2, 3 e 4 del medesimo d. lgs.
Il riferimento necessario è alle disposizioni del codice etico dell’A.N.M., approvato il 13 novembre 2010, che, ad esempio, all’art. 6 (“rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione di massa”) richiama il magistrato ad una corretta interlocuzione con la stampa, ad evitare una sovraesposizione mediatica ed il “protagonismo” nella gestione delle inchieste allo stesso affidate, ovvero la “costituzione o l'utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati” con la stampa in relazione alla attività del proprio ufficio, e, pur mantenendo fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, dispone che il magistrato debba ispirarsi “a criteri di equilibrio, dignità e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa, così come in ogni scritto e in ogni dichiarazione destinati alla diffusione”[2].
La citata disposizione di cui all’art. 6 del codice etico assume rilievo perché costituisce, sul piano della regola astratta, una trasposizione dei doveri di equilibrio e sobrietà delle condotte del magistrato, espressi anche in termini più rigorosi delle ipotesi di illecito tipizzate, paventando il rischio che manifestazioni private, quali scritti od immagini (commenti, critiche, post, blog, apposizione di simboli di assenso, ma anche atteggiamenti o momenti della propria sfera privata) pubblicate su social media dotati di elevata diffusività ed uso comune (Facebook, Instagram ecc.), non ispirate a criteri di equilibrio, dignità e misura compromettano l’immagine del magistrato e della funzione giudiziaria, sia sotto il profilo della credibilità sia sotto quello della imparzialità.
Prima dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 109 del 2006 la giurisprudenza disciplinare attribuiva alle disposizioni del codice etico una essenziale funzione di supporto al generico precetto di cui all’art. 18 del r.d.lgs. n. 511 del 1946.
Per effetto della tipizzazione dell’illecito le regole deontologiche espresse dal codice etico hanno assunto una rilevanza soltanto indiretta e mediata nella materia disciplinare, trovando spazio solo ove coincidenti con le fattispecie tipiche di illecito previste dal d.lgs. n. 109 del 2006. Ciò, al di fuori della rilevanza ai fini della irrogazione delle sanzioni in sede associativa ai sensi degli artt. 9, 10 e 11 dello Statuto dell’A.N.M. eventualmente irrogate dal Comitato direttivo centrale, con eventuale ricorso all’assemblea generale, sulla base dell’azione esercitata dal Collegio dei probiviri.
Il disallineamento tra regola deontologica ed area dell’illecito tipizzato si manifesta in particolar modo in tema di illeciti extrafunzionali, ove si è venuto a creare un ampio spazio di non perseguibilità delle condotte di violazione del prestigio personale ed istituzionale – in precedenza disciplinarmente rilevanti ex art. 18 del r.d. lgs. n. 511 del 1946 - non specificamente contemplate nelle ipotesi tassative di cui all’art. 3 del d. lgs. ed, ovviamente, non suscettibili di estensione in via di analogia.
Del resto, ai fini della configurabilità dell’illecito tipico le norme del codice etico dell’A.N.M. hanno perso anche il limitato ruolo di elemento interpretativo dei limiti di configurabilità delle violazione dei doveri del magistrato.
La giurisprudenza di legittimità era già approdata ad una separazione tra il piano della violazione etico-professionale e quello della responsabilità disciplinare, per la diversità ontologica dei due rispettivi precetti, pur se la violazione della regola etica può soprapporsi con quella giuridico-disciplinare.
Infatti, in talune ipotesi la violazione del codice etico può costituire l'indice o il riscontro di una violazione di regole disciplinari e ciò si ha certamente quando la violazione del precetto etico comporti la lesione della indipendenza, imparzialità e correttezza del magistrato e di uno dei doveri espressi dall’art. 1 del d. lgs. n. 109 del 2006. La violazione delle norme etiche non attinge alla soglia dell'illecito disciplinare, invece, quando la prescrizione riguarda, ad esempio, obblighi di aggiornamento professionale e di oculata utilizzazione delle risorse – che non ridondino in responsabilità erariale. La sanzione disciplinare si giustifica, dunque, per la violazione del c.d. “minimo etico”, ed è esterna ad essa la violazione delle norme di etica professionale, che volgono al miglioramento della funzione giudiziaria.
Il sistema ordinamentale prevede più efficaci strumenti capaci di prevenire le cadute di professionalità e garantire meglio i cittadini, quali, ad esempio, le valutazioni di professionalità e la stessa formazione da parte della Scuola superiore della magistratura.
Sono strumenti in grado di limitare comportamenti che, pur non rilevanti per i profili disciplinari, siano deontologicamente scorretti e, comunque, potenzialmente lesivi dell’immagine del magistrato, del prestigio dell’ordine giudiziario e, in ultima analisi, della credibilità della giurisdizione.
2. Le decisioni del 2018 sulle fattispecie disciplinari di più comune applicazione: a) Ritardi nel deposito di provvedimenti
Dalla Rassegna delle massime delle decisioni della Sezione disciplinare nell’anno 2018, curata dall’Ufficio studi del Consiglio Superiore della Magistratura[3] è possibile trarre le linee della evoluzione della giurisprudenza disciplinare di merito su temi di ampia e diffusa applicazione, di rilevante interesse per i magistrati in quanto relative ai doveri di laboriosità e diligenza, quali le ipotesi di ritardo nel deposito dei provvedimenti (art. 2, lett. q)) e di scarcerazione oltre i termini di legge (art. 2, lett. g)).
Si tratta di fattispecie che, di solito, originano da segnalazioni dei Capi di Corte inoltrate al Procuratore generale della Corte di Cassazione ed al Ministro della Giustizia, organi titolari del potere di iniziativa disciplinare, nell’esercizio del potere di vigilanza loro spettante. Più di frequente, in sede di ispezione ordinaria, si tratta di dati rilevati in via indiretta nel corso della verifica sulla funzionalità e tempestività dell’Ufficio giudiziario e, come tali, ove non già comunicati, oggetto di autonoma segnalazione in fase predisciplinare.
Il ritardo nel compimento d atti del proprio ufficio costituisce violazione dei doveri di laboriosità imposti al magistrato dall’art. 1 del d. lgs. n. 109 del 20016.
La fattispecie che viene in rilievo, quale specifica applicazione dei citati doveri funzionali di cui all’art. 1, è quella prevista dall’art. 2, comma 1, lett. q) del citato d. lgs. q), che sanziona “il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all'esercizio delle funzioni”. La disposizione contempla, inoltre, una specifica ipotesi di tendenziale irrilevanza del ritardo, che “si presume non grave, salvo che non sia diversamente dimostrato, il ritardo che non eccede il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell'atto” Si tratta di una di una presunzione di legge che orienta l’interprete - ed anche i canoni di rilevazione in sede ispettiva – nel senso di considerare tendenzialmente irrilevante il ritardo che, pur reiterato, non ecceda il limite del triplo dei termini normativa previsti.
Il ritardo riguarda “il compimento di atti relativi all’esercizio delle funzioni”, ciò che consente, nell’analisi delle decisioni del Giudice disciplinare nell’anno 2018, di differenziare le ipotesi applicative dell’illecito a seconda che esso riguardi l’attività del giudice, tendenzialmente espressa nel (ritardo nel) deposito di provvedimenti (ordinanze e sentenze, in massima parte), e quella - di applicazione molto più limitata - del pubblico ministero, che attiene invece alla tempestività dello svolgimento delle indagini preliminari.
Il ritardo nel deposito dei provvedimenti giudiziari, oltre che grave – secondo i citati canoni presuntivi previsti dalla norma – e reiterato, deve essere ingiustificato.
Per il giudice, le principali cause di giustificazione dei ritardi, rilevabili dalle decisioni della Sezione disciplinare del C.S.M., riguardano:
- Le condizioni di salute del magistrato. Si è ritenuto, in proposito, con sentenza n. 9 del 2018 (R.G. 58/2016) che l’allegazione generica, quale causa di giustificazione, da parte del magistrato della precarietà del proprio stato di salute, già, peraltro, divenuto oggetto di speciale considerazione nella organizzazione dell’ufficio, essendo stato designato della trattazione dei procedimenti di reclamo e fruendo di un esonero del 50% nell’assegnazione dei ricorsi per ingiunzione è del tutto irrilevante, con conseguente sussistenza dell’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per reiterato, grave ed ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni, nel caso di condotta del giudice che viola abitualmente i termini di legge per il deposito dei provvedimenti, specialmente di natura cautelare, laddove il ritardo incide su diritti soggettivi esposti a pericolo nel ritardo.
Di contro, con sentenza n. 26 del 2018 (R.G. 68/2016) si è ritenuto che i ritardi gravi e reiterati nel compimento dei provvedimenti giurisdizionali possono essere considerati giustificati per effetto di plurime ragioni, una delle quali in maniera preminente è costituita dalla delicata situazione psicologica dell’incolpato nel periodo di riferimento (gravissimo lutto determinato dalla perdita improvvisa del figlio), anche tenuto conto del fatto che il magistrato ha successivamente profuso un decisivo e proficuo impegno nell’eliminare l’arretrato accumulato per il quale era maturato il ritardo disciplinarmente rilevante.
Nello stesso senso, la sentenza n. 29 del 2018 (R.G. 29/2018) che è pervenuta ad escludere l’illecito, trattandosi di ritardi giustificati per la loro attinenza alla delicata situazione di salute nonché familiare dell’incolpato nel periodo di riferimento per essere il medesimo affetto da patologie cronicizzate ed aggravate dallo stress psicofisico derivante dal seguire entrambi i genitori gravemente ammalati; nonché alle difficoltà organizzative riguardanti il ruolo assegnato al magistrato, l’impegno derivato dalla presidenza di un collegio designato in via esclusiva alla trattazione di un complesso processo (c.d. calciopoli). Nella pronuncia si fa riferimento anche al dato della episodicità dei ritardi nella vita professionale del magistrato. Il Giudice disciplinare ha, infatti, tenuto conto del fatto che il grado di incidenza della vicenda personale sul rendimento del magistrato sia inequivocabilmente dimostrato dalla circostanza che, successivamente al doloroso epilogo della stessa, l’incolpato abbia progressivamente recuperato ritmi ordinari di deposito delle sentenze.
- Il carico di lavoro e del ruolo, quale condizione di esigibilità del dovere di laboriosità. Con sentenza n. 28 del 2018 (R.G. 141/2016) la Sezione disciplinare del C.S.M. ha qualificato come causa di inesigibilità dei doveri di laboriosità del magistrato e, dunque, giustificati i ritardi gravi e reiterati nel compimento dei provvedimenti giurisdizionali, il considerevole carico di lavoro nella duplice funzione di Giudice civile e di Giudice addetto alle esecuzioni immobiliari, alla necessità di dovere celebrare quattro udienze a settimana con estrema riduzione del tempo disponibile alla stesura dei provvedimenti. Ciò tenuto conto del fatto che il magistrato abbia sempre dimostrato massima disponibilità alle esigenze dell’ufficio, un elevato standard qualitativo dei provvedimenti ed, infine, successivamente al trasferimento presso altro ufficio, con un diminuito carico di lavoro, non abbia più maturato ritardi.
Analogamente, con sentenza n. 51 del 2018 (R.G. 143/2015) si è ritenuto che i ritardi possano essere giustificati dalla gravosità del ruolo, per l’ingente numero dei procedimenti trattati, il concomitante esercizio da parte del magistrato della funzione di presidente del collegio nel periodo interessato nonché per l’impegno assunto dal medesimo in via esclusiva di vigilare sul carcere di Roma Rebibbia Femminile); nonchè dalle condizioni di salute che determinavano la sua assenza dall’ufficio per un significativo arco temporale, per la contestuale conflittuale separazione personale dal coniuge, ciò tenuto conto anche della notevole professionalità dimostrata dal magistrato, come evidenziato nel parere reso dal Consiglio Giudiziario ai fini della progressione in carriera.
In senso conforme, la sentenza n.72 del 2018 - R.G.15/2017, con riferimento alla gravosità del carico di lavoro (per l’ingente numero dei procedimenti trattati, il concomitante esercizio da parte del magistrato della funzione di presidente del collegio nel periodo interessato), alle condizioni di salute dell’incolpato che determinavano la necessità di due interventi chirurgici, alla notevole dedizione al lavoro dimostrata dal magistrato che pur essendo stato trasferito ad altra sede non si era sottratto nell’imminenza della nuova presa di servizio, dall’obbligo di trattenere numerose cause in decisione (conf. sentenza n. 214 del 2018 R.G.106/2016, con riferimento alla grave carenza di organico dell’ufficio, quale causa di inesigibilità, ed alla contestuale eccezionale produttività del magistrato, limitata in un determinato periodo storico dalla condizione soggettiva di malattia).
Con sentenza n. 90 del 2018 (R.G. 142/2016) si è, inoltre, ribadito che ricorre un’ipotesi d’inesigibilità (situazione fattuale per effetto della quale il soggetto, per cause indipendenti dalla propria volontà, si sia trovato nella impossibilità, oggettiva o soggettiva, di ottemperare al precetto normativo) quando il magistrato si trovi in grande difficoltà, avuto riguardo alle condizioni oggettive dell’ufficio giudiziario, per il gravoso carico del ruolo, per numero, complessità ed eterogeneità di cause, per il concomitante impegno alla Sezione affari migrazione, con esenzione del solo 10% sul ruolo ordinario, pur non essendo riuscito ad adempiere con puntualità al proprio dovere di deposito tempestivo dei provvedimenti, abbia comunque dimostrato di essersi attivato nel massimo grado per mantenere una significativa produttività.
Tale inesigibilità è stata affermata anche quando (Ordinanza n.101 del 2018 - R.G.41/2016) il ritardo riguardi un circoscritto numero di sentenze, tutti contenuto in un tempo infrannuali, ed il magistrato risulti essere stato disponibile e laborioso addossandosi il gravoso impegno derivante dalle disfunzioni organizzative dell’ufficio come attestato da Presidente del Tribunale (in senso conforme, sentenza n.122 del 2018 - R.G.69/2016, nel caso di difficoltà insuperabili derivanti dalle condizioni oggettive dell’ufficio giudiziario, per il gravoso carico del ruolo, per numero, complessità ed eterogeneità di cause, abbia comunque dimostrato di essersi attivato nel massimo grado per mantenere una significativa produttività).
L’incidenza del carico di lavoro, quale esimente della responsabilità per l’illecito, attiene anche alla gravosità del ruolo promiscuo. Con sentenza n.132 del 2018 (R.G.131/2015) si è affermato che ricorre tale condizione nel caso in cui il magistrato pur avendo depositato oltre 200 sentenze all’anno si sia trovato a gestire un ruolo promiscuo superiore alle 2000 cause, in una sezione distaccata carente di personale amministrativo nonché di mezzi informatici, avendo il medesimo, inoltre, documentato una grave situazione familiare determinata dalla necessità di accudire in via esclusiva un prossimo congiunto bisognoso di cure (in senso conforme, le sentenze n.186 del 2018 - R.G.131/2016 – e n. 175 del 2018, quest’ultima riguardo al giudice penale).
Di contro, non è stata valutata idonea ed oggettiva condizione di inesigibilità la circostanza che il magistrato abbia assunto impegni per assolvere ad incarichi extragiudiziari. Con sentenza n. 6 del 2018 (R.G. 4/2016), si è ritenuto che integra l’illecito disciplinare in esame la condotta del giudice che trovatosi in grave difficoltà ad adempiere con puntualità ai depositi per il 70% dei propri provvedimenti, in ragione della gravosità del ruolo, ometta di segnalare al Capo dell’ufficio la propria difficoltà e, di contro, manifesti la propria disponibilità ad essere applicato presso la corte d’Appello per comporre collegi in materia di procedimenti di equa riparazione e, soprattutto, si candidi, per poi venire eletto, al consiglio giudiziario presso quella Corte, pur consapevole dei ritardi accumulati sul proprio ruolo e della situazione insostenibile di sovraccarico lavorativo.
- la scarsa rilevanza del fatto (art. 3-bis). Si è ritenuto con sentenza n.189 del 2018 (R.G.71/2016), che sussiste la condizione di scarsa rilevanza del fatto, con inoffensività della condotta pur oggettivamente concretatasi, nell’ipotesi in cui il magistrato (nella specie, il giudice civile) sia oberato da un notevole carico di lavoro, i provvedimenti adottati non siano seriali e siano stati in larga parte confermati in sede di gravame, il magistrato abbia assunto, suo malgrado, concomitanti impegni di tipo amministrativo od organizzativo, costituenti in massima parte adempimento di doveri di ufficio (come la partecipazione al collegio per i giudizi di accusa previsto dall’art.7 L. Cost.n.1/1989 con funzione anche di Presidente, la partecipazione alla Commissione di esami per l’abilitazione all’esercizio della professione forense in concomitanza con quella per l’abilitazione a giornalista).
- L’assenza di giustificazioni. Con sentenza disciplinare n. 25 del 2018 (R.G. 88/2015) si è ritenuto che sussiste la responsabilità disciplinare del magistrato che abbia manifestato ritardi nel 25% delle sentenze complessivamente depositate, con ritardi significativi superiori in alcuni casi a 700 giorni, allorquando il medesimo giudice non indichi alcun elemento idoneo a fornire adeguata giustificazione ai ritardi oggetto di incolpazione. Ed invero la mancata indicazione di alcuna circostanza di fatto suscettibile di spiegare la condotta omissiva non consente di ridimensionarne la gravità.
Con sentenza n. 77 del 2018 (R.G. 30/2016), del pari si è affermato che integra l’illecito disciplinare la condotta del giudice il quale depositi in un numero rilevante di casi, pari al 58,9% delle sentenze complessivamente depositate nel periodo oggetto di ispezione, con ritardi significativi superiori in alcuni casi a 1140 giorni, allorquando il medesimo giudice non indichi un elemento idoneo a fornire adeguata giustificazione ai ritardi oggetto di incolpazione ed altresì non risulti che i ritardi si siano manifestati in un periodo circoscritto connotato da una criticità organizzativa particolare.
- recidiva. La condizione di recidiva del magistrato nelle condotte di ritardo assume una particolare rilevanza sul piano della condizione di inesigibilità della condotta illecita. Con sentenza n.99 del 2018 (R.G.16/2017) si è ritenuto sussistente l’illecito nella condotta del Giudice che, già sanzionato con la censura dalla Sezione Disciplinare per ritardi analoghi intervenuti in diverso periodo, abbia ritardato gravemente il deposito di numerose sentenze civili. Non possono ritenersi giustificati i ritardi gravi e reiterati e non può quindi applicarsi la scriminante non codificata della c.d. inesigibilità allorquando una più accorta autorganizzazione del ruolo avrebbe potuto consentire un contenimento dei ritardi in termini più fisiologici e tali da non assurgere a livelli di rilevanza disciplinare.
Nello stesso senso, si segnala la pronuncia n.174 del 2018 (R.G.140/2017), con riferimento a ritardi contestati ad un giudice civile, già sanzionato in precedenza con condanne per analogo illecito.
Ciò salvo che si configuri il ne bis in idem che esclude la configurabilità dell’illecito disciplinare allorquando il magistrato a fronte di una sentenza disciplinare di condanna alla censura divenuta irrevocabile sia stato incolpato di ulteriori ritardi nel deposito dei provvedimenti nel medesimo arco temporale di cui alla pregressa vicenda disciplinare (ordinanza n. 41 del 2018 R.G. 14/2017).
- Mancato rispetto del piano di rientro o di provvedimenti organizzativi. Tra l’attività rimesse al Capo dell’Ufficio, rilevanti ai fini della giustificazione dei ritardi del magistrato, vi è la vigilanza sulla tempestività del lavoro dei singoli ed il compito, in caso di situazione emergenziale, di adottare misure e criteri organizzativi che consentano di recuperare situazioni di difficoltà nella gestione del ruolo e dei carichi di lavoro, quale la predisposizione di piani di rientro individuali o per specifici settori.
Il mancato rispetto di tali provvedimenti organizzativi costituisce elemento fondamentale di valutazione ai fini della giustificazione del ritardo. Si è così affermato (sentenza n.146 del 2018 - R.G.116/2017) che integra l’illecito disciplinare la condotta del Giudice civile che abbia ritardato gravemente il deposito di numerose sentenze civili (17 sentenze con ritardo superiore ad 800 giorni con picco massimo di 994 giorni). La soglia di giustificazione risulta superata quando in ragione della quantità dei casi e la gravità del ritardi, pur ricorrendo situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, il comportamento del magistrato risulti comunque colpevole quantomeno in relazione alla incapacità di organizzare in modo idoneo il proprio lavoro (nel caso di specie risultava che in epoca precedente ai ritardi maturati il Presidente del Tribunale aveva ridotto sensibilmente il carico del lavoro del magistrato incolpato al fine di garantire la distribuzione del carico di lavoro in maniera equa tra i vari magistrati e consentire lo smaltimento dell’arretrato).
Analogamente, con sentenza n.160 del 2018 (R.G.28/2016) si è ritenuta non giustificata la condotta del Consigliere di Corte d’Appello che abbia depositato numerosi provvedimenti in ritardo, alcuni dei quali a carico di detenuti, abbia violato il piano di rientro predisposto a suo favore, allorquando sia conclamata la sussistenza di una abitualità nella inosservanza dei termini, in ragione di pregressi procedimenti disciplinari subiti e conclusi con condanna del magistrato, ed inoltre sia risultato che, a fronte delle precarie condizioni di salute dedotte dalla difesa, il magistrato abbia omesso di richiedere di assentarsi temporaneamente dal servizio usufruendo di congedi straordinari ed aspettative.
I ritardi nel compimento degli atti del proprio ufficio, come detto, devono essere, oltre che non giustificati, gravi e reiterati.
L’assenza della reiterazione esclude la rilevanza del singolo ritardo grave. In tal senso, con la sentenza n. 11 del 2018 (R.G. 113/2016) si è ritenuto che non integra l’illecito disciplinare del reiterato grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni la condotta del giudice che abbia, una sola volta, omesso di provvedere per oltre due anni decorrenti dal deposito dell’istanza in cancelleria. Si tratta, infatti di ritardo isolato e, pertanto, non riconducibile all’illecito disciplinare che sanziona i ritardi gravi solo allorchè siano reiterati e ingiustificati.
Quanto al requisito della gravità del ritardo la giurisprudenza disciplinare di merito nell’anno 2018 ha preso atto del rinnovato indirizzo delle Sezioni Unite civili sui ritardi ultrannuali, vincendo la presunzione assoluta di gravità degli stessi.
Si segnala, da ultimo, l’arresto di Sez. U, sentenza n. 24136 del 3/10/2018 (in senso conforme, Sez. U, sentenza n. 2948 del 2016), che, in ipotesi di ritardi ultrannuali nel deposito di sentenze ed ordinanze civili, ha escluso la responsabilità disciplinare del magistrato, invocando l'inesigibilità dell'attività lavorativa non potendo quei ritardi essere imputati allo stesso a titolo di responsabilità oggettiva, fermo restando l'onere dell'interessato di fornire al giudice disciplinare tutti gli elementi per valutare la fondatezza e serietà della giustificazione addotta. Nella specie, le ragioni dei ritardi erano state individuate dal Giudice disciplinare nel sovraccarico del ruolo del magistrato, che svolgeva contemporaneamente le funzioni di giudice civile e dell'esecuzione, celebrando un numero di udienze superiore alla media e comunque garantendo una produttività adeguata, avendo la sezione disciplinare congruamente motivato in ordine alle ragioni del ritardo, non dovute né a neghittosità né a incapacità organizzativa del magistrato, ma al carico di lavoro nell'ufficio particolarmente gravose.
Si tratta, in ogni caso, di una valutazione di fatto circa la fondatezza e serietà della giustificazione addotta, rimessa alla discrezionalità del giudice del merito.
In particolare, con ordinanza n.100 del 2018 R.G.40/2016 la configurabilità dell’illecito de quo è stata esclusa per la condotta del giudice addetto al settore civile il quale depositi con ritardo numerose sentenze alcune delle quali con ritardi ultrannuali, qualora il magistrato risulti particolarmente gravato per essere assegnatario di un ruolo più carico di quello degli altri colleghi in un contesto di grave scopertura dell’organico (25%), nonché il medesimo magistrato abbia dimostrato una elevata laboriosità e disponibilità rendendosi costantemente attivo in ambito formativo ed organizzativo su delega dello stesso Presidente del Tribunale.
Di contro, con la sentenza n.150 del 2018 (R.G.92/2014) si è ritenuto che integra l’illecito disciplinare la condotta del giudice per le misure di prevenzione che abbia depositato 15 provvedimenti, di cui 14 personali ed 1 patrimoniale, facendo registrare ritardi in 5 casi ricompreso tra 1 e 2 anni, in 4 tra i 2 e 3 anni e in 4 casi superiori ai 3 anni. L’apprezzamento dell’onerosità del carico di lavoro non consente, infatti, di comprendere l’impossibilità di contenere i ritardi entro termini più ragionevoli.
Sotto il profilo della gravità dei ritardi assume, infine, rilevanza la produzione di un indebito vantaggio alla parte. Il caso si è posto con riferimento al ritardo in cui è incorso un consigliere di Corte d’Appello nel provvedere al deposito della motivazione di provvedimento pronunciato a definizione del procedimento di prevenzione, tale da determinare la perdita di efficacia del provvedimento di confisca impugnato per violazione del termine perentorio previsto dall’art. 27 comma 6 del decreto legislativo n.159 del 2011. Nel ritenere la sussistenza della responsabilità del consigliere per l’illecito si è rilevato che, nel caso di specie, l’indebito vantaggio è rappresentato dalla restituzione al titolare del compendio patrimoniale già oggetto di decreto di confisca definito “peraltro” di notevole valore patrimoniale (sentenza n. 83 del 2018 - R.G.78/2017).
Quanto alle ipotesi di responsabilità del pubblico ministero per il ritardo nel compimento di atti del proprio Ufficio viene in rilievo di solito la diversa fattispecie di cui all’art. 2, comma 1, lett. g) del d. lgs. n. 109 del 2006, trattandosi di singoli atti violativi di disposizioni processuali sulla tempestività dello svolgimento delle attività di indagini preliminari. La giurisprudenza disciplinare di merito ha dato applicazione al principio ormai consolidato dell’indirizzo di legittimità per il quale assume rilevanza ogni condotta di inerzia (omissione o ritardo) che abbia prodotto un effetto processualmente rilevante.
In tal senso, Sez. U, Sentenza n. 26373 del 19/10/2018, in un caso di comportamento di un P.M. che aveva omesso di adottare qualsiasi provvedimento inteso a sollecitare il deposito della relazione da parte del consulente, incaricato di una perizia autoptica, in un procedimento per omicidio con imputato in stato di detenzione, ha ritenuto corretta l’affermazione della responsabilità disciplinare del p.m. perché in spregio al combinato disposto di cui agli artt. 359 c.p.p., 321 c.p.p. e 70 disp. att. c.p.p., nonché in violazione dei doveri di diligenza di cui all'art. 1 del citato decreto legislativo, non avendo provveduto a sollecitare l’ausiliario né a disporne la sostituzione. Dall’inerzia del p.m., protrattasi per tredici mesi, era derivata la necessità di richiesta di proroga dei termini custodiali di fase, il cui rigetto, in sede di riesame, aveva poi determinato la scarcerazione della persona sottoposta ad indagine.
Analogamente, nel caso di omissione o ritardo nell’iscrizione del soggetto indagato nel relativo registro. In proposito, Sez. U, Sentenza n. 22402 del 13/09/2018 ha ritenuto che integra la fattispecie prevista dall'art. 2, comma 1, lett. g) del d.lgs. n. 109 del 2006 il comportamento del P.M. che, appena acquisita la notizia di reato in termini di configurabilità oggettiva - ovvero di fatto sussumibile in una determinata fattispecie di reato - non proceda, senza alcuna discrezionalità e soluzione di continuità, alla relativa iscrizione nel registro e, conseguiti elementi certi di identificazione del soggetto indagabile - non integranti un mero sospetto -, con altrettanta tempestività non proceda all'iscrizione del relativo nominativo. Nel caso di specie, la S.C. ha confermato la decisione del C.S.M. che aveva ritenuto integrato l'illecito disciplinare commesso da sostituti procuratori i quali, a fronte della morte di una persona, sottoposta a controllo delle forze dell'ordine, avvenuta in ospedale la mattina successiva alla notte trascorsa in caserma, avevano trascurato la denuncia presentata dalla persona che vi era stata condotta insieme all'individuo poi deceduto, senza procedere ad alcuna determinazione in ordine all'esercizio dell'azione penale e persistito nell'omissione successivamente al deposito della sentenza che aveva disposto la trasmissione degli atti al P.M. per verificare quanto accaduto tra l'intervento degli agenti operanti e l'accesso all'ospedale, avendo provveduto all'adempimento solo un anno dopo la sentenza e per il solo reato di lesioni, allo scopo di consentire la citazione degli indagati alla "possibile udienza di opposizione" alla richiesta di archiviazione.
In applicazione di tali principi la giurisprudenza disciplinare di merito ha ritenuto, ad esempio, che integra l’illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni la condotta del Sostituto Procuratore della Repubblica che abbia omesso di iscrivere un funzionario della Polizia di Stato ai sensi dell’art.335 c.p.p. nonostante l’indicazione del nominativo del medesimo fosse riportato nella richiesta di misura cautelare emessa a carico di altri, allorquando la richiesta abbia citato intercettazioni di colloqui tra indagati in cui gli stessi abbiano parlato di coperture istituzionali al loro operato, citando tra i soggetti che avrebbero offerto tale copertura proprio il funzionario di Polizia di cui sopra (Sentenza n. 108 del 2018 (R.G.137/2017).
Ancora, l’illecito de quo è stato ritenuto configurabile (sentenza n. 4 del 2018 - R.G. 12/2016) nel caso di omessa adozione di qualsiasi iniziativa, sia sul piano investigativo che relativo allo status libertatis dell’indagato, già condannato in altro procedimento e detenuto cautelarmente agli arresti domiciliari per violenze perpetrate nei riguardi della convivente, pur nella dimostrata consapevolezza di un quadro cautelare allarmante e di un pericolo crescente per l’incolumità della parte offesa. Si è ritenuto, infatti, che l’evasione tempestiva del fascicolo, mediante la chiusura delle indagini preliminari, non esaurisce l’obbligo incombente sul sostituto di farsi carico della pericolosità del suo indagato, anche attivandosi all’interno del suo ufficio, in un quadro di allarmante gravità e di pericolo per la parte offesa, che renda evidente l’inadeguatezza della misura cautelare adottata, seppure da altro magistrato.
Di contro, la responsabilità del sostituto procuratore è stata esclusa
- nel caso in cui il ritardo nel compimento degli atti dell’ufficio - nella specie, relativi all’esecuzione della sentenza di condanna - sia derivato da una situazione di grave disservizio della segreteria dell’ufficio esecuzione (ordinanza n. 40 del 2018 - R.G. 46/2017);
- ovvero, nel caso di mancata apposizione del “visto” su numerose sentenze dei giudici penali di primo grado allo stesso trasmesse per la valutazione di una loro eventuale impugnazione al Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, in assenza di una norma indicativa del termine di legge per l’apposizione del citato adempimento (sentenza n.106 del 2018 - R.G.115/2015):
- ovvero ancora, con riferimento alla condotta del Sostituto Procuratore della Repubblica che abbia ritardato l’iscrizione della notizia di reato per avere ricevuto con ritardo la trascrizione delle intercettazioni telefoniche, allorquando non vi sia prova che il magistrato fosse stato anche informalmente avvisato dell’effettività dei contenuti delle intercettazioni (sentenza n. 180 del 2018 - R.G. 83/2017).
Tuttavia, la giurisprudenza disciplinare ha avuto modo di affermare la sussistenza di profili di responsabilità disciplinare del magistrato del p.m. anche nel caso di ritardi ultrannuali plurimi e diffusi nella gestione dell’attività di indagini preliminari.
Così, con sentenza n.94 del 2018 (R.G.93/2016) si è ritenuto integrare l’illecito funzionale la condotta del Sostituto Procuratore della Repubblica il quale abbia ritardato gravemente la definizione di numerosi (746) procedimenti penali iscritti a mod.21 e a mod.44, omettendo di adottare le sue determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale, nonostante che i termini massimi per le indagini preliminari fossero scaduti, senza alcuna richiesta di proroga, nonché abbia omesso il compimento di alcun atto di indagine in relazione a due dei sopraindicati procedimenti, nonostante i solleciti ricevuti e la gravità dei fatti denunziati (omicidio colposo e falsità ideologica)., In proposito la Sezione disciplinare ha affermato che, a fronte dei gravissimi ritardi maturati (con punte di 13 anni), non possono costituire cause di giustificazione né l’accertata laboriosità dell’incolpato, né la sussistenza di ragioni personali addotte, pur in sé estremamente delicate, non trattandosi di fattori idonei di per sé a comprovare che non sarebbero state possibili diverse scelte organizzative idonee a scongiurare i ritardi o comunque a ridurne la patologica dilatazione.
Nello stesso senso, si segnala la decisione n. 125 del 2018 con riferimento alla omessa adozione di qualsiasi iniziativa da parte del sostituto procuratore della Repubblica, con grave violazione delle norme in tema di finalità delle indagini e di acquisizione dei mezzi di prova di cui all’art. 405 c.p.p., talvolta omettendo la tempestiva iscrizione nel prescritto registro delle notizie di reato, disponendo di fatto, l’archiviazione di una notizia di reato, sottraendola al controllo giurisdizionale, e determinando, pertanto, un grave ed ingiusto danno per le persone offese ed un vantaggio indebito per gli indagati, in quanto alcuni dei reati ipotizzabili nei fatti, a seguito della ingiustificata stasi del procedimento risultavano prescritti.
[1] Tratto dalla relazione alla tavola rotonda del 12 aprile 2019 a conclusione del corso S.S.M. “Il punto della responsabilità civile dei Magistrati. Questioni aperte e casi controversi” – Palazzo Spada – Roma.
[2] La violazione dell’art. 6 del codice etico, in tema di rapporti con la stampa, non assumeva rilevanza – al contrario di quanto avveniva nella vigenza dell’art. 18 r.d.lgs n. 511 del 1946 - attesa la tipizzazione degli illeciti. Cfr., sul tema, Sezione disciplinare CSM, ord. 7 marzo 2008 n. 19 in relazione a dichiarazioni rese alla stampa dal procuratore aggiunto sull'attività giudiziaria dell'ufficio senza delega del Procuratore della Repubblica. Secondo il Giudice disciplinare, il provvedimento di non luogo a procedere si fonda sulla genericità delle dichiarazioni pubbliche, pur se forti, senza alcun riferimento specifico ad atti processuali.
[3] Una rivisitazione della rassegna delle massime della Sezione disciplinare del C.S.M., organizzata per specifiche tematiche disciplinari, è pubblicata sul sito istituzionale dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia.