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Magistratura Indipendente

PENALE  

Le nuove forme di intimidazione ambientale

  Penale 
 martedì, 24 novembre 2020

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Sara AMERIO, Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria
Anna SERGI, Professore associato di criminologia, Università di Essex, Regno Unito

 
 

1. Introduzione

Il reato-spia più classico delle associazioni per delinquere di stampo mafioso è senza dubbio il delitto di estorsione, la cui gravità si rinviene nella capacità di distruggere l’economia legale e nel fiaccare la fiducia degli imprenditori nel sistema giustizia.

Ciò si riverbera sulla tenuta stessa del sistema economico e produttivo da un lato e sull’estrinsecazione delle libertà individuali e delle coscienze dall’altro.

L’imprenditore estorto è una persona distrutta nella sua sfera personale sia dal punto di vista della capacità di sostentamento e di autodeterminazione e sia della dignità umana.

Spesso questa doppia vergogna, data dall’impoverimento e dall’umiliazione, è un ulteriore ostacolo alla forza della ribellione dal giogo mafioso che si manifesta nella forma più alta di rivalsa sociale: la denuncia.

L’estorsione altera le condizioni di concorrenza, accresce costi per imprese, cittadini e potenziali investitori, ostacola la crescita del capitale[1]. Comprendere l’evoluzione del reato di estorsione, dalle sue forme più violente alle sue forme più silenti, quelle notoriamente indicate come estorsioni ambientali, richiede uno sforzo sociologico e criminologico. Tale sforzo riporta il reato di estorsione alla sua matrice primaria, la violenza mafiosa, cioè l’oppressione, la sopraffazione e la forza dell’intimidazione che caratterizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso. Per comprendere l’estorsione ambientale e la sua scivolosità probatoria è dunque necessario comprendere l’estrinsecarsi della violenza mafiosa, dalla manifestazione teatrale di tale violenza all’eco di una violenza che fu.

 

2. L’eco della violenza mafiosa

È evidente come i livelli di violenza mafiosa si siano abbassati drasticamente dagli anni ‘80 in poi. Tra pax mafiose e azione dello stato, le organizzazioni criminali si sono dovute adattare a un metodo di lavoro meno palesemente esposto. Quando si parla di mafia, metodo mafioso e violenza è necessario ricordare due cose: primo, che la violenza, soprattutto quella sistemica, ha sempre un’eco; e secondo, che per ritenere estinto o ridotto qualsiasi tipo di rapporto violento la vera differenza la fanno le vittime, non i carnefici. In altre parole, laddove il rapporto di violenza tra le organizzazioni criminali e le loro comunità sembrerebbe essersi ridotto, l’osservazione di fattispecie di vittimizzazione più subdole dovrebbe farci riflettere sulla persistenza, e resistenza, della violenza mafiosa, seppure in forme diverse.

La potenza delle organizzazioni criminali è tale e tanta che non vi è più alcuna necessità di effettuare una richiesta in termini palesi, soprattutto unita ad una minaccia di male ingiusto se non di una violenza, affinchè vi sia supina adesione; la consapevolezza del modus operandi e soprattutto delle inevitabili conseguenze a cui si espone chi intenda ribellarsi conduce la persona offesa che risiede in un certo contesto territoriale - e quindi ha piena contezza delle dinamiche criminali - a comprendere ciò che neppure viene richiesto, ma solo suggerito, sfiorato, sussurrato[2].

Ma come si arriva a questo? Facendo innanzitutto un passo indietro. Le organizzazioni criminali storiche sono state impegnate per anni nella costruzione della loro reputazione criminale. Tale reputazione passa dall’utilizzo della violenza come capitale istituzionale; la violenza esibita crea la reputazione mafiosa e la rende istituzionalizzata. La violenza è risorsa economica attraverso cui si produce ricchezza, ma anche risorsa sociale e culturale, che crea consenso e legittimazione[3]. Come tale, non si può sprecare e non può sempre essere manifesta, la violenza. Non è una risorsa infinita, nemmeno per la mafia. Abbandonare la violenza ‘teatrale’ è, per le mafie che vogliono sopravvivere, una scelta necessaria. La violenza attira l’attenzione delle autorità, ma soprattutto crea più paura che consenso. E la governance mafiosa è una governance nutrita di consenso e di visibilità. La visibilità del clan va di pari passo col consenso che riceve, col mito del mafioso ‘brava gente’, che aiuta, che supporta, che protegge i suoi compaesani. Un mito che è, ovviamente, fragile come una bolla di sapone, non appena indagini e arresti confermano le attività di clan e affiliati. Un mito che un eccessivo uso della violenza metterebbe in dubbio. Non ci si dimentichi che l’obiettivo di un’organizzazione mafiosa è quello di succhiar via la forza vitale delle comunità di appartenenza, ma, allo stesso tempo, mantenere il cuore all’interno di quella comunità. Come in molti rapporti di violenza intima, alla mafia piace piacere, non intimorire, ma la possibilità di intimorire crea un legale più solido del mero ‘piacere’. Abbandonata la violenza teatrale dunque, rimane necessario per le mafie restare visibili e riconoscibili sul territorio. E qui la violenza manifesta e istituzionalizzata acquisita nei decenni precedenti, nelle fasi di ‘formazione’ della reputazione mafiosa, fa da cassa di risonanza. Se si pensa per esempio alla ndrangheta reggina, la violenza degli anni dei sequestri di persona, e delle guerre di mafia, è diventata una riserva pronta a essere utilizzata quando serve, ma anche quando non serve.  Cognomi, nomi, e anche la mera presenza dello ndranghetista, sono la prova di tale fama criminale. Ricorrere alla violenza non è necessario se tale reputazione, intrisa dell’eco e della riserva della violenza che fu, rimane immutata. Non è necessaria la violenza manifesta se lo ndranghetista può spendere la sua parola, il suo nome, cognome, la sua storia.

Tale e tanta è stata la violenza delle faide, dei sequestri, degli omicidi, delle vite spezzate, da aver iniettato la reputazione dei clan di sangue e paura, al punto che si può ipotizzare che un’eco di questa violenza si sia mantenuta nei decenni a seguire fino ad oggi. Un’eco di violenza di questo tipo, sistematica, perseverante, impossibile da evitare, non si fa dimenticare. A livello teorico, questa eco di violenza è simile a un post-trauma collettivo con cui intere comunità devono fare i conti nei decenni successivi a un conflitto armato, a un genocidio, a un abuso sistemico di diritti umani. Per anni si vive nella consapevolezza della violenza vicina e imminente; quando questa violenza finisce, il suo ricordo, la sua eco, rimangono fortemente attaccati al subconscio di chi ha subito o ha osservato quella e si trasmette nella memoria collettiva e nella storia dei luoghi e delle istituzioni[4]. E, soprattutto, questa eco è condivisa nel tessuto sociale cittadino.

Spesso, però, ciò che è ormai compreso dal tessuto sociale cittadino, non è sufficiente a livello giurisprudenziale per integrare lo standard probatorio richiesto: è, infatti, necessario che l’Autorità decidente tenga conto della mutata realtà criminale in cui la mera evocazione dell’appartenenza ad un casato mafioso (e a volte, quando si tratta di soggetti “famosi” neppure quella) incute già timore negli interlocutori, senza necessità di utilizzare espressioni chiaramente ed incontrovertibilmente minacciose o esercitare forme dirette di violenza. In particolare, ci si riferisce alle mafie storiche e ai casi in cui le richieste avvengano nel loro territorio d’origine; ancor di più quando si tratti di cosche nei cui confronti vi siano stati plurimi riconoscimenti giudiziari in varie epoche storiche e quando l’estorsione avvenga proprio nel loro territorio di competenza sul quale esercitano il loro predominio mafioso[5].

L’elemento di fattispecie dell’estorsione del costringimento, che deriva dall’uso della violenza o della minaccia (intesa come prospettazione di un male ingiusto), può estrinsecarsi anche in un’azione che sia solo implicitamente minacciosa, ma tale da porre il soggetto passivo in uno stato di sottomissione che non gli consenta di rifiutarsi e di defilarsi, minando così in radice la sua capacità di libera autodeterminazione.

 

3. Le vittime della violenza mafiosa nell’estorsione ambientale

La differenza tra gli atti di una mafia violenta e quelli di una mafia che opera grazie a mezzi come l’estorsione ambientale, appare chiara, se si guarda a entrambi gli scenari in termini di vittimizzazione. La fenomenologia della violenza mafiosa è composita: non sempre manifesta, non sempre con atti discernibili, la violenza mafiosa è pratica ripetuta e necessaria affinché i clan possano perpetuare la loro reputazione e, di conseguenza, mantenere la propria identità[6]. Il messaggio di questa violenza cambia con essa. Nei casi in cui la violenza è manifesta, il messaggio è più chiaro. Alle vittime dirette si aggiungono le famiglie, gli amici, i vicini di casa spaventati, tutti col timore di ulteriore violenza. Tutte persone offese che, invece, tali non sembrano essere quando la violenza non è manifesta ma solo la sua eco lo è.

In questi ultimi casi, che sono anche i casi di estorsione silente, ciò che rileva a fini probatori, essendo la percezione della persona offesa particolarmente difficile da indagare, oltre che caratterizzata da una  soggettività legata al sentire del singolo che necessariamente varia a seconda di sensibilità e caratteristiche individuali, è il comportamento dell’estortore, che deve avere veicolato, anche in modo subdolo e trasversale, un messaggio che sia però evidentemente di sopruso, prepotenza ed arroganza, sì da porlo in quella condizione di assoggettamento richiesta dalla norma.

Nella fattispecie dell’estorsione ambientale vediamo una fenomenologia della violenza mafiosa che si avvale della parola spesa, dell’eco dell’onore precedentemente conquistato, del sottinteso, non dell’atto di violenza manifesta. È culturale, questo spendere la parola, fintanto che viene compresa da attori che appartengono allo stesso contesto sociale. Ma è forse anche più insidioso di tante altre forme di violenza.

Lo studio vittimologico nell’estorsione è molto complesso, perché la vittimizzazione è ancora più diffusa di quanto non sia nel caso della violenza manifesta. Le vittime di estorsione non sempre si riconoscono vittime, tanto è il sollievo a volte di uscire dalle strettoie in cui l’estorsore li induce. Spesso si sentono compartecipi dell’atto estorsivo, o temono che altri possano considerarli tali, provano vergogna, vogliono mettere tutto a tacere e superare il momento critico in un tentativo di riconoscere il beneficio – che appare sempre esserci in un modo o nell’altro - che quell’estorsione può portare[7]. E così, mentre i clan confermano la loro identità, accrescono il loro riconoscimento sociale e la loro reputazione grazie anche agli scambi estorsivi, il peso di una loro parola cresce, intimidisce, ferisce.

Certamente, l’uso di certe espressioni e di certe terminologie può essere sufficiente a certe latitudini, ma non ad altre, dove – per il contesto sociale ed ambientale – il destinatario della richiesta sia meno aduso ad alcune affermazioni o addirittura ad alcuni modi di ragionare tipici della sub cultura mafiosa latamente intesa.

Ancora, l’adesione passiva alla richiesta è forse la forma più evidente dell’avvenuto assoggettamento e dell’efficacia della sopraffazione.

 Maggiore difficoltà probatoria si rinviene, invece, quando alla richiesta non fa seguito un’accettazione. Qui lo sforzo motivazionale si fa più serio e deve necessariamente affondare le proprie radici in un’analisi che si allontana dal giuridico per avvicinarsi al sociologico. La comprensione del fenomeno criminale deve giocoforza passare dalla comprensione della realtà sociale.

Si usano così espressioni vaghe, sfumate, impalpabili, evanescenti, ma dalla forza comunicativa dirompente per chi le sa decriptare. A volte è sufficiente chiedere un “pensiero” in vista delle future festività natalizie o fare riferimento ad una parentela, senza neppure citare il cognome o ancora chiedere al proprio interlocutore se abbia contezza del soggetto con il quale sta conversando. In questi casi la minaccia è talmente velata da essere irriconoscibile ad un occhio non avvezzo ai comportamenti criminali.

Il soggetto che percepirà tali affermazioni si troverà di fronte all’alternativa dell’adesione e della sottomissione o dell’ovvia conseguenza ritorsiva. Quale sarà, egli non sa[8], ma sa che la forza criminale si abbatterà su di lui, senza concedergli scampo.

 

4. La condotta estorsiva

È chiaro che – oltre al contenuto dichiarativo – andranno considerati ulteriori elementi caratterizzanti: la presenza di più persone[9], la scelta del luogo e del momento, il tono utilizzato, le movenze ed i segnali del viso e del corpo, le pause ed i gesti che hanno spesso una valenza ancora più significativa delle parole utilizzate.

Ciò che la giurisprudenza ritiene imprescindibile è l’inequivocità della condotta, ma i tratti di questa stessa assenza di fraintendibilità devono essere disegnati dall’interprete.

In questo senso, la Cassazione[10], intendendo conferire particolare rilevanza al contesto ambientale in cui la richiesta viene avanzata, è giunta a dire che “è sufficiente - in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica - che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività”. E ancora, “nei luoghi di radicata infiltrazione delle mafie storiche i codici di comunicazione degli affiliati sono noti ed è sufficiente un richiamo anche implicito per suscitare il timore dell’esercizio di note forme di violenza, la cui diffusa conoscenza fonda il potere di intimidazione e di controllo delle organizzazioni criminali riconducibili alle mafie storiche”. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, l’imputato aveva fatto esplicito riferimento, in occasione dell’attuazione della condotta estorsiva, ad un gruppo criminale radicato nel luogo di commissione del fatto, adoperando le “modalità tipiche del metodo mafioso, oggettivamente idoneo ad esercitare una particolare coartazione psicologica sulle persone”.

Tale impostazione, ampiamente condivisibile e condivisa da chi scrive, denota consapevolezza dei codici linguistici tipici di determinate realtà territoriali, avvezzi anche nel lecito ad avvalersi di sottintesi e di perifrasi.

La conseguenza di tale approccio è evitare che, proprio in quei contesti in cui è maggiormente pervasiva la forza soffocante della criminalità organizzata, restino impunite condotte gravissime, poste in essere dai rappresentanti di quei casati storici così famigerati da non avere bisogno di presentazioni, per essere rinomati.

Paradossalmente, si potrebbero sottrarre dalle maglie della responsabilità penale proprio quei soggetti caratterizzati dalla maggiore pericolosità sociale, in quanto notoriamente intranei e riconosciuti come “bocca” dell’associazione, ossia come sua diretta espressione[11].

In questo stesso senso si può apprezzare la pronuncia della Corte di Cassazione della seconda sezione, n. 46765 del 15 ottobre 2018, che ha statuito che “nel reato di estorsione, integra la circostanza aggravante del metodo mafioso l’utilizzo di un messaggio intimidatorio anche “silente”, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia. La configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dal Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152, articolo 7 (conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l’esistenza di un’associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa. Ai fini della configurabilità dell’aggravante dell’utilizzazione del “metodo mafioso”, prevista dal Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152, articolo 7 (conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203), è sufficiente – in un territorio in cui è radicata un’organizzazione mafiosa storica – che il soggetto agente faccia riferimento, in maniera anche contratta od implicita, al potere criminale dell’associazione, in quanto esso è di per sé noto alla collettività”.

La mera consapevolezza che il soggetto richiedente parla in nome e per conto e spende un cognome “pesante” è il segno – in un determinato contesto territoriale – che egli certe richieste non può che avanzarle per l’associazione, con l’autorizzazione dell’associazione e raccogliendone i frutti economici per accrescere il prestigio sociale (inteso come mantenimento della supremazia di un casato mafioso, in particolare nel suo territorio di predominio “storico”[12]) e la forza economica dell’associazione.

Il singolo, pur presentandosi individualmente, è parte di un gruppo organizzato ed è il nuncius di quel gruppo che lo ha inviato ad avanzare la richiesta nella qualità di mero emissario e non già di soggetto autonomamente decidente.   

 

5. Conclusioni

Lo sforzo ermeneutico richiesto all’interprete è, quindi, particolarmente gravoso: più ci si allontana - anche fisicamente – dal contesto territoriale “proprio” di queste forme criminali, maggiore sarà l’impegno a voler comprendere che il decidente dovrà profondere. Si tratta non tanto della necessità di un aggiornamento normativo, ma prettamente culturale. Sarà necessario uscire dagli schemi preconcetti di mafia = violenza, per andare a ricercare in un bisbiglio la forza prorompente del crimine, che è tanto più forte, tanto meno deve gridare o sparare per ottenere. La nuova frontiera è quella del silenzio, non solo delle persone offese, ridotte alla negazione del fatto e all’omertà, ma ora anche degli estortori, cui basta un afflato per farsi comprendere, nella maniera più violenta possibile, quella del sottinteso, che giunge a farci dire che un codice comportamentale è tanto più connaturato in una società tanto meno è necessario spiegarlo. Da un punto di vista criminologico, tanto più è prepotente l’organizzazione mafiosa, tanto più preferirà intimidire, estorcere e dunque corrompere in silenzio. In termini di profitto, spendere la parola in un sussurro costa meno e rende di più. In termini di vittime, spendere la parola a fini estorsivi, come anche corruttivi, rende più difficile definire la linea tra complicità e assoggettamento. Dunque, a differenza della violenza manifesta, quando il mafioso spende la parola, l’allarme sociale diminuisce e aumenta solo il legame tra lo ndranghetista e il suo interlocutore. Un legame, questo, che pur non essendo manifestamente violento, rimane ricattatorio, coercitivo e sicuramente sbilanciato tra estorsore e vittima. Esattamente come quando la mafia usa la corruzione, anziché usare metodi di intimidazione violenta e minacce, rimane intatto, nell’estorsione ambientale, il metodo mafioso. Infatti, così come la pratica di qualsiasi forma di corruzione implica necessariamente un esercizio invisibile e impalpabile di molteplici forme di coercizione indiretta, e a volte anche diretta[13], la pratica di estorsione ambientale e silente implica necessariamente un utilizzo di quell’eco di violenza il cui potere ricattatorio è tanto più subdolo quanto più radicata era la violenza originaria sul territorio.



[1] Elsenbroich, C., Anzola, D., & Gilbert, N. (Eds.). (2016). Social Dimensions of Organised Crime: Modelling the Dynamics of Extortion Rackets. Springer.

[2] Ed è proprio quel timore che si rinviene nelle escussioni ampiamente omissive e che si legge tra le righe nelle parole di tutti gli auditi che – proprio nell’omertà e nel sottinteso – nascondono i loro veri sentimenti di terrore.

 

[3] Forms of Capital and Mafia Violence, di Rocco Sciarrone, in “Mafia Violence. Political, Symbolic, and Economic Forms of Violence in Camorra Clans”, curato da Monica Massari e Vittorio Martone (Routledge, London 2019).

[4] De Jong, J. (Ed.). (2006). Trauma, war, and violence: Public mental health in socio-cultural context. Springer Science & Business Media.

[5] Da ciò ne consegue l’ingenerarsi di un timore diffuso nella collettività dato dalla storia feroce e sanguinaria di una particolare famiglia.

[6] Introduzione a “Mafia Violence. Political, Symbolic, and Economic Forms of Violence in Camorra Clans”, curato da Monica Massari e Vittorio Martone (Routledge, London 2019).

[7] Miller, W. L., Grødeland, Å. B., & Koshechkine, T. Y. (1998). Are the people victims or accomplices?. Crime, Law and Social Change, 29(4), 273

[8] E l’imprevedibilità della reazione e l’obiettivo su cui si concentrerà è ulteriore fonte di sgomento.

[9] L’essere parte di un gruppo, pronto peraltro ad incrementarsi nel numero non appena ve ne sia la necessità, composto da molti pregiudicati, tutti appartenenti o vicini (personalmente o per rapporti parentali) alla cosca genera un maggiore timore nella vittima.

[10] Corte di Cassazione, Sezione Seconda Penale, Sentenza 12 marzo 2018, n. 10976

[11] L’assenza del “capo” non può mai essere considerata indicativa, essendo questi normalmente tenuto in disparte, per evitare un coinvolgimento diretto dello stesso in caso di denuncia e per garantirne comunque intatto il prestigio, evitando di esporlo in circostanze non di particolare rilevanza.

[12] Mantenimento della supremazia che si estrinseca nel rispetto tributato, nel rafforzamento del “nome” del casato, nel riconoscimento esterno che alcuni sono intoccabili o – almeno – credono di esserlo.

[13] Vannucci, A. (2020) La corruzione violenta. Agenti pubblici e mafiosi tra tangenti e coercizione. In G. Frazzica (ed) Legalità violenza e criminalità organizzata, Palermo: Centro di studi ed iniziative culturali Pio La Torre

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