Il dibattito sulle misure di prevenzione alimentato, da settimane, talvolta con toni aspri, nelle aule parlamentari e fuori di esse e nutrito dal contributo di autorevoli giuristi, andrebbe forse svolto tenendo conto anche dell’evoluzione che ha caratterizzato la materia ad opera sia del legislatore, che vi ha messo mano fra il 2008 ed il 2011, sia degli approdi giurisprudenziali degli ultimi anni.
Ma soprattutto ed in primo luogo risente della mancanza di una visione d’insieme che dovrebbe portare una classe dirigente matura alla riforma del diritto penale sostanziale (non sappiamo nemmeno quanti reati ci sono, alcune commissioni ministeriali, in passato, hanno stimato l’esistenza di oltre ottomila reati), prima ancora di cercare di mettere toppe al processo penale o di intervenire sulle misure di prevenzione.
È soprattutto l’analisi della giurisprudenza (Corti di merito e Corte di Cassazione) ad offrire lo spunto per valutare lo “stato dell’arte” delle misure di prevenzione, che si pongono sempre più all’avanguardia nel contrasto ai nuovi fenomeni di pericolosità sociale, di tipo mafioso ovvero ordinario. Ed è nella moderna visione delle misure di prevenzione che occorre trovare lo slancio per superare le antiche diffidenze verso queste misure, la cui applicazione non è affatto vero che sia basata ancora sul semplice sospetto.
Al riguardo appare opportuno, anzitutto, ricostruire storicamente la genesi ed il successivo sviluppo della legislazione di prevenzione: nata (nel 1956) come strumento di controllo e neutralizzazione della piccola criminalità violenta; successivamente (dal 1965 in poi) utilizzata quale strumento di contrasto alla criminalità mafiosa; oggi sempre più strumento di aggressione alle forme di accumulazione illecita, espressione di pericolosità sociale sia generica sia mafiosa (2011).
La vecchia concezione basata sul sospetto (anno 1956) può dirsi ampiamente superata. Il salto di qualità lo si è compiuto con le leggi 125/2008 e 94/2009, attraverso le quali il sequestro e la confisca di prevenzione si applicano anche ai soggetti pericolosi non mafiosi, per assicurare allo Stato quei patrimoni affetti da illiceità genetica riconducibile a soggetti ”affetti” da pericolosità generica. E, infine, con il decreto legislativo n. 159/2011, sequestro e confisca possono prescindere dal riconoscimento della attualità della pericolosità sociale.
La visione “moderna” delle misure di prevenzione sta consentendo la loro applicazione a categorie di soggetti inquadrabili in una delle categorie personologiche di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 159/2011, in precedenza, impensabili. Faccio, in particolar modo, riferimento, ad esempio, all’applicabilità di tali misure all’evasore fiscale seriale, al truffatore seriale, al trasportatore di rifiuti seriale, al corrotto o al corruttore seriale, per la prima volta, considerati come tipologia precisa di soggetti proposti, rientranti a pieno titolo, per le specifiche caratteristiche, nelle generiche categorie di pericolosità cd. comune previste dalla legislazione di prevenzione e, oggi, dal codice c.d. antimafia.
Il campo della discussione è scivoloso, essendo sempre in agguato la tentazione di colpi di mano (lo fu certamente l’intervento legislativo del ’56) volti ad affrancare gli strumenti di «controllo della devianza» dai tradizionali parametri del giudizio penale (tassatività e determinatezza delle fattispecie incriminatrici/ accertamento giurisdizionale pieno del fatto/ onere della prova a carico dell'accusa, per citarne alcuni); tentazione che corrisponde alla dichiarata e manifesta esigenza, alimentata da interessi propagandistici in chiave di acquisizione di consensi elettorali, di mettere in campo adeguate forme di contrasto di fenomeni criminali recrudescenti. Si tratta della stessa tentazione che caratterizza la risposta demagogica della politica, allorquando, per rassicurare la collettività, ricorre, in maniera ipertrofica, ad allargare il campo della illegalità avente rilevanza penale.
Per cui la vera domanda a cui fornire una risposta non riguarda tanto questo disegno di legge in discussione, bensì se si è pronti a fare a meno della categoria normativa della pericolosità sociale.
Se rispondiamo in senso positivo, dovremmo affidare esclusivamente al monopolio della risposta strettamente penalistica -unitamente con la funzione rieducativa della pena- il compito di contrastare la serialità delle condotte pericolose dotate della carica potenziale di accumulazione di patrimoni illeciti.
Per quanto allettante e rispondente ad un quadro costituzionale e convenzionale delle garanzie individuali, in questo momento il sistema penale non è in grado, da solo, di realizzare tale ambizioso obiettivo; e ciò a causa del sovraccarico di lavoro che sta sfiancando la cognizione penale (carenza di risorse, un numero eccessivo di fattispecie incriminatrici, i tempi lunghi del processo e l’esito non sempre certo dell’accertamento; e ciò a tacer d’altro).
E, dunque, se appare difficile disfarsi della categoria della pericolosità sociale, lo sforzo del legislatore e, prima ancora del giurista, dovrebbe andare nella direzione, in questo delicato settore, di coniugare le esigenze di contrasto della pericolosità sociale e di aggressione dei patrimoni geneticamente illeciti, con le garanzie e le libertà individuali.
Di qui il richiamo, anzitutto, alla evoluzione normativa degli ultimi anni.
Nessuno si è meravigliato, allorquando il Legislatore, attraverso la previsione della confisca allargata o per valori equivalenti, ha ampliato il campo dei delitti presupposto, prevedendo addirittura la possibilità della confisca nella fase dell’esecuzione della condanna anche per taluni delitti contro la pubblica amministrazione; e ciò all’esito di un procedimento (in cui si valuta la sproporzione tra il tenore di vita e le fonti ufficiali di reddito), che presenta molte analogie con il giudizio di prevenzione.
Sul versante della giurisprudenza dei giudici nazionali, non si possono non ricordare i passi da gigante compiuti da una magistratura responsabile e sempre più specializzata nella materia della prevenzione, che progressivamente ha posto a base del giudizio di pericolosità -superando la vecchia logica del sospetto- le condotte di reato già giudicate o giudicabili in sede penale, a loro volta rientranti nella selezione normativa delle fattispecie astratte di pericolosità generica, ferma restando la autonoma valutazione del giudice della prevenzione e le diverse finalità di tale procedimento rispetto a quello che si conclude con la irrogazione di una pena.
Dunque, misure di prevenzione non più “pene del sospetto”, bensì oggetto di un giudizio che presuppone l’accertamento di comportamenti illeciti (reati) seriali, ripetitivi, trasudanti, come tali, di pericolosità.
Come non può non essere ricordata la evoluzione giurisprudenziale che in tema di confisca ha fatto della pericolosità la misura temporale dell’ablazione, nel senso che si possono acquisire allo Stato e sottrarre alla libera circolazione quei beni e solo quei beni che siano manifestazione di pericolosità.
Se, dunque, già da ora e per effetto dei consolidati orientamenti giurisprudenziali dei giudici nazionali, le condotte di reato sono poste a monte della valutazione di pericolosità sociale, va apprezzato lo sforzo del legislatore di ulteriormente tipizzare le fattispecie comportamentali genericamente indicate negli artt 1 e 4 del decreto legislativo n. 159/2011, attraverso la previsione, come soggetti destinatari delle misure di prevenzione, di coloro che sono indiziati di prestare assistenza agli associati, alle associazioni per delinquere e mafiose; degli indiziati di una serie di reati contro la pubblica amministrazione; degli indiziati del delitto di stalking; degli indiziati del delitti di truffa aggravata per conseguire erogazioni pubbliche.
Questa riforma, approvata dal Senato ed ora all’esame della Camera dei Deputati, presenta indubbiamente il pregio, attraverso la tipizzazione dei comportamenti, la cui ripetitività fonda il giudizio di pericolosità, di essere in linea con le osservazioni critiche della Corte Europea dei diritti dell’uomo, che recentemente (sentenza De Tommaso contro Italia, 23 febbraio 2017), ha rimarcato il profilo della mancata tipizzazione delle fattispecie comportamentali la cui ricorrenza seriale (pericolosità sociale) costituisce presupposto per la sua applicazione.
La sentenza della Corte di Strasburgo ha altresì criticato il profilo della mancata preventiva conoscenza, per i soggetti destinatari delle misure di prevenzione, delle prescrizioni applicabili ai sottoposti alle stesse, norme che appaiono carenti con riguardo al requisito della prevedibilità prescritto dalla CEDU.
Nella dimensione applicativa della giurisprudenza sopra riportata, certamente, si possono cogliere delle linee di tendenza, in grado di arginare quei dubbi di compatibilità costituzionale e convenzionale che si agitano su questo difficile campo.
Sarebbe opportuno che il Legislatore cogliesse questa occasione storica -adeguandosi alle indicazioni della Corte di Strasburgo- per aggiornare i contenuti prescrittivi della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza (misura personale), ancorata ad un tipo di contenimento della devianza generalista, abrogando le previsioni inutili (obbligo, ad esempio, di osservare le leggi) e inserendo misure graduali e maggiormente rispondenti alla necessità di inibire specifiche manifestazioni di pericolosità (come è avvenuto nel caso delle manifestazioni sportive).
Certo il compito del legislatore non è semplice, ma resto fiducioso che nella più alta sede parlamentare si riesca a trovare quel giusto equilibrio fra istanze di difesa sociale e garanzie di libertà individuali.
La posta in gioco sul terreno dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, di tipo mafioso e non, è troppo alta per ridurla banalmente al dualismo “corruzione sì/corruzione no” fra i reati spia della pericolosità.
Non dobbiamo dimenticare che le misure di prevenzione, soprattutto quelle patrimoniali, assolvono al delicato compito di sottrarre alla economia illegale patrimoni nati ed accumulati illecitamente, in funzione della tutela del mercato (art. 41 Cost.). Da sempre sappiamo che la grande liquidità e le grandi disponibilità delle consorterie criminali (mafiose e non) devono trovare uno sbocco ora nel riciclaggio, ora nella corruzione per aggiudicarsi gli appalti o altrimenti infiltrarsi nel settore della Pubblica Amministrazione, in particolare enti locali. Dobbiamo scrollarci di dosso l’idea del mafioso o dell’imprenditore mafioso o del grosso riciclatore di denaro sporco che con la coppola e la lupara va seminando condizionamento con metodo indimidatorio. Del resto di questo nuovo modo di operare delle consorterie criminali se ne è reso ben conto il nostro Legislatore da oltre un ventennio. Al riguardo può essere interessante notare come, a partire dagli inizi del 1990, a fronte della sempre più appariscente manifestazione del perverso intreccio tra mafia e politica, sia mutata la terminologia del legislatore che ha associato all’azione di contrasto alla criminalità organizzata l’esigenza di buon andamento e trasparenza della Pubblica Amministrazione. Si tratta di un accostamento non occasionale, ove si pensi al dato oggettivo del consistente numero di amministrazioni comunali disciolte dal 1991 -data di entrata in vigore della legge 22 luglio 1991, n. 221, di conversione del d.l. 31.5.1991, n. 164- ad oggi, per motivi di infiltrazione o condizionamento mafioso. Un dato che si carica di connotati ancora più allarmanti ove si consideri che la quasi totalità di questi Comuni è concentrata nell’Italia meridionale ed in quattro Regioni, in particolare, Campania, Calabria, Sicilia, Puglia, a cui si sono aggiunte Basilicata, Lazio e Piemonte. Si inseriscono lungo questo indirizzo terminologico, ad esempio, la l. 19.3.1990, n. 55, che al Capo II testualmente prevede “Ambito di applicazione delle leggi 31 maggio 1965 (misure di prevenzione), n. 575 e 13 settembre 1982 n. 646. Effetti della riabilitazione e disposizioni a tutela della trasparenza dell’attività delle Regioni e degli enti locali in materia di appalti pubblici”; il d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, con il quale il linguaggio del legislatore si è fatto ancora più esplicito e diretto, “recante “Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”; la legge 22 luglio 1991, n. 221, di conversione, con modificazioni, del d.l. 31 maggio 1991, n. 164, recante “Misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso”. E queste solo per citarne alcune. Tali leggi sono la testimonianza eloquente di come il Legislatore si sia reso conto che la criminalità organizzata di tipo mafioso e non, riuscendo ad accumulare ingenti capitali geneticamente illeciti, è in grado di inquinare la pubblica amministrazione.
Per cui, pur comprendendo le polemiche che stanno accompagnando l’ter di approvazione del disegno di legge in discussione, non ci si deve preoccupare se fra i reati spia della pericolosità siano stati inseriti quelli dei pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione. E ciò per una molteplicità di ragioni di sistema analizzate sia pure sommariamente in questo contributo, la prima delle quali risiede nel fatto che al sequestro e, poi, alla confisca si giunge sulla base non di semplici sospetti (ed io aggiungo nemmeno sulla base di indizi) della dedizione di un soggetto, ad esempio, a condotte di corruzione, bensì sulla base di reati, seriali, ripetuti, giudicati o giudicabili.
Colpire con le misure di prevenzione i patrimoni di soggetti dediti alla corruzione significa restituire allo Stato le ricchezze illecite, per tutelare l’economia di mercato. La corruzione è un cancro che si abbatte non solo sui singoli appalti, ma inquina l’economia intera, poiché immette nel mercato disponibilità di denaro sporco che vengono o riciclate o utilizzate per ulteriori corruzioni. E tutto ciò in danno degli imprenditori onesti.
Una democrazia moderna come la nostra deve prevenire la corruzione; la deve efficacemente contrastare anche con l’azione giudiziaria (indagini e processi) e deve aggredire le ricchezze di soggetti che le hanno accumulato illecitamente, avendo fatto ricorso alla corruzione in maniera sistemica.