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Le discussioni di due amici sulla funzione del processo

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 venerdì, 26 maggio 2023

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Carnelutti, Calamandrei e la polemica sul concetto di lite.

di Paolo SPAZIANI, Consigliere della Corte di cassazione

 
 

Le discussioni di due amici sulla funzione del processo. Carnelutti, Calamandrei e la polemica sul concetto di lite.

Sommario: 1. L’ amicizia tra Carnelutti e Calamandrei e la diversa concezione del processo. - 2. Il progetto di riforma di Carnelutti, la centralità della lite e le «memorande discussioni» di Calamandrei. - 3. Le critiche di Calamandrei al concetto carneluttiano di “lite”. - 4. Le “Postille” difensive di Carnelutti. - 5. L’eredità del pensiero di Carnelutti, nel filtro chionvendiano di Calamandrei, come valore del codice di procedura civile del 1940.

 

1. L’ amicizia tra Carnelutti e Calamandrei e la diversa concezione del processo.

Nel 1956, appresa la notizia, «fulminea e tremenda», della morte di Calamandrei, Carnelutti, nel descrivere, con i tratti magistrali della sua magnifica prosa, la loro «faticata» amicizia[1], non si sarebbe limitato a ricordare la profonda eterogeneità delle loro due fortissime personalità, la contrapposizione, talora quasi violenta, che aveva caratterizzato i loro reciproci rapporti, i “combattimenti” che avevano avuto nella vita professionale, la diversa concezione della scienza, della vita pubblica, di quella spirituale, l’opposta  Weltanschauung[2]; ma si sarebbe spinto a raccontare anche «cose» di «carattere personale», sul rilievo che, pur quando si scrive su una rivista scientifica, «non si può fare un taglio netto tra la testa e il cuore»[3].

Quest’ultima espressione (in puro stile carneluttiano, capace di unire, in un evocativo lirismo, la chiarezza degli argomenti e la suggestione delle parole) riflette l’invincibile virtù umana di non saper districare sino in fondo l’intelletto dai sentimenti.

 Alla luce di questa virtù, Carnelutti avrebbe reso evidente come quella apparentemente inconciliabile contrapposizione era stata vissuta da ognuno nella piena consapevolezza della rilevanza dell’altro; rilevanza non solo per la considerazione che ognuno aveva dell’altro; ma rilevanza, soprattutto, per la considerazione di sé determinata dal riconoscimento dell’altro. Come se ognuno dei due avesse compiuto, nell’altro, il percorso conflittuale dell’autocoscienza hegeliana: la quale, infatti, non è semplicemente in sé e per sé, ma è tale in quanto è in sé e per sé per un’altra[4].

Così, nell’ambito di rapporti che per lungo tempo erano stati «regolati solamente dal rispetto», si sarebbe a poco a poco insinuato l’«affetto». Come fosse nato – avrebbe detto Carnelutti – «non so. Son cose che somigliano allo spuntare delle pianticine tra le pietre d’un selciato»[5].

Così, pur litigando su tutto, avrebbero continuato a dirigere insieme per trent’anni la Rivista di diritto processuale.

Così, quantunque sembrasse che non si sopportassero, sarebbero stati, sino alla fine, inseparabili, tanto che Carnelutti, proprio su quella Rivista, avrebbe voluto che il nome dell’amico scomparso rimanesse accanto al suo fintanto che egli fosse vissuto[6].

 Nella scienza, per Carnelutti, Calamandrei avrebbe impersonato quello che nell’arte si chiama l’apollineo e nella filosofia l’essere. Egli, invece, avrebbe impersonato il dionisiaco, il divenire. Un romantico impetuoso, si sarebbe auto-definito, di fronte ad un classico guardingo (così avrebbe definito l’amico).

Non siamo in grado di dire se questa classificazione, evidentemente influenzata dal sentimento e dall’emozione, abbia fondamento scientifico. Certo, la prima parte di essa (quella riferita da Carnelutti a se stesso) potrebbe trovare una qualche giustificazione nell’entusiasmo con cui egli aveva aderito a quella rivoluzione copernicana che la processualcivilistica italiana aveva vissuto con il passaggio dalla vecchia scuola esegetica dei proceduristi alla nuova scuola sistematica dei processualisti. Possiamo pensare che proprio l’introduzione del sistema e dei concetti di teoria generale nello studio del processo sia stata tra le ragioni più rilevanti della conversione di Carnelutti (che si era laureato in diritto civile con Polacco[7] e aveva scritto il suo primo «articoluccio» in diritto commerciale con Sraffa[8]) alla nuova scienza processuale, che gli sarebbe diventata “così cara”[9]. Della sua adesione all’idea (che possiamo senz’altro definire “chiovendiana”) del diritto processuale quale insieme ordinato, autonomo e sistematico di norme (e non come compendio disarticolato di regole di procedura) e della condivisione della tendenza (pure questa “chiovendiana”) alla costruzione di una teoria generale del processo, era stato eloquente esempio già la sua monografia iniziale su La prova civile e lo erano state ancor più le sue Lezioni patavine che, non a caso, erano state intitolate al diritto processuale civile e non alla vecchia procedura.

Da questo punto di vista, la posizione di Calamandrei sarebbe rimasta sempre molto più cauta.

Egli – che al contrario di Carnelutti era nato processualista (oggi, forse, si direbbe: nativo processuale) e che aveva avuto il primo maestro in Carlo Lessona, l’ultimo dei proceduristi di ispirazione francese –, pur ribadendo per tutta la vita di essere allievo di Chiovenda (nel quale avrebbe visto, non solo il suo, ma il nostro Maestro[10]), sarebbe sempre stato persuaso che il metodo sistematico avrebbe dovuto completare (e non già sostituire) il metodo esegetico.

Della sua convinzione che il nuovo insegnamento non soppiantasse il precedente e che entrambi dovessero, anzi, essere integrati in un’osmosi feconda, Calamandrei aveva più volte dato atto, sino a farne un manifesto metodologico[11].

Di questo manifesto metodologico aveva, inoltre, fatto applicazione nella sua opera più importante, il sontuoso Trattato su La Cassazione civile, specialmente nel secondo volume, ove lo studio dogmatico della Cassazione nel diritto positivo, pur condotto sul piano sistematico (e diretto infatti, a cogliere il “Disegno generale dell’istituto[12]), era stato svolto rifuggendo da «costruzioni aprioristiche campate in aria», avvalendosi, come necessario presupposto, di un’indagine generale «a dir così delibativa» di tutte le norme volte a regolarlo, in funzione di «integrarne la fisionomia», nell’ambito di una limitata, ma necessaria operazione esegetica[13].

Dal canto suo, Carnelutti, pur sentendosi, nel 1922, «come sempre», uno «scolaro» di Chiovenda[14], non avrebbe esitato, l’anno successivo, a discuterne l’autorità proprio su ciò che lo studioso di Premosello aveva di più caro, vale a dire la tanto propagandata oralità[15].

 Sul tema della struttura del processo, Calamandrei, invece, pur avendo in gioventù criticato quei processi, tedesco e austriaco, che rappresentavano, per Chiovenda, l’esempio da seguire[16], non si sarebbe più significativamente discostato dalle posizioni chiovendiane, dopo essersi ad esse sostanzialmente convertito in un famoso saggio del 1919 sui Problemi giudiziari nella Venezia tridentina[17].

Ma è sul tema della funzione del processo che, in modo più significativo, il pensiero di Carnelutti avrebbe rappresentato una “fuga in avanti” rispetto alle, pur innovative, posizioni chiovendiane.

Infatti, egli (che, pur professandosi «scolaro» di Chiovenda, non sarebbe mai stato un chiovendiano[18]), lungi dall’aderire a quella concezione pubblicistica che vedeva nel processo il mezzo per l’attuazione della legge, si sarebbe spinto, attraverso la teorica della “lite”, ad elaborare, proprio in contrapposizione a Chiovenda, quello che avrebbe rappresentato, sotto il profilo funzionale, il fondamento stesso di tutto il suo sistema e che avrebbe costituito la cifra più rilevante del suo pensiero e l’elemento veramente discriminante della sua visione del processo[19].

Calamandrei, con la consueta eleganza e con disarmante semplicità, avrebbe riassunto questo tema nel dilemma se si debba «vedere nel processo civile un servigio che lo Stato rende al cittadino, fornendogli il mezzo per attuare il suo diritto soggettivo, ovvero un servigio che il cittadino rende allo Stato, fornendogli l’occasione per attuare il diritto oggettivo»[20].

Ma anche su questo egli sarebbe rimasto su posizioni più equilibrate, guardando sempre, con deferenza, alla lezione sublime di Chiovenda[21].

Ebbene, se alla luce di tutte queste considerazioni la definizione fornita da Carnelutti di se stesso e dell’amico scomparso (romantico impetuosoclassico guardingo) può forse trovare qualche giustificazione nella sua prima parte (quella, appunto, riferita a se stesso), certo non ne trova alcuna in relazione alla seconda parte (quella riferita a Calamandrei), la quale deve verosimilmente essere imputata, ancora una volta, a quella incapacità umana di districare l’intelletto dai sentimenti che l’autore aveva sperimentato ogni giorno, per trent’anni, nei rapporti con il suo «compagno di lavoro», e che tanto più invincibile appariva ora, al momento della morte di quello, quando «ci si dimentica di tutto per sentirsi soltanto uomini», vale a dire «povere deboli creature» con «addosso un senso di solitudine sgomenta, come se si fosse bambini»[22].

Gli è che Calamandrei, seppure lo si voglia definire un classico, certo non può essere qualificato guardingo.

Nel commemorarlo presso il “suo” ateneo, a poco più di dieci anni dalla sua scomparsa, Salvatore Satta avrebbe detto che Calamandrei era «concittadino di Farinata»[23].

Con tale incisiva affermazione, lo studioso sardo avrebbe ricordato un aspetto innato nel carattere di Calamandrei, che lo distingueva nettamente sia da Carnelutti sia dalla inconferente definizione di “guardingo”: quello di essere, al contrario, uomo «di parte» e «di azione»[24].

L’essere di parte e l’essere di azione non sono aspetti necessariamente coesistenti e neppure complementari: si può essere di parte senza essere d’azione e si può essere d’azione senza essere di parte.

In Calamandrei, invece, questi due aspetti si compenetravano in uno soltanto, perché la sua predisposizione ad agire non derivava da una mera, istintiva impulsività, ma da una capacità di indignazione che costituiva, per un verso, la naturale implicazione del suo senso di giustizia e, per l’altro, il riflesso aggressivo della sua proverbiale “ingenuità[25].

Questa predisposizione si manifestava non solo in quegli aspetti della vita che trovano nell’azione la loro ordinaria modalità di essere vissuti (come la guerra, l’agone politico, le battaglie nelle commissioni e nelle assemblee legislative), ma anche in quelli più propriamente contemplativi.

Così Calamandrei sarebbe stato uomo d’azione anche nello studio, anche nella riflessione giuridica: avrebbe agito anche nel momento in cui fosse stato impegnato nell’indagine speculativa sui problemi del diritto e del processo.

In questo senso, lungi dall’essere un giurista classico giustapposto ad un eventuale giurista romantico (come nella evocativa, ma, almeno parzialmente, infondata classificazione carneluttiana), Calamandrei, chiuso nel «tormento dell’incomprensibile azione umana», della «terribile azione del suo tempo»[26], sarebbe stato piuttosto un giurista martire[27].

In tale diversa prospettiva, nella contrapposizione tra i due amici, le posizioni immaginate da Carnelutti si dovrebbero, dunque, invertire: lo studioso friulano, insieme ad altri grandi giuristi del suo tempo (tutte «creature placate nelle loro certezze»), potrebbe essere annoverato nella categoria dei giuristi-eroi e collocato nella dimensione statica dell’essere (o dell’ apollineo);  Calamandrei, unico esponente dei giuristi-martiri, vivendo il tormento dell’agire errante, potrebbe essere collocato nella dimensione dinamica del dionisiaco (nella dialettica del divenire).

Ci troviamo, in conclusione, dinanzi ad una ben strana ed incredibile coppia, formata da un martire (che avrebbe potuto essere anche un classico) e da un romantico che (potrebbe essere stato anche un eroe), i quali non sapevano fare a meno l’uno dell’altro.

 

2. Il progetto di riforma di Carnelutti, la centralità della lite e le «memorande discussioni» di Calamandrei.

La legge 30 dicembre 1923, 2814, contenente, tra le altre, la delega per la riforma del codice di procedura civile del 1865[28], vide la luce alla fine di «un anno d’importanza fondamentale nella storia della processualcivilistica italiana››[29].

Pe l’attuazione di essa il Governo formò una commissione divisa in quattro sottocommissioni: la sottocommissione A (per il codice civile), presieduta da Vittorio Scialoja; la sottocommissione B (per il codice di commercio) presieduta da Mariano D’Amelio, primo presidente della Cassazione; la sottocommissione C (per il codice di procedura civile), presieduta da Lodovico Mortara; e la sottocommissione D (per il codice della marina mercantile), presieduta da Raffaele Perla, presidente del Consiglio di Stato.

La sottocommissione C aveva Chiovenda come vicepresidente e tra i componenti vi erano sia Carnelutti che Calamandrei. Essa si giovava, inoltre, dell’apporto di altri due grandi processualisti: Federico Cammeo, già allievo di Mortara, ed Enrico Redenti, vicino a Chiovenda per essere stato discepolo di Vincenzo Simoncelli, collega fidatissimo, nonché genero carissimo, di Vittorio Scialoja.

il 14 luglio 1924 il presidente Mortara istituì un comitato ristretto con il compito di predisporre uno schema di progetto da sottoporre alle determinazioni della sottocommissione e dispose che l’incarico di relatore fosse assunto da Carnelutti.

Quest’ultimo lavorò indefessamente per nove mesi e, alla fine di maggio del 1925, licenziò un imponente progetto del nuovo processo civile di cognizione di 426 densissimi articoli.

Oltre che quantitativamente ponderoso, l’articolato era qualitativamente rivoluzionario, poiché si discostava da entrambi i precedenti tentativi di riformare il codice del 1865, che portavano le autorevoli firme di Lodovico Mortara e Giuseppe Chiovenda.

Carnelutti, fedele alla sua personale visione, aveva voluto porre in primo piano non tanto il problema della struttura del processo (nell’ambito del quale si collocava l’alternativa tra il processo orale e il processo scritto) quanto piuttosto la questione della funzione dello stesso (nell’ambito della quale si poneva, per dirla con Calamandrei, il quesito se esso servisse ai cittadini per attuare i diritti soggettivi o allo Stato per attuare il diritto oggettivo[30]) e lo aveva fatto nel modo più imprevedibile, sopravanzando il Maestro Chiovenda[31] e rispondendo al quesito nel senso che il processo non serviva all’attuazione della legge ma alla  composizione della lite.

Del carattere rivoluzionario del progetto di Carnelutti – nel cui Libro primo campeggiava in posizione centrale il Titolo terzo (Della lite) –  ci informò Calamandrei[32] che, da “amico”, si oppose a quel progetto con tutte le sue forze.

Il concittadino di Farinata, dopo aver premesso che l’‹‹eloquenza›› di Carnelutti aveva ‹‹trionfato nei lavori della sottocommissione›› (la quale, ‹‹pur trovandosi spesso in disaccordo con le idee da lui esposte, è[ra] restata … non diciamo incantata dalla sua facondia … ma più facilmente disposta a differire ad altro momento la concreta enunciazione del dissenso››)[33], aggiunse che, tuttavia la gran parte dei commissari non aveva accettato passivamente di aderire ad una riforma alla cui base vi era una ‹‹concezione scientifica›› diversa sia da quella di Mortara che da quella di Chiovenda e ‹‹una concezione del processo›› non derivante ‹‹né dalla scuola esegetica né da quella sistematica››, ma, ‹‹tutta e soltanto dal pensiero›› del suo autore[34].

Egli, quindi, concluse, con un’espressione rimasta celeberrima, che in seno alla sottocommissione il dibattito si era tradotto, soprattutto per merito di tutti coloro che si erano detti contrari ‹‹ad  accoglier nel nuovo codice il concetto di “lite”››, in ‹‹discussioni che restarono veramente memorande per chi ebbe la fortuna di parteciparvi››[35].

 

3. Le critiche di Calamandrei al concetto carneluttiano di “lite”.

Sul piano squisitamente dogmatico, le critiche di Calamandrei al concetto di “lite” – e, più in generale, alla concezione carneluttiana della funzione del processo – si ritrovano, oltre che nel saggio sinora citato[36],  in un altro storico scritto pubblicato sul primo fascicolo dell’anno 1928 della Rivista di diritto processuale[37].

In questo scritto Calamandrei, dopo aver ricordato che, secondo la teoria carneluttiana, la lite è ‹‹il conflitto di interessi regolato dal diritto›› e che ‹‹la giusta composizione della lite costituisce lo scopo del processo››[38], affermò senza mezzi termini che con questa teoria la dottrina italiana del processo, anziché progredire, era tornata indietro di diversi secoli, riproducendo una concezione della giurisdizione che, in quanto imperniata sul carattere essenziale della contenziosità, ricordava quella ‹‹della dottrina e pratica del processo italiano medievale››[39].

Inoltre, il concetto di lite non era idoneo a spiegare la natura giurisdizionale o processuale del processo esecutivo (mancando in questo lo ‹‹scopo di composizione dei conflitti mediante la formazione di un comando concreto››[40]), né, soprattutto, del processo civile inquisitorio, in cui rientravano, secondo Calamandrei, i casi di giurisdizione costitutiva necessaria (nei quali la pronuncia del giudice è ‹‹ugualmente›› indispensabile ‹‹anche quando le parti siano pienamente d’accordo sull’effetto da conseguire››[41]).

Pur volendo mantenersi nel solo ambito della fase di cognizione, occorreva, dunque, prendere atto dell’esistenza di processi ‹‹che non risolvono liti››, sicché la ‹‹nota distintiva della funzione giurisdizionale››, in tale fase, andava individuata, più che nella composizione di una lite, nella rimozione dello stato di incertezza sussistente intorno ad un certo rapporto giuridico.

La funzione di accertamento veniva così ad essere l’ ‹‹effetto caratteristico della giurisdizione nel processo di cognizione››: sia quando la causa che lo avesse reso necessario fosse ravvisabile in un conflitto di interessi che si sarebbe potuto teoricamente comporre anche con il consenso delle parti (nel qual caso, il presupposto del giudizio sarebbe stato effettivamente riconducibile ad una “lite”, in senso carneluttiano); sia quando, come nelle azioni di mero accertamento, l’interesse ad agire fosse derivato da ‹‹uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico››, eventualmente non originatasi in un fatto del convenuto, sicché l’accertamento giudiziale sarebbe stato del tutto indipendente dalla sussistenza di un ‹‹effettivo conflitto di interessi tra i soggetti del rapporto incerto››; sia, infine, quando – come nel processo civile inquisitorio – l’intervento del giudice fosse stato ‹‹imposto dalla stessa legge››[42].

Demolita, sul piano teorico, la nozione carneluttiana di “lite”, Calamandrei ne mise in dubbio anche l’utilità pratica e, dunque, l’opportunità di accoglierla, de iure condendo, a fondamento sistematico del nuovo codice di procedura civile[43].

Quand’anche, infatti (‹‹contrariamente alle considerazioni precedentemente svolte››) si fosse individuato in questo concetto il presupposto immancabile della giurisdizione, in conformità all’insegnamento carneluttiano, comunque (contrariamente a quanto Carnelutti aveva fatto nell’ambito della Sottocommissione C) sarebbe stato inopportuno farne la ‹‹generale premessa dogmatica del Progetto di codice››, ripensando e orientando in relazione alla “lite” tutti gli istituti processuali, anche quando avessero mantenuto una struttura immutata rispetto al diritto vigente.

Infatti – sentenziò Calamandrei – una simile palingenesi processuale, ove effettivamente avesse avuto corso, avrebbe generato ‹‹disorientamento›› tra i pratici del diritto, ‹‹ai quali più che assuefarsi agli istituti veramente nuovi introdotti dalla riforma [sarebbe costato] fatica il dover considerare sotto nuove apparenze teoriche istituti sostanzialmente immutati››[44].

Calamandrei concluse dunque il saggio con alcune (ulteriori) considerazioni critiche sui criteri di identificazione delle liti (proposti da Carnelutti in luogo dei tradizionali elementi differenziali delle azioni[45])  e sui rapporti tra “lite” e “questioni” (‹‹che dovrebbero costituire la saldatura tra la lite e il processo››[46]), facendole bensì precedere dalla premessa che esse considerazioni avrebbero ‹‹raggiunto il loro scopo›› se avessero provocato, ‹‹da parte dell’amico Carnelutti una replica che mi persuada del mio torto››[47], ma facendole anche seguire dalla conclusione che sarebbe stata «inopportuna una aperta consacrazione legislativa di questa altrettanto originale quanto discutibile teoria carneluttiana nel nuovo Codice (corsivo nostro), il quale tanto meglio [avrebbe corrisposto] alle speranze di chi [avrebbe dovuto applicarlo] quanto più [avesse lasciato] riservate agli studiosi le dispute de apicibus iuris e [avesse presentato] le riforme nella veste più semplice e meno lontana dalla tradizione››[48].

 

4. Le “Postille” difensive di Carnelutti.

L’attacco di Calamandrei – il quale non si era limitato a ribadire la sua adesione alla teoria chiovendiana che vedeva nell’attuazione del diritto oggettivo la funzione del processo[49], ma aveva criticato funditus il fondamento scientifico e la rilevanza pratica del concetto basilare della diversa teoria dell’‹‹amico Carnelutti››, mettendo in dubbio il rilievo del suo pensiero come giurista e l’utilità della sua opera come legislatore – dovette sorprendere e, forse, ferire lo studioso friulano, il quale, se così non fosse stato, non avrebbe sentito il bisogno di ricordarlo, quasi un trentennio dopo, dinanzi alla salma del collega, nel momento in cui il loro ‹‹faticato›› rapporto avrebbe finalmente trovato, nella commozione del rimpianto e nella dolcezza del ricordo, una sublime riconduzione ad armonia.

Egli, tuttavia, non lo dette a vedere e, dall’alto della sua imponenza scientifica, confezionò in men che non si dica due corpose Postille – l’una intitolata Lite e funzione processuale, l’altra intitolata Lite e processo – che pubblicò, sulla Rivista, in calce, rispettivamente, alla prima e alla seconda parte del saggio critico di Calamandrei[50].

 La difesa di Carnelutti, pur permeata da una costante sottolineatura del rapporto di amicizia – e persino di affetto – che lo legava a Calamandrei («il mio contraddittore, valoroso e caro»; il «mio bravissimo amico»; l’«avversario cortese»; «quel sereno e probo giurista, che è il mio amico Calamandrei»),  fu giuocata, da un lato, avendo cura di deprezzare – pur nel rispetto dei canoni della dialettica scientifica e dei limiti della cortesia propri di un gentiluomo – il rilievo delle critiche che gli venivano mosse («uno spediente senza neanche il pregio dell’eleganza»; «le obbiezioni di Calamandrei non sono servite che a ben ribadire la mia opinione»; «quella specie di reductio ad absurdum della mia opinione … tentata da Calamandrei … è un labile castello di carte»); dall’altro lato, omettendo la modestia di ricercare nella loro eventuale sostenibilità dogmatica, anziché nel fraintendimento  della sua teoria (da lui paragonata, per i suoi aspetti innovativi, alla scoperta di Cristoforo Colombo), le ragioni del dissenso[51].

Anzitutto – premise, facendo evidentemente buon viso a cattivo gioco – occorreva riconoscere che la fatica compiuta da Calamandrei per combattere la sua teoria della “lite” non era certamente vana, così come non lo sarebbe stata la contraria fatica che egli avrebbe fatto per difenderla, avuto riguardo al fatto che quello della funzione giudiziaria era veramente, per la scienza del processo, il problema più grave[52].

In secondo luogo – tenne a chiarire – non era affatto vero che nella sua teoria era rinato il concetto medievale della contentio inter partes, giacché altra era la contentio (che equivaleva a contraddizione) altra era la “lite” (che presupponeva un conflitto tra diversi interessi)[53].

Fatta la premessa e compiuto il chiarimento, Carnelutti evidenziò come, se al suo ‹‹bravissimo amico›› la nozione di “lite” era parsa troppo restrittiva per abbracciare l’intera fenomenologia della giurisdizione, a lui parevano invece troppo dispersivi i diversi concetti da quegli proposti per individuare il contenuto della funzione processuale: tanto quello che faceva riferimento alla funzione di accertamento (la quale, intesa in senso improprio, avrebbe dovuto ritenersi presente anche nell’attività amministrativa, mentre, intesa in senso proprio, come riferita alla sola attività giurisdizionale, veniva nella sostanza a coincidere con la composizione della lite)[54];  quanto quello – schiettamente chiovendiano – che faceva riferimento alla attuazione del diritto oggettivo (giacché anche questa attività, isolatamente considerata, non sarebbe stata sufficiente a distinguere tra amministrazione e giurisdizione, occorrendo al riguardo chiedersi perché il diritto oggettivo venisse attuato nelle diverse funzioni statuali)[55].

Riaffermata la validità della nozione di “lite” quale (unico) criterio discretivo della funzione del processo, Carnelutti ammise che essa poteva apparire imprecisa, avuto riguardo alla varietà di significati attribuita a questa parola, tanto nel ‹‹linguaggio corrente››, quanto nelle ‹‹formule della legge›› e persino ‹‹tra gli studiosi››.

Si disse, pertanto, lieto di volerla specificare, riconoscendo che quello che aveva fatto nelle Lezioni era «null’altro che un tentativo» di cui «per primo» riconosceva l’«imperfezione»[56].

La lite – egli dunque precisò – presupponeva non solo il conflitto tra due interessi ma anche che uno dei due interessi aspirasse alla tutela giuridica mediante la pretesa e che l’altro vi resistesse o la contrastasse. Il contrasto reale alla pretesa si sarebbe avuto con la lesione dell’interesse (alla cui riparazione avrebbe provveduto il processo di condanna); ma oltre che con la lesione dell’interesse, la resistenza alla pretesa si sarebbe avuta anche con la semplice contestazione di essa (alla cui riparazione avrebbe provveduto il processo di mero accertamento). In questo secondo caso, si sarebbe avuta una “lite” socialmente meno pericolosa rispetto al primo, ma pur sempre di “lite” si sarebbe trattato.

La “lite”, pertanto, vi sarebbe stata ugualmente quando taluno avesse preteso la tutela di un suo interesse in contrasto con l’interesse di un altro e questi vi avesse resistito, sia che lo avesse fatto mediante la lesione dell’interesse (tutela processuale di condanna) sia che lo avesse fatto mediante la contestazione della pretesa (tutela processuale di mero accertamento)[57].

Chiarito come – a differenza di quanto aveva sostenuto Calamandrei – anche i processi di mero accertamento presupponessero una “lite” da comporre, Carnelutti si soffermò sul processo esecutivo (che trattò unitamente al processo penale), osservando che anche in questo caso non veniva in rilievo una manchevolezza della sua tesi ma piuttosto l’equivoco in cui era incorso il suo contraddittore: non era vero, infatti, che nel processo esecutivo (così come in quello penale) non vi fosse “lite”, atteso che al contrario, anche in questi processi essa era contenuta e composta, come nel classico processo civile di condanna. L’apparente mancanza della “lite” era dovuta, al solito, al fraintendimento di Calamandrei che aveva, «ancora una volta», confuso lite e contraddizione[58].

Lo studioso friulano non mancò, in conclusione, di confrontarsi con Calamandrei sulle stimolanti tematiche dei processi di mero accertamento per fatto del terzo e dei processi senza lite.

Con riguardo ai primi, ebbe cura di rilevare la debolezza della premessa sulla quale era costruita la critica di Calamandrei, il quale aveva puntato, da un lato, sull’autorità di Chiovenda e, dall’altro, sulla nozione di interesse ad agire, per affermare l’ammissibilità, e finanche la necessità, di un’azione di accertamento diretta verso il soggetto passivo del rapporto giuridico, sebbene l’incertezza da rimuovere intorno ad esso fosse scaturita dalla condotta del terzo.

Rispetto al primo argomento, Carnelutti affermò senza mezzi termini che a Chiovenda non era «mai passato per la mente» di dire che il creditore doveva agire contro il debitore che riconosceva pacificamente di essere tale, non prima di avere osservato, tra l’altro, che «l’autorità è una bella cosa; sed magis amica veritas»[59].

Del secondo argomento, invece, approfittò per celebrare il funerale dell’interesse ad agire, «ibrida nozione», che costituiva «una delle più fallaci approssimazioni, di cui si sia valsa, in una fase fortunatamente superata, la scienza del processo»[60].

Questa nozione, precisò Carnelutti, era già morta, e se non morta moribonda, «fin da quando i rinnovati studi del processo ne avevano estratta e separata la nozione della legitimatio ad causam», consistente «in una certa situazione (di titolarità o, come dire?, di contatto) rispetto a quel quid, che costituisce la materia del processo»[61].

Con riguardo ai processi senza lite (nella cui categoria rientravano i casi di giurisdizione costitutiva necessaria citati da Calamandrei), Carnelutti concesse, infine, che il processo poteva «servire» anche ad un fine diverso dalla composizione della lite, il che peraltro non impediva – anzi imponeva – di continuare ad individuarne in quella composizione la funzione istituzionale, atteso che solo per il raggiungimento di tale finalità il processo appariva come mezzo necessario («indispensabile»), mentre per il raggiungimento di fini diversi si atteggiava come mezzo soltanto utile (quindi, «fungibile»)[62].

Del resto – sottolineò quasi con sufficienza (forse evocando persino un certo qual provinciale conformismo dei suoi colleghi processualisti dinanzi a lui che aveva percorso anche altre strade del sapere giuridico) – «il problema della classificazione del processo senza lite, che è(ra) l’inevitabile residuo della identificazione della funzione giudiziaria con la composizione della lite (corsivo nostro) si [sarebbe potuto inquadrare] facilmente nel fenomeno ben noto della parziale e marginale promiscuità di funzioni tra gli organi dei diversi poteri», ammettendo ragionevolmente che al giudice, in quanto «uffiziale scelto», lo Stato potesse affidare «alcuni dei compiti più importanti anche fuori dal campo giudiziario», e senza che da tali eccezioni potesse inferirsi la negazione della regola che individuava nella “lite” il «contenuto caratteristico» del processo.

Indi concluse: «confesso che non riesco a rendermi ragione perché, mentre la dottrina del diritto costituzionale impiega oramai senza contrasto la categoria delle leggi improprie, la nostra abbia da arricciare il naso a sentir parlare di processo improprio, se non pensando che i giuristi[63] sono, e fino a un certo punto è bene che siano, dei tenaci conservatori, onde le cose nuove (corsivo nostro) per quanto utili e savie, non meritano il loro consenso se non quando, a furia di sentirle, finiscono per esservi abituati. Della qual necessità, essendo ben conscio, mi professo sinceramente grato all’amico Calamandrei per avermi dato occasione di aguzzare e ribattere il chiodo››[64].

 

5. L’eredità del pensiero di Carnelutti, nel filtro chionvendiano di Calamandrei, come valore del codice di procedura civile del 1940.

Nel 1937, scrivendo il parere al Progetto preliminare Solmi – che aveva aderito in senso autoritaristico alla c.d. concezione pubblicistica del processo, con la previsione di un rigoroso sistema di preclusioni, del divieto di nova in appello e della possibilità per il giudice di disporre prove ex officio –  Calamandrei rilevò che la traduzione della concezione pubblicistica in un’incauta e radicale restaurazione del principio di autorità avrebbe potuto «aprire il varco a quella malsana tendenza, seguita da qualche legge straniera» (qui, l’arguto fiorentino esemplificò nel modo più eloquente, richiamando il processo civile della Russia sovietica, ridotto a soli 473 schematici articoli) «che vorrebbe ridurre le leggi processuali a pochi principi direttivi», abbandonando così le parti, non già alla mera discrezionalità, bensì all’arbitrio del giudice[65].

D’altro canto – egli affermò – la previsione di un sistema di preclusioni, fondato sulla esigenza di garantire la celerità del giudizio, non doveva andare a detrimento della non meno rilevante esigenza di addivenire, comunque, ad una decisione giusta, il cui mancato raggiungimento sarebbe stata la negazione stessa della concezione pubblicistica del processo, poiché non si sarebbe tradotto in un pregiudizio delle soli ragioni private ma anche (e principalmente) di quelle dello Stato, che avrebbe visto frustrato lo scopo stesso della funzione giurisdizionale, consistente nell’affermazione della legge, l’autorità della quale ne sarebbe uscita, paradossalmente, ridimensionata anziché accresciuta[66].

Infine – egli osservò –, pur nell’ambito di una visione pubblicistica (e persino autoritaria) del processo civile, la soppressione del principio dispositivo avrebbe avuto effetti sciagurati: il principio dispositivo, infatti, rappresentava la proiezione sul piano processuale del principio sostanziale della disponibilità dei diritti soggettivi, sicché la sua totale sostituzione con il «principio d’ufficialità» avrebbe significato, in sostanza, «abolire il diritto privato», «trasformare in diritto pubblico tutto quanto il diritto civile», e, in una parola, fare come «quei regimi in cui si è voluto totalmente e consapevolmente abolire la proprietà privata ed in generale il diritto soggettivo individuale»[67].

Le implicazioni dell’inappuntabile ragionamento erano evidenti: poiché l’ordinamento corporativo non sopprimeva i diritti soggettivi individuali ma anzi li tutelava, coordinandoli con l’interesse pubblico, il principio dispositivo, che era «nel processo come l’ombra del diritto privato», doveva «essere rispettato negli stessi limiti in cui nel campo sostanziale» era «rispettato e tutelato il diritto privato»[68].

Il parere di Calamandrei, che aveva nella scrittura «un dono che depongono gli Dei nella culla»[69], dovette lasciare il segno, non tanto, forse, per la persuasività logica degli argomenti utilizzati, quanto piuttosto per l’eloquenza evocativa degli esempi enumerati, al fine di evidenziare le storture del «poliziesco» Progetto preliminare Solmi: il paradosso dell’indebolimento dell’autorità della legge; il riferimento allo schematismo del codice sovietico; soprattutto, l’evocativa immagine della fine del sistema dei diritti soggettivi e della stessa proprietà privata, che terrorizzava il regime più di ogni altra cosa[70], dovettero convincere il ministro a tornare, in parte, sui suoi passi, eliminando dal progetto preliminare gli eccessi di autoritarismo[71].

Grazie alle osservazioni di Calamandrei, il Progetto definitivo Solmi, e soprattutto il successivo progetto Conforti-Grandi (che sarebbe divenuto il codice del 1940) avrebbe mantenuto la struttura tradizionale del processo civile quale processo dispositivo ad impulso di parte, limitando il modello inquisitorio ad un novero circoscritto di procedimenti dettati per la tutela di particolari situazioni oggettive, deputate alla protezione di interessi superiori ed indisponibili[72], ed avrebbe conservato il principio della procedimentalizzazione dell’esercizio dei poteri del giudice.

Attraverso l’opera di Calamandrei la dottrina di Carnelutti si sarebbe così mirabilmente congiunta a quella di Chiovenda, dando luogo al nuovo codice di procedura civile, quel codice che ancora oggi, nel bene nel male, pur spesso, come ancora di recente, variamente interpolato,  tra recriminazioni talora stucchevoli e progetti di riforma talora improponibili,  governa le nostre controversie civili.



[1] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, in Riv. dir. proc., 1956, I, 261 s.: «Quella tra Calamandrei e me è stata un’amicizia faticata. Bisogna sapere che la vita ci ha fatto trovar sempre dall’altra parte. Nel campo della scienza, Lui fermo sulle posizioni del Chiovenda, guardingo, classico, si dovrebbe dire se certe formule proprie della storia dell’arte si potessero applicare anche a noi. Io impetuoso, convinto che quelle posizioni debbono essere oltrepassate; romantico, in una parola».

[2] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, cit., 261.

[3] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, cit., 262.

[4] J. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di Gianluca Garelli, Torino, 2008, 128 s.

[5] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, cit., 261.

[6] F. Carnelutti, Piero Calamandrei, cit., 262: «il nome di Piero Calamandrei rimarrà, fin che io viva, accanto al mio a significare che, per me, egli è più vivo di prima».

[7] Carnelutti si era laureato a Padova nel 1900, a 21 anni, con una tesi in diritto civile su Universitates facti et iuris. Vittorio Polacco, relatore della tesi, era, secondo lo stesso Carnelutti, il suo «maestro vero» (così F. Carnelutti, La strada, Roma-Milano, 1943, 16).

[8] L’ «articoluccio», risalente al 1903, riguardava la legge sugli infortuni. Carnelutti riferisce che Sraffa, a cui egli l’aveva inviato, non solo lo pubblicò sulla neonata Rivista di diritto commerciale, ma, sorprendentemente, «per quella piccolezza lo apprezzò, lo incitò, non lo lasciò più stare» (così F. Carnelutti, Mio fratello Daniele, Roma-Milano, 1943, 64). Era stato quello il primo passo scientifico dello studioso friulano che, di lì a poco, avrebbe conseguito la libera docenza in diritto commerciale a Padova e, alcuni anni più tardi (nel 1912), la cattedra della disciplina presso l’Università di Catania.

[9] Che lo studio della procedura fosse divenuto a Carnelutti «così caro» risulta dalla lettera spedita a Chiovenda il giorno 8 settembre 1923, pe rinvitarlo a fondare, insieme a lui una rivista di procedura civile.

[10] P. Calamandrei, Il nostro Maestro (Ricordo di Giuseppe Chiovenda), in Riv. dir. proc. civ., 1937, I, 301 s.

[11] Cfr., ad es., P. Calamandrei, Recensione agli Studi in onore di Chiovenda, già in Arch. giur., 1929, 93 s., ora in Opere giuridiche, Roma, 2019, X, 51 s., part. 55-57; Id., Lodovico Mortara, già in Riv. dir. civ., 1937, 466, ora in Opere giuridiche, cit., X, 156 s., part. 158: «non soltanto il metodo esegetico e il metodo sistematico appaiono spesso difficilmente distinguibili (perché ogni esegesi postula la esistenza di categorie generali, come ogni sistematica presuppone la interpretazione analitica dei singoli istituti) ma neanche si può dire che rappresentino stadi distinti e tra loro incompatibili dell’indagine giuridica, perché essi, come metodi che rispondono a bisogni pratici diversi, possono coesistere e integrarsi a vicenda nello stesso momento della scienza».

[12] Questo il titolo, mirabile e sublime nella sua spoglia eleganza, del secondo volume del Trattato dello studioso fiorentino.

[13] P. Calamandrei, La Cassazione civile. Parte seconda, Milano-Torino-Roma, 1920, ora in Opere giuridiche, VII, 14.

[14] F. Carnelutti, Rinascita, in Riv. dir. proc., 1946, I, 1.

[15] F. Carnelutti, Lezioni di diritto processuale civile, III, La funzione del processo di cognizione, 2, Padova, 1923, 216, ove si sostiene che l’art.34 del Progetto Chiovenda, per il quale era necessario che parti e difensori «parlino a viva voce», non avrebbe tenuto conto dell’incapacità della parola di “documentare”, essendo essa sufficiente solo a “comunicare”. Per documentare, dunque, secondo Carnelutti, occorreva scrivere. Ma, «una volta che s’ha da scrivere per documentare, tanto vale scrivere anche per comunicare».

[16] P. Calamandrei, Questioni fondamentali e riforma del processo civile (1914), ora in Opere giuridiche, cit., I, 55 s.: in questo saggio, pubblicato nel 1914, Calamandrei, recensendo un libro di Adolf Wach sui progetti di riforma presentati in Germania dopo l’entrata in vigore della ZPO, aveva rilevato che il carattere numeroso di tali progetti testimoniava l’inefficienza del processo per la cui riforma erano stati proposti.

[17] P. Calamandrei, Problemi giudiziari nella Venezia tridentina (1919), ora in Opere giuridiche, cit., IX, 525 s: in questo saggio, nel porsi il problema dell’estensione della legge processuale italiana alle terre redente di Trento e Trieste, ove vigeva il processo austriaco, Calamandrei – con una presa di posizione in favore della legge processuale austriaca, tanto più inaspettata in quanto proveniente da un ex ufficiale che aveva rischiato la vita per riportare quelle terre in Italia – aveva scritto che il codice di procedura civile italiano del 1865, era da annoverare tra i «peggiori fra tutti quegli degli Stati contemporanei», mentre la Zivilprozessordnung del 1895, entrata in vigore il 1˚ gennaio 1898, rappresentava «quanto di meglio la scienza processuale abbia prodotto fin qui nel campo delle legislazioni positive». Pertanto, solo all’esito di una, ormai non più procrastinabile, riforma del processo civile italiano, sarebbe stato «giustificato l’orgoglio di unificare le nostre leggi giudiziarie sino ai nuovi confini».

L’autorità del Chiovenda, a sostegno della tesi esposta, era stata espressamente invocata da Calamandrei in chiusura del saggio. «In questa mia modesta opinione so di essere in buona compagnia. Ricordo sempre di avere udito il prof. Chiovenda, in una delle ultime lezioni tenute all’Università di Roma nell’aprile 1915, prima della dichiarazione di guerra, pronunciare questa frase: “Facciamo voti che dalla guerra siano appagate le nostre aspirazioni su Trento e su Trieste, ma auguriamoci che, quando queste due nobilissime città entreranno a far parte della Patria italiana, il destino le salvi dalla sciagura di dover provare il nostro Codice di procedura civile!”».

Al saggio del 1919 aveva fatto seguito, nel giugno del 1920, una significativa relazione al Convegno di rinnovamento nazionale, celebrato a Firenze, in cui Calamandrei si era fatto patrocinatore del progetto elaborato da Chiovenda in seno alla c.d. Commissione per il dopo guerra (P. Calamandrei, Il problema giudiziario (1920), ora in Opere giuridiche, cit., II, 7 s., part.10).

[18] Per il rilievo che, non ostante «il carattere apertamente germanizzante de La prova civile» e l’«intitolazione delle sue Lezioni padovane», Carnelutti non era «mai stato» prima e non sarebbe «diventato in seguito» un “chiovendiano”, v. B. Cavallone, Una fondazione asimmetrica, cit., 616-617.

[19] Secondo Enrico Allorio – che prima di divenire a sua volta insigne maestro, era stato di Carnelutti valoroso discepolo – il Sistema carneluttiano, in taluni concetti accedeva ad una concezione pubblicistica (come, ad es., nel concetto di azione, nella quale si identificava un potere attinente ad una pubblica funzione), mentre, in altri, segnava un ritorno alle concezioni individualistiche (come, ad es., nella concezione funzionale della giurisdizione come mezzo di composizione delle “liti”) (E. Allorio, in Riv. dir. comm., 1937, I, 66).

Ma per l’ammonimento che l’individuazione della funzione del processo nella composizione della “lite” tra privati non comportava il disconoscimento della sua rilevanza pubblicistica, cfr. lo stesso F. Carnelutti, in Riv. dir. proc., 1950, I, 345, il quale, proprio in risposta a Calamandrei, aveva affermato che egli non intendeva assegnare al processo «lo scopo di comporre la lite in modo pur che sia, ma di ottenere la giusta composizione».

Lo stesso Carnelutti infine, nel ricordare come il suo allievo prediletto avesse preso posizione rispetto alle nuove idee sattiane che, in realtà, segnavano un ritorno alle passate concezioni puramente privatistiche, non aveva esitato a definire quelle idee una «deviazione» che aveva avuto l’apparenza di uno «smarrimento» (così F. Carnelutti, Giovanni Cristofolini, in Riv. dir. proc. civ., 1938, I, 94).

[20] P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, in Studi sul processo civile, V, Padova, 1947, 2.

[21] P. Calamandrei, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Padova, 1943, 167 s. e già Id., La Cassazione civile. Parte seconda, cit., 83-84, ove si era dato merito alla nuova scuola chiovendiana di aver sottratto il diritto processuale dalla sua collocazione tradizionale come un formulario «in appendice al diritto sostanziale» per elevarlo a «ramo autonomo del diritto pubblico che regolando, nella giurisdizione una delle funzioni della sovranità, tocca i fondamenti stessi dello Stato».

[22] Così, ancora, F. Carnelutti, Piero Calamandrei, cit., 262.

[23] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei. Discorso commemorativo letto nell’aula magna dell’Università di Firenze il 30 aprile 1967, ora in Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, 401 s., part.410.

[24] S. Satta, ult. cit.

[25] Di questi aspetti della personalità di Calamandrei si è già detto altrove (cfr. il nostro La procedura civile nei primi anni del XX secolo. Lessona, Chiovenda e Calamandrei nel tempo del primato di Mortara, Roma, 2019, 79, part. nota 188).

[26] S. Satta, Interpretazione di Calamandrei, cit., 402-403, 411 (il corsivo è nostro).

[27] S. Satta, ult. cit.: nella contrapposizione sattiana al martire fa da contraltare l’eroe: quest’ultimo è una «creatura placata nelle sue certezze», mentre il primo è un’«anima errante che vede il vero, ma non lo può raggiungere». Posta questa contrapposizione, Satta annovera nella categoria dei giuristi-eroi Chiovenda, Carnelutti e Redenti, e colloca il solo Calamandrei nella residua categoria dei giuristi-martiri.

[28] Legge 30 dicembre 1923, n. 2814: Delega al Governo per emendamenti al codice civile e per la pubblicazione dei nuovi codici di procedura civile, di commercio e per la marina mercantile.

[29] Così F. Cipriani, Storie di processualisti e di oligarchi. La procedura civile nel Regno d’Italia (1866-1936), Milano, 1991, 233.

[30] P. Calamandrei, La relatività del concetto di azione, in Studi sul processo civile, V, Padova, 1947, 2.

[31] Secondo E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 10, nell’ambito della sottocommissione e ancor più nel comitato ristretto ebbe modo di dispiegarsi la grande capacità di Carnelutti, il quale, ‹‹col suo genio, dominò tutti quanti, anche i “grandi”››.

[32] P. Calamandrei, Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti (1928), in Opere giuridiche, cit., I, 187 s., part. 197.

[33] P. Calamandrei, Note introduttive, ecc., cit., 195.

[34] Così ancora P. Calamandrei, ult. cit., secondo cui il progetto Carnelutti era un ‹‹codice personale, espressione fedele e coerente del pensiero originalissimo del suo autore››.

[35] P. Calamandrei, Note introduttive, ecc., cit., 197.

[36] Note introduttive allo studio del progetto Carnelutti, cit; questo saggio, che sarebbe uscito in Italia (e nel testo italiano) solo nel 1939, nel 1928 fu pubblicato, in tedesco, sulla Zeitschrift für Ausländisches und Internationales Privatrecht (Berlin), Jahrg. 2, 1928, 56-58, ‹‹allo scopo di informare i lettori tedeschi dei precedenti e della genesi del progetto che porta il nome di Francesco Carnelutti››.

[37] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, in Riv. dir. proc., 1928, I, 1-22, 200 s.. 

[38] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 201-202. 

[39] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 203. 

[40] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 207. 

[41] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 210. Si trattava di quei casi in cui la necessità di ricorrere al giudice trova fondamento nella speciale natura del rapporto (dovendosi produrre una modificazione giuridica non altrimenti realizzabile se non con l’accertamento in giudizio dei suoi presupposti di legge). Qui, secondo Calamandrei, l’azione giudiziale avrebbe dovuto prescindere completamente dal contegno della controparte, sicché l’esistenza di una “lite” sarebbe stata giuridicamente irrilevante. Calamandrei esemplificò con riguardo all’azione di annullamento del matrimonio, evidenziando le difficoltà che, in relazione a questa fattispecie, incontrava la teoria carneluttiana. Secondo Carnelutti, infatti, bisognava distinguere due ipotesi: se la moglie convenuta dal marito avesse contestato l’invalidità del matrimonio e avesse resistito alla domanda, vi sarebbe stata “lite” e quindi la sentenza che avesse deciso sulla medesima avrebbe avuto natura giurisdizionale; invece, se la moglie avesse convenuto sull’annullamento, la sentenza del giudice di accoglimento della domanda (o quella di rigetto non ostante la diversa concordia delle parti) avrebbe avuto natura diversa.

Ma – obiettò Calamandrei – questa distinzione non poteva considerarsi persuasiva, poiché se ‹‹si può dubitare che nell’ordinario processo a tipo dispositivo … la funzione del giudice cambi natura secondoché egli decida una lite o si limiti a dar atto … di un accordo concluso tra le parti›› (cui seguirebbe la cessazione della materia del contendere e l’estinzione dei confliggenti interessi dei litiganti ad avere una pronuncia giudiziale di segno reciprocamente opposto), ‹‹è certo che nel processo a tipo inquisitorio, in cui l’esistenza di una lite è giuridicamente irrilevante e in cui l’interesse ad agire sorge da tutt’altro presupposto, non si può logicamente basare una così importante distinzione funzionale proprio su un elemento dal quale la struttura di questo tipo di processo interamente prescinde››.

[42] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 215-216.

Il concetto di lite, se non risultava incompatibile con la nozione di azione di mero accertamento quando l’esigenza di rimuovere lo stato di incertezza fosse dipesa dal fatto del convenuto (giacché anche la contestazione o il vanto di quest’ultimo sarebbe stato espressione di un conflitto di interessi tra le parti), lo diveniva allorché quella incertezza fosse derivata dal fatto del terzo.

In questo caso, secondo Calamandrei, non poteva dubitarsi né della sussistenza dell’‹‹interesse ad agire›› né che esso prescindesse del tutto ‹‹dall’esistenza di una lite tra l’attore e il convenuto›› (ult. cit., 217).

Calamandrei, peraltro, considerava la fattispecie unicamente sotto il profilo dell’interesse ad agire (per riaffermare, contro Carnelutti, che questa condizione dell’azione sussistesse, in capo al soggetto attivo del rapporto giuridico, a prescindere da una sua “lite” con il soggetto passivo); egli non riteneva sussistente, invece, il problema della legittimazione passiva, che, conformemente all’insegnamento chiovendiano (G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, Terza ed., Napoli, 1923, XLIII-1328, part. 177), riteneva pacificamente spettante al soggetto passivo del rapporto giuridico e non al terzo: l’azione di mero accertamento, infatti, mirava a rimuovere lo stato di incertezza generatosi sul rapporto medesimo (ottenendo una sentenza che facesse stato tra le parti di esso) e non a sanzionare l’operato del terzo.

Così, con riguardo al classico esempio in cui il rapporto giuridico tra Tizio (creditore) e Caio (debitore) è reso obiettivamente incerto dalla condotta di Sempronio (il quale, pur non avendo alcun interesse, per puro divertimento va dicendo in giro che quel credito non esiste), Calamandrei non avrebbe dubitato, con Chiovenda, che Tizio avrebbe potuto agire contro Caio e non contro Sempronio, avendo egli interesse a rimuovere lo stato di incertezza, determinatosi intorno al rapporto giuridico, nei confronti del soggetto passivo di esso.

Calamandrei, invece, non considerava, da un lato, che sarebbe invece lecito dubitare della concreta utilità giuridica di una pronuncia di mero accertamento idonea a far stato nei confronti del soggetto passivo che non ha mai contestato l’esistenza del diritto accertato e priva, invece, di effetti nei confronti del terzo contestatore per divertimento (al quale, non ostante tale pronuncia, nessuno potrebbe impedire di continuare a divertirsi come prima di essa); e, dall’altro lato, che il riconoscimento della legittimazione passiva in capo alla parte del rapporto reso incerto dal fatto del terzo, rende di difficile soluzione il problema del carico delle spese.

[43] Il saggio di Calamandrei sul Concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti era composto di due parti: la Parte I, intitolata “Lite e giurisdizione” (originariamente pubblicata in Riv. dir. proc. civ., 1928, I, 1-22) conteneva la critica più propriamente teorica al concetto di “lite”, quale concetto idoneo a discriminare la funzione giurisdizionale o processuale; la Parte II, intitolata “Lite e processo” (originariamente pubblicata in Riv. dir. proc. civ., 1928, I, 89-98), conteneva i rilievi circa l’inopportunità di dare cittadinanza al predetto concetto nel nuovo codice.

[44] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 218: ‹‹un canone di buona politica – così proseguì Calamandrei – [avrebbe infatti consigliato], specialmente in materia processuale, di contener le riforme nei limiti della utilità pratica e di non rendere le innovazioni più faticose a chi deve uniformarvisi, con non necessari mutamenti di terminologia o con consacrazioni legislative di concezioni teoriche personali e perciò discutibili››.

[45] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 220.

[46] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 223.

[47] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 218.

[48] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 225.

[49] P. Calamandrei, Il concetto di ‹‹lite›› nel pensiero di Francesco Carnelutti, cit., 205.

[50] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale (Postilla), in Riv. dir. proc. civ., 1928, I, 23-37; Id., Lite e processo (Postilla), Ibidem, 99-105.

[51] F. Carnelutti, Lite e processo, cit., 104, ove lo studioso friulano scrisse che l’errore in tema di litispedenza e di cosa giudicata a cui avrebbe condotto, secondo Calamandrei, la sua teoria, sarebbe invece derivato proprio dal fraintendimento in cui era caduto il collega fiorentino, per poi aggiungere:  «sarebbe … interessante che Calamandrei … avesse cercato negli altri senza dubbio più autorevoli e più dotti trattati di diritto processuale, i quali non operano col concetto di lite, una sistemazione dei principi del cumulo e del mutamento delle azioni … la quale riesca ad inquadrare questa asperrima materia coi risultati di chiarezza e di compiutezza, che mi sembra di avere raggiunto nel primo capitolo del quarto volume delle mie Lezioni. Domando perdono per queste parole ardite. Ma all’amico Calamandrei, il quale trova soltanto (e certo, senz’ombra di ironia) che quel che scrivo è originale, ho pur diritto, anzi dovere (per l’amore, più che delle mie idee, del comune ideale), di rispondere, e il Signore mi perdoni anche quest’atto di vera superbia, che era originale anche Cristoforo Colombo, quando si ostinava a far quel giro, che gli fruttò la scoperta dell’America!».

[52] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 23.

[53] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 32-34. La contraddizione poteva essere un indice della lite, ma non era ‹‹di questa né condizione necessaria né sufficiente››: non condizione necessaria, in quanto vi sarebbe stata lite tra creditore e debitore inadempiente anche quando questi non avesse contestato il suo obbligo, poiché comunque non lo avrebbe soddisfatto, così ledendo l’interesse del creditore; non condizione sufficiente, in quanto non sarebbe stato in lite con il genitore il ‹‹figliuol prodigo›› che avesse contraddetto alla domanda di inabilitazione proposta da quello, perché non si sarebbe profilato conflitto di interessi ma solo ‹‹contrasto di valutazioni (di un medesimo interesse) tra i due››.

Nel precisare la distinzione tra contentio e lite, Carnelutti non omise di ironizzare sull’affermazione calamandreiana che lo aveva accusato di «essere tornato all’antico». Benvero – affermò – «sotto questo punto di vista non avrei che da confessare la mia schietta predilezione, in architettura, per il rinascimento, il quale non è detto che non possa preferirsi … al gotico anche per gli studi del diritto».

[54] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 25-26. Qui Carnelutti si rivolse a Calamandrei, come se gli stesse parlando in un dialogo esclusivo, dimenticando di scrivere per una rivista che auspicava a rivolgersi a 5.000 agognati lettori: ‹‹o tu intendi accertamento in senso ampio (improprio) e perdi la linea di confine tra il campo giudiziario e il campo amministrativo; o lo intendi in senso proprio e non fai che parafrasare il mio concetto della composizione della lite››.

[55] Nell’attuazione del diritto – spiegò Carnelutti – doveva vedersi un mezzo (e non uno scopo), che si rinveniva sia nell’attività amministrativa che in quella giurisdizionale; se si fosse voluto utilizzare il criterio dell’attuazione del diritto per identificare la funzione processuale, si sarebbe dunque dovuto ‹‹sottoporlo ad una specificazione che non si [sarebbe ottenuta] se non ricorrendo al concetto della lite (F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 27).

[56] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 28. D’altra parte – si giustificò lo studioso friulano, spogliandosi di quella modestia di cui appena prima si era, a fatica, rivestito – l’«erto cammino della scienza non si percorre che a tappe», e subito dopo soggiunse che gli faceva piacere di riconoscere che alla necessaria determinazione di «andare un poco più alto», nella precisazione del concetto di “lite”, lo aveva «spinto, con la sua critica arguta, quel sereno e probo giurista, che è il mio amico Calamandrei».

[57] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 28-29.

[58] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 31: il debitore inadempiente sarebbe stato in lite col creditore finché non avesse pagato, «tanto prima quanto dopo l’accertamento del suo debito e del suo inadempimento», perché, al di là della contraddizione, evidentemente non presente nella fase esecutiva, se non a talune condizioni e entro certi limiti, vi sarebbe comunque stato il contrasto alla pretesa del creditore nella forma più grave, mediante lesione del suo interesse.

[59] F. Carnelutti, Lite e processo, cit., 103, nota 1.

Con il che – io credo – Carnelutti, più che evidenziare l’inesattezza della citazione di Calamandrei (cui comunque rimproverò di non aver «più profondamente meditato» la pagina dei Principii alla quale lo aveva richiamato), volle, ancora una volta, contestare l’autorità di Chiovenda. Evidentemente, non riusciva a vincere la tentazione di ridurre il capo in polvere, e stavolta non si poteva neanche addossarne la responsabilità alle provocatorie sollecitazioni sarcastiche di Mortara: a farlo ricadere in tentazione erano bastate le critiche, invero serissime, di Calamandrei.

[60] Così F. Carnelutti, Lite e processo, cit., 102, aggiungendo che «l’interesse ad agire non rappresenta che la quinta ruota del carro. Per andare dal medico, basta la malattia; c’è bisogno anche di dire che occorre l’interesse a guarirla?».

[61] F. Carnelutti, Lite e processo, cit., 103. Su tali premesse, Carnelutti risolse, di conseguenza, il problema posto dal succulento esempio del rapporto, per così dire, “trilaterale” tra Tizio (che si afferma creditore di Caio), Caio (che riconosce di esserne debitore) e Sempronio (che «si diverte a dire che non è vero»). Affrancata la fattispecie dall’ingombrante influenza di Chiovenda – e precisato che «i presupposti dell’azione sono soltanto questi due: lite e legittimazione» –, lo studioso friulano sentenziò che non si sarebbe potuto sfuggire alle sole due alternative possibili: se Caio avesse riconosciuto il debito, le difficoltà sarebbero sparite; se Caio lo avesse contestato, sarebbe sorta la lite.

Con il che, peraltro, a ben vedere, egli omise di prendere posizione sui due aspetti più problematici della fattispecie, i quali si concentravano entrambi sulla prima delle due alternative descritte: mentre, infatti, con riguardo alla seconda alternativa, verificatasi la contestazione del credito da parte del debitore, non vi sarebbe stato dubbio né sull’ammissibilità dell’azione di accertamento né sulla ripartizione del carico delle spese all’esito del giudizio, questi problemi restavano insoluti nella prima alternativa, giacché Carnelutti, celebrato il funerale dell’interesse ad agire e attribuita ogni rilevanza alla nozione di legittimazione, non aveva però in concreto chiarito se con la sibillina affermazione che «le difficoltà spariscono» egli avesse voluto intendere che l’azione di Tizio verso Caio doveva essere dichiarata inammissibile, che Tizio doveva essere condannato alle spese, e che lo stesso Tizio sarebbe stato onerato di esperire tale rimedio (o eventualmente – e a certe condizioni – altri rimedi, non escluso quello risarcitorio) nei confronti del terzo Sempronio.

 Del problema delle spese si sarebbe invece occupato, nel 1930, Chiovenda, in una nota aggiunta al saggio sull’azione, dopo aver ribadito, in accordo con Calamandrei, che nell’azione di mero accertamento per fatto del terzo, la legittimazione passiva spettava a «colui rispetto al quale la sentenza dee far cosa giudicata» (vale a dire il soggetto passivo del diritto contestato, ancorché non fosse l’autore della contestazione) e dopo aver chiarito (con interpretazione autentica della pagina dei Principii che, secondo Carnelutti, Calamandrei non aveva «più profondamente meditato») che, in realtà, egli già in quella pagina aveva voluto esprimere questo pensiero (sicché il «suo carissimo amico» Carnelutti, nell’affermare che, invece, una simile soluzione «non gli era mai passata per la mente», aveva evidentemente voluto fargli la cortesia di «risparmiargli la taccia d’aver errato»).

 Ribadita l’ammissibilità dell’azione di accertamento contro il soggetto passivo, Chiovenda avrebbe quindi ritenuto che il convenuto, pur soccombente, avrebbe beneficiato del rimborso delle spese se si fosse affrettato a riconoscere il diritto dell’attore (G. Chiovenda, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di diritto processuale civile (1900-1930), Roma, 1930, I, 3-99, part.83-84).

Si trattava di una soluzione incoerente con la teoria della necessaria correlazione tra soccombenza e condanna nelle spese (teoria fortemente sostenuta dallo stesso Chiovenda), ma resa necessaria dal rilevo totemico assegnato all’azione di mero accertamento, la quale assumeva un’importanza così fondamentale nel sistema chiovendiano, da non consentire di riconoscerne, sia pure in casi limite, l’inammissibilità.

D’altra parte, lo stesso Chiovenda (ult. cit.) avrebbe ammesso l’azione risarcitoria contro il terzo contestatore per divertimento, ma questo riconoscimento non gli sarebbe parso sufficiente per spogliare il titolare del diritto dell’azione di accertamento verso il soggetto passivo di esso, sul rilievo che ‹‹il riconoscimento del convenuto non può sostituire la certezza giuridica che deriva dal giudicato›› (corsivo nel testo).

Va infine, ricordato, per completezza, che Chiovenda, in una fase più matura del suo pensiero, avrebbe cambiato opinione, ammettendo l’azione di accertamento verso il terzo, ma precisando che nel giudizio avrebbe dovuto essere chiamato anche il debitore (G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli 1933, I, 206).

[62] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 36: «Che [il processo] serva anche senza lite per la costituzione o la modificazione di un effetto giuridico, risulta dal vigente ordinamento in tema di interdizione, di inabilitazione o di nullità di matrimonio … Che, per la costituzione o per la modificazione di effetti giuridici, quando intorno a questi non vi sia o non vi possa essere lite, il processo (di cognizione) non sia uno strumento indispensabile, emerge dal confronto del modo come la nostra legge disciplina la separazione personale e la nullità del matrimonio; la interdizione o la inabilitazione e la adozione o la legittimazione».

[63] Qui, col termine “giuristi”, lo studioso friulano voleva forse alludere, più specificamente, ai “processualisti”, perché dalla categoria dei «tenaci conservatori» aveva poco prima escluso i costituzionalisti.

[64] F. Carnelutti, Lite e funzione processuale, cit., 37.

[65] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, Relazione approvata dalla Facoltà di giurisprudenza della R. Università di Firenze nella seduta del 28 luglio 1937, ora in Opere giuridiche, cit., I, 295 s., part. 306-307.

[66] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 307-308.

[67] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 308-309.

[68] P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 309.

[69] Così E. Redenti, In memoria di Piero Calamandrei, cit., 2.

[70] Abbiamo già altrove osservato che (cfr., si vis, il nostro, I processualisti dell’”età aurea” - Romantici, martri ed eroi della procedura civile, Bari, 2022) che la scelta di unificazione dei codici di diritto privato fu fondata più su ragioni politiche che su ragioni tecniche. L’obiettivo del governo fascista era scongiurare l’ineluttabilità dei conflitti di classe preconizzati da Marx. Per realizzare questo obiettivo, era necessario stemperare l’identità sociologica delle classi in conflitto. Stemperare l’identità sociologica delle classi voleva dire anzitutto porre fine al sistema binario che ne rifletteva la reciproca specificità: quello fondato sulla dicotomia codice civile-codice di commercio, da cui emergeva, in tutta la sua evidenza, la specialità dello statuto del commerciante, la cui attività giuridica era governata da regole peculiari affatto diverse rispetto a quelle che governavano l’attività degli altri cittadini. Era dunque necessario porre fine a tale dicotomia: fare in modo che non esistessero più, ad es., due diverse tipologie di vendite, l’una civile l’altra commerciale, ma che l’ordinamento conoscesse un unico tipo, applicabile tanto ai commercianti quanto ai non commercianti. Era, inoltre, necessario che tra le due tipologie previgenti, quella civile e quella commerciale, prevalesse quella commerciale, la quale avrebbe dovuto essere l’unica tipologia conosciuta dal nuovo sistema del diritto privato; e ciò non tanto per una estensione oggettiva della disciplina ai non appartenenti alla classe sociale di riferimento, quanto piuttosto per un allargamento soggettivo di tale classe, la quale si sarebbe dovuta stemperare sino a ricomprendere in se stessa anche soggetti sociologicamente distanti. Si realizzò, dunque, nel nuovo codice civile del 1942, quel fenomeno che fu chiamato della commercializzazione del diritto privato, la quale si riscontra già nel Libro IV Delle obbligazioni, per poi emergere in tutta la sua evidenza nel Libro V Del lavoro. Così, ad es., nel Libro IV, la nuova disciplina della vendita (contenuta negli artt. 1470 s. del nuovo codice) non trovò le sue radici in quella della vendita civile del codice del 1865, ma piuttosto in quella della vendita commerciale del codice del 1882. Allo stesso modo, la nuova disciplina delle obbligazioni soggettivamente complesse ex latere debitoris (contenuta negli artt. 1292 s.) non si ispirò a quella del vecchio codice civile (che conosceva la regola della parziarietà), ma a quella del codice di commercio (che conosceva la diversa regola della solidarietà).  Nel Libro V, in cui fu sistematizzata la disciplina dell’impresa e delle forme (individuali e collettive) del suo esercizio, la morbosa preoccupazione del regime di stemperare l’identità sociologica delle classi sociali raggiunse il suo parossismo. Ne costituisce prova evidente l’amplissima e omnicomprensiva nozione di imprenditore, contenuta nell’art.2082 c.c., nella quale furono ricondotti tutti i soggetti che esercitassero un’attività lato sensu produttiva, in forma comunque organizzata e con criterio di economicità. Una fattispecie (l’impresa) in cui si prestavano a rientrare attività distanti ed eterogenee: da quella della coltivazione diretta del fondo e del bosco, nonché del piccolo allevamento (art. 2135 c.c.) a quella dell’agricoltura meccanizzata di grandi dimensioni (art. 2195, n. 1, c.c.); da quella del piccolo commercio (art. 2083 c.c.) a quella della grande distribuzione (art. 2195, n. 2, c.c.); dal modesto artigianato organizzato con il lavoro familiare (art. 2083 c.c.) alle attività industriali dirette alla produzione di beni o di servizi (art. 2195, n. 1, c.c.); dal dettagliante di piccoli beni di consumo (art. 2083 c.c.) alle imprese produttrici di servizi di consumo di massa (come quelle di trasporto) o di particolare rilevanza economico-sociale, come quelle bancarie e assicurative (art. 2195, nn. 3, 4 e 5 c.c.). Un soggetto (l’imprenditore) in cui si confondevano individualità appartenenti a classi sociali profondamente diverse, che smarrivano la loro identità stemperandosi in questa nuova, comprensiva figura, nella quale, cessata ogni contrapposizione, i conflitti sociali si appiattivano all’insegna della concordia produttiva. Naturalmente, a questa unica, amplissima fattispecie, frutto di una unificazione mistificante ed artificiosa, dovuta esclusivamente a ragioni politiche, non poteva corrispondere un’unica disciplina, dovendosi tener conto, sotto il profilo funzionale, della ontologica diversità delle situazioni. Ed infatti, il legislatore del 1942, con abilissima tecnica normativa, subito dopo aver fissato la fattispecie con la nozione generale di imprenditore,  sottrasse ad essa, ai fini della disciplina, sia i piccoli imprenditori (art. 2083 c.c.) sia gli imprenditori agricoli (art. 2135 c.c.) e riservò l’applicazione del (vero) statuto dell’impresa (quello che prevedeva l’obbligo di registrazione e la sottoposizione alle procedure concorsuali) alle sole imprese commerciali di dimensioni medio-grandi (artt. 2195 e 2202 c.c; art. 1 legge fall.).

Insomma, il regime aveva paura della profezia marxiana sulle lotte di classe e il fine di scongiurarne l’ineluttabilità divenne, forse, l’obiettivo principale della sua politica legislativa, specie di diritto privato sostanziale. Calamandrei lo aveva capito e, con la sua capacità di scrittura e la sua passione per le favole, ricamò su questa paura (evocando il sistema processuale sovietico e la fine della proprietà privata) e ne fece lo strumento per limitare i danni che l’autoritario legislatore stava apportando alla legislazione processuale.

[71] Sull’incidenza che il parere di Calamandrei avrebbe avuto sulla scelta governativa di modificare in melius il progetto del nuovo codice di procedura civile, v. G. Monteleone, L’apporto di Piero Calamandrei al progetto definitivo Solmi del codice di procedura civile, in Giust. proc. civ., 2011, 2, 429 s.

Del resto, questa incidenza appare evidente se si confronti il sistema del nuovo codice – fondato sulla regola generale secondo cui il processo civile è un processo dispositivo ad impulso di parte (artt.99, 112, 115, 306 s. c.p.c.), sulla quale accedono, peraltro, numerose eccezioni attraverso le quali, quando la situazione soggettiva sostanziale azionata assume carattere indisponibile, il processo assume un contenuto oggettivo, caratterizzato dall’impulso d’ufficio e dall’operatività, più o meno ampia, del principio inquisitorio (cfr., sul tema, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 s.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 s., 695 s.) – con l’auspicio formulato da Calamandrei di introdurre nel Progetto Solmi, come già si era fatto in quello redatto da Carnelutti oltre un decennio prima, «una netta distinzione tra il gruppo di controversie su rapporti indisponibili o intransigibili  … e quello di tutte le altre controversie su rapporti di mero diritto privato», facendo in modo che, solo per il primo, il principio inquisitorio potesse essere «rigidamente attuato», mentre, per il secondo, i poteri istruttori del giudice restassero «necessariamente» più limitati (P. Calamandrei, Sul progetto preliminare Solmi, cit., 310).

[72] Anche in questi procedimenti, che la dottrina avrebbe poi classificato nella categoria unitaria dei processi a contenuto oggettivo (cfr., sul tema, tra gli altri, E. Allorio, L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in Problemi di diritto, I, Milano, 1957, 116 s.; L. Montesano, Sull’efficacia, sulla revoca e sui sindacati contenziosi dei provvedimenti non contenziosi dei giudici civili, in Riv. dir. civ., 1986, I, 596; F. Tommaseo, I processi a contenuto oggettivo, in Riv. dir. civ., 1988, I, 495 s., 695 s.) non si sarebbe rinunciato, peraltro, alla tecnica processuale dell’iniziativa di parte, seppur temperata dall’allargamento della categoria dei legittimati a proporre la domanda o dal conferimento del diritto di azione al pubblico ministero, nonché dalla limitazione (ma mai dalla completa disapplicazione) dei principi della disponibilità delle prove e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Se non erro, le ipotesi di processo officioso puro storicamente conosciute dal nostro ordinamento sono state tre (quella prevista dall’art.6 legge fallimentare in ordine all’iniziativa per la dichiarazione di fallimento; quella prevista dall’art.8 della legge sull’adozione dei minori in ordine alla dichiarazione di adottabilità; e quella prevista dall’art.29 della legge n. 1766 del 1927 in tema di promozione dei giudizi dinanzi ai commissari per gli usi civici); e di queste tre, le prime due (l’art.6 legge fallimentare, nella sua formulazione originaria, è stato sostituito dall’art.4 del d.lgs. n.5 del 2006; l’art.8 legge sull’adozione legittimante, nel suo testo iniziale, è stato sostituito dall’art.8 della legge n.149 del 2001) sono state poi eliminate.

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