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Magistratura Indipendente

PENALE  

L'ATTUALE DISCIPLINA SOSTANZIALE E PROCESSUALE DELLA MESSA ALLA PROVA

  Penale 
 mercoledì, 6 gennaio 2016

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ALCUNI ASPETTI MIGLIORABILI

di Dott. LUCA GESSAROLI, Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tribunale di Rimini

 
 

SOMMARIO:

- 1. Premessa.

- 2. La disciplina sostanziale.

– 3. La disciplina processuale.

– 4. Conclusioni.

 

1. Premessa.

Come è noto, la legge n. 67 del 28 aprile 2014 ha introdotto nel nostro ordinamento la sospensione del processo penale a carico di imputati maggiorenni con messa alla prova[1] (cd. probation[2]). L’istituto in parola non è tuttavia senza precedenti, essendo stato preceduto, anzitutto, dalla probation per imputati minorenni, prevista dagli artt. 28 e 29 del D.P.R. n. 448/1988; in secondo luogo, da alcune proposte di legge presentate in parlamento fin dal 2007, che tuttavia non hanno completato con successo l’iter legislativo[3].

La dottrina[4] ha da subito evidenziato come la messa alla prova per gli adulti si ponga nel solco di un complessivo intervento di riforma del sistema sanzionatorio penale[5], volto ad alleggerire la risposta punitiva nei confronti dei reati “bagatellari” e degli imputati primari, anche (e soprattutto) in ragione delle condanne subite dall’Italia per il sovraffollamento carcerario[6].

D’altro canto, trattandosi di un istituto in cui ha un ruolo centrale il consenso dell’imputato[7], essendo rimessa a quest’ultimo la scelta di innescare il procedimento speciale[8], culminante nella messa alla prova, è soprattutto necessario che l’istante sia incentivato a percorrere una strada alternativa alla pena. Da ciò, invero, dipenderà in gran parte non solo il successo della messa alla prova, ma anche il senso della sua introduzione nel nostro ordinamento.

Ciò posto, a distanza di più di un anno e mezzo dall’entrata in vigore della legge n. 67/2014, occorre interrogarsi sugli aspetti della probation potenzialmente migliorabili, non solo allo scopo di risolvere problemi sorti nella pratica, ma soprattutto, come appena sottolineato, per incentivarne la diffusione.

2. La disciplina sostanziale.

Al meccanismo degli incentivi si collega il primo aspetto degno di attenzione: i presupposti sostanziali. L’art. 168-bis c.p. traccia un preciso ambito oggettivo entro cui è consentita la sospensione del processo con messa alla prova: a) procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria; b) procedimenti per reati puniti con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni[9], sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; c) procedimenti per delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale. Inoltre, la sospensione con messa alla prova può essere concesso per una sola volta (art. 168-bis, co. 4, c.p.).

Ora, al riguardo taluno[10], in dottrina, ha sin da subito evidenziato il pericolo che la messa alla prova, dato il suo cospicuo contenuto afflittivo e la concedibilità una tantum, finisca per essere in concreto meno appetibile di altri istituti già presenti, e in parte collaudati, come il patteggiamento, la sospensione condizionale della pena o la non punibilità ex art. 131-bis c.p., rispetto ai quali risulta in sostanza (quasi del tutto) identico l’ambito oggettivo di applicazione.

È per questo che sarebbe auspicabile una scelta di maggior coraggio da parte del legislatore[11], nel senso di innalzare il tetto di pena massimo dei reati assoggettabili alla probation o, in alternativa, di consentire al giudice di valutare discrezionalmente l’ammissione al rito anche in caso di pena superiore al limite previsto[12].

Il secondo aspetto su cui occorrerebbe un intervento da parte del legislatore riguarda invece l’oggetto del programma di trattamento. Rispetto ad esso, infatti, vi sono delle evidenti discrasie tra gli artt. 168-bis c.p. e ss. e i corrispondenti articoli del codice di rito: nei primi, a titolo esemplificativo, il lavoro di pubblica utilità appare un presupposto imprescindibile per la “idoneità” del programma; nei secondi, invece, il lavoro appare una delle possibili prescrizioni comportamentali imponibili all’imputato, in alternativa al risarcimento, alla riparazione e alle restituzioni civili[13]. Sarebbe dunque di certo preferibile che il legislatore indicasse il contenuto (necessario ed eventuale) del programma unicamente nell’art. 168-bis c.p., facendo poi ad esso riferimento nell’art. 464-bis c.p.p., così evitando di ingenerare dubbi interpretativi.

3. La disciplina processuale.

La centralità della disciplina processuale emerge con chiarezza da un recente arresto dei Giudici di legittimità[14]: “il nuovo istituto della messa alla prova si configura come un percorso del tutto alternativo rispetto all’accertamento giudiziale penale, ma non incide affatto sulla valutazione sociale del fatto, la cui valenza negativa rimane anzi il presupposto” per imporre all’imputato il trattamento sanzionatorio. La messa alla prova, dunque, ha natura processuale. Da ciò la Corte ricava, di conseguenza, l’operatività del principio tempus regit actum, di talché il termine preclusivo per la richiesta del rito, previsto dall’art. 464-bis c.p.p., non appare in contrasto con il principio di retroattività della lex mitior, previsto dall’art. 7 C.E.D.U (così come interpretato dalla Corte di Strasburgo), costituente parametro interposto di costituzionalità in base all’art. 117 Cost.

Ulteriore corollario, è che quindi, per gli imputati in procedimenti giunti oltre i predetti termini preclusivi, è da ritenersi interdetto l’accesso alla messa alla prova. La Corte di Cassazione ha inteso risolvere nei termini anzidetti le questioni di diritto intertemporale, attesa non solo la mancanza di norme a riguardo, ma anche l’assenza di un intervento successivo del legislatore che, invece, ha ritenuto di intervenire solo per regolare le questioni di diritto intertemporale relative all’istituto della absentia[15].

Per quanto restrittiva, a parere di chi scrive, tale interpretazione appare corretta. L’effetto estintivo che consegue alla messa alla prova (con esito positivo) è strettamente connesso allo svolgimento e alla conclusione di un vero e proprio rito alternativo, sicché gli effetti sostanziali della probation non dipendono da automatismi di cui il giudice possa fare applicazione anche in esito al dibattimento[16], essendo al contrario necessaria un’attività processuale dedicata. Peraltro, non si nega effetto retroattivo all’effetto estintivo della messa alla prova, cioè il vero nucleo “sostanziale” della disciplina, ma all’apertura del procedimento, se superati i termini preclusivi previsti.

Sul punto, peraltro, sempre nell’ottica di una maggiore promozione dell’istituto di cui trattasi, sarebbe opportuno un intervento del legislatore volto a permettere una proposizione della richiesta quantomeno in appello[17], nonché una riproposizione della stessa a fronte di un rifiuto del giudice di primo grado.

Da un lato, infatti, non osta alla prima proposta un’asserita (e certo auspicata) finalità deflattiva dell’istituto della messa alla prova, che, a ben vedere, non solo esige potenzialmente una pluralità di udienze, volte all’ottenimento del programma, all’indagine sugli aspetti rilevanti per la valutazione del giudice, ma ben potrebbe aver esito negativo, con la necessità di riaprire il processo. A tal riguardo, peraltro, l’aver previsto una causa di sospensione del processo sembra tradire una consapevolezza di ciò da parte del legislatore[18]. Appare di certo più confacente all’istituto in parola una finalità in parte premiale[19], in parte “decongestionante” della popolazione carceraria, in parte special-preventiva ed in parte riparativa nei confronti della persona offesa, scopi di certo non incompatibili con il giudizio in appello. Diversamente è a dirsi per il giudizio di legittimità, che difficilmente appare compatibile con i poteri istruttori del giudice all’uopo previsti[20].

Dall’altro lato, l’ammissione al rito speciale della probation, con gli annessi effetti estintivi, dipende da una valutazione del giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., tesa a stabilire: a) l’idoneità[21] del programma di trattamento presentato; b) che l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati (art. 464-quater, co. 3, c.p.p.). Si tratta all’evidenza di un giudizio discrezionale basato anche su elementi di valutazione raccolti ex officio dal giudice, senza che però questi abbia alcun obbligo di attivare i propri poteri istruttori[22]. Risulta pertanto auspicabile che, in appello, l’imputato possa proporre nuovamente la richiesta di sospensione con messa alla prova, evidenziando la carenza di motivazione del rifiuto da parte giudice di prime cure o, altresì, fornendo diversi elementi di valutazione o, ancora, proponendo un programma più “idoneo”.

Un secondo profilo che meriterebbe un ripensamento da parte del legislatore investe il ruolo dell’U.E.P.E. I commentatori della riforma hanno immediatamente evidenziato come proprio dall’ U.E.P.E dipenda la buona riuscita della riforma[23], ad iniziare dal ruolo attivo (“d’intesa”) nella predisposizione del programma di trattamento. L’art. 141-ter disp. att. C.p.p. prevede poi dettagliatamente le attività che l’ U.E.P.E è chiamato a svolgere (ricevimento della richiesta dell’imputato; indagine socio-familiare; acquisizione del consenso; predisposizione del programma e trasmissione al giudice; supervisione della probation; informazione al giudice sull’andamento della stessa; trasmissione della relazione finale dettagliata).

Orbene, il fatto è che all’ufficio in parola sono state attribuite responsabilità nuove, quantitativamente e qualitativamente sproporzionate rispetto alle attuali piante organiche. Ciò, nella pratica, comporta spesso la necessità di molteplici rinvii del processo volti alla predisposizione del programma (con corrispondente sospensione dei termini prescrizionali), con ciò frustrando le finalità deflattive cui originariamente la probation certamente mirava.

Si aprono dunque due strade. La prima: potenziare le strutture dell’U.E.P.E. sotto il profilo organico, sì da consentire una rapida ed efficace gestione delle attività ad esso demandate. La seconda: prevedere meccanismi di silenzio-assenso sulla proposta di programma presentata dall’imputato, in modo da non “insabbiare” il rito della probation, lasciando così all’ U.E.P.E un ruolo più attivo nella fase esecutiva della probation. Questa seconda opzione non è invero irragionevole: infatti, il programma di trattamento andrà comunque sottoposto al vaglio del giudice onde saggiarne l’idoneità, senza che all’imputato sia concesso di imporlo unilateralmente.

4. Conclusioni.

La strada intrapresa dal legislatore sembra andare nella giusta direzione. La messa alla prova è un istituto da coltivare e potenziare, come ulteriore passo verso uno svecchiamento del sistema sanzionatorio penale. In tal senso milita anche il successo (per certi versi inaspettato) della probation, almeno sul piano statistico: al 31 luglio 2015 risultano 4.782 applicazioni e 9.684 indagini da parte dell’U.E.P.E.

Un successo che, tuttavia, può essere dato dalla novità dell’istituto e che pertanto deve indurre, da un lato, ad ampliarne gli aspetti premiali e l’ambito oggettivo, dall’altro, a snellirne il procedimento applicativo.

Dott. LUCA GESSAROLI

Tirocinante ex art. 73 d.l. 69/2013 presso il Tribunale di Rimini



[1] D’ora innanzi indicata con l’espressione “messa alla prova”.

[2] G.TABASCO, La sospensione del procedimento con messa alla prova degli imputati adulti, in www.archiviopenale.it, p. 1, sottolinea che l’istituto della probation anglosassone, cui si è in parte ispirato il legislatore italiano, è in realtà applicato nella fase esecutiva della pena, secondo il modello della probation di tipo penitenziario. Quello introdotto dalla citata legge n. 67 del 2014, invece, è una forma di probation cd. giudiziale, applicata nel corso del processo “di cognizione”.

[3]D.d.l. n. 2664/2007, d.d.l. n. 3291/2010, d.d.l. 5019/2012 ed infine d.d.l. 5019-bis/2013.

[4] F. PALAZZO, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture (A proposito della legge n. 67/2014), in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 4/2014, pp. 1694- 1695.

[5] A tal riguardo, si faccia riferimento alla dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto, introdotta dal D.lgs. n. 28 del 16.03.2015, con cui il Governo ha esercitato la delega conferitagli con la medesima l. 67 del 2014.

[6] Il riferimento è, in particolare, alla nota sentenza Torreggiani e altri c. Italia, pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’8 gennaio 2013, con cui il nostro Paese è stato condannato per la violazione dell’art. 3 della Convenzione E.d.u.

[7] M. RIVERDITI, La nuova disciplina della messa alla prova di cui all’art. 168-bis c.p.: uno sguardo d’insieme, in St.iur., 9/2014, p. 985.

[8] Va osservato che, in effetti, gli artt. 464-bis c.p.p. e ss. sono stati collocati all’interno del Libro VI del codice di rito, relativo ai procedimenti speciali.

[9] Cass., sez. VI, 13 febbraio 2015, n. 6483 ha stabilito che «nella individuazione dei reati attratti alla disciplina della probation di cui agli artt. 168-bis e seguenti cod. pen. in ragione del mero riferimento edittale, deve guardarsi unicamente alla pena massima prevista per ciascuna ipotesi di reato, prescindendo dal rilievo che nel caso concreto potrebbe assumere la presenza della contestazione di qualsivoglia aggravante, comprese quelle ad effetto speciale».

[10] O. MURRO, Messa alla prova per l’imputato adulto: prime riflessioni sulla legge n. 67/2014, in St. iur., 11/2014, p.1265.

[11] M. RIVERDITI, La nuova disciplina della messa alla prova, cit., p. 983; in tal senso, rispetto ad un precedente disegno di legge, F. VIGANO’, Sulla proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2013, p. 1302, già aveva messo in risalto la necessità di rendere più appetibile la messa alla prova mediante un ampliamento dell’ambito oggettivo di applicazione, pena la potenziale sovrapposizione con la sospensione condizionale della pena.

[12] G.TABASCO, La sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., p. 7.

[13] O. MURRO, Messa alla prova per l’imputato adulto, cit., pp. 1266-1267. Sul punto vale la pena richiamare l’attenta disamina svolta da G.TABASCO, La sospensione del procedimento con messa alla prova, cit., pp. 19 ss., che, ad esempio, indica come imprescindibile il risarcimento del danno.

[14] Cass. pen., sez. II, 4 maggio 2015, n. 18265.

[15] Si fa riferimento alla legge n. 118 del 11 agosto 2014.

[16] F. MARTELLA, Messa alla prova “per adulti”: la questione della (assenza di) disciplina intertemporale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., p. 5.

[17] F. BARDELLE, I primi arresti della Cassazione sulla messa alla prova, in www.dirittopenalecontemporaneo.it; a parere dell’Autore, in tal senso parrebbe muoversi, pur implicitamente, anche Cass. pen. 2014, sez. II, 18 dicembre 2014, n. 52608.

[18] V. BOVE, Messa alla prova, a poco più di un anno: quali, ancora, le criticità?”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 4.

[19]R. BARTOLI, La “novità” della sospensione del procedimento con messa alla prova, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, p. 3 sottolinea come il concreto operare della messa alla prova tenda ne faccia emergere la natura eminentemente premiale, pur unitamente ad una special-preventiva.

[20] F. BARDELLE, I primi arresti della Cassazione, cit.

[21] O. MURRO, Messa alla prova per l’imputato adulto, cit., p. 1271 afferma che “il concetto di idoneità attiene alla congruità del progetto rispetto alla gravità del fatto, alle modalità di esecuzione del reato, alla finalità rieducativa e risocializzante dell’istituto, nonché alle caratteristiche personali dell’imputato; inoltre attiene anche alla concreta fattibilità delle prescrizioni ed attività indicate”.

[22] V. BOVE, Messa alla prova, a poco più di un anno: quali, ancora, le criticità?”, cit., sottolinea la novità della valutazione cui è chiamato il giudice non solo in tale campo, ma anche, ad esempio, nel coevo istituto di cui all’art. 131-bis c.p.

[23] O. MURRO, Messa alla prova per l’imputato adulto, cit, pp. 1265 ss.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 
 
 
 

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