indicazioni per il giudizio di merito.
Testo della relazione tenuta a Bologna il 10 settembre 2018, nell'ambito del convegno “Il nuovo assegno divorzile, tra funzione assistenziale, perequativa e compensativa, risarcitoria”, organizzato dalla Struttura Didattica Territoriale per il distretto della Corte di Appello di Bologna della Scuola Superiore della Magistratura e dalla Università di Bologna.
Premessa: con la sentenza n. 18287 dell'11 luglio scorso, le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno cassato con rinvio la decisione della Corte di Appello di Bologna, la quale aveva esonerato l'ex marito dal versamento dell'assegno divorzile in applicazione dei principi espressi dalla prima sezione nella sentenza 11504 del 2017 (la ex moglie era stata ritenuta economicamente autosufficiente), sul rilievo che la Corte di Appello aveva omesso di verificare se l'attribuzione dell'assegno potesse essere giustificata in funzione “perequativo-compensativa”.
La Corte ha enunciato il principio di diritto per cui:"Ai sensi della L. 898 del 1970, art. 5, comma 6, dopo le modifiche introdotte con la L. n. 74 del 1987, il riconoscimento dell'assegno di divorzio, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, attraverso l'applicazione dei criteri di cui alla prima parte della norma i quali costituiscono il parametro di cui si deve tenere conto per la relativa attribuzione e determinazione, ed in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto".
I. La lettura della sentenza delle sezioni unite chiama ad interrogarsi su quali indicazioni possano da essa essere ricavate per il giudizio di merito, il ché è dire che la lettura della sentenza chiama ad interrogarsi sul se le sezioni unite abbiano assolto al loro compito istituzionale (art. 65 l. ord.giud.) di garantire la esatta osservanza e l'uniforme interpretazione ed applicazione della legge (la funzione nomofilattica è pienamente assolta se le indicazioni sono chiare).
Anticipo che la risposta che mi sono dato è positiva per due aspetti e non interamente per altri due: è positiva per quanto concerne il superamento dei precedenti orientamenti inaugurati dalle sezioni unite nel 1990 (sentenze n.11489, 11490, 11491 e 11492) e dalla sezione prima lo scorso anno (sentenza n.11504), con la particolare sottolineatura della funzione non esclusivamente assistenziale dell'assegno e per quanto concerne l'individuazione di precisi riferimenti costituzionali del diritto all'assegno; non è interamente positiva per quanto concerne la definizione delle varie funzioni dell'assegno e delle articolazioni del giudizio di merito.
Su questi ultimi aspetti intendo in particolare soffermarmi.
II. Le sezioni unite hanno nuovamente affrontato il problema interpretativo posto dal comma 6 dell'art.5 della legge di divorzio, come modificato dalla legge 6 marzo 1987, n. 74; problema che è sempre stato, in primo luogo, quello del significato da attribuire al termine “adeguati”, riferito ai mezzi di cui il richiedente l'assegno deve essere privo, e, in secondo luogo, quello del coordinamento della prima parte della disposizione, laddove sono elencati gli elementi dei quali il giudice deve tener conto (‘‘condizioni dei coniugi’’, ‘‘ragioni della decisione’’, ‘‘contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune’’, ‘‘reddito di entrambi’’), anche in rapporto alla durata del matrimonio, con la seconda parte della stessa disposizione, laddove è collocato il riferimento ai mezzi adeguati.
La soluzione del problema passa per la definizione della funzione da attribuire all'assegno: per chiarire il significato del termine adeguati e per individuare il ruolo degli elementi elencati nella prima parte della norma, occorre, in altri termini, stabilire rispetto a quale esigenza i mezzi devono essere adeguati.
E' noto, e le Sezioni Unite lo ricordano nel punto 8.2. della motivazione, che nella giurisprudenza di legittimità era sempre stato fermo il principio per cui, con la riforma della legge divorzile, diversamente che nella vigenza dell'impianto normativo originario (art.5, legge 1 dicembre 1970, n, 898), allorquando la funzione dell'assegno era insieme assistenziale, risarcitoria e compensativa (salvo che nel singolo caso di una di queste funzioni mancassero i presupposti), l'assegno aveva funzione solo assistenziale (per la precisione nelle prime sentenze si parlava di funzione “eminentemente” assistenziale mentre sia nelle sentenze delle sezioni unite n. 11489, 11490, 11491, 11492 del 29 novembre del 1990 sia nella sentenza della prima sezione n. 11504 del 10 maggio del 2017 si parla di funzione “esclusivamente” assistenziale), salva la diversa individuazione della soglia della doverosa assistenza o al livello di quanto indispensabile a consentire alla parte di mantenere il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio (o il tenore di vita che la parte avrebbe potuto avere, a fronte di un più modesto "stile" di vita mantenuto in concreto) o al livello di quanto necessario all'autosufficienza economica.
Le sezioni unite, al di là di un, a mio avviso, indubbio difetto di linearità espositiva, affermano oggi che l'assegno ha, principalmente, funzione “perequativo-compensativa”, ossia funzione di riequilibrio tra le posizioni delle parti al termine del matrimonio in ragione, per un verso, del contributo dato dal richiedente l'assegno alla conduzione familiare, alla formazione del patrimonio comune e della condizione economica complessiva derivata all'altra parte “dalle acquisite potenzialità di affermazione economico-professionale in quanto consentite dal concordato assetto di vita familiare nel corso della convivenza” (così Quadri, L’assegno di divorzio tra conservazione del ‘‘tenore di vita’’ e ‘‘autoresponsabilità’’: gli ex coniugi ‘‘persone singole’’ di fronte al loro passato comune, in Nuova giur. civ. comm., 2017, 1267) ed in ragione, per altro verso, del sacrificio, da parte del richiedente, di possibilità di lavoro e di guadagno all'esterno della famiglia a causa dell'impegno all'interno.
Ho parlato di difetto di linearità espositiva perché, al punto 10 della motivazione, la Corte afferma, prima, che “l'art. 5 comma 6°, attribuisce all'assegno funzione assistenziale, riconoscendo al coniuge il diritto all'assegno quando non ha mezzi adeguati”, poi che, “il parametro dell'adeguatezza contiene in sé una funzione equilibratrice e non solo assistenziale”, poi ancora che “la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio si compone di un contenuto perequativo-compensativo che discende direttamente dalla declinazione costituzionale del principio di solidarietà e che conduce al riconoscimento di un contributo che, partendo dalla comparazione delle condizioni economico patrimoniali dei due coniugi, deve tener conto non soltanto del raggiungimento di un grado di autonomia economica tale da garantire l'autosufficienza secondo un parametro astratto ma, in concreto, di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare ...”, poi, ancora, al punto 11, di funzione perequativa, e, al punto 12, di “elemento contributivo-compensativo [che] si coniuga senza difficoltà a quello assistenziale” e, infine, nel formulare il principio di diritto, nuovamente di “funzione assistenziale ed al pari compensativa e perequativa”.
Ho affermato che, al di là di questa scarsa linearità, in sostanza, le sezioni unite attribuiscono all'assegno funzione essenzialmente perequativa e compensativa, ed anzi principalmente funzione perequativa, perché la funzione assistenziale viene ricondotta alle altre e in particolare alla prima (perequativa), attraverso il passaggio motivazionale per cui l'adeguatezza dei mezzi non va valutata in riferimento a parametri esterni -tenore di vita o condizione di autosufficienza economica- ma in riferimento ai parametri elencati nella prima parte del 6° comma dell'art. 5 e tra questi al parametro fondamentale “del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune” (punto 10 della motivazione).
Il fondamento di questa preminenza delle funzioni perequativa e compensativa è individuato nei principi di solidarietà -intesa come solidarietà nelle scelte di vita e quindi anche come autoresponsabilità e libertà nel compimento di tali scelte che si riflettono poi nella situazione economica propria e dell'altra parte al momento della crisi della relazione coniugale-, e di pari dignità, radicati negli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione.
Ecco dunque la risposta delle sezioni unite al problema di fondo posto dal comma 6, dell'art. 5, l. div., nella sua duplice, ricordata, articolazione:
-il termine “adeguati” va riferito a quanto necessario perché l'assegno possa assolvere la propria funzione, essenzialmente perequativo-compensativa;
-quanto al coordinamento tra la prima parte e la seconda parte del comma 6, dell'art.5, l. div., gli elementi indicati dall'una, tra i quali ha spiccato rilievo quello del contributo fornito dal richiedente per la conduzione della vita familiare e per la formazione del patrimonio comune e del patrimonio dell'ex coniuge, servono (punto 8.2., della motivazione) ad ancorare e a dare contenuto al termine “adeguati”, usato dall'altra (parte della disposizione).
In definitiva, la Corte dà questa prima indicazione al giudice del merito: il termine “adeguati” significa “tali da escludere una significativa disparità tra condizione economica del richiedente l'assegno e situazione economica dell'altra parte, considerati gli elementi elencati nell'incipit del comma 6°, espressivi delle scelte condivise in costanza di rapporto”.
III. Come ho anticipato, questa indicazione non è precisa né esaustiva: attribuisce rilievo alle funzioni ritenute preminenti (perequativa o compensativa) sembrando dare per scontato che ciascuna di esse assorba sempre la funzione assistenziale o che, in altri termini, soddisfatta la funzione perequativa o la funzione compensativa sia sempre soddisfatta anche la funzione assistenziale- il ché invece è una eventualità essendo possibile che un assegno, congruo sotto il profilo perequativo o compensativo, non sia sufficiente sotto il profilo assistenziale-; finisce per trascurare, dopo avervi fatto fuggevole cenno, il caso in cui l'assegno deve essere attribuito in funzione solo assistenziale; sovrappone funzione perequativa e funzione compensativa, spesso legando i due termini con un trait d'union, le quali vanno invece tenute distinte posto che la prima si correla all'esigenza di attribuire alla parte un assegno proporzionato al contributo da essa dato alla formazione del patrimonio comune e alla formazione della ricchezza dell'altro coniuge, mentre la seconda si correla, per un verso, alle occasioni professionali e di guadagno perse o non interamente sfruttate dall'avente diritto all'assegno, a causa dell'assunzione di un determinato ruolo endofamiliare e, per altro verso, alla possibilità di recuperare il pregiudizio professionale ed economico subito mediante il ricollocamento nel mondo del lavoro (punto 10 della motivazione)-; trascura del tutto la funzione risarcitoria dell'assegno (funzione espressa dal parametro delle “ragioni della decisione”).
Le carenze relative alla prima indicazione si riflettono anche sulle indicazioni relative alle varie articolazioni del giudizio di merito, i.e. sulle indicazioni date su come il giudice del merito deve procedere.
IV. Riguardo a queste indicazioni, dal punto 10 della motivazione della sentenza, si ricava quanto segue:
1. il giudice deve, in primo luogo accertare, mediante i documenti fiscali obbligatoriamente depositati dalle parti e mediante l'impiego dei poteri ufficiosi, quali sono le condizioni economico patrimoniali di ciascuno degli ex coniugi;
2. deve, in secondo luogo, verificare se l'eventuale squilibrio rilevante accertato tra le condizioni degli ex coniugi è riconducibile alle «scelte di conduzione della vita familiare adottate e condivise in costanza di matrimonio, con il sacrificio delle aspettative professionali e reddituali di una delle parti in funzione dell'assunzione di uno ruolo trainante endofamiliare», tenendo conto del fattore di "cruciale importanza" della durata del matrimonio e tenendo altresì conto dell'età del richiedente;
3. deve, in terzo luogo, stabilire, se l'eventuale squilibrio economico rilevante, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza nell'interesse della famiglia, può essere superato mediante “il recupero o il consolidamento della propria attività professionale in rapporto all'età del richiedente e alle concrete possibilità offerte dal mercato del lavoro” o se invece si tratta di squilibrio “irreversibile”;
4. deve, infine, qualora abbia accertato l'esistenza di uno squilibrio economico rilevante tra le posizioni degli ex coniugi, causalmente connesso alle scelte e ai sacrifici fatti in costanza di convivenza e qualora abbia accertato che tale squilibrio non può essere autonomamente colmato dal richiedente, liquidare l'assegno nella misura definita con riferimento a tutti i parametri della prima parte della norma tra i quali, principalmente, il “contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, [e] in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente”.
V. Ciò detto, pare utile ripercorre le tappe del procedere del giudice per come indicate dalla Corte e per quanto discende da una (più) puntuale valorizzazione delle diverse funzioni dell'assegno.
V.1. Il giudice deve anzitutto accertare l'entità del patrimonio e del reddito del richiedente e l'entità del patrimonio e del reddito dell'altra parte (nel patrimonio va inclusa la quota dei beni comuni; il patrimonio va valutato in termini di reddito potenziale effettivo ossia in rapporto alle concrete possibilità del relativo sfruttamento economico, diretto o indiretto, e della relativa liquidabilità (si ricordano, sul punto, Cass. 4 marzo 2009, n. 5240, in Fam. e minori, 2009, fasc. 4, 34, secondo cui “la proprietà di immobili può essere valutata ai fini dell'idoneità degli stessi a garantire al coniuge un tenore di vita corrispondente a quello goduto in costanza di matrimonio anche quando ciò derivi non dal reddito attuale che tali immobili possono fornire, ma da un diverso tipo di impiego, ad esempio nel caso di alienazione e successivo reimpiego del capitale così ricavato” e Corte di Appello di Genova, 12 ottobre 2017, n. 106, in www.ilfamiliarista.it, secondo cui “la valutazione dei cespiti patrimoniali è cambiata. Negli anni ’90 chi aveva 500 milioni di lire di liquidità poteva contare su un rendimento ragionevolmente sicuro oscillante fra i 15 ed i 30 milioni di lire l’anno, poteva quindi, moderando le spese, vivere di rendita. Oggi con i tassi di interesse praticamente azzerati un capitale di 250.000,00 euro non garantisce alcuna rendita economicamente significativa e costituisce solo una riserva che viene erosa ogni anno per vivere in caso di assenza di altri redditi. Le case con l’aumento della tassazione e dell’impatto di spese condominiali e bollette sugli stipendi, specialmente quelle non usate come abitazione principale, possono essere più un peso ed una fonte di debiti -specie in caso di lavori condominiali straordinari- che una fonte di reddito”).
La Corte evidenzia che questo accertamento deve essere effettuato sulla scorta delle risultanze delle dichiarazioni dei redditi (che, quali dichiarazioni di contenuto confessorio rese a terzi, ove non inficiate da elementi documentali o testimoniali, sono liberamente apprezzabili dal giudice), dei documenti depositati dalle parti, relativi ai redditi e al loro patrimonio personale (art. 4, comma 9, l.div.) e sulla scorta degli esiti dell'esperimento dei poteri d'indagine ufficiosi (la consulenza tecnica e le indagini di polizia tributaria).
Si aprono qui i problemi dibattuti di rapporto tra onere di prova a carico delle parti e uso dei poteri ufficiosi (la parte, previa autorizzazione del presidente del Tribunale, può, ex art. 492 bis c.p.c. e artt. 155 sexies disp. att. c.p.c., accedere alle banche dati della pubblica amministrazione per ricostruire il reddito e il patrimonio della controparte; ove abbia esercitato tale potere senza esito, può ottenere l'intervento giudice sia ai sensi dell'art. 210 c.p.c. sia ai sensi dell'art. 213 c.p.c.; ove la controparte abbia depositato la dichiarazione dei redditi, l'interessato, per poter ottenere dal giudice l'esercizio dei poteri di accertamento mediante consulenza o mediante polizia tributaria, ha l'onere di contestare specificamente le dichiarazioni agli atti; resta nella discrezionalità del giudice utilizzare i poteri istruttori; il giudice può demandare al consulente o alla polizia tributaria di attingere elementi dalle banche dati della pubblica amministrazione, dall'anagrafe tributaria, dal pubblico registro automobilistico e dai registri degli enti previdenziali ex art. 492 bis c.p.c. e 155 sexies c.p.c.; ove siano state effettuate precise contestazioni delle dichiarazioni agli atti, la domanda di corresponsione dell'assegno non può essere respinta con la motivazione per cui l'istante non ha dato prova delle dedotte condizioni economiche dell'altro coniuge; l'esercizio o non esercizio dei poteri ufficiosi è sindacabile solo ai sensi dell'art. 360, comma 1, n.4, c.p.c., laddove sia possibile denunciare che la sentenza è assolutamente priva di motivazione).
V.1.1. Se emerge che non vi è una differenza significativa tra le condizioni economiche, il giudice deve negare l'assegno (il concetto di “significativo” va rapportato all'entità dei patrimoni e dei redditi accertati).
Questa conclusione -che risulta già dai vari passaggi della motivazione nei quali si parla dello squilibrio economico-patrimoniale tra gli ex coniugi come condizione solo al positivo accertamento della quale può farsi seguire l'ulteriore sviluppo del giudizio sull'assegno (v., tra altri, punto 10, paragrafo 6 e paragrafo 8; punto 12 paragrafo 3) e che è poi chiaramente espressa al paragrafo 5 del punto 12, laddove si parla di “domanda di assegno da parte dell'ex coniuge economicamente debole”- desta perplessità: abbandonato il quadro dei precedenti orientamenti secondo cui l'adeguatezza doveva essere rapportata alla funzione solo assistenziale dell'assegno (quadro nel quale era del tutto coerente affermare che, in assenza di squilibrio, il riconoscimento dell'assegno era per ciò stesso escluso) ed assunto invece che l'adeguatezza deve essere rapportata alle funzioni perequativa o compensativa, assunto altresì che le funzioni perequativa o compensativa sono sufficienti al riconoscimento dell'assegno e che i presupposti della funzione assistenziale non necessariamente devono ricorrere (lo squilibrio richiesto dalla Corte come requisito per l'attribuzione dell'assegno può verificarsi qualunque sia l'entità delle condizioni economiche delle parti e quindi anche tra condizioni, entrambe, di agiatezza), non pare vi sia ragione per non riconoscere l'assegno, proprio per una o entrambe queste funzioni, anche in caso di perfetto equilibrio economico patrimoniale tra gli ex coniugi qualora uno di essi abbia contribuito più dell'altro alla condizione finale comune o abbia sacrificato o sacrificato più dell'altro prospettive di sviluppo lavorativo personale fuori casa per dedicarsi alla famiglia.
A titolo di ipotesi esemplificativa: due persone sposate che hanno identico lavoro ed identico stipendio (esempio due dipendenti pubblici: due insegnanti o due magistrati della stessa anzianità di servizio); al termine del rapporto hanno un patrimonio costituito da uno o più immobili acquistati in comune e denaro depositato su conto corrente comune; la donna ha però svolto (o svolto più dell'uomo) anche mansioni domestiche per la cura della casa o per l'accudimento dei figli (ormai indipendenti); in questo caso non si vede perché la donna non dovrebbe poter pretendere un assegno in funzione corrispettiva per questo suo maggior impegno (senza il quale sarebbe stato necessario sostenere spese che avrebbero ridotto le disponibilità comuni e quindi anche la condizione economica dell'uomo al termine del rapporto) o un assegno in funzione compensativa del reddito perduto per avere rinunciato a maggior lavoro esterno.
Né sarebbe possibile, senza entrare in contrasto con il dato normativo (“il tribunale, tenuto conto del ... contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune’’ …), affermare che l'assegno dovrebbe essere negato perché in realtà la donna si è limitata ad adempiere agli obblighi che le incombevano ex art. 143 c.c.
IV.1.2. Se emerge che la condizione economica del richiedente è significativamente inferiore a quella dell'ex coniuge, occorre svolgere l'ulteriore verifica finalizzata a stabilire se questa differenza trova o non trova causa nelle scelte condivise.
Il passaggio a questa ulteriore verifica risulta inutile nelle situazioni limite in cui la parte contro cui la domanda è proposta ha un reddito talmente ridotto da non poter consentire il pagamento di alcun assegno.
IV.1.2.1. Se emerge che la differenza non trova causa nelle scelte condivise, i.e. emerge che la differenza preesisteva al matrimonio ed è rimasta invariata (pensare a chi sposa una persona abbiente; il matrimonio ha breve durata; la parte non ha dato alcun contributo alla formazione del patrimonio comune né alla condizione economica altrui) oppure è variata ma non in dipendenza di scelte involgenti il richiedente (ipotesi in cui l'ex coniuge ha un incremento stipendiale dovuto ad automatismi di carriera o ad un maggiore suo impegno senza alcun coinvolgimento del partner), il giudice non può negare perciò solo l'assegno (come dovrebbe fare se l'assegno avesse solo funzione perequativa o compensativa) ma deve invece stabilire se l'assegno deve essere comunque riconosciuto con funzione solo assistenziale.
La Corte evoca questo dovere nel quarto capoverso del punto 12 della motivazione, laddove è detto: “il legislatore impone di accertare, preliminarmente, l'esistenza e l'entità dello squilibrio determinato dal divorzio mediante l'obbligo della produzione dei documenti fiscali dei redditi delle parti ed il potenziamento dei poteri istruttori officiosi attribuiti al giudice, nonostante la natura prevalentemente disponibile dei diritti in gioco. All'esito di tale preliminare e doveroso accertamento può venire già in evidenza il profilo strettamente assistenziale dell'assegno, qualora una sola delle parti non sia titolare di redditi propri e sia priva di redditi da lavoro”.
Per la precisione, occorre notare che il profilo strettamente assistenziale, per un verso, non ricorre quando la parte ha la possibilità concreta di procurarsi un reddito (rilevano in proposito l'età, i titoli professionali, la situazione del mercato del lavoro) e, per altro verso, invece, ricorre anche laddove la parte non sia in assoluto priva di redditi ma abbia redditi interamente assorbiti da spese incomprimibili o redditi comunque insufficienti a coprire le spese di un'esistenza dignitosa (“libera e dignitosa”, secondo Cass. n.11538/2017 e Cass.n. 2043/2018; “indipendente e dignitosa”, secondo Cass., ord. n.15481/2017).
In merito alla attribuzione dell'assegno in funzione solo assistenziale (contestata da una parte della dottrina, RIMINI, Assegno di mantenimento e assegno divorzile: l’agonia del fondamento assistenziale, nota a Cassazione civile, Sez. I, 10 maggio 2017, n. 11504 e a Cassazione civile, Sez. I, 16 maggio 2017, n. 12196, in Giur.it., 2017, 1799), occorre ricordare che la tale funzione discende dal principio di solidarietà post-coniugale, radicato nell'art.2 prima parte, Cost., laddove si pone l'esigenza che siano assicurati i diritti fondamentali del singolo all'interno della formazione sociale “famiglia” e quindi, appunto, l'esigenza di assicurare la dignità della persona che è stata parte di quella formazione, ed è, a livello di normazione primaria, attestato da una serie di indici: il riconoscimento della perpetuità (potenziale) dell'assegno divorzile; la previsione della spettanza all'ex coniuge che abbia ottenuto l'assegno, di una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro (art. 12 bis, l.div.), della pensione di reversibilità (almeno pro quota) in caso di premorte dell’altro (art.9, comma 2° e comma 3° l. div.), del diritto ad un assegno periodico a carico dell'eredità, qualora versi in stato di bisogno (art. 9 bis l. div.).
Ciò detto, nell'ipotesi ora in esame, il giudice del merito è chiamato, in sostanza, a stabilire se il richiedente l'assegno può condurre un'esistenza dignitosa.
Il termine richiama l'art.36 Cost. (Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa).
Le sezioni unite, concentrando l'attenzione sulla sola ipotesi in cui l'assegno deve essere riconosciuto in funzione perequativa e/o compensativa e sull'implicito e non veritiero assunto che soddisfatta una di queste funzioni sia sempre soddisfatta anche quella assistenziale, trascurano di dare al giudice del merito una indicazione specifica sul presupposto dell'attribuzione dell'assegno in funzione solo assistenziale; l'indicazione generale per cui l'inadeguatezza dei mezzi deve essere ricavata dai parametri di cui alla prima parte del comma 6, dell'art. 5 -in concreto, il parametro specificamente correlato alla funzione assistenziale è quello delle “condizioni delle parti” nel quale resta assorbito quello dei “redditi di entrambi”- ma tale indicazione non consente di individuare soglie di riferimento minimamente sicure (come emerge sol che si tenti di individuare un possibile senso alla espressione “assistere il richiedente se e nella misura in cui questi manchi di disponibilità economiche adeguate rispetto alla propria condizione” e si voglia escludere di correlare l'adeguatezza allo stile di vita matrimoniale).
Una indicazione potrebbe essere questa:
-muovere da una soglia fissa, tendenzialmente sempre uguale (senza dimenticare, come notato dal Trib. di Milano nella sentenza 17 ottobre 2017, in www.ilfamiliarista.it, l'incidenza fiscale che, da un lato, riduce l'importo percepito dal beneficiario, dall'altro, attribuisce all'obbligato il diritto di dedurre dal reddito tassabile un importo pari a quello da corrispondere all'ex coniuge);
-apportare alla soglia minima variazioni in aumento in relazione a quelle sole condizioni soggettive, quali l'età e lo stato di salute, suscettive di accrescere le necessità del richiedente;
-evitare una relativizzazione della soglia alle “esigenze che l’ex coniuge, per il suo vissuto sia durante il matrimonio sia prima, ha maturato” (così, invece, Corte di Appello Genova, sentenza 12 ottobre 2017, n.106, in www.ilFamiliarista.it, ma anche Corte suprema, sentenze 3015 e 3016 del 7 febbraio 2018), che finirebbe per far riemergere lo status di vita matrimoniale.
La soglia fissa non può essere identificata con il minimo necessario per soddisfare esigenze vitali -secondo il Tribunale di Milano 22 Maggio 2017, in www.ilcaso.it, pari a circa 1000 euro il mese- perché ciò porterebbe a far coincidere l'assegno divorzile con l'assegno alimentare (riconosciuto, ai sensi dell'art. 438 c.c., a chi “versa in istato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento”) in contrasto con l’art. 9 bis, comma 1°, l.div. (che riconosce al divorziato, titolare di un assegno di mantenimento, il diritto ad un assegno a carico dell'eredità dell'ex coniuge, “qualora versi in stato di bisogno”), e può invece essere identificata (come prospettato dal Trib. Udine, 1 giugno 2017, in www.osservatoriofamiglia.it) con l'indice medio delle retribuzioni degli operai e impiegati, i.e. quadri (definibile dalla media delle retribuzioni base dei vari contratti collettivi di lavoro e pari, secondo un calcolo molto approssimativo a circa 1300 euro al mese, essendo la retribuzione base mensile, variabile a seconda dei contratti tra circa 1200 e circa 1500 euro), eventualmente adattato al costo della vita nel luogo dove l'avente diritto vive ed opera, perché questa soluzione trova un radicamento nella correlazione che si stabilisce nella ricerca del senso dell'espressione “mezzi adeguati a vivere una vita dignitosa”, tra l'art.2 e l'art.36 Cost.
Le critiche formulate contro la concezione tendenzialmente oggettiva espressa dalla sentenza 11504/2017 e dalle successive decisioni di merito allineatesi a tale sentenza, che avevano portato la Corte stessa ad attenuare i principi della sentenza suddetta affermando che il parametro della autosufficienza doveva essere definito in modo elastico, «in un ambito necessariamente duttile” (Cass. n. 3015/2018) e non inteso in senso soggettivo, quindi relativo e personale (Cass. 2042/2018 e 2043/2018), giustificate laddove la funzione dell'assegno era ravvisata nella sola assistenza ed era teorizzata la irrilevanza della vita matrimoniale dell'avente diritto (Cass. 11504/2017), non valgono allorché, nel diverso quadro delineato dalle sezioni unite nel quale l'assegno non ha sempre e solo quella funzione e la vita matrimoniale non è affatto “messa tra parentesi”, si tratta di definire la misura dell'assegno a favore di chi risulta non avere dato in concreto alcun contributo alla condizione comune.
IV.1.2.2. Se (al contrario di quanto ipotizzato nel paragrafo che precede) emerge che la differenza tra le condizioni delle parti trova causa nelle scelte concordate in costanza di matrimonio -si può pensare al caso in cui il richiedente ha lavorato in casa e/o fuori, ed ha così contribuito alla formazione del patrimonio comune o, in modo indiretto, alla condizione o al miglioramento della condizione economica dell'altra parte-, il giudice del merito deve -secondo l'indicazione della Corte- verificare se tale differenza può essere superata dal richiedente l'assegno, mediante il recupero o il consolidamento della propria attività professionale, in rapporto all'età e alle concrete possibilità offerte dal mercato del lavoro.
Questa indicazione va precisata e corretta.
La verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio ha pienamente senso laddove non vi siano esigenze di perequazione o compensazione ma solo esigenze assistenziali:
se il coniuge richiedente non ha mezzi per vivere una vita dignitosa ma può procurarseli, l'assegno non spetta (si tratta di verifica delicata e complessa perché occorre avere certezza che questa possibilità si concretizzi, se non all'istante, in termini comunque compatibili con l'eventuale esaurimento di riserve di spesa del richiedente l'assegno; può essere infatti che questi abbia ricevuto un assegno di mantenimento e ne abbia accantonato una quota tale da consentire la sopravvivenza per un periodo sufficiente al reperimento di un posto di lavoro);
la verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio non si giustifica laddove vi siano esigenze perequative perché in tal caso l'assegno deve essere riconosciuto in ragione del fatto che il coniuge ha contribuito al patrimonio comune e alla condizione altrui e quindi a prescindere dal fatto che egli possa o non possa superare la situazione di squilibrio sussistente al momento della fine del rapporto;
la verifica della esistenza della possibilità di superare lo squilibrio ha senso laddove debbano essere soddisfatte esigenze di compensazione perché tale possibilità incide sulla perdita di guadagno nella fase post-matrimoniale (mentre non rileva per l'esigenze di compensazione relative al guadagno perso dall'ex coniuge che abbia rinunciato ad occasioni di lavoro extrafamiliare, in costanza di matrimonio).
La verifica va condotta sulle allegazioni delle parti e sulle prove da esse fornite.
La parte richiedente deve allegare di non essere in grado di rendersi autonoma (in un'ottica solo assistenziale) o di superare lo squilibrio (in un'ottica compensativa); la parte richiedente ha anche l'onere di provare i fatti allegati, segnatamente di essersi attivata inutilmente per reperire una occupazione confacente alla propria età, alla propria situazione fisica, alle propria preparazione (in questo senso la Corte si è espressa con le sentenze 11504/2017 e 11538/2017; nella giurisprudenza di merito, dello stesso avviso, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 13 dicembre 2017, secondo cui l'assegno “compete esclusivamente all'ex coniuge che abbia provato di non disporre per ragioni obiettive di mezzi e adeguati per conseguire l'autosufficienza economica [e] tale onere non è assolto dal mero richiamo alle difficoltà del mercato del lavoro”; in senso contrario, Corte di Appello di Napoli, 22 febbraio 2018, n. 911, in Fam. e dir., 2018, 360, per cui “la prova della autosufficienza, costituisce un fatto impeditivo, ex art. 2697 c.c., all'attribuzione dell'assegno”, talché, a seguito della imprescindibile allegazione del richiedente, sta alla controparte dimostrare che il richiedente aveva possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro).
IV.1.3. Da ultimo il giudice, accertato lo squilibrio, accertato il radicamento dello squilibrio nelle scelte concordate, accertata, per quanto di rilievo, la impossibilità di colmare lo squilibrio, deve riconoscere l'assegno di ammontare «adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali ed economiche eventualmente sacrificate, in considerazione della durata del matrimonio e dell'età del richiedente».
Va premesso che la durata del matrimonio è la durata della “convivenza” (coabitazione) matrimoniale e cioè il periodo che va dalle nozze alla separazione anche di fatto dei coniugi (così, DOSI, Assegno di divorzio: come applicare la sentenza delle Sezioni Unite n. 18287/2018, in www.lessicodidirittodifamiglia, p.5, il quale aggiunge: “Occorre ricordare che il concetto di “durata del matrimonio” è inteso in altre parti della legge sul divorzio in modo diverso. Per esempio nell’art. 9, comma 3, la ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge e coniuge superstite può tener conto, nella valutazione della durata del rapporto matrimoniale, anche dell’eventuale periodo di convivenza precedente al matrimonio con il coniuge superstite; nell’art. 12-bis la durata del matrimonio ai fini del diritto alla quota di TFR è, invece, quella rigorosamente legale dalle nozze al giudicato di divorzio);
va altresì premesso che “la durata del matrimonio, in presenza di figli, fa riferimento anche al periodo successivo alla separazione per tutto l’arco di tempo in cui uno dei genitori si occupa in via prevalente, appunto, dei figli. In altre parole, per quanto riguarda il diritto all’assegno divorzile il matrimonio si protrae – ai fini della valutazione della sua “durata” – fino a che durano gli impegni di una delle parti non solo verso l’altro coniuge ma anche verso i figli” (DOSI, op. cit.; in giurisprudenza, nel quadro, e a temperamento, dei principi delineati da Cass. 11504/2017, Trib. Arezzo 5 luglio 2017, in Corr. Giur., 2018, 636 ss.: “non può prescindersi dalla considerazione che, in conseguenza del divorzio, i genitori restano legati dal comune impegno di garantire ai minori quelle stesse cure e assistenza del periodo matrimoniale. Ne consegue che all’ex coniuge prevalentemente collocatario dei figli va riconosciuta la disponibilità di risorse che non siano commisurate al mero parametro dell’autosufficienza, ma che tengano conto anche dell'impegno di accudimento dei minori, ai quali dovrà essere tendenzialmente garantito lo stesso tenore di vita pre-matrimoniale: sarà quindi necessario temperare il criterio dell’autosufficienza con un criterio perequativo legato sia all’esigenza di valorizzare i maggiori compiti di cura assunti nei confronti dei figli sia alla necessità di evitare eccessive e stridenti disparità tra lo stile di vita dei figli e quello del genitore che principalmente dovrà continuare ad occuparsi di loro”.);
- è infine evidente che spesso età delle parti e durata del matrimonio sono dati correlati.
Tanto premesso, l'indicazione della Corte, offuscata dalla sovrapposizione tra funzione perequativa e funzione compensativa (vedi sopra paragrafo III), richiede alcune precisazioni, anche al fine di coordinare, per quanto possibile, il soddisfacimento della funzione perequativa e compensativa con uno strumento, quale l'assegno di divorzio, potenzialmente perpetuo:
-la durata del matrimonio ha un rilievo evidente in un'ottica perequativa o in un'ottica compensativa (il contributo complessivo è la risultante del contributo dato nel tempo, del lavoro extra domestico o domestico svolto durante il matrimonio; la perdita di guadagno subita è la risultante del mancato esercizio di attività remunerative extrafamiliari durante il matrimonio);
-la durata del matrimonio e l'età del richiedente l'assegno possono essere determinanti per la relativa attribuzione a fini compensativi in caso di matrimonio anche di breve durata in cui il richiedente assuma su di sé l'onere di accudire i figli in tenera età per la fase post-matrimoniale, con conseguente limitazione delle possibilità di impiego lavorativo;
-l'età, in una visione solo perequativa (essendo irrilevante ai fini dell'an dell'assegno posto che la parte ha diritto ad avere un assegno proporzionato al contributo dato alla famiglia e indipendentemente dall'età raggiunta al termine del rapporto), rileva imponendo di determinare l'entità dell'assegno periodico in modo che, nel tempo, secondo la prevedibile durata della vita dell'avente diritto, il valore complessivo dell'assegno eguagli il valore del contributo;
-l'età ha rilievo, in un'ottica compensativa, legandosi alle occasioni perse o non interamente sfruttate di realizzazione in lavoro esterno e alla possibilità di recuperale e, ancora, imponendo di determinare l'entità dell'assegno periodico in modo che, nel tempo, secondo la prevedibile durata della vita dell'avente diritto, il valore complessivo eguagli il valore da compensare.
Nella liquidazione dell'assegno deve essere evitato l'errore di valutare in cumulo, per lo stesso momento di tempo, le opportunità sacrificate e il contributo dato alla famiglia: si tratta di elementi alternativi posto che non è possibile, contemporaneamente, dedicare attività al lavoro extrafamiliare (pur se lavoro extrafamiliare a domicilio) e alla cura della casa o all'accudimento dei figli (essendo invece possibile il cumulo delle due attività in momenti diversi dello stesso lasso di tempo, giornaliero, mensile, annuale che sia); sta al richiedente impostare la propria domanda facendo riferimento al reddito non percepito per aver lavorato in casa, dando rilievo alla funzione compensativa, o al valore del lavoro familiare, dando rilievo alla funzione perequativa.
Ai fini della liquidazione del contributo dato con lavoro endofamiliare, la teoria economica indica due metodi: quello del costo opportunità; quello del costo di sostituzione: un’ora di lavoro dedicata alla produzione di un servizio all’interno della famiglia è valutata tramite la retribuzione media di chi potrebbe svolgere questa stessa attività a pagamento sul mercato (utilizzando cioè come base e salvi in necessari adattamenti, le retribuzioni di collaboratrici domestiche).
V. Resta la funzione risarcitoria, di cui è indice il parametro delle “ragioni della decisione”.
Si tratta di una funzione di scarso rilievo pratico: essa non vale, da sola, a giustificare l'attribuzione dell'assegno essendovi, per il coniuge che abbia ragione di lamentare il mancato rispetto degli obblighi sanciti dall'art. 143 c.c., il più specifico e preciso strumento del risarcimento del danno endofamiliare; può in definitiva solo incidere sulla misura dell'assegno determinata in funzione perequativa e compensativa o, in aumento, sulla misura necessaria al soddisfacimento della funzione assistenziale.
ANTONIO MONDINI