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PENALE  

L’articolo 131 bis c.p. e la Riforma Cartabia: novità e criticità. Superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale?

  Penale 
 mercoledì, 20 settembre 2023

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di Nicola CAMERLINGO, Sostituto Procuratore, Procura della Repubblica Santa Maria Capua Vetere

 
 

Abstract: La cd. “Riforma Cartabia” ha realizzato molteplici interventi volti a ridurre i tempi dei processi e tra questi si colloca l’ampliamento dello spazio di applicabilità dell’art. 131 bis c.p. Il dato di novità reale è da ascriversi principalmente alla rimodulazione del quantum di pena entro cui si applica la norma, con scelta del parametro edittale minimo (in luogo del massimo) entro i due anni. L’Autore evidenzia il carattere chiarioscurale della riforma, anche alla luce dell’uso dell’istituto per scardinare il dogma l’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost..

SOMMARIO: 1. Introduzione: le peculiarità della speciale causa di non punibilità per lieve entità del fatto nel sistema ordinamentale penale e la cd. “Riforma Cartabia”. 2. Legge delega n. 134/2021 e la nuova formulazione dell’art. 131 bis c.p. 3. Il novum e la pregressa elaborazione giurisprudenziale. 3.1.1. Il parametro del minimo edittale non superiore ai due anni e la sentenza della Corte Costituzionale n. 156 del 2020 3.1.2. Il problema del recidivo e della continuazione: lo svotamento del criterio dell’abitualità. 3.1.3 La valorizzazione delle condotte successive e l’abdicazione del legislatore del proprio ruolo di regolatore del sistema. 4. Le materie escluse: l’aporìa in tema di stupefacenti. 5. Il dibattito sul superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost. e l’impatto del nuovo articolo 131 bis c.p. 6. Conclusioni.

1. Introduzione: i caratteri della speciale causa di non punibilità per lieve entità del fatto nel sistema penale e la cd. “Riforma Cartabia”.

La cd. “Riforma Cartabia”, operata con il D.Lgs. n. 150/2022, si è posta quale obiettivo principale la definizione - sia in ambito sostanziale che processuale - di un sistema di giustizia penale volto a ridurre i tempi dei processi, in particolare operando un filtro sulle vicende poste alla cognizione del giudice penale: in tal senso, l’ampliamento delle ipotesi attratte all’applicazione dell’art. 131 bis c.p. si palesa come di particolare incisività.

Come è noto, il D.Lgs. n. 28/2015 ha introdotto nel codice penale la generale causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto[1].

L’istituto nasce con una spiccata ambizione deflattiva, ispirata ai principi di proporzione ed extrema ratio di secondo grado - che operano nella concreta dinamica giudiziale in luogo della dimensione generale e astratta[2] -, i quali immaginano un sistema penale ridisegnato attorno a fatti connotati da particolare disvalore, relegando invece le ulteriori aspettative di tutela ai rimedi risarcitori e alla c.d. restorative justice.

Nella grammatica penalistica l’art. 131-bis c.p. aggiorna il raggio di azione del principio di offensività in concreto, che permette al giudice, per il tramite dello scrutinio di tipicità o del reato impossibile (art. 49 co. 2 c.p.), di stemperare il rigore applicativo di fattispecie penali poco selettive ‘a monte’[3].

Con la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto si effettua una ulteriore e più puntuale perimetrazione dell’area della punibilità rispetto alla carica lesiva delle condotte incriminate. Nelle fattispecie con un range edittale compatibile con l’art. 131-bis c.p., dunque, la selezione ermeneutica guidata dal principio di offensività si articola in:

  1. Fatti in concreto inoffensivi non punibili ai sensi dell’art. 49, co. 2 c.p.;
  2. Fatti in concreto di lieve offensività non punibili nei limiti di cui all’art. 131-bis c.p.;
  3. Fatti in concreto di moderata o accentuata offensività regolarmente punibili.

In tal modo, la prassi applicativa è chiamata a completare l’opera iniziata dal legislatore, circoscrivendo l’area del penalmente rilevante intorno a ipotesi residuali e gravi, lasciando altresì ‘respirare’ il sistema-giustizia senza dover intervenire con impopolari quanto cicliche misure di depenalizzazione.

All’interno delle macro-aree di non punibilità di cui alle lettere a) e b) va immediatamente segnalata una rilevante differenza. Mentre, infatti, la pronuncia di inoffensività ai sensi dell’art. 49, co. 2 c.p. attiene “all’essere o non essere di un reato” e non provoca pregiudizi per l’indagato/imputato, altrettanto non può dirsi per il provvedimento di non punibilità ex art. 131-bis c.p., concernente invece “per definizione fatti senza incertezze pienamente riconducibili alla fattispecie legale”[4].

Un primo indizio in tal senso si ricava dalla prevalenza della declaratoria di non punibilità per intervenuta prescrizione rispetto a quella per particolare tenuità del fatto, in quanto la prima, “estinguendo il reato, rappresenta un esito più favorevole per l’imputato”[5]. La seconda, invece, lascia inalterato l’illecito penale nella sua materialità storica e giuridica[6]. A ulteriore conferma, l’art. 651-bis c.p.p. riconosce alla sentenza irrevocabile di proscioglimento per particolare tenuità del fatto pronunciata in seguito a dibattimento efficacia di “giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”. In altre parole, sbarrata la strada della giustizia penale, la pronuncia assolutoria per particolare tenuità del fatto alleggerisce l’onere probatorio dei rimedi civilistici.

In aggiunta, secondo quanto statuito dalle Sezioni Unite, il provvedimento di archiviazione per particolare tenuità del fatto va iscritto nel casellario giudiziale, fermo restando che non ne deve essere fatta menzione nei certificati rilasciati a richiesta dell’interessato, del datore di lavoro e della pubblica amministrazione[7]. Ciò, anche al fine di evitare che chi commetta più reati di ‘particolare tenuità’ possa lucrare molteplici volte il beneficio in questione, accumulando proscioglimenti nonostante l’abitualità del comportamento.

Nel contesto del D.Lgs. n. 150/2022, il legislatore sembra essersi preoccupato, forse eccessivamente, di adeguare la fisionomia della norma agli indirizzi espressi dalla giurisprudenza (soprattutto di legittimità, ma anche costituzionale), senza dirimere i nodi di coerenza sistematica che una causa di non punibilità di così ampio respiro porta con sé con riguardo all’interazione con le altre norme.

Non sfugge, infatti, che la particolare tenuità ex art. 131 bis c.p. è l’unica causa di non punibilità in senso stretto a portata generale, a fronte di un modello che collocava tali cause di esclusione della pena come marginali e tipicamente eccezionali (a differenza delle scriminanti, a portata generale ed estensibili analogicamente in quanto norme in favor rei)[8], poiché ispirate ad una valutazione di mera opportunità fondante la scelta del legislatore di rinunciare a monte alla punizione di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole[9].

Del resto, è inutile negare, come già accennato, che le ragioni sottese all’abdicazione della pretesa punitiva di cui all’art. 131 bis c.p., ovvero quella di impedire lo svolgimento di processi (e prima ancora l’approfondimento investigativo) per fatti “bagatellari”, trovino addentellato nella valutazione di reale offensività della condotta, sulla scorta della quale la giurisprudenza - soprattutto di merito, e ancor più quella degli uffici G.I.P. in sede di giudizio di archiviazione ex art. 408 c.p.p. - ha da lungo tempo vagliato le vicende penali meritevoli di trattazione. Se, quindi, tale ratioex se diritto di cittadinanza alla norma nel sistema, parimenti chiare sono le summenzionate questioni di coerenza sistematica implicate dalla sua fisionomia eterodossa rispetto ai dogmi su cui è strutturato il genus “cause di esclusione della punibilità in senso stretto”.

A tali questioni la riforma non dà risposta, così come impostata su un approccio eminentemente pratico-casistico-empirico, volto semplicemente a cristallizzare nella norma l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità e costituzionale degli ultimi anni, trascurando così il dato sistematico-dommatico, in tal modo lasciando un evidente eccesso di discrezionalità applicativa all’interprete, con le conseguenti prevedibili difformità di orientamenti tra uffici giudiziari ed all’interno dei medesimi (a partire dalle Procure).

Sin d’ora quindi va anticipata l’inferenza del tema rispetto ad un potenziale – surrettizio - superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost., questione dibattuta da anni, che, tuttavia, correttamente imporrebbe una riforma costituzionale, a maggior ragione in virtù delle ragioni storico- ideologiche che hanno determinato l’assemblea costituente all’introduzione di tale principio costituzionale.

 

2. Le linee portanti del D.Lgs. n. 150/2022 relative all’art 131 bis c.p.

La disciplina della non punibilità per particolare tenuità del fatto come visto è stata modificata dal D.Lgs. 10.10.2022, n. 150, che, nel dare attuazione alla legge delega (art. 1, 21° co., L. 27.9.2021, n. 134), ha seguito i tre seguenti criteri direttivi: 1) ha esteso l'ambito di applicabilità dell'istituto ai reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, modificando il limite di pena previsto al 1° co.; 2) ha attribuito rilievo alla condotta susseguente al reato ai fini della valutazione del carattere di particolare tenuità dell'offesa, inserendo il relativo riferimento al 1° co.; 3) ha escluso il carattere di particolare tenuità dell'offesa - e, pertanto, l'applicazione dell'istituto - in relazione ai reati riconducibili alla Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011, e ad ulteriori reati di particolare gravità, specificamente indicati al 3° co. La riforma è entrata in vigore il 30.12.2022, ai sensi dell'art. 99 bisD.Lgs. 10.10.2022, n. 150, introdotto dal D.L. 31.10.2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla L. 30.12.2022, n. 199.

La natura sostanziale dell’istituto ha subito determinato l’intervento della giurisprudenza di legittimità volto ad affermare l'applicazione retroattiva delle modifiche apportate all'art. 131 bis nei procedimenti pendenti in cassazione al momento dell'entrata in vigore della riforma[10].


3. Il parametro del minimo edittale non superiore ai due anni e la sentenza della Corte Costituzionale n 156 del 2020.

La causa di non punibilità è applicabile in presenza di una serie di condizioni normativamente indicate.

Essa è, innanzitutto, applicabile ai soli reati puniti con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni (prima della riforma ex D.Lgs. 10.10.2022, n. 150 il limite di pena era fissato in misura non superiore nel massimo a cinque anni) ovvero con pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva.

Giova ricordare che prima della modifica del 2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 131 bis nella parte in cui non consente l'applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ai reati per i quali non è previsto un minimo edittale di pena detentiva[11].

La Corte ha in particolare osservato che l’opzione del legislatore di consentire l’irrogazione della pena detentiva nella misura minima assoluta rivela inequivocabilmente che lo stesso ammette che possono rientrare nella norma incriminatrice anche condotte della più tenue offensività. Rispetto a queste ultime è dunque manifestamente irragionevole, alla luce dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, l’aprioristica esclusione dell’applicazione dell’esimente di cui all’art. 131-bis c.p., quale discende da un massimo edittale superiore ai cinque anni di reclusione.

La Corte ha ricostruito con la sentenza un sistema di offensività gradata, in cui, a fronte di una valutazione di “particolare tenuità” corrispondente a fatti di irrilevante offensività, resterebbero punibili fatti lievemente offensivi, tali da poter beneficiare di una pena più tenue in virtù delle attenuanti, ma non così lievemente da poter beneficiare della sentenza di proscioglimento ex art 131 bis c.p. (senza tener conto della perdurante applicazione del criterio dell’ “inoffensività della condotta”, che fino all’introduzione dell’art. 131 bis c.p. copriva esattamente buona parte dei fatti ora attratti all’applicazione della norma).

La causa di non punibilità è stata quindi ritenuta applicabile al reato di ricettazione attenuata (art. 648, 2° co.), che prevede un limite massimo di pena superiore a cinque anni di reclusione, ma non fissa un minimo edittale di pena detentiva[12].

Sul punto, vale la pena di evidenziare l’incertezza applicativa dell’istituto, laddove è lasciato all’interprete un eccesso di discrezionalità nel valutare fatti che, come nel caso della ricettazione, possono essere puniti da quindi giorni di reclusione sino ad un massimo di otto anni (in cui il metro tecnico dogmatico di valutazione viene a dissolversi in modo evidente nel metro puramente assiologico, che non può non risiedere nella sensibilità pratica e culturale dell’operatore del diritto).

La novella, sulla scorta dell’intervento in supplenza della Consulta, ha ricondotto il balzo in avanti della Corte Costituzionale nei limiti di un chiaro parametro edittale (peraltro seguendo in modo pedissequo l’indicazione della precedente pronuncia del 2017), che - unitamente all’indicazione delle fattispecie escluse - parrebbe a primo acchito fornire all’operatore giuridico dei paletti rispetto al paventato eccesso di discrezionalità.

Non può sottacersi tuttavia  che la notevole ampiezza dello spazio applicativo dell’istituto, in assenza di uno sforzo di definire gli indici di particolare tenuità e di razionalizzazione sistematica rispetto agli istituti di confine (in primis le attenuati fondante sul criterio della “lieve entità/tenuità”), lascia il paventato pericolo intatto nella sua consistenza.

Invero, il legislatore - prendendo contezza del formante giurisprudenziale e non solamente del dato statistico - avrebbe potuto (seguendo un approccio meno pratico e maggiormente dogmatico/sistematico) rafforzare gli ulteriori indici di valutazione della particolare tenuità del fatto e, in primis, quello dell’abitualità, chiarendolo e puntualizzandolo, tenuto conto a maggior ragione che la giurisprudenza di legittimità ne ha operato un’enorme diluizione in virtù di un’eccessiva restrizione della relativa nozione, che porta ad interrogarsi su quale fatto sia “abituale” e quindi non particolarmente tenue.

 

3.1. Questioni sul criterio dell’abitualità: il problema del recidivo e della continuazione.

Condizione per il riconoscimento della non punibilità del fatto è che il comportamento dell'agente non sia di tipo abituale. Il terzo comma dell’art. 131 bis c.p. stabilisce che vi è abitualità quando l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Questioni di interesse si registrano in relazione all’oramai consolidata giurisprudenza di legittimità che ha ristretto fortemente la nozione di abitualità ex art 131 bis c.p.

Invero, essa viene definita dal comma 3 della norma in modo apparentemente dettagliato: «il comportamento è abituale nel caso in cui l'autore sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza ovvero abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate».

Escluso il caso della declaratoria di abitualità con provvedimento giurisdizionale ed il «caso in cui si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate», che all’evidenza fa riferimento al reato cd. “abituale” (si pensi alla fattispecie ex art. 612 bis c.p.), il problema si pone con riguardo ai reati a condotta unitaria, istantanei o permanenti che siano, in cui il criterio di legge è ancorato alla medesimezza dell’indole.

Invero, si condivide la tesi di chi ritiene che l'abitualità del comportamento non è sovrapponibile alla mera “occasionalità” del fatto di reato[13], presente nelle ipotesi di particolare tenuità previste nella disciplina del processo penale minorile e per i reati di competenza del giudice di pace, nozione che in assenza di un’espressa definizione normativa viene identificata nella «mancanza di reiterazione di condotte penalmente rilevanti»[14].

Invece, con riferimento all'istituto codicistico, il legislatore, al fine di contenere il potere discrezionale del giudice, ha offerto una definizione di abitualità del comportamento risulta in tensione con  il canone della determinatezza/tassatività della legge penale[15].

Infatti, se la ratio legis è quella di affermare la non punibilità di fatti in concreto bagatellari, in conformità a valutazioni di scarsa offensività  - requisito correlato alla frammentarietà e sussidiarietà del sistema penale, proporzionalità della sanzione penale e funzione rieducativa della stessa ex art 27 Cost.-, parimenti la reiterazione di fatti non eterogenei ma della medesima indole, attesta la capacità del soggetto di arrecare nel tempo plurime offese al medesimo bene giuridico che in ragione della reiterazione delle medesime non possono più considerarsi particolarmente tenui, in quanto la sommatoria delle offese arrecate al bene giuridico, inciso nel suo complesso, diviene consistente.

Se, infatti, la natura bagatellare del singolo fatto comporta una percezione di ingiustizia della sanzione nell’autore dello stesso, pregiudicando il finalismo rieducativo della pena, la mancata sanzione di plurimi reiterati fatti (si pensi a plurimi furti nel medesimo negozio di alimentari per importi di volta in volta esigui, che portino ad un danno economico complessivo consistente) ha come necessaria conseguenza una percezione opposta di impunità e sconfitta dell’ordinamento rispetto alle istanze di tutela dei beni giuridici (ivi compreso il patrimonio[16]), depauperando in tal modo il sistema di giustizia penale della sua essenziale funzione di regolatore dei conflitti sociali («ne cives ad arma ruant»).

Non è infatti superfluo ricordare che la funzione rieducativa della pena intesa come offerta di recupero sociale impone non solo la non applicazione della sanzione laddove non risulti adempiuta la funzione di motivabilità secondo norme[17], ma anche l’effettiva applicazione rapida e certa della pena laddove sia necessario implementare il finalismo rieducativo della stessa e non sussistano ulteriori condizioni che depongono nel senso della ‘non punibilità’.

Del resto, la struttura dell’art. 131 bis c.p. si fonda  su un monito per l’autore del reato, che viene incentivato a non commetterne altri, secondo un modello che viene ripetutamente utilizzato in istituti di favore nell’ordinamento, quali sospensione condizionale della pena ex art. 163 c.p. e diminuente di pena offerta dalla definizione del procedimento nelle forme del decreto penale di condanna ex art. 459 c.p.p.: il soggetto sa (o dovrebbe sapere) che, una volta goduto del beneficio, ne sarà preclusa[18] l’applicazione alle successive violazioni.

L’equilibrio del sistema, quindi, va rinvenuto nel dato della reiterazione cadenzata di reati che offendono il medesimo bene giuridico o beni giuridici omogenei.

Va da sé che tale giudizio deve fondarsi su alcuni dati oggettivi, secondo gli strumenti operativi praticamente offerti all’operatore del diritto, sicché a parere di chi scrive  la recidiva ed il reato continuato dovrebbero essere chiaramente ostativi all’applicazione della norma.

Di parere diverso la Suprema Corte che quanto alla recidiva ha statuito che «In tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, la nozione di "comportamento non abituale" è frutto del sottosistema generato dall'art. 131 bis c.p. ed al suo interno deve essere letto; è, pertanto, fuorviante riferirsi, nella interpretazione della stessa, alla categoria della recidiva. L'abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell'applicabilità dell'art. 131 bis c.p.. Solo il terzo illecito della medesima indole dà, pertanto, legalmente luogo alla serialità che osta all'applicazione dell'istituto. La nozione di comportamento abituale - che ricorre quando l'autore ha commesso almeno altri due illeciti oltre quello preso in esame - non può essere assimilata a quella della recidiva, che opera in un ambito diverso ed è fondata su un distinto apprezzamento»[19]. Il principio espresso valorizza anche le condotte successive, sicché potrebbe a sua volta leggersi come maggiormente restrittivo delle maglie applicative dell’art. 131 bis c.p.

Tuttavia, come prevedibile, una volta statuito che dallo status di recidivo non deriva una preclusione all’applicazione dell’istituto de quo, il passo è stato breve per la giurisprudenza di merito nel farne discendere una totale autonomia applicativa, dal che il recidivo può tranquillamente beneficiare della non punibilità del fatto particolarmente tenue[20].

In tutti questi procedimenti, peraltro, il casus decisus era rappresentato dal recidivo specifico di evasione (in cui non veniva in discussione la medesima indole del reato).

A questo punto, verrebbe facile da obiettare che se l’autonomo giudizio di abitualità ex art. 131 bis c.p. ben può prescindere dalla verifica di recidivanza come cristallizzata dal certificato penale, l’interprete nella pratica può fruire di strumenti quali il certificato dei carichi pendenti e le banche dati di polizia (il cd. “sdi”).

Tuttavia, la vaghezza nella tipizzazione della nozione di abitualità porta a considerare come la deduzione di vicende processuali in fieri oppure addirittura prive del vaglio processuale (si pensi ai dati sulle denunce emergenti dal sistema s.d.i.) ipoteticamente potrebbe precludere l’applicazione del beneficio di cui all’art. 131 bis c.p. sulla scorta di fatti di reato per cui possa intercorrere un’assoluzione (anche nel merito) oppure che neppure potrebbero vedere uno sbocco processuale (in quanto archiviati nel merito).

Coerentemente alla possibile frizione che una risposta positiva a tale quesito implica con principi costituzionali (in primis  la presunzione di non colpevolezza ex art. 27 Cost.) in uno ai ed ai criteri euristici dell’art. 533 c.p. (la regola dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio[21]), la giurisprudenza ha statuito che «la mera presenza di denunzie nei confronti dell’imputato o di “precedenti di polizia”, di cui si ignora l’esito, non può, di per sé, costituire elemento ostativo al riconoscimento dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; il giudice, quindi, ove risultino in atti denunzie o precedenti di polizia, ove sollecitato dalla difesa o anche d’ufficio, deve verificare l’esito di tali segnalazioni, per trarne l’esistenza di eventuali concreti elementi fattuali che dimostrino, in ipotesi, l’abitualità del comportamento dell’imputato»[22].

In tal modo, tuttavia, si corre il rischio avallare un ampio margine di discrezionalità, cui corrisponde il pregiudizio per il canone della accessibilità/prevedibilità degli esiti delle decisioni giudiziarie[23].

In questo contesto si inserisce la giurisprudenza di legittimità sul reato continuato ex art. 81 cpv. c.p. Giova ricordare che le Sezioni Unite hanno di recente stabilito che: «la pluralità di reati unificati nel vincolo della continuazione non è di per sé ostativa alla configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto la quale può essere riconosciuta dal giudice all'esito di una valutazione complessiva della fattispecie concreta, che - salve le condizioni ostative tassativamente previste dall'art. 131-bis cod. pen. per escludere la particolare tenuità dell'offesa o per qualificare il comportamento come abituale - tenga conto di una serie di indicatori rappresentati, in particolare, dalla natura e dalla gravità degli illeciti in continuazione, dalla tipologia dei beni giuridici protetti, dall'entità delle disposizioni di legge violate, dalle finalità e dalle modalità esecutive delle condotte, dalle loro motivazioni e dalle conseguenze che ne sono derivate, dal periodo di tempo e dal contesto in cui le diverse violazioni si collocano, dall'intensità del dolo e dalla rilevanza attribuibile ai comportamenti successivi ai fatti»[24].

Tale principio, invero, si collega all’autorevole orientamento secondo cui il reato continuato va considerato alla luce di una serie di indici/vincoli ad una interpretazione eccessivamente disinvolta dell’istituto da parte dei giudici e, tuttavia, a parere di chi scrive, è lecito chiedersi se la mancata ricorrenza di detti indici non faccia venire meno la stessa medesimezza del disegno criminoso che consente l’unificazione delle condotte sotto il vincolo della continuazione. In tal senso, è dubbio che il mero onere motivazionale possa supplire alla mancata parametrazione da parte del legislatore del presupposto normativo al beneficio ex art. 131 bis c.p.

Il timore, infatti, è che la libertà lasciata all’interprete, se da un lato rappresenta un favor evidente per l’applicazione dell’istituto, dall’altro - come già più volte paventato- ponga seri problemi di disparità di trattamento tra gli individui, in cui la componente emotiva sulle vicende e lo stesso vissuto e formazione culturale della persona-giudice determini maggiore indulgenza o rigore.

Va anche ricordato, volgendo lo sguardo alla dottrina, che generalmente si afferma che il reato continuato va considerato come unico o plurimo a seconda degli affetti favorevoli al reo che ne discendono[25]. Su queste basi, radicando l’art. 131 bis c.p. esiti di non punibilità, dunque favorevoli al reo, potrebbe affermarsi più radicalmente che la singola deliberazione criminosa che innerva il reato continuato potrebbe escludere il requisito della abitualità.

 

 

3.2. La valorizzazione delle condotte successive e l’abdicazione del legislatore al proprio ruolo di regolatore del sistema.

I dubbi palesati in ordine alla nozione di abitualità si ripropongono anche in relazione alla nuova previsione introdotta dal D.Lgs. 150/2022, secondo cui le modalità della condotta e l'esiguità del danno o del pericolo, vanno valutate “anche in considerazione della condotta susseguente al reato”.

Anche in questo caso si ripete lo schema meramente ricettizio della norma rispetto alla giurisprudenza, la quale, nonostante la persistenza di un approccio maggiormente rigoroso[26], ben presto si è attestata sulla valorizzazione delle condotte successive, nonostante il riferimento discrasico della norma pre-novella (ma anche post-novella) alle sole cd. “circostanze improprie oggettive” ex art. 133, comma 1, c.p.: «Ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. ai fini dell'apprezzamento della condizione della non abitualità della condotta, assumono rilievo anche i comportamenti successivi alla commissione del reato[27]»[28].

La portata dirompente della citata interpolazione normativa ha, tuttavia, imposto una immediata precisazione già a partire dalla prima pronuncia sul punto post riforma, secondo la quale « ai fini dell'applicazione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, acquista rilievo, per effetto della novellazione dell'art. 131-bis cod. pen. ad opera dell'art. 1, comma 1, lett. c), n. 1, d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, anche la condotta dell'imputato successiva alla commissione del reato, che, tuttavia, non potrà, di per sé sola, rendere di particolare tenuità un'offesa che tale non era al momento del fatto, potendo essere valorizzata solo nell'ambito del giudizio complessivo sull'entità dell'offesa recata, da effettuarsi alla stregua dei parametri di cui all'art. 133, comma primo, cod. pen.»[29].

La scelta di recepire l’elaborazione giurisprudenziale, portata da dato esegetico a dato normativo, si ritiene particolarmente improvvida, perché idonea ad incrementare ulteriormente l’eccesso di discrezionalità, che si spinge nel lasciare al giudice la scelta di sussumere un fatto, qual è la condotta successiva al reato, nell’ultimo comma dell’art 131 bis c.p., piuttosto che nell’ipotesi di attenuante comune ex art. 62 comma 1 n 6 c.p., ovvero nelle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p., o ancora nelle nuove ipotesi di giustizia riparativa funzionali ad una composizione dei conflitti alternativi alla pena ex artt. 42 e ss.  del d.lgs. 150/2022.

In tal senso, emerge ancora una volta l’abdicazione del legislatore della propria funzione di regolatore del sistema, un vero e proprio ritrarsi rispetto alla giurisprudenza, nella misura in cui ha omesso di operare una chiara actio finium regundorum tra i diversi istituti citati, sicché (ancora una volta) un medesimo fatto (una condotta riparatoria) rispetto ad un medesimo reato (si pensi ancora al furto) potrà dar luogo ad uno spettro di soluzioni applicative (spazianti dalla non punibilità sino alla punizione lieve, sino all’applicazione dell’istituto ex artt. 42 e ss. d.lgs. 150/2022) in cui la scelta dell’una piuttosto che l’altra sarà demandata alla sensibilità del giudice, con il rischio (ancora una volta) di irragionevoli discriminazioni tra situazioni invece analoghe (nonostante l’onere motivazionale imposto dalla sentenza da ultimo citata).  

 

 

  1. Le materie escluse: l’aporìa in tema di stupefacenti.

La dilatazione applicativa della norma in disamina, nella misura in cui quoad poenam poteva astrattamente renderla applicabile ad una seria di reati di rilevante allarme sociale ( a fronte di una forbice edittale molto ampia).

Il Legislatore ha così operato una chiara scelta di politica criminale nell’eccettuazione di materie penali “sensibili”, ovverossia materie in cui la preminente rilevanza nella gerarchia dei beni giuridici tutelati dall’ordinamento, in uno alla particolare sensibilità sociale in merito, renderebbe incomprensibile una possibile definizione del procedimento senza irrogazione della pena. Del resto, tale valutazione era precipua nella legge delega, rispetto alla quale il decreto attuativo si è limitato ad una mera puntualizzazione.

La scelta del legislatore è stata di interpolare il comma 3 dell’art. 131 bis c.p., eccettuando i reati contro la pubblica amministrazione, i reati cd. di “codice rosso”, l’incendio (anche boschivo) ed i più gravi reati contro il patrimonio (quali estorsione, usura, riciclaggio ed il reimpiego di denaro di provenienza illecita), nonché la materia degli stupefacenti, con l’importante eccezione della fattispecie di cui al quinto comma dell’art. 73 dpr 309/1990.

La Relazione Illustrativa sul punto non fornisce all’interprete la ratio legis dell’esclusione delle dette materie, dando quindi per scontata l’autoevidenza che trattasi di materie in cui non sono possibili fatti “bagatellari”, in virtù dei beni giuridici tutelati e delle modalità di offesa degli stessi. È importante, tuttavia, notare come si operi un implicito rinvio[30] alla giurisprudenza, che proprio in materia di condotte ex comma V cit. aveva riconosciuto la differenza strutturale e teleologica degli istituti in parola, sminando in tal modo un possibile contrasto normativo[31], giurisprudenza che, tuttavia, traeva origine nella necessità di affermare che le ipotesi di lieve entità non comportassero un’automatica valutazione di particolare tenuità.

In tal senso, tuttavia l’applicabilità della speciale causa di non punibilità alle ipotesi di detenzione e spaccio di lieve entità lasciano aperte una serie di questioni pratico/operative non di poco momento, nella misura in cui (ancora una volta) l’eccesso di discrezionalità lasciata all’interprete (ed alla sua sensibilità in una materia notoriamente controversa) reca il rischio concreto di disomogeneità applicative irragionevolmente discriminatorie.

Infatti, la citata giurisprudenza, nel richiamare una rigorosa valutazione del giudice (ergo motivazione) circa i presupposti applicativi dei due diversi istituti, non fissa un chiaro e preciso criterio discretivo tra le due norme, che guardano entrambe peraltro ad una valutazione in punto di offensività della condotta (in un caso mitigando la pena, nell’altro escludendola) . Infatti, sebbene le due locuzioni “lieve entità” e “particolare tenuità” siano diverse, anche da un punto di vista semantico[32], la parametrazione del quantum di offensività essenza dell’una o dell’altra nozione, rischia di tradursi in un ginepraio di difficile districazione.

Del resto, la questione non è solo astratta, essendo le ricadute applicative gravi, in quanto coinvolgenti non solo an e quantum della pena irroganda nei casi di detenzione e spaccio, bensì essendo l’incertezza applicativa di portata significativa in tema di applicabilità sia della misura precautelare dell’arresto ex art. 381 c.p.p. (previsto per l’ipotesi di cui al comma V) e delle conseguenti misure cautelari, anche custodiali.

Infatti, l’art. 385 c.p.p. dispone che all’arresto non possa procedersi qualora ricorra una causa di non punibilità, sicchè - seconda dell’orientamento del singolo G.I.P. in merito alla questione  de quo  - potrebbe essere dichiarato illegittimo un arresto per una data quantità di stupefacente a fronte della convalida di arresto per quantità ben minore (con potenziali conseguenze disciplinari per la P.G. operante, totalmente disarmata di fronte ad una prima valutazione del fatto del tutto aleatoria in un momento di particolare concitazione, qual è l’arresto in flagranza ed oneri per lo Stato in punto di ingiusta detenzione).

Peraltro, la significatività del problema va letta alla luce della giurisprudenza in merito alla lieve entità di cui al comma V, notoriamente attestata sulla preponderanza del dato ponderale (a fronte di un revirement rispetto alla precedente giurisprudenza[33], che valorizzava la protocollarità e pluralità delle cessioni come attestazione di entità non lieve). Tale preponderanza (pur in principio restando il dato ponderale solo uno dei molteplici indici), ha indotto la Suprema Corte ad attrarre alla fattispecie più tenue del comma V financo cessioni reiterate in un arco temporale significativo ed addirittura in presenza di strutture associative[34], in tal senso recependo orientamenti meno rigorosi della giurisprudenza di merito[35], da sempre maggiormente sensibile alla concessione di trattamenti sanzionatori più miti anche in ragione delle condizioni di vita ed economiche degli imputati.

Il rischio concreto di una tale incertezza derivante dalla latezza applicativa dell’ipotesi più mite del comma V dell’art. 73 T.U. Stupefacenti e dell’astratta applicabilità dell’art. 131 bis c.p. a detta ipotesi sarà con elevata probabilità non solo l’innalzamento da parte della P.G. e delle Procure della Repubblica della soglia di rilevanza delle condotte in sede precautelare[36], ma anche una depenalizzazione di fatto delle ipotesi di cui al comma V, in quanto, in una logica meramente statistica (che del resto è quella della Riforma), è facile intuire che in determinati ambiti territoriali ed Uffici giudiziari una minore sensibilità a detti fenomeni criminali potrebbe di fatto comportare una sistematica archiviazione o assoluzione delle condotte di spaccio minuto[37], per tal via liberalizzato (senza detrimento in termini di consenso per chi fa le leggi).

Se tali sono le preoccupazioni legate ad una novella evidentemente inspirata ad un approccio pratico/ricognitivo ed ancora una volta non già sistematico/dommatico, nel tentativo di dare una soluzione che renda la previsione coerente con il sistema va, tuttavia, citata la questione della compatibilità tra la speciale causa di non punibilità in trattazione ed i cd. “reati soglia” (perché, sebbene il reato ex comma V cit. non sia inquadrabile formalmente in detta categoria, è norma inspirata ad una gradazione di offensività, che ne rende il comportamento applicativo del tutto assimilabile a quello di dette fattispecie).

La questione si è posta in concreto in relazione all’omesso versamento iva ex art. 10 ter d.lgs. 74/2000, sulla quale la Corte di Cassazione[38] ha dettato il seguente principio: «in tema di omesso versamento IVA, la causa di non punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., è applicabile laddove la omissione abbia riguardato un ammontare di poco superiore alla soglia di punibilità, fissata ad euro 250.000,00 dall'art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000, in ragione del fatto che il grado di offensività che fonda il reato è stato valutato dal legislatore nella determinazione della soglia di rilevanza penale».

Tale principio, in effetti, trova la propria ispirazione nella considerazione che, anche quando il legislatore fissa la soglia di reale offensività delle condotte sanzionate, detta offensività vive in ogni caso di una graduazione, sicché nella conseguente forbice edittale persistono ipotesi che, seppur offensive, lo sono in forma lieve e, per motivi di opportunità, non meritevoli di sanzione.

Del resto, tale ragionamento è il medesimo alla base della più volte citata Sentenza n 156 del 2020 della Consulta di cui sopra ampiamente si è parlato.

Orbene, applicando il principio in questione ai rapporti tra comma V cit. ed art. 131 bis c.p., si potrebbe immaginare l’esclusione di punibilità per le vecchie ipotesi di detenzione e spaccio occasionale (minimamente offensive), la sanzione più mite ex comma V cit. per ipotesi di spaccio minuto ma non occasionale e la sanzione piena ai sensi del comma 1 o comma 4 dell’art. 73 dPR 309/1990 delle condotte (oggi come detto meno frequenti) in cui il dato ponderale è significativo, ovvero l’aggravamento nell’ipotesi di ingente quantità ex art. 80 dPR 309/1990.

Tale soluzione ermeneutica, sebbene sia coerente con criterio della non abitualità della condotta e, forse, sia l’unica possibile per mantenere la coerenza del sistema, ha – tuttavia- il vulnus di depenalizzare le vecchie condotte di spaccio occasionale senza un’intenzione espressa del legislatore, nonché è di difficile attuazione pratica in virtù del formante giurisprudenziale sull’abitualità cui profusamente sopra si è fatto riferimento (laddove il giudice non potrebbe inferire l’abitualità dal certificato penale, o peggio ancora da testimonianze, denunce e banche dati della P.G.).

Sulla scorta delle riflessioni sinora svolte, quindi, era sicuramente compito del legislatore disciplinare i rapporti tra due norme nel medesimo momento in cui ne stabiliva espressamente il concorso, determinando precisi parametri (o meglio ancora fissando delle soglie) per “la particolare tenuità” e la mera “lieve entità”, unico argine alle incertezze applicative (ed alle relative ricadute pratiche).

 

 

5. L’impatto del nuovo articolo 131 bis c.p., in modo particolare nel dibattito sul superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost.

La questione da ultimo affrontata induce ad una riflessione di più ampio respiro sull’impatto dell’art 131 bis c.p. sull’ordinamento penale (anche processuale). Il dubbio è che la novella sia una depenalizzazione mascherata, priva di una corretta ispirazione assiologica (e di politica criminale), nonché senza respiro sistematico, operazione meramente fondata su valutazioni empirico-statistiche ed efficientiste su quali siano i processi non meritevoli di essere celebrati in rapporto ai risultati raggiungibili.

Tale dubbio si pone, a parer di chi scrive, in diretta correlazione con il dibattito sull’opportunità di superare in toto o in parte l’obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost., in quanto detto principio viene visto da molti oramai come superato ed irragionevole, nella misura in cui “impone” al Pubblico Ministero, in presenza di un fatto di reato, di procedere alle indagini e di esercitare l’azione penale, sottraendo allo stesso quel vaglio critico di “meritevolezza” di approfondimento con riguardo ad una data vicenda, coerentemente all’esperienza di altri ordinamenti (in primis quello Statunitense), eminentemente in un’ottica di efficienza del sistema.

Sebbene il tema imporrebbe una riflessione a sé stante, non può non tenersi conto della motivazioni storiche che hanno indotto Piero Calamandrei a formulare nei seguenti termini l’art. 8 della relazione per la II sottocommissione -sul potere giudiziario- della Commissione per la Costituzione: «L’azione penale è pubblica e il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza».

Invero, dette ragioni storiche, come per gran parte dei principi costituzionali sono da rinvenirsi nella collocazione della figura del Pubblico Ministero nell’ordinamento del Regno d’Italia, soprattutto nel regime fascista, ancor più aduso alla strumentalizzazione dell’organo dell’azione penale, che – sebbene fosse concepita come officiosa e obbligatoria in astratto- in virtù della dipendenza dal Ministro della Giustizia, il quale decideva non solo della carriera e delle assegnazioni quanto alla sede, ma aveva anche il potere di impartire al pubblico ministero istruzioni, anche specifiche, potere non solo previsto in astratto ma che fu esercitato in concreto.

Quindi, nonostante il clima dell’Assemblea Costituente, di giustapposizione tra blocchi ideologici, comune era il timore che il pubblico ministero potesse divenire l’arma di una maggioranza politica nei confronti degli oppositori (come del resto era stato fino al passato recente, esperienza condivisa sulla propria pelle da molti dei padri costituenti).

Tale ratio legis storica rende il principio in parola diretta declinazione non solo della natura democratica dello Stato Repubblicano, di cui il Pubblico Ministero è garante nella misura in cui è ascritta alla sua valutazione la sola sussunzione della vicenda trattata nella norma penale, giudizio libero da valutazioni di opportunità e per tale via espressione della supremazia della legge e dell’eguaglianza delle persone dinanzi ad essa, in quanto esso è operato da organo attratto alla giurisdizione e pertanto autonomo ed indipendente [39].

Tale diretta correlazione tra l’obbligatorietà dell’azione penale e la natura democratica dello Stato, principio di eguaglianza, autonomia/indipendenza ed unità dell’ordine giudiziario, è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale in molteplici decisioni, tra cui la sentenza del 1991, n. 88, in cui è stato affermato che: «l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ad opera del Pubblico Ministero… è stata costituzionalmente affermata come elemento che concorre a garantire, da un lato, l’indipendenza del Pubblico Ministero nell’esercizio della propria funzione e, dall’altro, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale».

In tal senso, il riferimento al sistema statunitense come esempio di efficienza e modernità è quanto mai inopportuno, tenuto conto che il Public Prosecutor è in molti casi carica elettiva, dipendente dal potere politico, gradino iniziale del cursus honorum politico, in cui – tuttavia – l’etica pubblica radicata nella tradizione culturale ed istituzionale di quel paese fa da argine agli eccessi in virtù di un penetrante controllo dell’opinione pubblica declinata anche come elettorato (seppure, poi, la storia giudiziaria statunitense sia ricca di errori giudiziari).

In questo discorso generale, l’art. 131 bis c.p. si inserisce quale istituto che, assieme ad altri previsti dalla riforma “Cartabia”[40], nella sua concreta applicazione e, semmai, abuso, può portare ad una surrettizia reintroduzione di un criterio di mera opportunità nelle scelte della magistratura requirente (sebbene limitato ad una parte delle norme incriminatrici), foriero di una violazione dell’art. 3 Cost. sia nel suo versante formale che sostanziale.

Infatti, tale timore si fonda sulla considerazione che, per le ragioni già esposte, i singoli pubblici ministeri (ed anche il singolo p.m. rispetto a procedimenti diversi) e gli uffici giudiziari nel loro complesso, come già chiarito più volte, saranno in grado di esprimere orientamenti differenziati sul cosa sia “particolarmente tenue” e cosa non lo sia e, per tale via, si creerà un sistema a giustizia differenziata, dove l’alea del giudizio stesso impedirà quella “prevedibilità” delle conseguenze delle proprie azioni al consociato, principio che limita non solo il legislatore nella creazione delle norme penali[41], ma nella sua concreta declinazione anche il magistrato[42].

Il tema, quindi, non è limitato, ma rappresenta questione di ampio respiro, palesando un impatto sulla stessa fisionomia del sistema penale, fondato sulla funzione rieducativa della pena ex art. 27 Cost., che impone la percezione della stessa quale “giusta” da parte del condannato. È evidente, infatti, che a fronte di fatti uguali esitanti in un caso nell’assenza di sanzione e, nell’altro, nella sanzione, il destinatario della seconda non potrà percepirne l’irrogazione se non in termini di arbitrarietà ed iniquità.

 

6. Conclusioni.

Le molteplici questioni imposte dal novellato art. 131 bis c.p. sono, quindi, il “termometro” della fisionomia che l’attuale sistema di giustizia penale sta assumendo, con un sostanziale superamento di caratteri tradizionali del modello costituzionale di lotta a delitto fondato su principi fino a poco tempo fa ritenuti immutabili.

Detto superamento, come si è cercato di provare, avviene peraltro non con riforme organiche ma incidendo su istituti apparentemente minori, dichiaratamente ispirati ad una logica statistico/deflattiva ed efficientista, salvo il notevole impatto sistematico per il modo in cui si collocano rispetto ai principi generali e ad altri istituti.

Stupisce, pertanto, come sotto altro versante e, quasi in modo schizofrenico, il legislatore della Riforma Cartabia abbia introdotto istituti che invece adoperano forme di penetrante controllo sul pubblico ministero e sul giudice (si pensi, tra gli altri, al controllo sulle iscrizioni del nuovo art. 335 quater c.p., il quale introduce per la prima volta il controllo del g.i.p. sull’iscrizione e sulla sua tempestività, il cui potere era proprio del P.M. quale dominus delle indagini). 

De jure condendo si palesa, quindi, già oggi una necessaria revisione di carattere complessivo e sistematico, non parcellizzata e funzionale a di riformare il sistema penale a partire dai principi costituzionali che lo informano, segnatamente alle istanze di garanzia democratica ed ai criteri di scienza della legislazione ad orientamento costituzionale.

Su queste basi, più che alimentare la discrezionalità giudiziale di taluni istituti, con conseguenti pregiudizi per il principio di eguaglianza e per le funzioni di prevenzione integrazione del sistema penale, sarebbe necessaria una razionale opera di depenalizzazione che non sia di mera facciata[43], conforme ai canoni di stretta legalità, extrema ratio/sussidiarietà/necessità, materialità ed offensività, in modo da elidere il noto fenomeno ipertrofico che alimenta l’ineffettività in quanto è noto che se il diritto penale viene di continuo sollecitato con micro-violazioni lo stesso si indebolisce e non riesce più a rispondere[44].

Un  numero limitato di reati ben definiti e conformi ai suindicati canoni, per contro, garantisce l’effettività del sistema ed una risposta rapida e certa, cui corrisponde la ratio più intima del finalismo rieducativo della pena[45].

 

 

 

Nicola CAMERLINGO

Sostituto Procuratore

Procura della Repubblica

Santa Maria Capua Vetere



[1] G. Amarelli, La particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. si applica ai reati con soglie di punibilità, in Giur. it., 2016, 709 ss.; Id., Le Sezioni Unite estendono l’ambito di operatività dell’art. 131 bis c.p. ai reati con soglie di punibilità, in Diritto Penale e Processo, 2016, 782-799; R. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, 659 ss.; A. R. Castaldo, La non punibilità per particolare tenuità del fatto: il nuovo articolo 131-bis c.p., in Cadoppi, Canestrari, Manna, Papa, Trattato di Diritto Penale – Parte Generale e Speciale – Riforme 2008-2015, UTET, 111-127; I. Giacona, La nuova causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis c.p.), tra esigenze deflattive e di bilanciamento dei principi costituzionali, in Ind. pen., 2016, 38-56; T. Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guida Dir., 2015, 20 ss.

[2] G. Amarelli, La particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p. si applica ai reati con soglie di punibilità, cit., 709 ss.;

[3] Cfr. Corte Cost., 20 maggio 2016, n. 109. Di recente, l’ambivalenza del principio di offensività è stata infatti ribadita dal giudice delle leggi, il quale, nel confermare la legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990, nella parte in cui non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva all’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis, ha avuto modo di precisare come, da un lato, esso imponga che “la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit”; dall’altro, spetti comunque al giudice “allineare la figura criminosa (…) al canone dell’offensività ‘in concreto’, nel momento interpretativo ed applicativo (…) facendo leva sulla figura del reato impossibile (art. 49 del codice penale); sia – secondo altra prospettiva- tramite il riconoscimento del difetto di tipicità del comportamento oggetto di giudizio”.

[4] In tal senso si sono espresse le Sezioni Unite poco dopo l’entrata in vigore della riforma. Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 6 aprile 2016, n. 13681.

[5] Cfr. Cass. Pen., Sez. IV, 23 settembre 2020, n. 28303.

[6] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 4 settembre 2019, n. 39679.

[7] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 settembre 2019, n. 38954.

[8] Per un’interessante disamina di tipo comparativistico delle scriminanti atipiche e dell’applicazione dell’analogia,  cfr. F. Diamanti,  La “scriminante ipotetica”. Introduzione al tema dell'imputazione normativa estesa al mondo delle cause di giustificazione incomplete in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, fasc.3, 1 settembre 2019, pag. 1337.

[9] Per una trattazione sulla natura dell’istituto e del regime applicativo del medesimo cfr. L. Della Ragione, La Corte Costituzionale estende l'ambito di operatività della particolare tenuità del fatto ai reati che non prevedono un minimo edittale della pena detentiva in  Ilpenalista.it , 10 settembre 2020.

[10] L'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall'art. 131-bis cod. pen., avendo natura sostanziale, è applicabile, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge che lo ha introdotto (e quindi di quella che lo abbia esteso ad altri reati prima non ricomprendibili nel suo alveo, come nel caso della riforma Cartabia), anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione, ma solo per questi ultimi (quelli cioè nei quali il difensore del ricorrente non abbia potuto dedurre questione sull'art. 131-bis nel giudizio d'appello e neppure nei motivi di ricorso, essendo decorsi i termini relativi) la relativa questione è deducibile e rilevabile d'ufficio ex art. 609, comma secondo, cod. proc. pen. anche nel caso di ricorso inammissibile, in applicazione degli artt. 2, comma quarto, cod. pen. e 129 cod. proc. pen. In tal caso, in cui la sentenza impugnata è anteriore all'entrata in vigore della legge che introduce l'ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto, l'applicazione dell'istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza dei presupposti applicativi, dichiara d'ufficio la causa di non punibilità, ex art. 129 cod. proc. pen., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell'art. 620, comma primo lett I), cod. proc. pen. Viceversa, quando non si discute dell'applicazione della sopravvenuta legge più favorevole, la inammissibilità del ricorso preclude la deducibilità e la rilevabilità d'ufficio della questione: ciò accade qualora, appunto, la disciplina di favore fosse già deducibile in sede di giudizio d'appello ovvero con il ricorso per cassazione e il motivo sia formulato, tuttavia, in termini inammissibili. In altri termini la rilevabilità d'ufficio della causa di esclusione della punibilità nel giudizio di legittimità è vincolata all'obbligo di applicazione della lex mitior sopravvenuta e, dunque, all'ipotesi in cui la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore della legge modificativa; cfr. Cass., Sez. V, 23.3-21.4.2023, n. 171628Cass., Sez. IV, 15.3-26.4.2023, n. 17183Cass., Sez. VI, 27.1-21.2.2023, n. 7573.

[11] C. Cost., 21.7.2020, n. 156; la questione era stata dichiarata manifestamente infondata da C. Cost., 17.7.2017, n. 207.

[12] Cass., Sez. II, 16.2-6.6.2023, n. 24286. La non punibilità può essere riconosciuta anche nel giudizio di legittimità, quando i presupposti di applicabilità siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali (C., Sez. II, 12.11-9.12.2020, n. 35033)

[13]cfr. L. Della Ragione, La Corte Costituzionale estende l'ambito di operatività della particolare tenuità del fatto ai reati che non prevedono un minimo edittale della pena detentiva in  Ilpenalista.it , 10 settembre 2020

[15] Su tale canone, cfr. F.C. Palazzo, Il principio di determinatezza in materia penale, Padova, 1979.

[16]Definito da costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo un “diritto fondamentale” dell’individuo, in quanto strumentale alla soddisfazione di altri diritti primari estrinsecazione della sua personalità.

[17] Cfr. C. Cost. n. 364/1988.

[18] Pur dovendo tenersi conto dei dovuti distinguo, su cui non si ritiene di dover indugiare dato lo scopo della presente trattazione.

[19] C. Cass., sez. VI, sentenza n.24859del 06/03/2019, , in termini cfr. C. Cass., sez. VI, Sez. 6, Sentenza n. 26867 del 28/ 03/2017.

[20] Cfr. ex aliis Tribunale di Torre Annunziata, sez. I, sentenza del 04/04/2018, n.430

[21] Dubbio “ragionevolmente” dipanato proprio dall’accertamento processuale del fatto che escluda la sussistenza di una spiegazione alternativa logica al fatto di reato ipostatizzato nell’imputazione, fornendo all’accertamento un “alto grado di credibilità razionale” (secondo l’insegnamento delle SS.UU. Franzese del 2002)

[22] C. Cass., sez. IV, sentenza 15/11/2018 n° 51526). Da qui, poi, logica conseguenza per i giudici di legittimità è stato statuire anche che: «In tema di applicazione della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen., il giudice non può ritenere sussistente la condizione ostativa del "comportamento abituale" sulla sola base di testimonianze da cui sia emersa la reiterazione da parte dell'imputato di condotte identiche a quella di cui all'imputazione (nella specie, appropriazione indebita di telefoni cellulari consegnati per effettuare delle riparazioni), quando di tali condotte non si conosce se abbiano formato oggetto di accertamento processuale e, prima ancora, se abbiano dato luogo a denunce o querele». In motivazione, quindi, la Corte ha indicato al giudice del rinvio la necessità di valutare eventuali elementi oggettivi di fatto che possano consentire ovvero escludere l'applicazione della causa di non punibilità.

[23] Corte EDU, 6 febbraio 2020, Felloni c. Italia. Sarebbe sicuramente priva di pregio una restrizione del principio de quo alla sola norma incriminatrice, nella misura in cui l’essenza stessa del principio guarda all’irrogazione della sanzione, sulla quale incide la possibile applicazione di istituti di favore, che - quindi- devono godere di un rigore tipizzante analogo alla norma incriminatrice, pena trattamenti irragionevolmente discriminatori tra situazioni analoghe.

[24] Cass. pen., Sez. Un., 12 maggio 2022, n. 18891.

[25] G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2019, 652 ss.

[26] Cfr. C. Cass., Sez. 3 - , Sentenza n. 2216 del 22/11/2019: «In tema di causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen., ai fini dell'apprezzamento della condizione della non abitualità della condotta, non assumono rilievo i comportamenti successivi alla commissione del reato»)

[27] Fattispecie in tema di reati edilizi in cui la S.C. ha ritenuto immune da vizi la decisione del giudice di merito che ha desunto la non abitualità del comportamento dell'imputato dalla successiva attività di demolizione, rimozione e sanatoria delle opere realizzate.

[28] C. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4123 del 11/07/2017.

[29] C. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18029 del 04/04/2023; (C., Sez. III, 24.5-28.6.2023, n. 28031.

[30] Pagina n. 351 della Relazione Illustrativa: «Oltre ai reati riconducibili alla Convenzione di Istanbul – e a quelli ad essi affini che sono stati sopra menzionati (prostituzione minorile, corruzione di minorenne, adescamento di minorenni, interruzione volontaria della gravidanza su donna minore o interdetta) – vengono esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 131 bis c.p. i seguenti delitti, consumati o tentati:[…] • Delitti in materia di stupefacenti previsti dall’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, salvo che per i delitti di cui al comma 5 del medesimo articolo, che già rientrano nell’area di applicazione dell’art. 131-bis c.p. attualmente in vigore, in quanto puniti con pena massima inferiore ai cinque anni»

[31]Cfr. C. Cass., Sez. 4, Sentenza n. 48758 del 15/07/2016:  «In tema di stupefacenti, la fattispecie di lieve entità di cui al comma quinto dell'art. 73, d.P.R. 09 ottobre 1990, n. 309 e la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131 bis cod. pen. sono fattispecie strutturalmente e teleologicamente non coincidenti, atteso che, mentre ai fini della concedibilità della prima il giudice è tenuto a valutare i mezzi, le modalità e le circostanze dell'azione nonché la quantità e la qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa, ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità devono essere considerate le modalità della condotta, il grado di colpevolezza da esse desumibile e l'entità del danno o del pericolo ed altresì il carattere non abituale della condotta». Invero, sulla scorta del principio de quo la Corte aveva escluso la contraddittorietà della sentenza impugnata che aveva giudicato il fatto di lieve entità, negando la ricorrenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131 bis c.p.

[32] È evidente la maggiore intensità della nozione di “particolare tenuità” rispetto ad una mera “lieve entità”, essendo la mera tenuità già una forma sinonimica della circonlocuzione “lieve entità”, salvo l’art. 131 bis c.p. richiedere che detta tenuità sia “particolare”.

[33] Cfr. C. Cass., Sez. 4, Sentenza n. 40720 del 26/04/2017. 

[34] Cfr. da ultimo C. Cass., Sez. 6 - , Sentenza n. 10685 del 19/01/2023, nonché in termini ex aliis: C. Cass., Sez. 4 - , Sentenza n. 476 del 25/11/2021; C. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 14017 del 20/02/2018; C. Cass., Sez. 3 - , Sentenza n. 44837 del 06/02/2018.

[35] Cfr. ex aliis, Tribunale Torre Annunziata, 03/04/2017, n.83: «In tema di stupefacenti, la presenza di un'organizzazione e l'esistenza di una pluralità di cessioni di droga reiterate nel tempo non sono incompatibili con il fatto di lieve entità di cui all'articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990. Ciò si desume dall'articolo 74, comma 6, del medesimo decreto, che, con riferimento a un'associazione costituita per commettere fatti descritti dall'articolo 73, comma 5, dello stesso decreto, consente di configurare come lievi anche gli episodi che costituiscono attuazione del programma criminoso associativo. Nel caso di specie, il tribunale ha riqualificato il fatto contestato nell'ipotesi di cui all'articolo 73, comma 5, e non comma 1 come sostenuto dall'accusa, in quanto l'imputato si era limitato a cedere sostanza stupefacente di limitata quantità, anche se in più occasioni».

[36] Si tenga conto che, nonostante la natura facoltativa dell’arresto ex art. 381 c.p.p. per l’ipotesi di reato in argomento, la sua stessa previsione dava sicurezza alla p.g. operante sul territorio , la quale aveva certezza della legittimità del proprio operato pur in presenza di dati ponderali esigui, certezza che viene meno con l’applicabilità per espressa previsione normativa dell’art. 131 bis c.p. a dette condotte, tenute in debito conto le responsabilità disciplinari e non solo per la p.g. in relazione alla non convalida di un arresto e ciò a sicuro detrimento dell’effettività e dell’efficacia  dell’azione di contrasto agli stupefacenti, inficiata dall’introduzione anche in suddetto ambito di una “medicina difensiva” del tutto fisiologica.

[37] E, del resto, è esperienza quotidiana degli uffici di Procura constatare come rispetto al passato sia difficile il rinvenimento di quantità di stupefacente significative, in quanto chi è dedito a dette condotte per professione sa bene che è maggiormente conveniente detenere quantità non significative di stupefacente (anche non cd “leggero”), potendo quasi automaticamente beneficiare del comma V citato e spesso evitando in tal modo anche arresto e misura cautelare.

[38] Sez. 3, Sentenza n. 12906 del 13/11/2018. In termini cfr C. Cass., Sez. 3 , sentenza n. 13218 del 20/11/2015; C. Cass., Sez. 3, sentenza n. 51020 del 11/11/2015; C. Cass., Sez. 3, sentenza n. 40774 del 05/05/2015.

[39] Per una accurata disamina del tema, anche in relazione alla previsione dei cd. “criteri di priorità” nella trattazione dei reati, cfr. G. Salvi, Commento all’art. 112 della Costituzione, del 5 febbraio 2022 in La Magistratura, Rivista a cura dell’Associazione Nazionale Magistrati.

[40] In primis, con riferimento ai cd. “criteri di priorità” previsti dalla Riforma, sulla scorta dei quali viene postergata la trattazione di procedimenti individuati a monte, secondo criteri generali indicati dal legislatore, ma pienamente determinati nella loro concretezza con tabelle redatte dai singoli Procuratori della Repubblica, sulla scorta delle quali i procedimenti non “prioritari” saranno verosimilmente destinati alla prescrizione o in fase indagini o, comunque, in dibattimento o appello (nel quale si aggiunge l’ulteriore tagliola della nuova cd. Improcedibilità), salva la scelta (ancora una volta) di opportunità del singolo P.M. di coltivare comunque il procedimento non prioritario, anche a scapito di un procedimento prioritario, ritenendolo opportuno. Ancora una volta, ne consegue il rischio più che concreto di una disomogeneità e irragionevole discriminazione (questa volta eminentemente territoriale) per la quale la legge non è più “uguale per tutti” sul territorio dello Stato.

Si pensi, peraltro, che ove dovessero trovare concretizzazione normativa le istanze di separazione delle carriere (preludio al ritorno al passato di una magistratura requirente soggetta al ministro ed estranea all’ordine giudiziario), l’assetto costituzionale sarebbe totalmente stravolto ponendo le basi per la possibilità di uso strumentale dell’organo dell’azione penale fortemente avversato dai padri costituenti.

[41] Essendo alla luce della più recente giurisprudenza una declinazione necessaria dei principi di tassatività e determinatezza delle norme penali.

[42] Il quale viene limitato, sulla scorta delle sentenze “Drassich 1 e 2” della Corte E.D.U. e del recepimento nella giurisprudenza di legittimità (cfr. ex aliis C. Cass., sez. 4, sentenza n. 18798 del 28 marzo 2019), nel potere di riqualificazione del fatto, che, se in peius e non prevedibile, impone la restituzione degli atti al P.M.).

[43] A. D’Amato, I progetti organizzativi degli uffici di Procura dal 2024, secondo la legge Cartabia e la prossima circolare consiliare per il quadriennio 2024/2027, in questa rivista.

[44] C. E. Paliero, "Minima non curat praetor". Ipertrofia del diritto penale e decriminalizzazione dei reati bagatellari, Padova, 1985, passim.

[45] C. E. Paliero, "Minima non curat praetor", cit,, 610 ss.

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