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Magistratura Indipendente

CIVILE  

L’analogia, fra libertà dell’interprete e rispetto delle scelte del Legislatore

  Civile 
 lunedì, 6 maggio 2024

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di Lorenzo DELLI PRISCOLI, assistente di studio presso la Corte costituzionale

 
 

Sommario:

1. La sottile e difficile distinzione tra norma eccezionale e norma speciale

2. Il principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit e l’autonomia della politica

3. Il principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit quale limite all’individuazione di un vuoto normativo

4. Vuoto normativo e leggi speciali

5. Interpretazione estensiva e applicazione analogica

6. Certezza del diritto e analogia come ricerca (talvolta esasperata?) della giustizia del caso concreto

 

1. La sottile e difficile distinzione tra norma eccezionale e norma speciale

Nella redazione di una sentenza, ma più in generale in un qualsiasi ragionamento giuridico che abbia quale base di partenza un testo di legge, vanno utilizzati con prudenza e piena consapevolezza concetti quali quelli di norma eccezionale, norma speciale, distinzione tra interpretazione estensiva e applicazione in via analogica, perché un loro uso disinvoltamente errato può permettere, magari anche solo inconsapevolmente, di aggirare le norme in tema di interpretazione e di arrivare a conclusioni anche opposte rispetto a quelle cui si giungerebbe senza il loro uso. Un punto fermo è ad esempio infatti che qualificare una certa norma come eccezionale ne impedisce l’applicazione in via analogica[1], consentita invece qualora la si ritenga “semplicemente” speciale. Si tratta di concetti estremamente complessi, delicati e purtroppo inevitabilmente opinabili, che evidentemente necessiterebbero, per poter essere correttamente utilizzati, di una motivazione rigorosa e convincente quanto alla qualificazione di una certa norma come eccezionale o speciale: motivazione non necessariamente lunga, ma lineare, efficace e soprattutto pervasa di una consapevolezza critica di quello che si scrive e si afferma questo senz’altro sì. Non di rado invece purtroppo si leggono sentenze o dissertazioni giuridiche che ricorrono a questi concetti così complessi e delicati mediante affermazioni apodittiche, tralaticie, scarsamente consapevoli, non adeguatamente calate nella specificità del caso concreto e nel più ampio contesto normativo in cui tale caso si inserisce.

Già Emilio Betti si poneva il problema della differenza tra norme eccezionali e speciali, osservando che «il divieto di analogia è suscettibile di essere criticato per la difficoltà di determinare con precisione il concetto di norma eccezionale»[2]. Secondo Betti, la qualifica di eccezionalità «esprime il difetto di un’adeguata elaborazione e messa in accordo coi principi dell’ordinamento giuridico… la disciplina del caso costituisce un’interruzione della consequenzialità logica e politico legislativa  dei principi, una deviazione dalle sue direttive generali, tale da porsi in collisione con essa e da escluderla, una anomalia la cui estensione aprirebbe una più larga breccia nella normalità e aumenterebbe la disarmonia con la logica dei principi e col disegno di razionale coerenza che se ne ricava», avvertendo però che, accanto alle norme eccezionali vi sono quelle speciali dal momento che si assiste ad un processo di «specializzazione e specificazione di principi che obbedisce all’esigenza di adattare alle varie categorie di rapporti la disciplina preesistente, rendendola più confacente alle loro particolarità…. si tratta di una disciplina che non è in contrasto coi principi e non li esclude siccome incompatibili, ma li specifica e li differenzia adattandoli: si pensi al diritto commerciale in confronto col civile».

Anche molti anni più tardi, Francesco Gazzoni analogamente ha affermato di dubitare circa la natura eccezionale di alcune norme ritenendo, offrendo una definizione simile a quella di Betti, che «sono senza alcun dubbio eccezionali solo le norme che dettano regole che derogano a principi cardine dell’ordinamento, cosicché la loro estensione aldilà dei limiti fissati dalla legge creerebbe nell’ambito del sistema condizioni di contraddittorietà»[3].

Deve del resto ritenersi che la stessa qualifica di eccezionalità di cui all’art. 14 delle preleggi non possa essere considerata valida immutabilmente una volta per tutte, perché alcune norme – si pensi ad esempio a quelle a tutela del consumatore e in genere a tutela della parte debole[4] - sono state qualificate, a seconda del periodo storico, dapprima come eccezionali, poi come speciali, poi ancora come principi anch’essi, aventi pari dignità rispetto a quelli espressi dal codice civile. Pertanto, se, negli anni novanta, quando iniziarono ad essere emanate le prime norme a tutela del consumatore, tali norme venivano viste e lette dagli interpreti con una certa diffidenza e dunque considerate come aventi carattere eccezionale e come tali insuscettibili di essere applicate in via analogica, oggi (tutto sommato quindi nel giro di pochi anni) la situazione è radicalmente cambiata: le norme a tutela del consumatore costituiscono ormai principi generali e non eccezioni alla regola, con la conseguenza che si tratta di norme considerate astrattamente applicabili in via analogica[5]. In effetti, le disciplina a tutela del consumatore ha fatto la sua comparsa timidamente e disordinatamente, senza un criterio cronologico razionalmente comprensibile, con leggi settoriali[6] e soprattutto con disposizioni caratterizzate dalla circostanza di essere portatrici di principi fortemente in contrasto con quelli consacrati da decenni nel codice civile e che affondano le radici nei principi liberali del Code Napoléon. Ma queste norme a tutela del soggetto debole vivono all’interno di un ordinamento giuridico e si evolvono nella loro interpretazione in relazione all’acquisizione di una sempre maggiore consapevolezza dei rapporti con i principi preesistenti dell’ordinamento: pertanto, superato il primo momento di smarrimento in cui le discipline a tutela dei soggetti deboli sono apparse come decisamente “nuove” e come tali percepite come in contrasto con le “vecchie”, successivamente l’interprete ha iniziato a comprendere che non si trattava di contrasto con i principi espressi con il codice civile ma semplicemente di una specificazione e di un adattamento di essi, così come il principio di uguaglianza si declina come obbligo di trattare in maniera uguale situazioni uguali ma anche nel senso che occorre trattare in maniera adeguatamente diversa situazioni diverse[7].

 

 2. ll principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit e l’autonomia della politica

Per offrire un esempio in un altro campo dei rischi e dei paradossi di un uso troppo disinvolto e non sufficientemente consapevole del concetto di norma eccezionale, può ben evidenziarsi che le norme tributarie agevolative vengono spesso qualificate come norme eccezionali, perché in effetti derogano al principio di uguaglianza in senso formale, ossia al principio secondo cui le norme fiscali devono essere uguali per tutti. Tuttavia, tali norme agevolative ben potrebbero anche definirsi speciali, perché conformi al principio secondo cui occorre trattare in maniera diseguale situazioni diseguali, ma potrebbero altresì essere considerate né eccezionali né speciali, bensì espressione di un principio generale esplicitamente previsto dall’art. 53 della Costituzione, quello secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva: e in effetti spesso tali norme vengono varate all’indomani di una calamità naturale – ad esempio un terremoto - che abbia diminuito fortemente la capacità contributiva dei soggetti agevolati.

Quasi sempre però il Legislatore circoscrive con nettezza coloro che potranno avvantaggiarsi dell’agevolazione, individuando solo alcune categorie di soggetti quali destinatari dell’aiuto fiscale e non la generalità dei consociati; in altre ipotesi il confine dei soggetti beneficiari dell’agevolazione viene circoscritto in maniera netta, per categorie di soggetti[8] ma anche nello spazio (ad esempio solo coloro che risiedevano, al momento del terremoto, in uno dei seguenti Comuni) o nel tempo (ad esempio l’agevolazione riguarda solo una annualità d’imposta nonostante gli effetti negativi del terremoto si facciano sentire anche a distanza di anni). Si tratta di distinzioni inevitabilmente opinabili o meglio delle distinzioni in cui non è semplice (o non è possibile) individuare quella soluzione di continuità che permetterebbe di spiegare con certezza perché il legislatore abbia deciso di concedere in un caso l’agevolazione e in un altro no: ad esempio un certo Comune ha avuto dei danni trascurabilmente più gravi rispetto ad un altro pur non essendo quest’ultimo stato inserito nell’elenco dei Comuni beneficiari dell’agevolazione, mentre il primo si. La conseguenza di quanto detto sinora è che in queste situazioni di confine ben potrebbe individuarsi la stessa ratio e quindi la possibilità di individuare la stessa ratio dell’agevolazione (ossia, volendo banalizzare, la necessità di aiutare dei soggetti con degli sconti fiscali in occasione di una calamità naturale, che inevitabilmente li ha indeboliti economicamente). In questo caso l’analogia non sembra essere lecita – ed ecco un possibile errore dell’interprete che invece vogli cimentarsi con tale strumento - non perché la norma sia realmente eccezionale, ma perché una applicazione in via analogica determinerebbe l’invasione della sfera riservata alla politica, ossia la discrezionalità del legislatore: in tal caso dunque la qualifica di una certa norma agevolativa come eccezionale corrisponderebbe ad un avvertimento all’interprete a non avventurarsi in un uso alternativo del diritto[9] e a lasciare alla politica gli spazi che gli competono.

Il Legislatore, infatti, deve essere libero di scegliere autonomamente quali categorie aiutare e quali no, nella consapevolezza – che deve essere propria non solo del Parlamento ma anche dell’interprete - della inesorabile e crudele limitatezza delle risorse disponibili e in particolare degli stringenti vincoli economici a cui è sottoposto il nostro Paese dopo la riforma costituzionale varata con legge costituzionale n. 1 del 2012, che ha, fra l’altro, modificato l’art. 81 Cost. introducendo il principio della tendenziale necessità del rispetto del pareggio di bilancio.

Il giudice – e l’interprete in genere – dovrebbe dunque arrestarsi di fronte alle scelte discrezionali della politica, evitando di contrapporre ad una legittima (quando non travalichi nell’irragionevolezza: ad esempio le agevolazioni vengono concesse solo ai residenti nei Comuni meno colpiti dal sisma oppure ai soggetti con i redditi più elevati[10]) scelta politica una interpretazione fondata sostanzialmente su un uso alternativo del diritto, che, pur partendo da una di per sé non solo legittima ma anche condivisibile valorizzazione di alcuni principi costituzionali quali il 3 comma 2 (uguaglianza in senso sostanziale), 41 comma 2 (utilità sociale) e il 53 Cost. (capacità contributiva), ne trascuri altri, quali appunto l’81 Cost.[11], e soprattutto invada la sfera riservata al legislatore e che in questo particolare settore si esprime con il noto brocardo latino «ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit» (o, detto con formula ancora più sintetica, «ubi lex voluit ibi dixit») principio che si contrappone e costituisce un limite ad una eccessiva disinvoltura nell’individuare dei vuoti normativi, presupposto indefettibile per consentire all’interprete di procedere con l’analogia.

 

3. Il principio ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit quale limite all’individuazione di un vuoto normativo

L’applicazione del principio «ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit», richiamando l’attenzione in merito alla reale esistenza o meno di un vuoto normativo, costituisce parte integrante del bagaglio tecnico dell’interprete che voglia consapevolmente fare uso del procedimento analogico per colmare le effettive lacune dell’ordinamento positivo[12]. Per procedere all’applicazione in via analogica di una norma, occorre infatti che vi sia identità di ratio, che la norma non abbia carattere eccezionale e che sussista un vuoto normativo[13]. Con riferimento a quest’ultimo punto, afferma la Cassazione che il ricorso all’analogia è consentito dall'art. 12 delle preleggi solo quando manchi nell'ordinamento una specifica norma regolante la concreta fattispecie e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria[14].

Non sempre però è semplice comprendere se il vuoto normativo effettivamente esista: infatti può ben accadere che il legislatore volutamente non abbia disciplinato una certa fattispecie astratta, ad esempio per non accordare la stessa tutela pure riconosciuta a fattispecie (apparentemente) simili. Così ad esempio, in una decisione[15], la Cassazione ha ritenuto che non fosse applicabile in via analogica al rapporto tra amministratori e società – nell’ipotesi di rinuncia all’incarico da parte dell’amministratore - la norma di cui all’art. 1727 c.c., che obbliga il mandatario a risarcire i danni provocati al mandante da una sua rinuncia senza giusta causa al mandato o l’art. 2383 c.c., che obbliga la società che abbia revocato un amministratore senza giusta causa a risarcire il danno subito da quest’ultimo. E’ stato infatti stabilito che anche a voler equiparare il rapporto tra società e amministratore al contratto di mandato, l'applicazione delle relative norme per analogia potrebbe avvenire, in base al principio «ubi lex non dixit non voluit», solo in assenza di disposizioni dell'ordinamento societario per la fattispecie data, mentre, al contrario, deve rilevarsi che, in materia, vi è una disposizione chiara e completa, ossia l'art. 2385 c.c., che nulla stabilisce in ordine alle ragioni del recesso da parte dell’amministratore della società, laddove la ricorrenza di una giusta causa è prevista nella diversa e nient’affatto speculare ipotesi della revoca dell'amministratore da parte della società. Secondo la Cassazione, il difetto di previsione della giusta causa di recesso dell'amministratore equivale semplicemente ad un difetto di protezione giuridica dell'interesse eventuale della società alla continuità dell'attività gestoria, peraltro facilmente suscettibile di essere soddisfatto con l'immediata sostituzione dell'amministratore dimissionario e la nomina di altro amministratore. Detto “difetto” dà luogo, tutt'al più, ad una cosiddetta lacuna impropria, vale a dire a un vuoto normativo eventualmente inopportuno, o contrario alla coscienza sociale, e perciò (ove effettivamente avvertito come tale) da colmare (solo) attraverso un intervento del legislatore; esso non provoca invece una lacuna in senso proprio, che è come dire una situazione normativa incompleta o incoerente, ossia, ancora, a un caso dubbio che, ai sensi dell'art. 12 preleggi, comma 2, richiede l'interpretazione analogica. In effetti, mentre è evidente che l'assenza di giuridica tutela dell'amministratore della società di capitali sarebbe priva di giustificazione, al contrario nessun grave vulnus a principi generali, da evitare attraverso l'applicazione analogica dell'art. 1727 c.c., si prospetta nella norma di cui all'art. 2385 c.c. In definitiva, secondo la Cassazione, che il difetto di previsione della necessità di una giusta causa di rinuncia degli amministratori alla carica equivalga a sua implicita esclusione, apparirebbe evidente dal fatto che l'art. 2385 c.c. già dispone in maniera esauriente[16].

Deve osservarsi che la Cassazione, nel motivare l’impossibilità di un’applicazione in via analogica, cita il noto brocardo latino «Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit», usualmente evocato a proposito dell'interpretazione della legge: se infatti in un disposto normativo non è stata espressamente prevista una fattispecie o non è stato analizzato un determinato aspetto, si deve presupporre che il legislatore non li abbia voluti disciplinare e che pertanto, in difetto di una norma, non si debba procedere ad interpretazioni estensive. Il brocardo richiama perciò l'interprete ad attenersi scrupolosamente al testo della norma, evitando di dedurre conseguenze affrettate dal silenzio del Legislatore. E in effetti la Cassazione, a proposito dell’art. 2385 c.c., parla di “disposizione chiara e completa”. E’ innegabile però che la distinzione effettuata dalla Cassazione tra lacuna propria (suscettibile di essere colmata attraverso l’analogia) e lacuna impropria (che risponderebbe al principio dell’«Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit») è estremamente opinabile ed evanescente, perché evidenzia che, in presenza di una lacuna normativa, due principi opposti sono astrattamente suscettibili di essere applicati: quello del «Ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit» e quello dell’analogia.

Proprio in virtù della debolezza di questa argomentazione, la Cassazione avverte la necessità di offrire anche un’altra giustificazione all’impossibilità di procedere con l’analogia: la diversità di ratio fra le due situazioni messe a raffronto[17]. Si dice infatti nella sentenza che la giusta causa è prevista “nella diversa e nient'affatto speculare ipotesi della revoca dell'amministratore da parte della società”. E soprattutto da un lato si afferma che, conseguentemente, non vi è una situazione normativa “incoerente” (ovverosia le ragioni delle due norme sono diverse e dunque non vi è quell’identità di ratio indispensabile per procedere all’analogia) e dall’altro si rileva che il difetto di previsione della giusta causa di recesso dell'amministratore equivale semplicemente ad un difetto di protezione giuridica dell'interesse eventuale della società alla continuità dell'attività gestoria, facilmente suscettibile di essere soddisfatto con l'immediata sostituzione dell'amministratore dimissionario e la nomina di altro amministratore (quindi senza necessità di ricorrere all’analogia), mentre l'assenza di giuridica tutela dell'amministratore della società di capitali sarebbe priva di giustificazione (evidentemente dovendosi dare un minor peso alle esigenze di continuità della società – rispetto ad un amministratore che comunque ha manifestato la sua volontà di lasciarla - rispetto a quelle dell’amministratore-lavoratore).

Appare dunque evidente che l’esame in merito alla diversità o somiglianza della ratio, quando non sussistano delle conseguenze finanziarie per lo Stato (come nel caso  (dato che tutti hanno  agevolazioni fiscali di cui si è detto nel paragrafo precedente) e quindi, in definitiva, per i terzi (dato che, come recita l’art. 53 Cost., tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva)[18], è per certi versi criterio più rigoroso e meno opinabile rispetto alla verifica della sussistenza o meno di un vuoto normativo  e dotato di una solida base logica e giuridica nell’art. 12 delle preleggi. Questo perché il criterio dell’«ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit», oltre a non avere un sicuro punto di appoggio normativo se non nel generalissimo principio della separazione dei poteri e della esclusività del potere legislativo in capo al Parlamento, si scontra inevitabilmente con l’impossibilità di ricostruire le intenzioni del Legislatore, non potendosi dire infatti con sicurezza se una determinata fattispecie sia stata o meno volutamente regolata dal legislatore. Ad esempio, nel caso affrontato dalla Cassazione poc’anzi ricordato, ben potrebbe essere che il Legislatore abbia negligentemente “dimenticato” di prevedere la fattispecie della rinuncia dell’amministratore priva di giusta causa e che, se invece l’avesse ipotizzata, avrebbe deciso di “sanzionare” l’amministratore obbligandolo al risarcimento del danno. Molto più convincente e soprattutto “meno aleatorio” è invece il ragionamento basato sulla diversità di ratio e dunque sulla possibilità, in caso di rinuncia all’incarico da parte dell’amministratore, di nominarne immediatamente un altro. In altri termini, per poter seriamente negare la possibilità di procedere ad un’applicazione analogica in virtù della mancanza di un vuoto normativo, occorre dimostrare non solo l’assenza di esso, ma anche la razionalità, logicità, ragionevolezza[19], coerenza con il sistema dell’assenza del vuoto normativo (in caso anche in ragione della non indifferenza per il bilancio dello Stato dell’analogia), il che però è come dire che non può procedersi all’analogia quando la ratio di una fattispecie concreta non regolata da una norma non corrisponde a quella di altra fattispecie che invece è disciplinata, ossia ancora in altre parole che l’analogia non è possibile non perché manchi un vuoto normativo, ma perché difetta l’identità di ratio[20].

    

4. Vuoto normativo e leggi speciali

Si ritiene allora che chiedere all’interprete che voglia procedere all’analogia la dimostrazione della sussistenza di un vuoto normativo – lo si ripete, purché l’analogia non determini delle conseguenze finanziarie per i terzi - sia non solo superfluo ma addirittura talvolta fuorviante. Si pensi infatti al rapporto fra gli artt. 1455 c.c. (valutazione dell’importanza dell’inadempimento ai fini della risoluzione per i contratti in genere) e 1564 c.c. (valutazione dell’importanza dell’inadempimento ai fini della risoluzione per il contratto di somministrazione)[21]. L'art. 1564 c.c., dettato in materia di somministrazione, stabilisce che «in caso d'inadempimento di una delle parti relativo a singole prestazioni, l'altra può chiedere la risoluzione del contratto, se l'inadempimento ha una notevole importanza ed è tale da menomare la fiducia nell'esattezza dei successivi adempimenti». L’art. 1455 c.c., dettato nella parte generale dei contratti, prevede invece che «il contratto non si può risolvere se l'inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse dell'altra». Da un confronto tra le due norme, che disciplinano entrambe la stessa materia (la possibilità di risolvere un contratto per inadempimento), appare infatti evidente che l'art. 1564 c.c. si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 1455 c.c.[22], stabilendo, rispetto a quest'ultima norma, che il giudice debba valutare con maggiore rigore la gravità dell'inadempimento[23]. L'art. 1564 c.c. prevede infatti che l'inadempimento che attribuisce il diritto a chiedere la risoluzione del contratto debba essere di notevole importanza (e non solo "di non scarsa importanza") e tale da menomare la fiducia dei contraenti circa l'adempimento delle future prestazioni[24]. Nel caso di un contratto di franchising, dovrebbe dunque trovare applicazione l’art. 1455 c.c. (norma valida per tutti i contratti), e non l’art. 1564 c.c., non esistendo un vuoto normativo che possa giustificare il richiamo in via analogica di quest’ultima norma. 

Tuttavia la ratio che giustifica la disposizione dell’art. 1564 c.c., ovverosia il fatto che il contratto di somministrazione sia un contratto di durata basato su di un rapporto di fiducia fra le parti, che normalmente implica notevoli investimenti da parte dei contraenti e un forte coinvolgimento di essi - e che come tale esige requisiti più severi per la sua risoluzione per inadempimento - si rinviene anche nel franchising, in considerazione dell’integrazione fra affiliante e affiliato che caratterizza questi contratti e che consolida ancora di più il rapporto fiduciario fra le parti, con la conseguenza che, se l’interprete fosse lasciato libero di individuare la norma più adatta al contratto di franchising, la scelta più corretta dovrebbe ricadere sull’art. 1564 c.c., e non sul 1455 c.c.

Le incongruenze del criterio del “vuoto normativo” emergono anche facendo riferimento all’art. 2557 c.c. Sarebbe infatti ben sostenibile l’affermazione secondo cui tale norma non potrebbe essere suscettibile di essere applicata in via analogica alla cessione di quote societarie o al recesso del socio per l’inesistenza di un vuoto normativo, avendo il legislatore scientemente deciso di non  prevedere il divieto di non concorrenza  per queste ultime fattispecie, in ossequio al principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit”. Eppure, la giurisprudenza, anche nel periodo in cui ha negato l’applicabilità in via analogica della norma, non ha mai addotto questa motivazione; e in effetti il legislatore per dissipare ogni dubbio avrebbe potuto ad esempio stabilire che nel caso di cessione di quote di società, salvo patto contrario, non è posto in capo al cedente alcun obbligo di non concorrenza. Le incertezze giurisprudenziali nell’applicazione del criterio del “vuoto normativo” (sia con riferimento all’an della sua applicazione sia quanto al quomodo) tradiscono, dunque, la fallacità e la tendenziale superfluità di tale requisito.

 

5. Interpretazione estensiva e applicazione analogica 

L’art. 12 delle preleggi, nel disporre che «nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore», contiene già l’indicazione di due precisi criteri, pari ordinati: quello della necessità di seguire una interpretazione letterale della norma e quello della necessità di guardare anche oltre, alla ratio legis.

Si incontrano e si scontrano evidentemente in questa norma da un lato l’esigenza della certezza del diritto, tanto più avvertita per le norme penali per le quali l’art. 14 prevede espressamente il divieto di analogia, e dall’altro il principio secondo cui occorre trattare in maniera uguale situazioni eguali o comunque assimilabili, che è alla base dell’analogia: quest’ultimo principio, come del resto quello della certezza del diritto, è alla base del principio di uguaglianza.

Ad ogni modo è evidente che, quand’anche una norma sia qualificata come eccezionale o comunque – come quelle penali – insuscettibili di applicazione analogica, una strada per permettere all’interprete di ampliare comunque il campo di azione di tale norma si fonda sulla distinzione tra applicazione analogica ed interpretazione estensiva[25].

Questi delicati concetti sono stati evidentemente maneggiati dalla Cassazione penale[26] laddove ha deciso che il criterio distintivo tra la meno grave fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella più grave di omicidio colposo si individua nell'inizio del travaglio (nel caso di specie, a seguito di una condotta colposa di una ostetrica, una donna aveva partorito un feto morto, vivo però fino a pochi minuti prima dall’uscita dal corpo della madre) e, dunque, nel raggiungimento dell'autonomia del feto. In motivazione la Corte di Cassazione, richiamando le sentenze della Corte Costituzionale n. 229 del 2015[27] e della Corte Europea dei diritti dell’uomo Perrillo c. Italia del 27 agosto 2015, ha precisato che deve ritenersi legittima l'inclusione dell'uccisione del feto nell'ambito dell'omicidio in considerazione dell'intervenuto ampliamento della tutela della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è estesa fino all'embrione e che, altresì, tale inclusione non comporta una non consentita analogia in "malam partem" bensì una mera interpretazione estensiva, legittima anche in relazione alle norme penali incriminatrici.

Può avanzarsi qualche perplessità in merito a questa pur ben motivata decisione della Cassazione, intervenuta a decidere su un caso così delicato e complesso. In effetti, l’interpretazione estensiva si giustifica, nella prospettiva della Corte di legittimità, perché la norma in tema di omicidio colposo è interpretata alla luce dell’intero ordinamento e alla luce della sempre maggiore tutela offerta all’embrione. Tuttavia, la motivazione risulta carente laddove non si confronta con il necessario bilanciamento con il valore della certezza del diritto, pur particolarmente importante in diritto penale tanto da imporre il divieto di analogia e della tutela dei diritti fondamentali dell’uomo anche in presenza di norme penali incriminatrici che non abbiano carattere eccezionale (perché altrimenti sarebbe bastato che l’art. 14 delle preleggi si limitasse a vietare l’analogia per le sole norme eccezionali, non anche per quelle penali). E’ infatti innegabile che l’unica distinzione ragionevole tra omicidio colposo e interruzione colposa della gravidanza può essere effettuata prendendo come spartiacque il momento in cui il feto esce dal corpo della donna (potendosi al più semmai ragionare in termini di interpretazione estensiva solo per l’ipotesi in cui il feto sia uscito solo in parte e proprio in quel momento muoia), mentre la tesi sostenuta dalla Cassazione appare discutibile per un verso perché trascura elementi normativi importanti come l’art. 1 del codice civile secondo cui la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita, per un altro verso perché, permettendo al giudice di punire a titolo di omicidio colposo anche l’omicidio del feto, introduce un elemento di distinzione alquanto opinabile, che permette di ampliare l’area della punibilità penale andando a ritroso potenzialmente fino al momento del concepimento del feto, fino così ad arrivare ad una interpretatio abrogans del meno grave reato di interruzione colposa della gravidanza, e per un altro verso ancora perché non tiene conto che l’espansione della tutela giuridica del feto – correttamente messa in luce della Cassazione – si ferma però, secondo la stessa sentenza citata della Corte Costituzionale n. 229 del 2015 – nel momento in cui vengono in gioco interessi di persone effettivamente nate[28], e nel caso esaminato dalla Cassazione si tratta di un interesse estremamente rilevante di un soggetto già nato, quello ad essere condannato per un reato meno grave corrispondente all’interpretazione piana e letterale della norma che condanna l’interruzione della gravidanza (che è stata effettivamente interrotta dalla condotta colposa dell’ostetrica, sia pure a pochi minuti dalla nascita).

 

6. Certezza del diritto e analogia come ricerca (talvolta esasperata?) della giustizia del caso concreto

La seconda parte dell’art. 12 delle preleggi stabilisce che, se una controversia rimane ancora dubbio pur avendosi riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe, il caso va deciso secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato. Si tratta dell’applicazione dello strumento analogico alla sua massima espansione, il trionfo della ricerca della giustizia della singola fattispecie, andandosi a cercare il principio più corretto alla soluzione del caso concreto anche al di là dello specifico corpo normativo “confinante”; così apparentemente, affidandosi ai “principi generali”, “volando più in alto”.

L’analogia, intesa come ricerca della giustizia del caso concreto, deve sempre mantenersi in un corretto equilibrio con l’esigenza della certezza del diritto, da intendersi, nel settore civile, come possibilità per gli operatori giuridici di fare affidamento su una ragionevole previsione circa l’esito di una eventuale controversia che li riguardi sulla base della normativa e della consolidata giurisprudenza fino a quel momento esistente[29]. E’ per questo motivo che non convince fino in fondo la celeberrima sentenza della Cassazione in tema di abuso del diritto[30] la quale, pur sulla base di un principio astrattamente più che condivisibile – quello del divieto dell’abuso del diritto che a sua volta affonda le sue radici nei più nobili principi costituzionali quali quello di uguaglianza e di solidarietà – ha affermato che l’esistenza, in occasione dell’esercizio di un diritto, di uno sproporzionato e ingiustificato sacrificio della controparte rende possibile che il giudice valuti come illegittimo l’esercizio di un diritto espressamente e pacificamente riconosciuto nel contratto ad una delle parti, derivando oltretutto come conseguenza dell’esercizio di quel diritto l’obbligo del risarcimento del danno nei confronti della controparte contrattuale. 

Si ritiene però che la Cassazione trascuri eccessivamente tutti i rischi insisti in una decisione sostanzialmente “a sorpresa”[31], prestando poca attenzione alla meritevolezza dei motivi della parte che ha esercitato il diritto di recesso (che lo ha fatto per esigenze organizzative e non per fare “un dispetto” alla controparte)  e che ha concluso quel contratto che contemplava quella particolare clausola attributiva del diritto di recesso a seguito di una trattativa con un soggetto pienamente consapevole delle conseguenze cui si esponeva riconoscendo quel diritto e che dalla sua non può vantare neppure la qualifica di consumatore e la relativa presunzione assoluta di inesperienza a suo favore, presupposto della disciplina di tutela rappresentata dal codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005). Si sente forte in questa sentenza e più in genere nell’istituto dell’abuso del diritto l’illusione circa la possibilità di un riferimento oggettivo al mercato, laddove si pretende che il giudice possa dapprima calcolare il rapporto tra il vantaggio (esiguo) di chi esercita il diritto e quello (cospicuo) di chi subisce l’altrui decisione e poi decidere se sia o meno eccessivo (senza che la Cassazione si sia presa la responsabilità di individuare un rapporto numerico tra vantaggi e svantaggi superato il quale si possa presumere l’abuso, così dovendosi ritenere che si debba procedere caso per caso, facendo riferimento, nel caso concreto, alle condizioni soggettive delle parti del contratto, con inevitabili ulteriori possibilità se non di arbitri, di decisioni opinabili), senza considerare che una simile pretesa, prima che incidere in maniera eccessiva sull’autonomia negoziale dei soggetti, appare prima di tutto in concreto velleitaria, arbitraria e quindi in definitiva irragionevole, ossia in contrasto con il principio di uguaglianza, perché, in definitiva, è come se il giudice si arrogasse il diritto di decidere cosa sia “giusto”, superando d’imperio la valutazione delle parti. In effetti, il punto sembra essere quello che il principio del divieto dell’abuso del diritto è astrattamente e indiscutibilmente condivisibile e rispondente al principio di uguaglianza, ma, nella sua applicazione concreta, soffre di tali e tanti inconvenienti, da diventare all’atto pratico del tutto inaffidabile e aleatorio, contribuendo a minare severamente la sicurezza dei traffici giuridici che nell’affidamento e nella prevedibilità delle decisioni trova un pilastro decisivo[32]. Se a questo si aggiunge che, sempre ragionando in concreto, il sistema giudiziario italiano è afflitto dall’atavico e insoluto problema delle lungaggini delle decisioni, il principio del divieto dell’abuso del diritto mostra tutti i suoi limiti e un forte sospetto di essere irrimediabilmente irragionevole qualora, come nel caso concreto affrontato dalla Cassazione, si sia fatto uso dello strumento analogico – e per di più nella sua massima espansione, facendo cioè ricorso ai principi generali – pur senza aver dimostrato l’esistenza di un vuoto normativo  e quindi il primo e imprescindibile presupposto dell’analogia - e pretendendo di contrapporre e far prevalere un principio generale (quello dell’abuso del diritto) rispetto ad altri principi generali quali quello dell’autonomia contrattuale, dell’affidamento, della certezza del diritto e della ragionevolezza in concreto di un certo ragionamento giuridico.

Conclusivamente, queste brevi considerazioni si propongono di costituire un monito per il giudice a fare un uso dello strumento dell’analogia attento e consapevole, addivenendo, quale che sia l’esito finale dell’esplorazione di tale procedimento, ad una motivazione che tenga conto di tutti gli interessi e i valori costituzionali in gioco, senza pregiudizi e fuggendo dalla tentazione di valorizzare eccessivamente un interesse – pur di grande rilevanza, come la volontà di trattare in maniera uguale situazioni ritenute sufficientemente simili -  ma trascurandone degli altri pur di arrivare ad un risultato che ci si sia già più o meno inconsapevolmente prefissi ancor prima di dedicarsi a tale delicata e complessa attività interpretativa. 

 



[1] Si ricorda che, secondo l’art. 14 delle preleggi, «le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati».

[2] E. Betti, Interpretazione della norma e degli atti giuridici, Milano, Giuffré, 1949, 87, che riprende e sviluppa concetti già introdotti da Bobbio (N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, Istituto giuridico della regia Università, 1938, 41).

[3] Cfr. F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2024, 21° ed., 52, secondo il quale sono così di certo eccezionali le norme dettate per regolamentare determinate situazioni contingenti (in conseguenza, ad esempio, di terremoti o calamità naturali).

[4] Solo per fare degli esempi si pensi alla disciplina del codice del consumo (d.lgs. n. 206 del 2005) o a quella sulla subfornitura (d.lgs. n. 192 del 1998).

[5] Cass. 20 gennaio 2020, n. 1082: in tema di vendita di beni di consumo affetti da vizio di conformità, ove la riparazione o la sostituzione risultino, rispettivamente, impossibile ovvero eccessivamente onerosa, va riconosciuto al consumatore, benché non espressamente contemplato dall'art. 130, comma 2, del d.lgs. n. 206 del 2005, ed al fine di garantire al medesimo uno standard di tutela più elevato rispetto a quello realizzato dalla Direttiva n. 44 del 1999, il diritto di agire per il solo risarcimento del danno, quale diritto attribuitogli da altre norme dell'ordinamento, secondo quanto disposto dall'art. 135, comma 2, del medesimo c. cons. Nella specie, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di merito che, in presenza di una domanda principale volta alla eliminazione dei vizi ed una, subordinata, di carattere esclusivamente risarcitorio, riconosciuta l'esistenza dei vizi lamentati dal consumatore e, al contempo, l'eccessiva onerosità dell'intervento occorrente per la loro eliminazione, aveva circoscritto il risarcimento nei limiti del solo danno non coperto dalla sostituzione eccessivamente onerosa).

[6] La prima legge a tutela del consumatore è – solo apparentemente strano a dirsi perché è una legge a tutela del mercato, i cui protagonisti sono non solo i professionisti (imprenditori e professionisti intellettuali) ma anche i consumatori – la legge antitrust del 10 ottobre 1990 n. 287: si pensi all’art. 3 che vieta l’abuso di posizione dominante consistente nell’impedire gli sbocchi o gli accessi al mercato, a danno dei consumatori; l’art. 4 che permette, per un periodo limitato, intese astrattamente anticoncorrenziali che però diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori; l’art. 6 che consente all’Autorità garante della concorrenza di valutare se le operazioni di concentrazione ostacolino in modo significativo la concorrenza effettiva nel mercato nazionale o in una sua parte rilevante, tenendo conto degli interessi dei consumatori intermedi e finali, nonché del progresso tecnico ed economico purché esso sia a vantaggio del consumatore e non costituisca impedimento alla concorrenza. Successivamente, a seguito della direttiva n. 85/577/CE, varata dal Consiglio il 20 dicembre 1985, che introduceva, a favore della parte contrattuale “debole”, il diritto di recedere dal contratto nel termine di 7 giorni, il legislatore interno, con il decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, ha varato una disciplina in materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali con la quale è stata introdotta una forte tutela del consumatore, in particolare attraverso il diritto di recesso.
 

[7] Si pensi a principi quali: l’obbligo di informare il consumatore a prescindere da un esame circa un suo sforzo diligente in tal senso;  il diritto di recesso del consumatore a prescindere da una apposita pattuizione in tal senso; la nullità di protezione invocabile solo dal consumatore e non anche dal professionista in relazione alla nullità assoluta, l’obbligo della forma scritta in relazione al principio della libertà delle forme, l’inversione dell’onere della prova a favore del contraente debole.

[8] Cfr. ad esempio Cass., 16 giugno 2021 n. 17010, secondo cui l’art. 32, comma 2, del d.P.R. n. 601 del 1973 - il quale prevede agevolazioni fiscali per gli atti di trasferimento della proprietà o di concessione del diritto di superficie sulle aree espropriate ed utilizzate dai Comuni per la realizzazione di impianti produttivi, industriali, artigianali, commerciali e turistici - è disposizione di stretta interpretazione non suscettibile di interpretazione analogica; pertanto, i benefici da essa previsti spettano soltanto ai Comuni e non ad enti diversi, come le società di capitali di diritto privato, pur se di proprietà pubblica.

[9] N. Lipari, L’uso alternativo del diritto, oggi, in Giust. civ., 2018, 75; N. Rossi, Dalla “giurisprudenza alternativa” alle problematiche dell’oggi, in Questione giustizia, 2023, 1, relazione presentata all’Università La Sapienza durante la IV Sessione degli incontri di studio su L’uso alternativo del diritto. Il convegno catanese cinquant’anni dopo, Roma, 24 marzo 2023. In tale convegno tenutosi a Catania nel 1973 Magistratura democratica criticava la rigorosa separazione tra diritto e politica supportata dal positivismo giuridico, che predicava la soggezione del diritto e dell’interprete alla volontà politica del legislatore, e dunque una concezione eminentemente burocratica dell’attività giudiziaria. In quel convegno il giudice interprete si liberava di tale subalternità e, insieme, della dimensione meramente burocratica della sua attività, contestando il mito della apoliticità della giurisdizione e del giudice. Si veda anche A. Lamorgese, L’interpretazione creativa e il valore del precedente nella giurisdizione ordinaria, in Federalismi, 2018, 3, secondo cui la giurisprudenza tende immancabilmente a produrre nuovo diritto positivo, a consolidarsi in autorità, in ragione del nesso con l’insopprimibile margine di libertà degli interpreti nei riguardi di qualunque corpus normativo, cosicché, se è vero che la lettera del testo è l’imprescindibile punto di partenza nell’interpretare le leggi, sarebbe un errore negare che il testo non è di solito quello di arrivo e che la determinazione finale del significato della legge non è sempre uguale al significato dei vocaboli, delle locuzioni o degli enunciati ivi contenuti, se non altro per l’inevitabile incapacità del linguaggio di prevedere tutti gli scenari possibili in un mondo sempre più complesso e variabile.

[10] Esprime questo principio il brocardo latino «ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus»: cfr. Cass., S.U., 7 ottobre 2019, n. 25021, secondo cui la previsione – contenuta nel D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46 e L. n. 47 del 1985, art. 40 - di un "unico" regime giuridico per ogni tipo di scioglimento di comunione comporta, in applicazione del canone interpretativo «ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus», che lo scioglimento della comunione ereditaria, ove abbia ad oggetto fabbricati abusivi (o parti di essi), deve ritenersi sottoposto al medesimo trattamento giuridico ("comminatoria di nullità") previsto per lo scioglimento della comunione ordinaria.

[11] Cfr. Cass. 1° dicembre 2023, n. 33592, in cui la questione trattata era quella della sussistenza di un meccanismo di rivalutazione monetaria riferito all'assegno una tantum previsto dall’art. 2, comma 3, della legge n. 210 del 1992, in favore dei congiunti del soggetto deceduto a seguito di malattia cagionata da emotrasfusione infetta. La Cassazione ha ritenuto che tale rivalutazione non fosse possibile perché la legge non prevede un meccanismo di rivalutazione per tale assegno una tantum e quindi esso non può essere istituito dall'interprete, in considerazione del fatto che si tratta di norma incidente sulla spesa pubblica ed a necessaria copertura finanziaria, cosicché vale il brocardo secondo cui il legislatore ubi lex voluit, ibi dixit.

[12] Cfr. in questo senso già N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino, Istituto giuridico della regia Università, 1938, 103; N. Lipari, Le fonti del diritto, Milano, Giuffré, 2008, 216. Cfr. in giurisprudenza, tra le tante, Cass. 10 maggio 2023, n. 12649, nella quale era in discussione il diritto di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro a non prestare lavoro notturno sino a quando avrà a suo carico il genitore disabile ai sensi della legge n. 104 del 1992. Nell’ambito delle limitazioni al lavoro notturno previste per particolari esigenze familiari e assistenziali, il D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 11, comma 2, lett. c), prevede che non è obbligato a prestare lavoro notturno il lavoratore che abbia a proprio carico un soggetto disabile ai sensi della legge n. 104 del 1992. Secondo la Cassazione, essendo sufficiente, sulla base del solo dato testuale, la condizione di disabilità al fine di fruire del beneficio in parola, la necessità che, invece, il disabile sia stato riconosciuto come in situazione di gravità non può trarre decisivo argomento dalla circostanza che la disposizione preveda che il disabile sia "a carico" del lavoratore, perché l'essere "a carico" nulla di dirimente lascia inferire sul grado di invalidità di cui debba essere affetto la persona con handicap, più o meno grave, ma indica una relazione di assistenza che deve evidentemente sussistere tra lavoratore e disabile; infatti, non può certo negarsi che si possa avere cura e fare carico di una persona che presenti una minorazione che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione, anche quando la stessa non renda necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione. Conclude la Cassazione che a conferma dell'esegesi qui condivisa soccorre il tradizionale canone ermeneutico secondo cui «ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit»: infatti, laddove il legislatore ha inteso subordinare la concessione di un beneficio alla circostanza che sussistesse una situazione di handicap con connotato di gravità, lo ha esplicitamente richiesto, come nel caso dei permessi giornalieri e mensili ovvero dei limiti al trasferimento (cfr. legge n. 104 del 1992, art. 33).

[13] Cfr. così F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2024, 21° ed., 51.

[14] Cfr. ad esempio Cass., 6 luglio 2002, n. 9852: nella specie, il ricorrente aveva dedotto la violazione dell'art. 12 delle preleggi, sostenendo l'esistenza di una lacuna normativa in materia di diritto del lavoratore, dipendente da impresa in liquidazione, a conservare la sede di lavoro, ed aveva invocato l'applicazione analogica dell'art. 2103 c.c., ma la Cassazione ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso il diritto del lavoratore, già dipendente da una impresa di assicurazioni posta in liquidazione coatta amministrativa e poi assunto dalla impresa cessionaria del portafoglio di quest'ultima, a conservare la precedente sede di lavoro, precisando che in tale materia non sussiste alcuna lacuna normativa ma solo il difetto della tutela invocata dal lavoratore; analogamente Cass., 8 maggio 1991, n. 5085, Inform. prev., 1991, 968, secondo cui l’ingiustificata assenza del lavoratore, per la quale l’art. 5 della legge n. 638 del 1983 prevede la decadenza del lavoratore medesimo dal diritto al trattamento economico di malattia (in misura intera per i primi dieci giorni e in misura della metà per l'ulteriore periodo successivo ai primi dieci giorni), riguarda esclusivamente la visita domiciliare, non essendo necessario per l'operatività della sanzione che l'assenza si estenda alla successiva visita ambulatoriale, tenuto conto della finalità della norma (limitazione dell'assenteismo) e del principio ermeneutico secondo cui «ubi lex voluit dixit».

[15] Cass., 13 agosto 2008, n. 21563.

[16] A conclusione di questo ragionamento la Corte di Cassazione afferma il seguente principio di diritto: «I poteri di rappresentanza dell'amministratore di società di capitale cessano per effetto di un valido atto di rinuncia, senza che si renda a tal fine necessaria, salvo specifico patto, la sussistenza di una giusta causa o l'accettazione di quell'atto da parte dei soci».

[17] Avviene la stessa cosa anche in Cass., 16 luglio 1984, n. 4149, in Giust. civ., 1984, I, 1742, sentenza secondo la quale i soggetti destinatari di un certo sgravio contributivo vanno determinati alla stregua della lettera («ubi lex non distinguit nec nos distinguere debemus») e della ratio (incentivazione di nuovi investimenti nel Mezzogiorno) della legge.

[18] Il concetto della tutela dei terzi quale limite all’analogia è presente anche in una sentenza della Cassazione (Cass. 7 agosto 2023, n. 23989), laddove, a proposito del riconoscimento del diritto di prelazione al coltivatore diretto sempre allorché eserciti la sua attività in forma individuale mentre in forma associata solo laddove vi fosse adeguata pubblicità nel registro delle imprese che almeno la metà dei soci rivestissero tale qualifica, si afferma che il legislatore ha inteso coniugare il riconoscimento dello sviluppo della forma societaria in agricoltura con la tutela del terzo acquirente, estendendo sì alla società agricola il diritto di riscatto spettante ai coltivatori diretti del fondo confinante, ma alla condizione che almeno la metà dei soci siano coltivatori diretti e che tale qualifica, proprio a tutela del terzo acquirente, risulti dall'iscrizione nella sezione speciale del registro delle imprese di cui all'art. 2188 c.c. Al riguardo si cita il principio «ubi lex voluit ibi dixit» ritenendosi che interpretazione non può ritenersi foriera di disparità di trattamento tra il coltivatore diretto laddove eserciti la sua attività quale singolo e laddove invece la eserciti all'interno di una società di persone di cui faccia parte quale socio atteso che il differente trattamento è determinato proprio dall'esercizio in forma societaria dell'attività di coltivatore diretto, che, come tale, impone, a tutela del terzo acquirente e della libera circolazione dei beni, una più immediata e certa conoscenza dell'eventuale qualifica di coltivatore diretto dei soci e, conseguentemente, del diritto di riscatto in capo alla società.

[19] Cfr. peraltro A. Ricci, Il criterio della ragionevolezza nel diritto privato, Padova, Cedam, 2007, 88, che afferma l’ambiguità semantica e ontologica di tale concetto.

[20] Cfr. F. Galgano, La forza del numero e la legge della ragione, Bologna, Il Mulino, 2008, 398.

[21] Cfr. Cass. 4 marzo 2022, n. 7187, secondo cui va evidenziata la intrinseca contraddittorietà del percorso motivazionale seguito dalla Corte d'appello, laddove essa ha erroneamente qualificato il contratto inter partes quale somministrazione, anziché vendita, finendo però poi per valutare la gravità dell'inadempimento col parametro dell'art. 1455 c.c., anziché sotto il profilo dell'importanza dell'inadempimento e della sua incidenza sul futuro assetto del contratto di cui all'art. 1564 c.c., unica norma a tal punto applicabile in deroga proprio all'art. 1455 c.c.; analogamente Cass. 6 luglio 2009, n. 15796, secondo cui se in un contratto di somministrazione la domanda è di risoluzione, si applica la norma di cui all'art. 1564 c.c. - secondo la quale l'inadempimento deve avere una notevole importanza e deve essere tale da menomare la fiducia nei successivi adempimenti - in deroga all'art. 1455 c.c.

[22] Cfr. in questo senso Cass. n. 13533 del 15 ottobre 2000, Cass. 17 marzo 1998, n. 2842 e Cass. 21 luglio 1969 n. 2717.

[23] Cfr. Cass., 9 aprile 1963, n. 905, secondo cui l’art. 1564 invece che alternare rende più onerose rispetto a quella generale dell'art. 1453 in relazione al 1455 le condizioni di esperibilità dell’azione di risoluzione”; in questo senso anche O. Cagnasso, Eccezioni dilatorie e risoluzione per inadempimento nel contratto di somministrazione, Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 419; G. Ferrando, Vizi della cosa, importanza dell'inadempimento e criteri obiettivi di valutazione, Temi, 1975, 38; V. Ricciuto, Il recente orientamento della Cassazione sui criteri di valutazione dell'importanza dell'inadempimento, Riv. dir. comm., 1987, II, 454.

[24] Secondo Giannattasio la fiducia consiste per il somministrato nel poter contare sulla regolarità e continuità delle prestazioni, e per il somministrante nell'adempimento della controprestazione, «sì che entrambi possano sicuramente confidare che il rapporto continui a svolgersi». Pertanto, per quanto riguarda la menomazione della fiducia, "non si tratta di una obiettiva impossibilità delle prestazioni, perchè in astratto è possibile un preciso adempimento delle future scadenze, ma quello che induce a risolvere l'intero rapporto è l'insicurezza che sorge in ordine all'adempimento delle prestazioni ancora da scadere" (cfr. C. Giannattasio, La somministrazione, in Tratt. dir civ. a cura di A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1974, 218). Nello stesso senso Corrado: «quando il debitore si renda inadempiente in maniera da far sorgere la fondata convinzione che le inadempienze si ripeteranno nel futuro, si verificano i presupposti dell'azione risolutiva del contratto» (cfr. R. Corrado, La somministrazione, Tratt. dir. civ. it. diretto da F. Vassalli, Torino, 1952, 68). Cfr. anche Cass., 27 dicembre 1948, Giur. compl. Cass. civ., 1948, III, n. 1924, 813, con nota di A. De Martini, Scarsa importanza dell'inadempimento, rifiuto di pagamento parziale e preclusione dell'inadempimento tardivo; P. Boero, La somministrazione, Tratt. dir. comm. dir. pubbl. econ., XVI, Padova, 1991, 333-334. Può ben essere ipotizzabile un inadempimento di notevole importanza tale da non determinare il venire meno della fiducia nella correttezza dei futuri adempimenti: è il caso, ad esempio, di colui che si rifiuta di pagare un ingente quantitativo di denaro ritenendo, a torto, non dovuto il pagamento, pur essendo perfettamente solvibile e disposto a pagare le successive forniture.

[25] Cfr. V. Italia, Considerazioni sulle norme eccezionali e sulla loro interpretazione estensiva, in Foro amm., 2012, 2637. Secondo questo Autore il problema dell'interpretazione delle leggi eccezionali non è nuovo  e si è ripresentato in alcune decisioni della giurisprudenza amministrativa. Da un lato, una decisione del Tar Lazio (Sez. I, del 24 dicembre 2011, n. 10184) ha ritenuto che, se la norma è eccezionale non può «formare oggetto di letture estensive e/o variamente espansive». L'interpretazione di queste norme eccezionali «doveva essere basata sulla lettera, tassatività, e rigidità», e queste norme non potevano perciò essere interpretate estensivamente. Dall'altro lato, il Consiglio di Stato (Sez. IV, nn. 5799 e 5939 del 2011) ha stabilito che le norme eccezionali non possono essere interpretate analogicamente, ma potrebbero essere interpretate estensivamente, perché «nel caso dell'interpretazione estensiva si estende il significato di un termine o di una locuzione oltre il suo significato letterale più immediato, al fine da ricavare dalla disposizione il contenuto normativo genuino che in essa è presente». Si è altresì precisato che: il carattere eccezionale non è tale « da impedire che l'interprete ricerchi il più genuino e congruo significato normativo scaturente dalla disposizione anche attraverso il significato proprio le parole secondo la connessione di esse e l'intenzione del legislatore ». Ci si trova di fronte a due valutazioni giurisprudenziali opposte. Il Tar Lazio ritiene che le norme eccezionali non possano essere interpretate estensivamente, mentre il Consiglio di Stato ritiene ciò possibile.

[26] Cass. pen., sez. 4, n. 27539, udienza del 30 gennaio 2019, deposito del 20 giugno 2019.

[27] Secondo tale sentenza della Consulta l’embrione, quale che ne sia il, più o meno ampio, riconoscibile grado di soggettività correlato alla genesi della vita, non è certamente riducibile a mero materiale biologico e già la sentenza della stessa Corte n. 151 del 2009, del resto, aveva riconosciuto il fondamento costituzionale della tutela dell’embrione, riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.

[28] La sentenza della Consulta ha infatti ritenuto suscettibile di «affievolimento» la tutela del feto in caso di conflitto con altri interessi di pari rilievo costituzionale (come il diritto alla salute della donna) che, in temine di bilanciamento, risultino, in date situazioni, prevalenti.

[29] Cfr. Cass., S.U., 14 febbraio 2019 n. 4135, in Foro it., 2019, I, 1639, secondo cui l’affidamento qualificato in un consolidato indirizzo interpretativo giurisprudenziale, come tale meritevole di tutela, è riconoscibile in presenza di stabili approdi interpretativi della Cassazione, eventualmente a Sezioni Unite, i quali soltanto assumono il valore di “communis opinio” tra gli operatori del diritto, se connotati dai caratteri di costanza e ripetizione, mentre la giurisprudenza di merito non può valere a giustificare il detto affidamento qualificato, atteso che alcune pronunce adottate in sede di merito non sono idonee ad integrare un “diritto vivente”.

[30] Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Giur. comm., 2010, II, 828, con nota critica di L. Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato.

[31] Cass. 19 luglio 2023, n. 21314, secondo cui l’omessa indicazione alle parti di una questione sulla quale si fondi la decisione priva i soggetti processuali del potere di allegazione e di prova sulla questione decisiva, con conseguente nullità della sentenza (cd. "della terza via" o "a sorpresa") per violazione del diritto di difesa tutte le volte in cui chi se ne dolga prospetti, in concreto, le ragioni che avrebbe potuto far valere qualora il contraddittorio sulla predetta questione fosse stato tempestivamente attivato.

[32] Cfr. Cass., S.U., 12 ottobre 2022, n. 29862 (in Giur. it., 2023, 483, con nota adesiva di M. Vanzetti, Le Sezioni Unite ribadiscono l'ammissibilità della domanda autonoma di condanna generica, secondo cui l’interpretazione consolidata di una norma può essere abbandonata solo in presenza di forti ed apprezzabili ragioni giustificative, indotte dal mutare di fenomeni sociali o del contesto normativo, oppure quando l'interpretazione consolidata risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa o dia luogo a risultati disfunzionali, irrazionali o "ingiusti", atteso che l'affidabilità, prevedibilità e uniformità dell'interpretazione delle norme processuali costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di "giustizia" del processo; ne consegue che, ove siano compatibili con la lettera della legge due diverse interpretazioni, è doveroso preferire quella sulla cui base si sia formata una sufficiente stabilità di applicazione nella giurisprudenza della Corte di cassazione.

 

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