C’è un fantasma che agita il mondo delle misure di prevenzione che si chiama sentenza De Tomaso?
E c’è un silenzio del legislatore che nella recentissima novella in materia di misure prevenzione (L. n. 161/17) che ha equiparato gli associati a delinquere in materia di reati contro la P.A. ai partecipi dell’associazione mafiosa non si è in alcun modo preoccupato dell’oggettivo vulnus che la sentenza EDU Grande Camera, del 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia, ha inferto alle misure di prevenzione con particolare riferimento ai casi di pericolosità generica.
Ed infatti il legislatore italiano ha modificato molte norme nel corpus del Testo unico di prevenzione ma non ha ritenuto di fornire alcuna risposta concreta con un intervento legislativo ad hoc alla falla che si è oggettivamente aperta nel sistema in esito alla citata pronuncia della Corte Edu, falla sulla quale è intervenuta la giurisprudenza interna con sentenze “riparatrici” ma sulla quale pende una questione di legittimità costituzionale.
In questa delicata materia è poi intervenuta La Corte di Cassazione nella sua più autorevole composizione, le Sezioni Unite, che con una recentissima sentenza (27/4/2017 n. 40076/Paternò) ha di fatto operato una vera e propria “abolitio criminis” sul solco della De Tommaso ma senza sfiorare il vero punto della questione e cioè: esiste ancora una pericolosità generica?
A questa domanda cercheremo di rispondere.
A nessuno sfugge che la pronuncia della Grande Camera che ha “in nuce” il rischio di vulnerare o comunque compromettere il sistema di prevenzione quanto meno con riguardo a tutti i casi di pericolosità generica.
A tutti è parimenti evidente come la pronuncia in questione abbia innescato una sorta di “empasse” ai massimi livelli giurisdizionali creando un intreccio raffinato e per certi versi “perverso” tra le Sezioni Unite della Cassazione e la Corte Costituzionale presso la quale pende una questione di legittimità costituzionale che è proprio diretta emanazione della pronuncia Della Grande Camera.
La stessa giurisprudenza di merito ha manifestato opinioni difformi.
Il Tribunale di Palermo (decreto 28.3.2017) e il Tribunale di Milano (decreto 7.3.2017), sezione misure di prevenzione hanno ritenuto la questione di legittimità costituzionale innescata dalla sentenza EDU non fondata basandosi sul molteplici valutazioni tra le quali le più rilevanti sarebbero la circostanza che si tratterebbe di una sentenza “isolata” e comunque assunta con l’articolato “dissenso” di alcuni alcuni giudici sovranazionali e, come tale, inidonea a far parte di un diritto consolidato.
La Corte d’Appello di Napoli e il Tribunale di Udine hanno invece ritenuto la questione assolutamente fondata e hanno rimesso rimettendo gli atti al giudice costituzionale (cfr. ordinanze Tribunale Udine 4.4.2017 e Corte d'Appello Napoli 14.3.2017).
In particolare proprio sulla base di una valutazione ad ampio spettro della sentenza De Tommaso (che è stata ritenuta pacificamente operativa nel diritto interno) sono state sollevate questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, 3 e 5 legge 1423/1956 nonchè degli artt. 1, 4 co. 1 lett. c), 6 e 8 D.L.vo 159/2011 per contrasto con l'art. 177 co. 1 Cost. in relazione alla violazione dell'art. 2 Protocollo 4 addizionale della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà Fondamentali.
Vanno ora brevemente esaminati gli argomenti di “conflitto” e di crisi innescati dalla sentenza De Tommaso:
1) Secondo la Corte EDU una legge può ritenersi prevedibile solo se è formulata in maniera sufficientemente precisa e comunque tale da permettere al cittadino di regolare la sua condotta e di consentirgli di prevedere ragionevolmente le conseguenze che possono derivare da un determinato atto o condotta;
2) con riferimento alla legge 1423/1956, la stessa Corte EDU ha stabilito che le misure di prevenzione hanno certamente una base legale nel diritto interno e che la legge stessa è accessibile ma non prevede in maniera adeguatamente chiara e dettagliata quali siano le condotte da considerare socialmente pericolosi;
3) la Corte EDU ha precisato che la legge in questione non ha definito con chiarezza l'estensione dell’amplissimo potere discrezionale attribuito ai giudici interni e che non è formulata in modo tale da garantire una protezione contro le ingerenze arbitrarie e da permettere ai cittadini di parametrare le loro condotte e comunque le loro azioni;
4) la corte EDU ha ritenuto che non è prevista con un sufficiente grado di certezza l'applicazione delle misure di prevenzione non solo dall’abrogata legge 1423/1956 ma neppure dal DPR 159/2011 che ha lasciato invariata la categoria dei destinatari delle misure di prevenzione.
La pendenza del giudizio avanti alla Corte Costituzionale ha certamente aperto un fronte assai delicato ed è più che concreto il rischio di una pronuncia che potrebbe avere effetti significativi su un sistema, quale quello delle misure di prevenzione, che la EDU stessa peraltro aveva ritenuto immune da censure in numerose altre pronunce e, peraltro, anche nel corpus della stessa De Tomaso.
Dobbiamo comunque partire da un punto di vista ineludibile e cioè che la Corte Edu ha dichiarato la contrarietà alla Convenzione europea delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “di rispettare le leggi” per la loro obbiettiva ed estrema genericità e la discrezionalità che lascia ai Tribunali e che, come si è già anticipato, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha recepito il contenuto motivazionale della sentenza De Tommaso (si cfr Cass., Sez. Un. Pen., sent. 27 aprile 2017 depositata il 5 settembre 2017 n. 40076, Ric. Paternò già citata).
La Suprema Corte ha esaminato in chiave critica il sistema delle misure di prevenzione proprio alla luce dei principi espressi dalla Corte EDU con la sentenza De Tommaso\Italia, avuto riguardo alla la norma incriminatrice di cui all'art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011 (che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell'art. 8 del d.lgs. cit) e ha affermato che il precetto non comprende la violazione dell'obbligo di rispettare le leggi e di vivere onestamente, precetti che erano esattamente quelli oggetto delle valutazioni “negative” della Corte EDU.
Si può quindi affermare che la decisione delle Sezioni Unite Paternò è figlia legittima della sentenza della Corte EDU che ha ritenuto sussistente la violazione dell'art. 2 del Protocollo n. 4 CEDU per il palese e riscontrato deficit di precisione e, soprattutto, di prevedibilità delle condotte idonee a essere prese in considerazione per la valutazione della pericolosità sociale di un soggetto con riferimento agli obblighi di rispettare le leggi e di vivere onestamente.
Va certamente evidenziato che quanto ritenuto dalla Corte EDU non infrange del tutto lo «statuto» delle misure di prevenzione in quanto è fatta salva, caso per caso, la possibilità di verificare in concreto il rispetto del principio di tassatività e quindi di superare il “vulnus” segnalato.
In ogni caso non si può non evidenziare che, all’interno del sistema delle misure di prevenzione, erano già presenti dei segnali di “allarme” che, a parere di chi scrive, avrebbero dovuto indurre il legislatore ad intervenire proprio sul profilo specifico della pericolosità generica che era a rischio di illegittimità costituzionale per i difetti di prevedibilità e di tassatività e per eccesso di discrezionalità, come già evidenziato.
Eppure nonostante ciò quello stesso legislatore che stava intervenendo assai di recente proprio in questa specifica materia con la L. n. 161 del 17.10.2017 è rimasto inerte.
Non così inerte è stata invece la giurisprudenza che, con un’ “iperattività” molto benefica, ha costruito un sistema di pronunce che, ad avviso di scrive, è forse idoneo a curare la ferita EDU evitando una pronuncia di illegittimità costituzionale che avrebbe significativi nel settore della pericolosità generica con possibili ripercussioni anche in quelli patrimoniali connessi a tale pericolosità.
Si può ritenere in prima battuta che, in conformità a quanto già affermato in precedenti provvedimenti giurisprudenziali, la strada di adire la Corte Costituzionale non deve ritenersi obbligata essendo certamente possibile procedere anche alla luce di quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale (si cfr sent. N. 49/2015), a un’interpretazione del diritto interno convenzionalmente e dunque costituzionalmente conforme al dettato dell'art. 2 Protocollo 4 addizionale della Convenzione.
È quindi sostenibile che una corretta interpretazione delle norme vigenti può elidere le critiche di genericità e indeterminatezza ed evitare una pronuncia di incostituzionalità.
Questa è infatti la strada correttamente intrapresa non solo da buona parte della giurisprudenza di merito con riferimento agli effetti della De Tomaso sui profili di pericolosità generica (si cfr Corte d’Appello di Torino n. 10/17 Marinkovic e n. 25/17 Sussetto) ma anche dalla stessa Corte di Cassazione (si cfr Sez I n. 31209/15 Scagliarini, antecedente la stessa De Tommaso e soprattutto la fondamentale sentenza della Cassazione sez I n. 51469/17 Bosco nonché la n. 53003/17 della Cassazione Sez VI - d’Alessandro depositata il 22.11.2017 che si pone sullo stesso solco della pronuncia Bosco.
Va detto che la stessa sentenza De Tommaso contro Italia, dopo aver affermato che una norma è "prevedibile" allorché offre una certa garanzia contro le ingerenze arbitrarie del potere pubblico, ha ulteriormente precisato che una legge che attribuisce al giudice un potere discrezionale deve fissarne la portata anche nel caso in cui le norme e le procedure da osservare non necessariamente appaiano in modo specifico nella legislazione stessa.
Quanto affermato implica come testualmente affermato dalla già citata sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 25/17 Sussetto che: “le condizioni che costituiscono il presupposto per l'applicazione delle misure di prevenzione ben possono essere fissate anche in via interpretativa dal supremo organo di nomofilachia nazionale: conclusione che del resto si trova esplicitata nella stessa decisione De Tommaso contro Italia, nella parte in cui passa in rassegna l'insegnamento della Corte di Cassazione in materia prevenzionale (par. C parte III "Le droit et la pratique internes pertinents"). Tuttavia, detta rassegna, costituita da due pronunce, si ferma all'anno 2014; non viene quindi tenuto in considerazione l'arresto della S.C., I sezione penale, n. 31209 del 24.3.2015, Scagliarini, in cui, con specifico riferimento al tema della pericolosità "generica", la Corte ha dettato un vero e proprio "statuto" del soggetto destinatario di misure di prevenzione in quanto socialmente pericoloso ex art. 1 co. 1 lett. b) D.L.vo 159/2011, (ossia che "vive abitualmente, anche in parte, dei proventi di attività delittuose")”.
In particolare l’appena citata sentenza Scagliarini precisa che, se giurisdizione in materia penale significa applicazione della legge mediante l'accertamento dei presupposti di fatto per la sua applicazione attraverso un procedimento che abbia le necessarie garanzie, tra l'altro di serietà probatoria, è dato inoppugnabile come anche nel procedimento di prevenzione la prognosi di pericolosità debba essere basata e oggetto di valutazione ponendo attenzione ai presupposti fattuali previsti dalla legge e oggetto dell’accertamento giudiziale.
Secondo la S.C. quindi l’eventuale valutazione di un soggetto nella categoria di cui all'art. 1 co. 1 lett. b) D. L.vo 159/2011 (pericolosità generica) deve essere operata sulla base di idonei e inoppugnabili elementi di fatto e di alcuni concreti e ineludibili presupposti :
a) la realizzazione di attività delittuose che non possano definirsi episodiche;
b) che le stesse caratterizzino un non risibile bensì significativo intervallo temporale della vita del proposto;
c) che la commissione di attività delittuose abbiano comportato la produzione in capo all’autore di redditi illeciti;
d) la destinazione, quantomeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.
Lo stile di vita del proposto deve deporre nel senso di un’assorbente propensione al crimine i cui proventi siano idonei a dar sostentamento significativo al proposto stesso e ai suoi eventuali familiari.
L'attività illecita quindi deve caratterizzarsi in termini di delitto ricorrente e produttivo di reddito e può essere desunta sia da un correlato procedimento penale sia ricostruita in via autonoma nella specifica sede di prevenzione.
Recentemente la S.C. si è ulteriormente pronunciata in subiecta materia (si cfr Cass n. 36258 del 14.06.2017 - Celini) applicando i principi fatti propri dalla citata sentenza Scagliarini, affermando che: “trattandosi, infatti, di applicare in via giurisdizionale misure tese a delimitare la fruibilità di diritti della persona costituzionalmente garantiti, o ad incidere pesantemente e in via definitiva sul diritto di proprietà, [...] il che impone di ritenere applicabile il generale principio di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti presi in considerazione come "fonte giustificatrice" di dette limitazioni. Da ciò deriva la considerazione della ineliminabile componente "ricostruttiva" del giudizio di prevenzione, tesa a rappresentare l'apprezzamento di "fatti" idonei (o meno) a garantire l'iscrizione del soggetto proposto in una delle categorie tipizzate di cui sopra. Il soggetto coinvolto in un procedimento di prevenzione, in altre parole, non viene ritenuto "colpevole" o "non colpevole" in ordine alla realizzazione di un fatto specifico, ma viene ritenuto "pericoloso" o "non pericoloso" in rapporto al suo precedente agire (per come ricostruito attraverso le diverse fonti di conoscenza) elevato ad 'indice rivelatore' della possibilità di compiere future condotte perturbatrici dell'ordine sociale costituzionale o dell'ordine economico e ciò in rapporto all'esistenza delle citate disposizioni di legge che 'qualificano' le diverse categorie di pericolosità...".
Si può quindi affermare che le condotte di reato poste in essere sono alla base della valutazione di pericolosità sociale in quanto rientrano senza alcun dubbio nella selezione normativa delle tipologie astratte di pericolosità generica.
È pacifico comunque che il giudice della prevenzione ha la facoltà di valutare le predette condotte (già giudicate o sub iudice) in via autonoma e con le finalità ben diverse e specifiche del giudizio di prevenzione che, come a tutti è noto, è del tutto svincolato dall’irrogazione di una sanzione penale e quindi di una pena detentiva vera e propria.
Sarà quindi il giudice della prevenzione a selezionare e valutare i fatti posti a base del giudizio di pericolosità sociale utilizzando a tale scopo le pronunce penali che hanno affermato in via definitiva la responsabilità penale per la commissione di delitti o le pronunce che evidenzino comunque la sussistenza di un rilevante e grave quadro indiziario a carico del proposto.
Utilizzando tale approdo interpretativo la giurisprudenza nazionale ha superato i profili di criticità evidenziati dalla Corte EDU affermando che le previsioni di cui alla legge 159/2011 -avuto riguardo ai destinatari delle misure di prevenzione sul presupposto della ricorrenza di una forma di pericolosità generica ex art. 1 co. 1 lett. b) D.L.vo 159/2011 non possono – in presenza dei presupposti come sopra indicati- ritenersi “ex se” vaghe, generiche e indeterminate.
Vanno invece ritenute precise e specifiche e comunque non vulnerate da profili di vaghezza o genericità in quanto è assoggettabile a misura di prevenzione esclusivamente chi abbia perpetrato con condotte non episodiche e per un significativo lasso di tempo attività delittuose o comunque criminali potenzialmente produttive di redditi illeciti anche in parte destinati al suo sostentamento o del proprio nucleo familiare.
Per quanto appena affermato è evidente che non può essere attribuito alcun rilievo ai meri sospetti, alle congetture, ai labili indizi, alle vaghe tendenze delinquenziali o comunque a qualsiasi tipo di condotte genericamente illecite ma comunque non connotate nei modi come sopra specificati.
Si può agevolmente notare che il potere discrezionale del giudice nell'individuazione dei destinatari di tali misure è chiaramente vincolato da precisi parametri e ogni sua valutazione deve farsi carico di esaminare con la dovuta cautela tutti i dati probatori e fattuali appena indicati.
Secondo questa giurisprudenza, facendo buon uso di tali strumenti ermeneutici, sono superabili i rilievi critici sollevati dalla Corte EDU con la conseguenza logica che qualunque persona può aver modo di regolare ex ante la propria condotta astenendosi dal commettere abitualmente delitti produttivi di reddito e –soprattutto- evitare di sostentarsi coi relativi proventi illeciti.
Esemplare nell’ottica appena evidenziata di curare le “ferite” inferte al sistema e operando sul solco già tracciato dalle pronunce appena citate si è inserita la recentissima sentenza della Cassazione Sez. I, 10 novembre 2017, n. 51469, Bosco, che ha elaborato con grande chiarezza e riflettuto con pari lucidità sulle categorie normative di cui all’art. 1 l. a) e b) D.lgs. 159/2011.
Questa pronuncia è stata in grado di creare una vera e propria tipizzazione delle fattispecie di pericolosità generica, sovrapponendo al vulnus EDU un’articolata e del tutto condivisibile tassonomia.
Pare opportuno riportare integralmente il contenuto della sentenza : Nel prosieguo sarà analizzata la categoria di cui all'art. 1, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159\2011, caratterizzata dall'abituale dedizione a traffici delittuosi. Il termine «traffici delittuosi» utilizzato dal legislatore per designare la categoria di persone a essi abitualmente dedite e, perciò, passibili di misure di prevenzione, non va interpretato in senso affaristico e mercantile, poiché esso designa, in adesione al significato comune delle parole impiegate e coerentemente alla finalità di prevenzione perseguita dalla disposizione in esame nei confronti delle persone pericolose, qualsiasi attività delittuosa che comporti illeciti arricchimenti anche senza il ricorso a mezzi negoziali o fraudolenti (Sez. 1, Sentenza n. 19995 del 30/01/2013, Masotina, Rv. 256160) In questo senso, quindi, rientrano nella categoria in discorso, non solo tutte quelle condotte delittuose caratterizzate da una tipica attività «trafficante» (esemplificativamente: artt. 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, cod. pen.; artt. 3 e segg., I. n. 75 del 1958; artt.73 e 74, d.P.R. n. 309 del 1990), ma anche tutte quelle che sono caratterizzate dalla finalità patrimoniale o di profitto e che si caratterizzano per la spoliazione (artt. 314, 317, 624, 643, 646, 628, 629 cod. pen.), l'approfittamento e in genere per l'alterazione di un meccanismo negoziale o dei rapporti economici, sociali o civili (esemplificativamente: artt. 316-bis, 318, 640, 640-bis, 644, cod. peri.). Nel prosieguo sarà analizzata la categoria di cui all'art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159\2011, caratterizzata dal vivere abitualmente, anche in parte, dei proventi di attività delittuose. Tale inquadramento, da operarsi sulla base di idonei elementi di fatto (ivi compreso il riferimento alla condotta e al tenore di vita) presuppone come realizzate con esito positivo, quanto alla parte constatativa del giudizio, le seguenti verifiche: la realizzazione di attività delittuose (trattasi di termine inequivoco) non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto; la realizzazione di attività delittuose che oltre ad avere la caratteristica che precede siano produttive di reddito illecito (il provento); la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare. L'attività delittuosa deve pertanto caratterizzarsi in termini di delitto ricorrente e produttivo di reddito, non essendo sufficiente la realizzazione sporadica di un qualsiasi illecito a carattere patrimoniale. Si consideri, ancora, che il nesso derivativo tra delitto e reddito deve essere individuato sulla base delle risultanze di un procedimento penale o deve essere ricostruito in via autonoma in sede di prevenzione. In tale ultimo caso, se è vero che l'autonomia del procedimento di
prevenzione - rispetto a quello penale - consente in termini generali la valutazione del fatto comunque accertato, quale eventuale sintomo di pericolosità, è pur vero che tale affermazione esige da un lato l'effettività dell'autonoma valutazione (si veda sul tema Sez. 1 n. 7585 del 22/01/2014, Bonavota, Rv 259672), ma soprattutto va rapportata alla tipologia di pericolosità. Deve essere considerato, in merito al principio della autonoma valutazione (di fatti accertati o comunque desumibili da decisioni di assoluzione emesse in sede penale) che esso è stato affermato, quasi in via esclusiva, nel settore della contiguità mafiosa e in riferimento a una categoria di pericolosità (il soggetto indiziato di appartenenza all'organismo mafioso, a norma dell'art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 159 del 2011) che implica, per la natura del delitto di cui all'art. 416 bis, la possibilità di diversi apprezzamenti delle medesime circostanze di fatto (le frequentazioni stabili con il soggetto mafioso, per esempio, potrebbero costituire un indice rivelatore di contiguità rilevante in sede di prevenzione, pur se ritenute insufficienti a fondare una affermazione di penale responsabilità). Nel settore della pericolosità semplice di cui all'art. 1 D.Lgs. n. 159 del 2011, in particolare per quanto riguarda l'ipotesi della lettera b), molto minore, per non dire assente, è la possibilità di porre in essere una simile operazione. La norma di riferimento impone di constatare la ricorrente commissione di un delitto (attività delittuose) produttivo di reddito. Se la realizzazione del delitto è esclusa in sede penale manca uno dei presupposti su cui lo stesso legislatore articola la costruzione della fattispecie. L'unica ipotesi di possibile valutazione autonoma dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo a sentenza di condanna, al fine dell'inquadramento del soggetto proposto nella categoria di cui all'art. 1 D.Lgs. n. 159 del 2011, riguarda le ipotesi di proscioglimento per intervenuta prescrizione (limite esterno alla punibilità del fatto) laddove il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza nella decisione di proscioglimento o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti (Sez. 1, Sentenza n. 31209 del 24/03/2015, Scagliarini, Rv. 264320).
I capisaldi interpretativi di questa pronuncia sono i seguenti:
-l’interpretazione evolutiva del termine “traffici delittuosi” che viene inteso come attività delittuosa da cui si consegua a qualunque titolo –e non necessariamente facendo ricorso a mezzi negoziali, fraudolenti o comunque “mercantili” –un illecito arricchimento;
-l’indicazione di specifiche categorie di delitti tra i quali :
1) quelli che hanno natura seriale e attengono comunque a un “traffico” vero e proprio come i reati in materia di prostituzione, pornografia minorile e il suo sfruttamento latu sensu ovvero lo sfruttamento della prostituzione tout court, le associazioni e comunque lo spaccio di stupefacenti.
È evidente come siffatte delittuose sono potenzialmente idonee a garantire ingenti e illeciti arricchimenti sia per la natura delle prestazioni illecite, sia per l’indubbia connotazione di abitualità che connota tutte le fattispecie predette che sono davvero indicative di uno stile di vita e di produzione reddituale criminogena;
2) quelli che si caratterizzano per la loro finalità patrimoniale, di profitto, di spoliazione e quindi quelli che hanno “ictu oculi” natura predatoria. Tra le fattispecie di reato si segnalano le fattispecie delittuose contro la P.A. (peculato, concussione), i furti, le rapine, le circonvenzioni d’incapace, le appropriazioni indebite, le ricettazioni. La corte omette l’indicazione del reato di riciclaggio (art. 648 bis cp) che peraltro deve ritenersi far parte del ventaglio di fattispecie predatorie appena indicate. L’elenco delle fattispecie operate dalla S.C. deve ritenersi infatti non esaustiva ma indicativo di particolare tipologie di condotte che si ritengono consone ai profili di pericolosità già indicati.
3) quelli che si caratterizzano come significativi di un approfittamento o comunque indicativi di alterazione di qualsiasi meccanismo negoziale o comunque socio-economico o civile quali la truffa, la truffa aggravata, la malversazione e l’usura.
Tutte le fattispecie indicate dalla S.C denotano in capo agli autori un coefficiente altissimo di pericolosità sociale (generica) connessa a elevate potenzialità di illecito arricchimento.
Condotte siffatte non possono non essere attratte nell’orbita delle misure di prevenzione.
Ma la Corte non si accontenta di indicare in via esemplificativa il “ventaglio” dei delitti “social-preventivi” ma ha modo di precisare anche quali connotati dovrà assumere la pericolosità generica per poter rilevare ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione e non finire nel mare dell’indeterminatezza stigmatizzata dalla De Tommaso.
Per la Cassazione si è pericolosi ex art. 1 comma 1 lettera b DL 151/2011 se :
-si pongono in essere attività delittuose nell’ambito del ventaglio di fattispecie appena indicate in modo non episodico ma cronologicamente apprezzabile.
Una sorta di “iter esistenziale” non avente chiaramente le caratteristiche di cui all’art. 4 lett a) legge citata ma che comunque connoti in modo significativo lo stile di vita del soggetto che quindi si deve caratterizzare quale individuo che abbia consapevolemente scelto il crimine come pratica comune di vita per periodi adeguati o comunque significativi;
-Tali attività delittuose devono consentire una produzione di reddito illecito idoneo anche parzialmente a sostentare il proposto ed eventualmente anche il suo nucleo familiare ove esistente.
Occorre quindi una continuità nell’illecito e nel reddito prodotto con espulsione dal novero delle valutazioni rilevanti ai fini della pericolosità generica di tutto ciò che assuma le caratteristiche di sporadicità e occasionalità.
La S.C. precisa anche una sorta di nesso di causa tra delitto commesso e reddito illecitamente ricavato affermando che deve tali profili devono desumersi da dati inequivoci quali:
-le risultanze di un procedimento penale (e quindi certamente, a parere di chi scrive, sentenze di condanna, richieste di rinvio a giudizio e relativi decreti, decreti penali, ordinanze di misura cautelare, decreti di sequestro, esiti di intercettazioni telefoniche).
-la ricostruzione operata in via autonoma nel procedimento di prevenzione.
In tale ultimo caso peraltro la sentenza opera una rigorosa distinzione tra i profili di pericolosità qualificata (con particolare riferimento agli indiziati di mafia) e quelli di pericolosità generica che certamente mal si conciliano con una eventuale esclusione di responsabilità da delitto nel procedimento penale di riferimento.
È indubbio che una valutazione di pericolosità specifica (a maggior ragione nel caso di fatti associativi ex art. 416 bis) consente al giudice un ambito di valutazione dell’iter esistenziale del soggetto ben più ampio rispetto a quello di un soggetto avente un profilo di pericolosità solo generica.
In questo caso il giudice, infatti, ben potrà attingere da un materiale probatorio più “liquido” e meno “rigido”..
Potrà ad esempio fare riferimento a frequentazioni pregresse, a rapporti personali o imprenditoriali o politici poco chiari partendo dal presupposto -solo apparentemente ovvio- che qualunque affiliato ben difficilmente entra a far parte della consorteria mafiosa senza essere passato da esperienze di vita strettamente connesse al mondo criminale cui ambisce, esperienze spesso protratte in un tempo ben antecedente alla sua concreta affiliazione nel quale si dovuto guadagnato la fiducia “criminale” di coloro che lo affilieranno in epoca successiva.
Ed infatti come anche una certa tipologia di sentenze di assoluzione assumono profili di rilevanza ai sensi dell’art. 4 lett a D.L. 151/2011 proprio in ragione del fatto che in motivazione possono emergere fatti e circostanze che, sia pur inidonei a raggiungere una gravità indiziaria tale da rendere possibile una condanna penale, connotino come “dedita” al crimine l’esistenza di un soggetto ben inserito comunque in un mondo dal quale trae vantaggi esistenziali ed economici.
Queste stesse sentenze assolutorie invece ben difficilmente potranno rilevare ex art. 1 lett b occorrendo a tali fini delle pronunce di condanna “srticto sensu” che denotino inoltre una ricorrente e comunque significativa commissione da parte del proposto di delitti che siano produttivi di reddito.
Unica eccezione le sentenze di prescrizione ove comunque attestino fatti che abbiano caratteristiche di oggettiva pericolosità sociale ed eventuali provvedimenti di archiviazione o proscioglimento relativi a profili associativi ex art. 416 cp o ex art. 98 cp nel caso di proscioglimenti di minori per immaturità che siano comunque inseriti in contesti criminali di un certo peso (si pensi a fatti associativi posti in essere da soggetti di etnie nomadi).
In conclusione non si può che condividere il contenuto della sentenza Bosco che potrà essere -oltre che un argine ai rischi di incostituzionalità- anche un preciso punto di riferimento per una corretta valutazione delle prognosi di pericolosità generica e un fondamentale strumento tassonomico.
La giurisprudenza ha correttamente “suturato” la ferita aperta dalle De Tommaso, una giurisprudenza che ormai sta assumendo il difficile compito di arginare un sistema sul quale, al di là dei continui interventi legislativi nelle più svariate materie, sventola da tempo “bandiera bianca” e che si basa su interventi correttivi , appunto giurisprudenziali, buone prassi e nel quale impera una forse eccessiva discrezionalità (si pensi alle condotte riparatorie, all’istituto del 131 bis cp ecc ecc).
Il caso trattato è esemplare al riguardo: la Cassazione che opera un’abolitio criminis e che indica i criteri cui far riferimento per definire la pericolosità generica e un legislatore che spesso non interviene malgrado la pronuncia EDU segnalasse l’accensione di una spia rossa nel cuore del sistema social-preventivo.
E si parla di un legislatore che stava contestualmente e sincronicamente innovando proprio la specifica materia delle misure di prevenzione ma che lascia indenne proprio l’art. 1 del DL 159/2011.
Ma c’è di più.
Il legislatore infatti ritiene di non interviene neppure su un’altra norma che rischia i medesimi strali che hanno colpito la pericolosità generica.
Ed infatti l’art. 8 V co. D.lgs. 159/2011 prevede che il Tribunale possa imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, “avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale”.
Se è generica la formula di “vivere onestamente e di rispettare le leggi” è parimenti generica una formulazione assai vaga che consente a un cittadino di subire l’imposizione di prescrizioni funzionali a non meglio precisate esigenze di difesa sociale.
Quali sono e come sono tipizzabili queste esigenze ?
A parere di chi scrive questa norma pare oltremodo generica, un buco nero nel quale può entrare qualsiasi cosa con il rischio concreto che possa essere colpita dalla corte EDU sul solco tracciato dalla sentenza De Tommaso.
Si sta assistendo a una pericolosa “disconnessione” tra produzione giurisprudenziale e legislazione “antimafia”, la prima attenta a modellare gli attuali strumenti normativi rispetto alla liquidità e ampiezza dei fenomeni criminali, la seconda poco attenta a cogliere i moniti giurisprudenziali interni ed internazionali.
Un esempio può servire a spiegare l’assunto.
Il Tribunale di Brescia, con decreto 29 luglio 2016 (inedito) ha applicato a una proposta attinente profili di pericolosità “qualificata” per la sua riconducibilità al terrorismo islamico, oltre alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale, anche le prescrizioni di non adoperare Internet e di non frequentare le moschee in quanto queste due modalità erano gli strumenti di propaganda terroristica utilizzati, in applicazione dell’articolo 8 co. V.
Il Tribunale ha dunque impiegato legittimamente lo strumento giuridico a sua disposizione “calibrandolo” rispetto alle peculiarità del caso di specie.
Eppure sovrapponendo a un caso assai grave e emblematico come quello appena citato la sentenza De Tommaso -la cui ottica è quella di determinare l’illegittimità di formule legislative tanto generiche da consentire l’applicazione di prescrizioni dal contenuto più indeterminato- si rischia davvero di rendere non operative le prescrizioni imposte proprio perché il legislatore non ha ritenuto di dettagliare in modo più compito e comprensibile quelle nebulose esigenze di “natura sociale” di cui all’art. 8 D.L. 151/11.
Compito essenziale del legislatore è quello di fornire all’Autorità giudiziaria adeguati strumenti social preventivi che sfuggano da qualunque accusa di vaghezza prevedendo ad esempio forme tipizzate di prescrizioni che possano essere applicate alle diverse forme di pericolosità.
È indubbio che la sentenza De Tommaso ha posto nel diritto interno delicati profili di costituzionalità all’intero dell’intera categoria della pericolosità generica che è l’architrave della materia.
Non va sottaciuto al riguardo che la pericolosità generica è frequentemente correlata a misure patrimoniali applicate nei confronti di autori di gravissimi fatti predatori commessi in danni soprattutto di anziani.
Si parla di ricettatori seriali, truffatori o comunque soggetti che fanno del crimine la principale forma di sostentamento e arricchimento senza dichiarare o dichiarando redditi risibili o sproporzionati al fisco, spesso condannati o sottoposti a misure cautelari anche per art. 416 cp.
Il rischio di veder caducate queste misure non appare accettabile.
Anche in casi come questi la potenziale illegittimità è conseguenza dall’eccessiva vaghezza della formulazione legislativa, vaghezza che è stata “riempita” di contenuti solo dalla lucida giurisprudenza della Cassazione e in particolare dalla recentissima sentenza Bosco di cui si è diffusamente detto e dalla successiva sentenza D’Alessandro che si muove nell’ambito dello stesso solco.
Il legislatore si è più preoccupato di assimilare il fenomeno corruttivo a quello mafioso con la recente novella n. 161/2017 ma non ha posto rimedio ad una situazione che rischia di avere ricadute pesantissime ove la Corte Costituzionale ritenesse fondata la questione sottoposta al suo vaglio soprattutto avuto riguardo alle misure patrimoniali irrogate a soggetti portatori di pericolosità generica correlata ai gravi fatti predatori appena indicati.
Per prevenire ed evitare questo potenziale “default” sarebbe stata sufficiente la tipizzazione della categoria dei pericolosi “generici” avvalendosi dei preziosi contributo tassonomici provenienti proprio dalla giurisprudenza di legittimità poc’anzi richiamata e in particolare proprio dalla sentenza Bosco.
C’è un ultimo profilo che va certamente evidenziato e che la stessa sentenza Bosco individua chiaramente nei suoi profili di criticità avuto riguardo ai soggetti portatori di pericolosità generica.
Ed infatti - oltre alla tipizzazione delle fattispecie di pericolosità semplice come già evidenziato – non può non ritenersi opportuna se non doverosa l’individuazione per via legislativa delle fonti di prova utilizzabili nell’ambito delle misure di prevenzione senza lasciare alla giurisprudenza quest’arduo compito interpretativo che rende difficile e poco praticabile una doverosa uniformità di fonti o atti utilizzabili.
Una tipizzazione di tal sorta consentirebbe davvero a chiunque di avere adeguata contezza non solo in ordine alla tipologia di condotte astrattamente ricollegabili all’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali ma anche quali siano le fonti di natura probatoria utilizzabili a suo carico in un ipotetico procedimento preventivo.
Se è inaccettabile la disarticolazione delle misure di prevenzione per un rischio di genericità e indeterminatezza o comunque per l’assenza di una sufficiente tipizzazione è allo stesso modo non accettabile che questa -che incide pesantemente sui patrimoni e che può comportare l’apprensione di cespiti, denaro e immobili- sia una sorta di “selvaggio West” nel quale si può attingere a qualsiasi atto.
Non sembri una provocazione ma appaia invece una concreta esigenza l’emanazione da parte di un futuribile legislatore di un nuovo art. 1 Dlgs. 159/2011 che potrebbe così recitare:
Le misure di prevenzione personali si applicano a coloro che siano indiziati della commissione di reiterati delitti contro il patrimonio, contro la pubblica amministrazione, in materia di violazione della normativa sugli stupefacenti, in materia di sfruttamento della prostituzione ed in ogni altro caso di sfruttamento della persona per motivi sessuali, in materia di violazioni societarie e fiscali, in materia di contraffazione dei marchi o comunque commessi con motivi di lucro, sempre che le commissione di tali delitti sia funzionale ad un accrescimento patrimoniale altrimenti non giustificabile.
A tal fine si tiene conto delle sentenze anche non definitive, siano esse di condanna ovvero di assoluzione, dei decreti di archiviazione, dei decreti di sequestro e di confisca, delle ordinanze di misure cautelari, dell’attività di intercettazione telefonica e telematica posta in essere in sede penale, anche laddove proveniente da altri procedimenti, dei decreti di prevenzione anche se non definitivi, nonché degli altri atti di polizia giudiziaria e delle autorità della Pubblica Amministrazione.
Ferma restando l’inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di legge art. 191 cpp, in sede di prevenzione non si applica l’art. 192 cpp II, III e IV co.