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Magistratura Indipendente

PENALE  

LA RESPONSABILITA’ PENALE DEL PRODUTTORE DEI RIFIUTI

  Penale 
 lunedì, 17 luglio 2017

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di SARA FAINA e GIANPAOLO MOCETTI, [1]

 
 

 

Sommario: 1. La responsabilità penale per omissione. 1.1. Essenza e caratteri dell’omissione penalmente rilevante. 1.2. L’obbligo giuridico di attivarsi; i criteri di identificazione della posizione di garanzia. 2. Posizioni di controllo e posizioni di protezione. 2.1. Posizione di garanzia per i reati dei terzi; il concorso omissivo negli altrui reati commissivi. 3. Posizioni di garanzia originarie e derivate; il trasferimento della posizione di garanzia. 3.1. Successione nella posizione di garanzia e delega di funzioni. 4. La disciplina sui rifiuti: gli obblighi giuridici del produttore. 5. La responsabilità penale del produttore dei rifiuti tra principi dell’Unione Europe e principi costituzionali. 6. La posizione di garanzia ed il concorso del produttore: le verifiche sul titolo autorizzativo del cessionario dei rifiuti. 7. La classificazione dei rifiuti. 8. La produzione dei rifiuti nelle attività affidate in appalto. 9. Conclusioni.

 

 

 

1. La responsabilità penale per omissione.

 

Il modello tradizionale di illecito penale è stato concepito dal liberalismo classico come “azione positiva”: l’ordinamento impone al cittadino di astenersi dal violare gli altrui diritti intangibili, senza pretendere che si attivi in favore degli interessi altrui[2]. Storicamente, l’obbligo del cittadino si indirizza esclusivamente all’omissione: egli deve, cioè, omettere delle azioni che, se venissero commesse, lederebbero o porrebbero in pericolo la sicurezza dello Stato o dell’individuo e la cui commissione è, di conseguenza, vietata. L’eccezionalità delle fattispecie omissive negli ordinamenti di impronta liberale risulta confermato dall’analisi del Codice penale italiano del 1889, il quale relega ad un ruolo ridotto e ancillare - per lo più limitato al diritto penale speciale o accessorio – la responsabilità per omissione.

La crisi del tradizionale Stato liberale – che poneva precisi limiti all’intervento statuale nei settori economici – e l’affermarsi di nuovi orientamenti solidaristici portarono, tuttavia, già nel periodo a cavallo tra i due secoli, all’abbandono dell’originaria impostazione di “non ingerenza” dello Stato nell’attività privata dei cittadini e all’introduzione di nuove fattispecie omissive. L’orientamento volto a funzionalizzare la responsabilità omissiva al conseguimento di obiettivi solidaristici trova, quindi, conferma nella normativa penale emanata dal secondo dopoguerra ad oggi, espressione dello sforzo del Legislatore volto a potenziare la tutela di beni superindividuali o collettivi, quali l’economia e le risorse finanziarie pubbliche, l’ambiente, l’assetto urbanistico del territorio. Il ricorso alle fattispecie omissive, inoltre, se è espressione delle nuove istanze solidaristiche consacrate nell’art. 2 Cost., risponde altresì ad un’esigenza, imposta dallo sviluppo tecnologico della società, che determina l’emanazione di regole cautelari la cui violazione presuppone condotte omissive. Si è posto così l’accento sulla funzione promozionale del diritto penale, di cui la fattispecie omissiva costituirebbe lo “strumento tecnico-legislativo privilegiato” di attuazione. Mentre il diritto penale dell’azione sanzionerebbe, infatti, la lesione di beni giuridici già conseguiti, il diritto penale dell’omissione si configurerebbe quale “strumento che concorre alla realizzazione del modello e degli scopi di promozione sociale prefigurati dalla Costituzione[3].

Alla progressiva estensione dell’area delle omissioni penalmente rilevanti si è accompagnata, infine, l’emersione di nuovi orientamenti nella dottrina italiana, sempre più propensa a riconoscere una propria dignità e autonomia al reato omissivo, studiato non più sulla falsariga di quello commissivo, ma come autonomo modello di illecito, che dal più risalente e tradizionale diverge nell’essenza e nei caratteri costitutivi e fondanti[4].

 

1.1. Essenza e caratteri dell’omissione penalmente rilevante.

 

Superata la storica impostazione che, nello sforzo di accomunare condotta attiva e omissiva in un solo contesto superiore, sia pure alla stregua di differenti percorsi ricostruttivi[5], concepiva in termini fisico-naturalistici la natura intima di entrambe, la dottrina è ormai concorde nell’attribuire all’omissione un’essenza normativa, ravvisandone il proprium nel non facere quoad debetur. L’omissione consiste, quindi, nel mancato compimento dell’azione possibile che il soggetto ha il dovere giuridico, non anche solo morale o sociale, di compiere. Da un lato, è necessario, quindi, che sussista un obbligo giuridico di agire. Dall’altro, deve sussistere la possibilità di adempierlo, esclusa allorché manchino le necessarie attitudini psico-fisiche del soggetto o le condizioni esterne indispensabili per compiere l’azione (ad impossibilia nemo tenetur).

Posto tale comune fondamento, nell’esame strutturale del reato omissivo, la dottrina è solita distinguere tra reati omissivi propri (delicta omissiva) e reati omissivi impropri (delicta commissiva per ommissionem)[6]{ Mentre nei primi si rimprovera all’omittente di non aver posto in essere un’azione giuridicamente doverosa, indipendentemente dal verificarsi o meno di un evento come conseguenza dell’omissione, nei secondi la legge incrimina il mancato compimento di un’azione giuridicamente doverosa imposta per impedire il verificarsi di un evento, che assurgerà a elemento costitutivo del fatto. Se, inoltre, i reati omissivi propri sono direttamente configurati da singole norme incriminatrici - che descrivono sia l’azione doverosa, sia i presupposti in presenza dei quali sorge l’obbligo giuridico di agire – , per lo più, i reati omissivi impropri non sono configurati attraverso apposite norme di parte speciale, essendo la loro previsione il risultato del combinarsi di una disposizione di parte generale e di norme incriminatrici di parte speciale che vietano la causazione di un evento. In forza, infatti, della clausola di equivalenza di cui all’art. 40, cpv., c.p., “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo[7].

 

1.2. L’obbligo giuridico di attivarsi. I criteri di identificazione della posizione di garanzia.

 

Tale norma, fondativa della responsabilità penale commissiva mediante omissione, presupponendo l’inosservanza di un dovere normativo di impedire l’evento, comporta, tuttavia, la difficoltà, teorica e pratica, di individuare gli obblighi giuridici di attivarsi, la cui violazione comporti responsabilità omissiva. Due gli orientamenti che si sono tradizionalmente contrapposti nel tentativo di far luogo alla ricognizione della c.d. “situazione di garanzia”: quello maggioritario e più garantista, che fa perno sul criterio formale della fonte dell’obbligo di garanzia[8], e quello che, viceversa, ascrivendo rilievo alla situazione fattuale, presuppone la ricorrenza in capo al soggetto-garante di un effettivo “potere di signoria su alcune condizioni essenziali del verificarsi dell’evento tipico[9]. Si tratta di orientamento, questo, che, se certo ha avuto il merito di imporre un’analisi di tipo funzionale dei singoli rapporti di garanzia - indispensabile perché si possa selezionare, nell’ambito degli innumerevoli obblighi di attivarsi posti dalle numerose fonti considerate dalla teoria formale, quelli che assumono la consistenza di obblighi di garanzia, ciroscrivendone l’effettivo perimetro - non va tuttavia esente da critiche, soprattutto laddove entra in rotta di collisione con il principio di riserva di legge.

Preferibile è apparsa, allora, un’impostazione mediana[10] che, tentando un’integrazione tra i due esposti approcci formale e sostanziale, utilizza i criteri di carattere funzionale per discernere, tra i vari obblighi posti da norme diverse da quella dell’art. 40, cpv, c.p., quelli che hanno il significato di un obbligo di garanzia. Da un lato, si ricerca, quindi, la fonte giuridica – anche negoziale – che conferisca a taluno un obbligo di protezione o che gli affidi una fonte di rischio (specialmente, in seno ad organizzazioni o filiere complesse); dall’altro, si correggono gli inconvenienti propri dell’approccio solo formale, con l’esame dei connotati contenustico-funzionali delle singole posizioni di obbligo. Quanto a queste ultime, la fattispecie omissiva impropria presuppone che ad un soggetto sia attribuito dall’ordinamento giuridico il compito di proteggere certi interessi, essendo necessaria, quindi, l’esistenza di un particolare rapporto tra un soggetto (il garante) e un bene.

Ferma, dunque, la necessaria giuridicità dell’obbligo di attivarsi, in ossequio al principio di legalità, declinato nella speciale accezione della riserva di legge in materia penale, è, tuttavia, ancora richiesto il carattere “speciale” dell’obbligo stesso, che, in forza del principio di tassatività, deve connotarsi per il contenuto prettamente specifico (con conseguente esclusione dalla sfera del penalmente rilevante degli obblighi a contenuto generico ed indeterminato) e, allo stesso tempo, gravare su alcuni soggetti e non sulla generalità e riguardare solo alcuni beni e non tutti i beni di tutti i consociati. Ulteriore e decisivo elemento, necessario perché esista una posizione di garanzia, è che la protezione di uno o più dei beni giuridici sia l’oggetto immediato della situazione tipica di obbligo: in base al principio di personalità della responsabilità penale, infatti, si richiede l’esistenza di poteri giuridici impeditivi in capo al garante, che si specifichino ulteriormente in poteri di vigilanza sull’insorgenze di situazioni di pericolo e di intervento su tale situazione, che debbono essere conferiti al garante da una specifica norma; la preesistenza del potere-dovere impeditivo rispetto alla situazione di pericolo e la possibilità materiale del garante di compiere l’azione ostacolante idonea.

La necessità che sussistano tutti i requisiti citati induce a distinguere l’obbligo di garanzia rilevante perché possa essere riconosciuta la responsabilità penale omissiva impropria da altri obblighi giuridici di agire per la tutela di determinati beni, inidonei a fondare l’equivalenza normativa di cui all’art. 40, cpv., c.p. (o al più rilevanti a titolo di omissione propria, ove una norma penale ne sanzioni specificamente l’inadempimento). Tra questi, gli obblighi di sorveglianza che consistono nell’attribuzione a specifiche categorie di soggetti privi di poteri giuridici impeditivi dell’obbligo di vigilare sull’altrui attività e di informare il titolare o il garante del bene dell’eventuale commissione di fatti offensivi. Su altro piano si collocano, poi, i c.d. meri obblighi di attivarsi che, espressione del principio di solidarietà, sono talvolta imposti a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi e di sorveglianza, al verificarsi di particolari presupposti di fatto individuati da una norma penale incriminatrice[11].

 

2. Posizioni di controllo e posizioni di protezione.

 

Sulla scorta del criterio funzionale suesposto, fondato sul contenuto materiale e sullo scopo della posizione di garanzia, è, inoltre, possibile distinguere tra posizioni di garanzia aventi ad oggetto la protezione di certi interessi, che postulano, cioè, l’esistenza di un particolare legame giuridico tra il garante e il titolare dei beni da proteggere, in virtù del quale al primo è affidato un compito di tutela di tali beni, attesa la totale o parziale incapacità del secondo di proteggerli adeguatamente (posizione di protezione, in senso stretto)[12], e posizioni di garanzia aventi ad oggetto, invece, il controllo di una particolare fonte di pericolo e implicanti l’esistenza in capo al soggetto garante di una situazione di dominio su un oggetto materiale o sullo svolgimento di un’attività, dai quali derivano dei pericoli per gli interessi dei terzi (posizione di controllo)[13]. Si parla, pertanto, di obblighi di protezione quando l’obbligo giuridico riguarda la tutela di uno o più beni che fanno capo a singoli soggetti (un bambino, un anziano, un malato, etc.) o a una determinata classe di soggetti (coloro che fanno il bagno in uno stabilimento balneare), nei confronti di una gamma più o meno ampia di pericoli di natura indeterminata. Si è titolari di una posizione di controllo, invece, quando al garante è attribuito il precipuo compito di neutralizzare i pericoli derivanti da una specifica e determinata fonte, in funzione di tutela di chiunque possa essere messo a repentaglio da quella fonte di pericolo.

 

2.1. Posizione di garanzia per i reati dei terzi. Il concorso omissivo negli altrui reati commissivi.

 

All’interno delle suddette posizioni di controllo di fonti di pericolo, una parte della dottrina[14] ricomprende anche le posizioni di garanzia aventi ad oggetto l’impedimento di azioni criminose di terzi. Tali obblighi, secondo il riferito orientamento, sarebbero riconducibili a quelli di controllo in quanto previsti in funzione dell’esigenza di imbrigliare la potenzialità lesiva di soggetti che a causa delle loro particolari condizioni possano considerarsi essi stesse fattori di rischio per i beni altrui. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli obblighi gravanti su genitori, tutori, insegnanti, infermieri, titolari di poteri di educazione, istruzione, cura e custodia, di impedire i fatti dannosi dei figli minori, dei pupilli, degli scolari e degli infermi di mente (artt. 2047 e 2048 c.c.).

In senso critico, si è, tuttavia, osservato che – così opinando – non si terrebbe in debito conto di tutta una serie di ulteriori previsioni normative che prescrivono nei confronti di determinati soggetti l’obbligo di impedire reati di persone autoresponsabili, in ragione della particolare vulnerabilità di determinati beni rispetto a condotte criminose di terzi (situazione, quest’ultima, assimilabile a quella degli obblighi di protezione). È il caso dell’obbligo degli amministratori di società di provvedere alla salvaguardia del patrimonio sociale anche nelle ipotesi di attività illecita di altri amministratori, o degli appartenenti alle forze dell’ordine di impedire reati altrui.

È in questi casi che la condotta omissiva può assumere rilievo nell’ambito della fattispecie concorsuale, intendendo con ciò quella particolare manifestazione plurisoggettiva di un reato astrattamente monosoggettivo che rinviene nell’art. 110 c.p. la norma generale incriminatrice che tipizza e rende punibili – anche in ordinamenti, come il nostro, improntati ad una stretta legalità formale – azioni non perfettamente integranti la condotta descritta dalla norma di parte speciale[15]. Purché si tratti di una condotta che abbia almeno agevolato la realizzazione del reato, infatti, il contributo di ciascun concorrente può assumere la veste tanto della condotta attiva quanto dell’omissione. Oltre alla lineare ipotesi in cui più soggetti si accordino per non adempiere ciascuno il proprio obbligo di facere (concorso nel reato omissivo), un soggetto, titolare di una posizione di garanzia avente ad oggetto gli specifici beni che la norma penale incriminatrice violata mira a proteggere, può concorrere nell’altrui reato commissivo omettendo di attivarsi in favore degli interessi di cui è garante (concorso per omissione nel reato commissivo). Tale figura rinviene il proprio fondamento giuridico nel medesimo primo capoverso dell’art. 40 c.p., rientrando nel concetto di “evento” non impedito, per diffusa opinione, anche il reato realizzato da altri. Affinché l’omissione assuma rilevanza penale è, tuttavia, necessario che essa sia condizione necessaria o quantomeno agevolatrice della realizzazione del fatto e che, allo stesso tempo, costituisca violazione dell’obbligo giuridico di impedire il reato, in mancanza del quale non può trovare applicazione l’art. 40, cpv., c.p.. E’, pertanto, necessario che l’operatore giuridico verifichi la sussistenza di una fonte giuridica formale dalla quale derivi l’obbligo di attivarsi, avendo l’ordinamento giuridico attribuito ad un soggetto il compito di proteggere certi interessi. In mancanza di tale specifica relazione tra soggetto-garante e bene, potrà al più ravvisarsi una situazione di mera connivenza, consistendo questa nel comportamento, penalmente irrilevante, di chi assiste alla perpetrazione di un reato senza intervenire, non avendo però alcun obbligo giuridico di impedirne la commissione.

In tal senso, la giurisprudenza[16] è giunta a riconoscere la responsabilità concorsuale omissiva dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori di una società, in virtù del precipuo compito di controllare e vigilare l’andamento della gestione sociale ad essi attribuito dall’ordinamento civilistico. In forza del combinato disposto degli artt. 2403, 2407, cpv., 2045 e 2409 c.c., ai sindaci competono, infatti, specifici oneri di sorveglianza, cui corrispondono altrettanto specifici ed efficaci strumenti impeditivi, che danno luogo ad una vera e propria posizione di garanzia, volta a controllare l’attività di gestione degli amministratori, per evitare che questi strumentalizzino quell’attività per commettere reati. Qualora il sindaco abbia omesso di esercitare tale potere-dovere di vigilanza o sia comunque rimasto inerte nell’adozione di iniziative, previste dalla legge, per impedire o eliminare altrui irregolarità (e purché la sua condotta omissiva sia sorretta dal dolo, rispetto al fatto realizzato dagli amministratori), concorrerà nel fatto illecito posto in essere dagli amministratori, così agevolato.

Per converso, la giurisprudenza di legittimità è solida nell’escludere la responsabilità concorsuale omissiva del proprietario di un’area per l’opera abusiva[17] o per la gestione di discarica non autorizzata[18] o per lo stoccaggio di rifiuti tossici e nocivi[19], da altri realizzata sul proprio terreno. In tali casi, infatti, non è ravvisabile alcuna fonte giuridica formale dalla quale derivi l’obbligo, in capo al proprietario dell’area, di impedire gli illeciti (edilizi o connessi alla gestione dei rifiuti) da altri commessi sul terreno di suo dominio: tale fonte non può essere individuata nelle norme civilistiche che disciplinano la proprietà, né nelle specifiche discipline di settore. Il semplice fatto di essere proprietario di un terreno sul quale vengono svolti da terzi illeciti – pur potendo costituire un indizio grave – non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale omissiva impropria, nemmeno qualora il soggetto che riveste tale qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive o gestioni illecite dei rifiuti sul suo fondo. Pertanto, lo stesso potrà essere chiamato a risponderne – qualora, in base alle circostanze concrete, ne sussistano i presupposti – soltanto a titolo di concorso attivo, materiale o morale, e non già a titolo di concorso mediante omissione.

 

3. Posizioni di garanzia originarie e derivate. Il trasferimento della posizione di garanzia.

 

In base alla fonte istitutiva dell’obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento, è possibile, invece, distinguere le posizioni di garanzia - siano esse di protezione o di controllo - in posizioni originarie o derivate, a seconda che spettino in considerazione del ruolo svolto o della posizione rivestita ovvero per l’effetto del trasferimento compiuto dal soggetto istituzionalmente garante ad altro soggetto, generalmente attraverso un contratto[20]. E’, infatti, possibile che una pluralità di soggetti si avvicendi, specialmente nell’ambito di organizzazioni complesse e filiere pluripersonali, nel delicato ruolo di vigilare su specifici beni giuridici o determinate fonti di pericolo per i consociati. In questi casi, si pone, pertanto, la delicata questione di individuare chi sia l’effettivo titolare della posizione di garanzia da cui promana lo specifico potere-dovere di attivarsi e che sarà chiamato a rispondere penalmente nel caso in cui resti inerte nell’adozione di iniziative, legalmente previste e imposte, per prevenire o correggere situazioni di pericolo.

Sebbene sia in astratto ammessa la possibilità che la posizione di garanzia sia trasferita dal soggetto istituzionalmente garante ad altri, in ossequio ai criteri formale e funzionale sopra descritti, è, tuttavia, necessario che il suddetto passaggio, di oneri e competenze, rivesta determinati caratteri. Il trasferimento, infatti, deve, in primo luogo, partire dal titolare dell’interesse da proteggere o da un precedente garante, non sorgendo così alcun obbligo di garanzia nel noto esempio del filantropo che, prima di una gara di nuoto, assume un pescatore affinché se ne stia con la sua barca in prossimità del tratto di mare in cui si svolge la gara, al fine di prestare soccorso nel caso che uno dei nuotatori sia in pericolo. Se il pescatore – pur avendo recepito un corrispettivo per il suo intervento – rimane a casa durante la gara e uno dei nuotatori annega, non incorrerà in alcuna responsabilità penale per omesso impedimento dell’evento, pur esistendo l’obbligazione contrattuale. Soltanto se questa fosse intercorsa tra il pescatore e uno dei nuotatori o con l’organizzatore della manifestazione – a cui va riconosciuta una posizione di garanzia in relazione alla vita e all’incolumità personale dei gareggianti – il primo avrebbe effettivamente assunto il ruolo di una “istanza di protezione” dei beni da tutelare.

Il secondo e indispensabile elemento che deve integrare il trasferimento di una posizione di garanzia è costituito, poi, dal concreto affidamento del bene da proteggere: al nuovo garante dovrà, infatti, essere trasferito, in via preventiva rispetto all’insorgenza della situazione di pericolo, l’intero corredo di poteri giuridici impeditivi (che si specificano ulteriormente in poteri di vigilanza e di intervento) e lo stesso dovrà in concreto avere la possibilità di compiere l’azione ostacolante idonea (ad impossibilia nemo tenetur).

 

3.1. Successione nella posizione di garanzia e delega di funzioni.

 

Posti tali imprescindibili caratteri, il trasferimento di una posizione di garanzia può in concreto atteggiarsi diversamente.

Si parla, in particolare, di successione nella titolarità della posizione di garanzia nei casi in cui una pluralità di soggetti si avvicendano nella cura e nella protezione di un dato interesse giuridico che potrebbe essere leso nello svolgimento di un’attività avente natura complessa, in quanto frutto di una cooperazione – spesso multidisciplinare – di tipo diacronico. Classico è l’esempio del personale sanitario che si succede nel turno e lavora nel medesimo reparto ospedaliero, occupandosi dello stesso caso non contestualmente, bensì l’uno di seguito all’altro. In questi casi, con la successione, il garante che cede la propria posizione di garanzia, avendo esaurito il proprio turno di lavoro, è liberato da ogni obbligo legato alla stessa, senza che residui alcuna responsabilità, neppure in vigilando. Si realizza così una sostituzione del garante originario con un garante derivato, che assume su di sé tutti gli obblighi impeditivi[21]. È necessario, tuttavia, che ricorrano talune condizioni perché un soggetto possa validamente ed efficacemente liberarsi della propria posizione di garanzia, cedendola a un terzo che succede nella medesima funzione e assume i medesimi doveri e poteri di intervento: il trasferimento, infatti, deve aver luogo in forza di una fonte formale che lo consenta (quale la legge o il contratto); e il cessionario deve essere posto in condizione di assumere l’effettivo dominio fattuale sulla fonte di pericolo da controllare o sul bene da proteggere, equivalente a quella del cedente e con i medesimi poteri impeditivi[22]. Ricorrendo queste condizioni, la posizione di garanzia si trasferisce al cessionario con liberazione del cedente, sempre che quest’ultimo – garante originario – abbia adempiuto diligentemente i propri obblighi, cedendo un’attività immune da inosservanze cautelari[23]: allorché l’attività sia, invece, inficiata dalla violazione di regole cautelari, in giurisprudenza prevale una soluzione ispirata all’opposto principio della c.d. continuità delle posizioni di garanzia[24].

Se, dunque, nell’ipotesi di successione il garante originario, di regola, dismette totalmente i propri poteri impeditivi, con conseguente liberazione integrale del soggetto recedente dalla funzione impeditiva, a seguito della cessione al nuovo titolare della fonte di pericolo, da questa si è soliti distinguere l’ipotesi della delega, in cui il garante originario si limita a trasferire ad altri specifiche competenze in un dato settore di attività, conservando, tuttavia, un generale obbligo di vigilanza e controllo sull’attività del delegato. In tal senso - si è osservato - mentre nella successione nella titolarità della posizione di garanzia si assiste ad una vera e proprio sostituzione di un soggetto ad un altro, nella delega, il soggetto istituzionalmente preposto continua a rispondere degli illeciti compiuti nell’ambito dell’attività delegata insieme al soggetto incaricato, conservando il potere-dovere di sorvegliare l’operato altrui. In questo caso, si realizza, pertanto, una mera trasformazione degli oneri originariamente gravanti sul titolare della posizione di garanzia in specifici obblighi di vigilanza e successivo intervento, con evidenti effetti sul piano della colpevolezza.

Perché tale trasformazione operi, tuttavia, è necessario che anche la delega, così come la successione (e in generale ogni fattispecie di trasferimento di posizioni di garanzia), presenti determinati caratteri, imposti dal principio di legalità e di responsabilità personale in materia penale. In particolare, superata l’impostazione formalista contraria all’ammissibilità di una rilevanza penale di una delega di funzioni[25], la giurisprudenza tende oggi a considerare questa una forma di vero e proprio adempimento degli obblighi di diligenza del titolare della posizione di garanzia, in presenza di taluni presupposti oggettivi e in assenza di taluni profili di carattere soggettivo implicanti la sussistenza di un atteggiamento colposo del delegante[26]. In tal senso, preliminare importanza è data alle dimensioni della realtà organizzata, potenziale fonte di pericolo per gli interessi da tutelare, in cui è incardinato il soggetto istituzionalmente garante (si pensi ad un’azienda medio-grande) che, se apprezzabili, possono giustificare e far considerare legittimo – se non addirittura necessario - il ricorso alla delega. Nel generale potere-dovere che spetta al soggetto responsabile di organizzare l’attività in modo adeguato alla salvaguardia degli interessi di terzi, messi in gioco dallo svolgimento della stessa, rientrerebbe, infatti, anche il potere di delegare a specifici soggetti preposti il controllo di determinate fasi o specifici settori; delega che si rivelerà anzi auspicabile tanto maggiore sarà il grado di complessità dell’organizzazione, non potendo il soggetto apicale materialmente farsi carico di tutte le incombenze inerenti al suo ruolo.

La giurisprudenza richiede, tuttavia, una rigorosa indagine circa l’effettività della delega: al fine di distinguere dal corretto esercizio del potere di delega le negligenti scelte discrezionali in materia organizzativa dei vertici di una struttura o l’artificiosa devoluzione di responsabilità da parte dei titolari di posizioni di garanzia verso altri soggetti offerti come “capro espiatorio” in caso di perseguimento di violazioni di legge, si ritiene necessario verificare l’idoneità tecnica del delegato (che dovrà essere munito dei titoli eventualmente prescritti dalla legge, nonché di concreta capacità tecnica, qualità professionali ed esperienza specifica proporzionate al tipo di funzioni attribuite e alle modalità di svolgimento delle attività di competenza), nonché il conferimento allo stesso di effettivi poteri correlati alle funzioni da esercitare (circoscrivendo con precisione l’oggetto dell’incarico devoluto e devolvendo tutte le facoltà necessarie, ivi incluse quella di organizzazione autonoma e di spesa). Perché il requisito dell’effettiva devoluzione sia riscontrato, inoltre, l’atto di delega dovrà avere le caratteristiche della certezza, riscontrabili unicamente - secondo la giurisprudenza di legittimità – in un atto espresso, inequivoco e certo[27]. La delega, infatti, dovrà, in primis essere effettivamente conosciuta nel suo preciso contenuto dal soggetto delegato, che dovrà espressamente accettare di assumere tale incombenza; solo prendendo in carico i compiti e assumendo i poteri di spettanza del delegante, infatti, egli consentirà quel reale trasferimento di responsabilità che il delegante, da solo e autoritativamente, non può realizzare. Successivamente, alla delega dovrà essere data idonea pubblicità rispetto ai terzi, che saranno così messi nelle condizioni di verificare chi siano i soggetti titolari effettivi della posizione di garanzia.

Gli ulteriori presupposti perché sia data rilevanza penale alla delega attengono a profili soggettivi ed investono, da un canto, i poteri indelegabili del titolare della posizione di garanzia e, dall’altro, gli eventuali condizionamenti sul delegato che possono derivare dalle ingerenze del delegante. La giurisprudenza considera investito, infatti, il dirigente dell’organizzazione di un generale dovere, indelegabile, di orientare le politiche di gestione delle attività, in maniera da evitare danni ai titolari dei beni che potrebbero essere da queste minacciati: per questa ragione, se l’illecito è derivato da cause strutturali dovute ad omissioni di scelte generali o a modelli organizzativi fissati dagli organi titolari delle funzioni, la delega non potrà avere rilievo scusante[28]. Altro aspetto funzionale non delegabile è il dovere di vigilanza sull’organizzazione: nel caso della delega, infatti, a differenza di ciò che avviene in sede di successione, il soggetto delegante non si libera dell’originaria posizione di garanzia, dismettendo ad altri le proprie responsabilità, ma vede semplicemente trasformati i suoi originari obblighi in doveri di vigilanza e di intervento sull’attività (conosciuta e conoscibile) posta in essere dal delegato. Si parla, in particolare, di “residuo non delegabile”, in forza del quale la delega di funzioni non esclude l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite. La delega avrà, pertanto, effetti solo sul piano della colpevolezza, in quanto la responsabilità del delegante potrebbe venire esclusa quando lo stesso dimostri di avere osservato diligentemente i propri doveri di sorveglianza, non avendo altrimenti potuto impedire le irregolarità poste in essere dal soggetto delegato[29]. Viceversa, la responsabilità del delegante andrà ammessa tanto quando il delegato gli abbia chiesto di intervenire ed egli non si sia adeguatamente attivato, quanto nel caso in cui il titolare della posizione di garanzia, nonostante la delega, non lasci autonomia al preposto in relazione alla specifica attività dalla quale scaturisce l’illecito[30].

 

4. La disciplina sui rifiuti: gli obblighi giuridici del produttore.

 

In base alla ricostruzione sistematica sopra affrontata, dunque, perché un soggetto possa essere chiamato a rispondere penalmente per non aver impedito un evento, a norma dell’art. 40, cpv., c.p., è necessario che sussista, oltre alla possibilità materiale di intervento, un obbligo giuridico e formale di attivarsi che assuma il precipuo contenuto della posizione di garanzia. E’, pertanto, essenziale verificare caso per caso che ricorrano le suddette condizioni, in base alla disciplina normativa di riferimento.

Un caso peculiare e discusso è quello che coinvolge la materia della gestione dei rifiuti, che ha visto negli anni giurisprudenza e dottrina interrogarsi – tra gli altri – sul tema della posizione del produttore di rifiuti, per tale intendendosi “il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore inziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)[31]. In particolare, discussa è la possibilità di ravvisare in capo al soggetto che produce il rifiuto una vera e propria posizione di garanzia, in virtù della quale essere chiamato a rispondere a titolo omissivo improprio per non aver impedito quegli eventi, lesivi degli interessi giuridici protetti dalla normativa ambientale, ivi inclusi i fatti illeciti da altri soggetti, coinvolti nella filiera dei rifiuti, posti in essere. Per rispondere in maniera esaustiva a tale quesito sarà, quindi, necessario partire dall’analisi della figura del produttore di rifiuti all’interno della normativa specifica, per verificare quali siano gli obblighi e gli oneri sullo stesso gravanti e valutare se gli stessi siano rilevanti ex art. 40, cpv., c.p., e, pertanto, idonei a fondare una responsabilità omissiva impropria.

In particolare, in via di estrema sintesi, varie disposizioni normative, anche di secondo livello[32], esprimono il principio generale – ribadito dalla giurisprudenza[33] - che, per una corretta gestione dei rifiuti, il produttore ha l’onere di osservare la massima diligenza fin dalla fase di classificazione iniziale del rifiuto, al fine di individuarne il regime giuridico di riferimento. La classificazione dei rifiuti è, infatti, la fase preliminare ed indispensabile per poter gestire correttamente tutte le fasi che vanno dalla predisposizione dei documenti amministrativi (registri, FIR, etc.) al controllo dell’eventuale deposito temporaneo e/o delle autorizzazioni al deposito, all’intermediazione, al trasporto sino al recupero e allo smaltimento finale[34].

Per i soggetti indicati dall’art. 190 del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152 è previsto, inoltre, l’obbligo – sanzionato a livello amministrativo – di tenuta di un registro di carico-scarico, su cui devono essere annotate le informazioni sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei rifiuti. Tali soggetti debbono provvedere alla registrazione entro 10 giorni lavorativi dalla produzione del rifiuto (carico) e dallo scarico del rifiuto prodotto. Tale registro dovrà essere conservato presso l’impianto di produzione, integrato con i formulari di identificazione di cui all’art. 193 del Decreto Legislativo sopra citato, per 5 anni dalla data dell’ultima registrazione. Tutti i soggetti obbligati alla tenuta del registro di carico e scarico dovranno, infine, comunicare al Catasto dei rifiuti (presso le Camere di Commercio di competenza) le quantità e le caratteristiche qualitative dei rifiuti oggetto delle loro attività, tramite il Modello Unico Dichiarazione ambientale (MUD), entro il 30 aprile di ogni anno.

Il produttore di rifiuti è, poi, responsabile della corretta gestione del deposito temporaneo, per ciò intendendosi il raggruppamento di rifiuti effettuato, prima della raccolta, nel luogo in cui gli stessi vengono prodotti, che è soggetto a precise direttive normative[35].

I rifiuti devono essere, infine, raccolti e avviati ad operazioni di recupero o di smaltimento con modalità, rimessa alla scelta alternativa del produttore di rifiuti, di natura temporale (con cadenza almeno trimestrale, indipendentemente dalla quantità in deposito) ovvero a volume (quando il quantitativo di rifiuti in deposito raggiunga complessivamente i 30 metri cubi di cui 10 di rifiuti pericolosi, ma, in ogni caso - allorché il quantitativo di rifiuti pericolosi non superi il quantitativo riportato – anche optando per tale modalità, il deposito temporaneo non può avere durata superiore ad un anno)36]. Il produttore dovrà, allora, provvedere direttamente al loro trattamento ovvero conferirli a soggetti che gestiscono il servizio pubblico di raccolta dei rifiuti urbani, con i quali sia stata stipulata apposita convenzione, ovvero a terzi autorizzati, ai sensi delle disposizioni vigenti, alle attività di recupero o di smaltimento. In quest’ultimo caso, tuttavia, sul produttore gravano due ulteriori obblighi. In primis, tale soggetto ha l’onere di verificare le autorizzazioni del trasportatore incaricato[37] e dell’impianto di recupero/smaltimento al quale spedisce il rifiuto. Come specifica l’art. 188, comma 1, Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152, il produttore iniziale, tuttavia, conserva comunque la responsabilità per la corretta gestione del rifiuto per l’intera catena di trattamento, anche qualora trasferisca ad altri la competenza in materia di trattamento. Ai commi 2 e 3, tuttavia, la norma introduce due eccezioni al principio della corresponsabilità: in particolare, per i produttori iscritti al SISTRI, la responsabilità sarà limitata alla rispettiva sfera di competenza, stabilita dal suddetto sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti; negli altri casi, la responsabilità è comunque esclusa - oltre al caso, sopra enunciato, in cui i rifiuti siano stati conferiti al servizio pubblico di raccolta, previa convenzione – qualora il produttore sia in possesso del formulario di cui all’art. 193, Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152, controfirmato e datato in arrivo dal destinatario, entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore (termine elevato a sei mesi, in caso di spedizione transfrontaliera); alla scadenza del predetto termine dovrà, invece, provvedere a dare comunicazione alla Provincia (o alla Regione, se trattasi di spedizione transfrontaliera) della mancata ricezione del formulario. In tal senso, dunque, sul produttore di rifiuti, che non intende procedere con l’autosmaltimento ovvero con l’affidamento al servizio pubblico di raccolta dei propri rifiuti, gravano due importanti obblighi giuridici, il cui adempimento lo rende esente da alcuna responsabilità penale connessa alla gestione dei rifiuti: il controllo delle autorizzazioni di cui i soggetti destinatari devono essere legislativamente provvisti e il possesso del formulario datato e controfirmato dal destinatario o, in alternativa, la denuncia della mancata ricezione dello stesso all’ente locale di riferimento.

 

5. La responsabilità penale del produttore dei rifiuti tra principi dell’Unione Europea e principi costituzionali.

 

Tracciato, dunque, il quadro normativo vigente nell’ordinamento nazionale, un’analisi compiuta della tematica della responsabilità penale del produttore dei rifiuti non può prescindere da uno sforzo di inquadramento di tale disciplina nazionale nel contesto dei principi dell’Unione Europea in materia ambientale, che, di tale disciplina, costituiscono in tessuto fondante. Infatti, le specifiche disposizioni dettate sulla responsabilità del produttore dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 e la relativa elaborazione giurisprudenziale non possono essere comprese – e potremmo dire – giustificate appieno, senza un riferimento all’art. 191, comma 2 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea e, in particolare, ai principi dell’elevato livello di tutela, della precauzione e dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga".

Proprio con esplicito richiamo a tali principi, infatti, l’art. 178 dello stesso Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, prevede come la gestione dei rifiuti debba essere il luogo della responsabilizzazione e della “cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti” stessi.

La corresponsabilizzazione viene frequentemente in rilievo, nell’ordinamento, come mezzo per il conseguimento di obiettivi di tutela. Accade spesso, in particolare in ambito civile, che, per accrescere il livello di protezione di posizioni giuridiche, si individuino una pluralità di responsabili, ovvero dei soggetti tenuti, in qualche modo, a rispondere, contemporaneamente ed in via solidale, di un determinato illecito; e ciò, ad esempio, sulla base di uno specifico rapporto - di proprietà o di custodia - rispetto ad una res e a prescindere da una specifica condotta del soggetto in capo al quale viene allocata la responsabilità[38].

Tuttavia, non può sfuggire come, in materia penale, tale modo di operare determinerebbe un attrito con principi di rilievo costituzionale, quali quello che afferma il carattere personale della responsabilità, imposto dall’art. 27, comma 1 Cost., e quello di tipicità. I richiamati principi costituzionali impongono, infatti, che la sanzione penale debba necessariamente essere conseguenza di una condotta personale, colpevole e analiticamente descritta dalla norma incriminatrice. Ebbene, tale possibile tensione non può che suggerire, all’inteprete, un atteggiamento di particolare rigore, anche in materia ambientale.  Vengono, infatti, in rilievo, da un lato, le istanze di protezione di un bene giuridico essenziale come l’ambiente e, dall’altro lato, l’esigenza di affermazione di principi costituzionali fondamentali, posti a base della tutela della persona e della sua libertà.  

Letta dalla prospettiva del carattere personale della responsabilità, la materia della gestione dei rifiuti sembrerebbe, in prima approssimazione, governata da un modello caratterizzato da elementi di specificità. L’art. 188, comma 1, del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152,  stabilisce, infatti, un principio di generale responsabilità del produttore iniziale o altro detentore dei rifiuti per l’intera catena del trattamento; tanto che, con una tecnica di redazione iterativa, il legislatore tiene a precisare che anche “qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste.”

Nel contesto della disciplina generale, la responsabilità del produttore, si proeitta anche su condotte poste in essere da terzi. Nell’architettura dell’art. 188, la fattispecie che sembrerebbe ordinaria, quella nella quale si risponde esclusivamente delle fasi gestionali soggette al proprio diretto controllo, viene relegata ad un regime di eccezione. Infatti - in disparte il caso dei produttori o detentori iscritti al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) ed in regola con i relativi adempimenti, che rispondono limitatamente alla “rispettiva sfera di competenza stabilità dal predetto sistema” - la responsabilità del produttore e detentore, è esclusa, naturalmente al di fuori dei casi di concorso nel fatto illecito, solo in due ipotesi : “a)  a seguito del conferimento di rifiuti al servizio pubblico di raccolta previa convenzione;” oppure “b)  a seguito del conferimento dei rifiuti a soggetti autorizzati alle attività di recupero o di smaltimento, a condizione che il produttore sia in possesso del formulario di cui all'articolo 193 controfirmato e datato in arrivo dal destinatario entro tre mesi dalla data di conferimento dei rifiuti al trasportatore, ovvero alla scadenza del predetto termine abbia provveduto a dare comunicazione alla provincia della mancata ricezione del formulario”.

Emerge quindi come la responsabilità - si badi bene, come avremo modo di vedere, anche quella di natura penale - possa incardinarsi in capo al produttore o al detentore di rifiuti, non solo in conseguenza di un’attività da essi posta direttamente in essere, ma anche per effetto di condotte illecite di terzi, cui il produttore o il detentore si siano rivolti, per la relativa gestione.

Gli obiettivi di tutela ambientale sembrano, quindi, avere legittimato una sorta di responsabilità di filiera, che, salve le eccezioni previste dalla legge, accomuna, in caso di illeciti, le sorti dei diversi soggetti, che si siano avvicendati nel possesso dei rifiuti; e ciò dalla loro produzione fino al definitivo recupero e smaltimento.

Il legislatore ha voluto che il produttore, che ha dato corso all’attività da cui sono originati i rifiuti, risponda della relativa gestione fino all’esito finale delle attività di recupero o smaltimento. Tale modello costituisce applicazione, anche in un’ottica di imputazione delle responsabilità, del principio “chi inquina paga”, cui abbiamo già fatto prima riferimento. In particolare, se dall’art. 183, comma 1, lett. f), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152, si ricava pianamente che il produttore è il soggetto il quale, con la sua attività, ha dato origine ai rifiuti[39], appare assolutamente coerente col principio “chi inquina paga” che tale soggetto sia responsabile della corretta gestione dei medesimi rifiuti, unitamente agli altri protagonisti della filiera del recupero o dello smaltimento.

Tuttavia, mentre in materia civile tale tecnica di allocazione delle responsabilità non pone particolari problemi, in materia penale, l’attribuzione di profili di responsabilità al produttore, per illeciti gestionali non direttamente connessi alla condotta di questi, transita per gli istituti del reato omissivo improprio e del concorso cui, non casualmente, è stata dedicata la parte iniziale delle presenti note.

 

 

6. La posizione di garanzia ed il concorso del produttore: le verifiche sul titolo autorizzativo del cessionario dei rifiuti.

 

Tralasciamo volutamente il caso, nel quale il produttore pone in essere direttamente l’attività di gestione illecita dei propri rifiuti, attraverso una condotta attiva o omissiva ad esso direttamente riferibile. In tale ipotesi, infatti, non si pongono particolari problemi: le attività poste in essere direttamente dal produttore in violazione della legge, evidenzieranno, in capo al produttore, condotte direttamente riconducibili ai diversi reati previsti dagli articoli 255 e ss. del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152, che potranno essere allo stesso contestati, secondo i criteri ordinari.

Più interessanti sono le fattispecie, peraltro ricorrenti nella pratica, nelle quali la responsabilità penale del produttore viene ricollegata a condotte poste in essere da soggetti diversi della filiera di gestione.  In tali ipotesi la configurazione della responsabilità penale del produttore dei rifiuti dovrà fondarsi per così dire, in diritto, sulla verifica della sussistenza in capo al produttore stesso di una posizione di garanzia o di controllo e, in fatto, sul riscontro della violazione, nella concreta situazione in esame, degli obblighi a tale posizione riconducibili[40]. 

Seguendo l’ordine sistematico utilizzato nei paragrafi iniziali, possiamo affermare, in via preliminare, che la gestione dei rifiuti costituisce terreno d’elezione per l’operatività delle fattispecie omissive. Gli obiettivi di tutela ambientale, posti alla base dei principi richiamati dall’art. 191, comma 2, del Trattato e dall’art. 178 del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006 n. 152, impongono obblighi di condotte attive, presidiati da sanzioni penali. La gestione dei rifiuti, peraltro connotata dalla giurisprudenza come pericolosa ai sensi dell’art. 2050 del c.c.[41], viene condotta, inoltre, con ampio ricorso a infrastrutture tecnologicamente articolate e complesse. La connotazione tecnologica dell’attività e la finalità di assicurare la tutela del bene ambiente incardina, quindi, in capo ai protagonisti della filiera, precisi obblighi di conformazione a norme cautelari, la cui violazione assume rilievo sotto il profilo penale, giustificando tecniche di incriminazione basate sul reato contravvenzionale, configurabile anche in forma omissiva e con indifferente rilievo attribuito al dolo ed alla colpa.[42] L’attività di gestione dei rifiuti, inoltre, è regolata, in ogni fase, oltre che dalla legge, dai provvedimenti autorizzativi. Tali provvedimenti impongono precisi adempimenti, la cui violazione è sanzionata penalmente. Anche sotto specifico profilo vengono specificamente in rilievo le condotte omissive.

Ciò detto, è opportuno chiedersi se possa essere individuata, in capo al produttore dei rifiuti, una posizione di garanzia e se, in particolare, tale posizione possa essere connotata in termini di controllo o di protezione. La giurisprudenza ha, infatti, chiarito come tale esercizio si renda necessario per un motivo, innanzi tutto, di coerenza costituzionale; è stato, infatti, correttamente affermato che “Responsabilizzare un soggetto per non aver impedito un evento, anche quando egli non aveva alcun potere giuridico (oltre che materiale) per impedirlo, significherebbe vulnerare palesemente il principio di cui all’art. 27/1 Cost.” [43].

Abbiamo visto che, in un’ottica penalistica, la qualificazione della posizione di garanzia presuppone la verifica della sussistenza del necessario carattere di specificità dell’obbligo di attivarsi, nonché la sussistenza di poteri impeditivi, in capo al garante. L’attenzione deve essere, quindi, focalizzata sugli obblighi specifici del produttore dei rifiuti. Tali obblighi consistono, essenzialmente, come sopra evidenziato, nella corretta classificazione dei rifiuti e nell’affidamento degli stessi a soggetti autorizzati per la relativa gestione.

A fronte di orientamenti giurisprudenziali che fondano, in maniera forse troppo assertiva, la posizione di garanzia del produttore sul regime di responsabilizzazione di tutti i soggetti della filiera di gestione dei rifiuti, vi è la necessità di qualche riflessione di carattere sistematico[44]. Non sembra, infatti, che l’analisi del diritto positivo ed in particolare dell’art. 188 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006 n. 152 – che costituisce l’architrave su cui poggia la struttura della responsabilità del produttore dei rifiuti – possa consentire di affermare che, al produttore stesso, sia assegnata una funzione di garante della protezione di beni, che il soggetto garantito non è in grado di proteggere, o non è in grado di proteggere appieno. Nella dinamica di trasferimento dei rifiuti dal produttore al trasportatore e, poi, al soggetto che effettua le attività di recupero e smaltimento, questi ultimi, infatti, sono bene in grado ed anzi sono tenuti a porre in essere le necessarie azioni di tutela del bene giuridico ambiente, dando attuazione alle specifiche prescrizioni della legge e delle autorizzazioni che li riguardano.

Né pare, in prima approssimazione, che il produttore, sia in possesso di particolari poteri impeditivi di condotte illecite, eventualmente poste in essere dal trasportatore o dal titolare dell’impianto di recupero o smaltimento dei rifiuti. In altre parole, il dovere di diligenza, imposto al produttore, sembrerebbe soddisfatto dall’affidamento degli stessi a soggetti autorizzati, secondo quanto previsto dall’art. 188, comma 3, lett. b) del del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, nonché dall’adempimento dell’obbligo di denuncia, ivi previsto, in caso di mancata ricezione, nei termini di legge, della quarta copia del formulario controfirmato e datato in arrivo dal titolare dell’impianto di destinazione.

Quanto alle ipotesi più generali di concorso, lo stesso si realizza anche quando il produttore dei rifiuti fornisce un contributo morale o materiale alle attività costituenti reato ambientale, da altri direttamente poste in essere. E in caso di consapevolezza della gestione illecita da altri condotta, l’elemento soggettivo del produttore si configurerà in termini di dolo. Non si segnalano, per tale ipotesi, questioni particolari, trovando applicazione la disciplina generale. Varranno, ad ogni buon conto, le considerazioni consolidate con riferimento a tale istituto, che può rivelare profili di attenzione, con riferimento al principio di tipicità. L’art. 110 c.p., infatti, combinandosi con la fattispecie di parte speciale, è in grado di ampliare l’area della punibilità, fino a ricomprendere condotte non specificamente contemplate nella medesima fattispecie, se considerata in un’ottica monosoggettiva.

Laddove la condotta del produttore sia connotata sotto il profilo soggettivo dalla colpa, assumeranno specifico rilievo le condizioni tecniche e contrattuali che caratterizzano in concreto la relazione tra produttore stesso, da un lato e trasportatore, smaltitore o recuperatore dei rifiuti, dall’altro lato. Sotto tale profilo, una condotta del produttore, in grado di rivelare uno scarso interesse per la corretta gestione dei rifiuti, può assumere rilievo in punto di affermazione del concorso di quest’ultimo negli illeciti ambientali. Si pensi al caso del produttore che conferisce i propri rifiuti a soggetti, che si impegnano a smaltirli a prezzi significativamente più bassi di quelli di mercato, o sulla base di una procedura di verifica e caratterizzazione solo sommaria. Ebbene, in tali ipotesi, anche laddove vengano esteriormente rispettate le formalità previste dall’art. 188, comma 3, lett. b), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152, sarà possibile affermare la sussistenza di quel contributo morale o materiale, tale da incardinare la responsabilità penale del produttore dei rifiuti[45].

Il percorso, che viene maggiormente seguito dalla giurisprudenza per l’affermazione della responsabilità penale del produttore dei rifiuti poggia proprio sul citato art. 188, comma 3, lett. b), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152. Tale disposizione, come abbiamo avuto modo di vedere, si pone in termini di eccezione rispetto al generale regime di corresponsabilizzazione di tutti i protagonisti della filiera di gestione dei rifiuti, dalla produzione al recupero o smaltimento finali, previsto dal medesimo art. 188 al primo comma. Il ragionamento seguito è piuttosto semplice: il produttore dei rifiuti deve affidare gli stessi a soggetti autorizzati ed ha l’onere di acquisire la disponibilità della quarta copia del formulario, controfirmato e datato in arrivo dal destinatario, nel termine trimestrale previsto o di dare comunicazione alla Provincia della mancata ricezione; conseguentemente se, in violazione di tali precise disposizioni, affida i rifiuti a soggetti non autorizzati, risponde per le attività di illecita gestione sanzionate dall’art. 256 del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

Ricorrono, per il vero, in tale ipotesi, tutti gli elementi atti a configurare una posizione di garanzia del produttore dei rifiuti: compare un obbligo specificamente connotato, quello appunto di effettuarne il conferimento a soggetti autorizzati; obbligo che è riconducibile direttamente alla sfera di controllo del produttore stesso, che decide a chi conferire i proprio rifiuti.

L’affermazione della responsabilità penale del produttore, nel caso richiamato, non viene corredata dalla giurisprudenza, da particolari elaborazioni sistematiche, ma viene fatta discendere, quasi come una conseguenza naturale, dalla violazione del citato obbligo di affidamento dei rifiuti a soggetti autorizzati. Il principio affermato a più riprese si cristallizza nella considerazione che "colui che conferisce i propri rifiuti a soggetti terzi per il recupero o lo smaltimento ha il dovere di accertare che questi ultimi siano debitamente autorizzati allo svolgimento delle operazioni, con la conseguenza che l'inosservanza di tale regola di cautela imprenditoriale è idonea a configurare la responsabilità per il reato di illecita gestione di rifiuti in concorso con coloro che li hanno ricevuti in assenza del prescritto titolo abilitativo"[46].

L’obbligo di diligenza del produttore si sostanzia, quindi, nella verifica dell’autorizzazione del trasportatore[47] e dei soggetti che effettuano le operazioni, anche intermedie, di recupero o smaltimento. Tale verifica potrebbe apparire, ad una prima analisi, non particolarmente complessa: si tratta di riscontrare, infatti, in capo ai soggetti sopra indicati, la disponibilità di un titolo autorizzativo valido, non scaduto e recante indicazione dei codici CER dei rifiuti che vengono affidati in gestione.

Tuttavia, nella pratica, l’adempimento può essere tutt’altro che di semplice ed immediata esecuzione: le autorizzazioni, spesso, recano le più svariate condizioni, sia con riferimento alla tipologia dei rifiuti ammessi (oltre al CER, possono essere richieste specifiche caratteristiche tecniche aggiuntive di composizione dei rifiuti), sia con riferimento alle modalità della loro concreta gestione. L’efficacia dell’atto autorizzativo, inoltre, può essere condizionata da adempimenti del titolare, quali, primo fra tutti, la presentazione di garanzie fideiussorie, ma anche dalla realizzazione di interventi o attività sul o nel sito, nel quale viene effettuato il recupero o lo smaltimento.

Sorge, quindi, per i pratici del diritto, la necessità di valutare fino a dove il produttore dei rifiuti debba spingere la propria attività di controllo e verifica, per potere considerare adempiuto quanto disposto dall’art. 188, comma 3, lett. b), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152. In particolare, secondo un approccio di tipo formale, si potrebbe, ritenere sufficiente, a tale fine, una mera attività di riscontro della sussistenza di un valido titolo autorizzativo, per le tipologie dei rifiuti conferiti. In un’ottica più sostanzialistica, invece, si potrebbe richiedere una verifica in ordine anche all’adempimento delle condizioni previste dal titolo autorizzativo, nonché, da ultimo, delle prescrizioni gestionali imposte al soggetto che effettua l’attività di recupero o smaltimento. La varietà dei casi concreti non si presta sicuramente alla definizione di criteri generali. Va da sé tuttavia che, in un’ottica penalistica, andrà ricostruita in concreto, come dicevamo, la relazione, tra il produttore e gli altri soggetti della filiera di gestione dei rifiuti, anche per illuminare l’elemento soggettivo del produttore stesso. In tale ambito, particolare rilievo assumono, come abbiamo già accennato, le condizioni economiche del conferimento e la verifica della disponibilità in capo al soggetto affidatario della gestione dei necessari requisiti organizzativi per lo svolgimento dell’attività, non sempre e non solo soddisfatti dalla formale disponibilità del titolo autorizzativo.

Per quanto attiene alle verifiche in ordine al rispetto dell’autorizzazione, maggiore sarà il livello di analisi della sussistenza di tutte le relative condizioni di efficacia e validità, maggiore sarà l’affidamento che il produttore potrà riporre nell’efficacia scriminante del modello previsto dall’art. 188, comma 3, lett. b), del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

 Per quanto attiene ai profili di diritto amministrativo, il produttore potrà fare affidamento sulla presunzione di legittimità dell’atto autorizzativo stesso, non potendosi imputare certo, allo stesso produttore, elementi di invalidità, che non si siano tradotti in specifici provvedimenti di sospensione o annullamento da parte del giudice amministrativo.

Si danno, tuttavia, casi nei quali è la stessa legge, dettando disposizioni di portata generale, a costituire, in capo al titolare dell’autorizzazione, alcuni adempimenti. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’obbligo di presentazione delle garanzie fideiussorie generalmente previsto a carico dei gestori degli impianti. Si pensi, altresì, sempre a titolo di esempio, a quanto previsto, dal Decreto Legislativo, 4 marzo 2014, n. 46. Con quest’ultimo provvedimento, in attuazione della direttiva 2010/75/UE relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell'inquinamento), è stato modificato, tra l’altro, il perimetro di applicazione del regime dell’autorizzazione integrata ambientale. Ebbene, per assicurare la necessaria continuità operativa agli stabilimenti, in possesso di autorizzazione ordinaria che, per effetto della novella, si sono trovati nel perimetro applicativo dell’autorizzazione integrata ambientale, l’art. 29, comma 2, del citato D. Lgs. 46/14 ha previsto che: “I gestori delle installazioni esistenti che non svolgono attività già ricomprese all'Allegato VIII alla Parte Seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, come introdotto dal decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128, presentano istanza per il primo rilascio della autorizzazione integrata ambientale, ovvero istanza di adeguamento ai requisiti del Titolo III-bis della Parte Seconda, nel caso in cui l'esercizio debba essere autorizzato con altro provvedimento, entro il 7 settembre 2014”. Il successivo comma 3 ha, altresì, previsto che “L'autorità competente conclude i procedimenti avviati in esito alle istanze di cui al comma 2, entro il 7 luglio 2015. In ogni caso, nelle more della conclusione dei procedimenti, le installazioni possono continuare l'esercizio in base alle autorizzazioni previgenti (….)”.

In tale caso, la formalizzazione dell’istanza di autorizzazione integrata ambientale, entro il 7 settembre 2014, deve essere qualificata come presupposto di validità della prosecuzione delle attività sulla base del precedente titolo autorizzativo ordinario. E quindi, il produttore che avesse conferito ad un impianto rientrante nella richiamata disciplina - senza verificare l’adempimento, da parte del relativo gestore, della presentazione dell’istanza di cui all’art. 29, comma 2, del D.Lgs. 46/14 in commento - non potrebbe legittimamente giovarsi del regime previsto dall’art. 188, comma 3, lett. b), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152. Ben difficilmente, infatti, il nostro ipotetico produttore potrebbe sostenere di avere effettuato il conferimento ad un soggetto autorizzato; e, ciò, nonostante il gestore dell’impianto di destinazione fosse in possesso di un’autorizzazione ordinaria formalmente in corso di validità, ma privata, come abbiamo visto, di un essenziale presupposto di efficacia.

In merito al termine temporale di validità del provvedimento autorizzativo, la giurisprudenza correttamente afferma che il conferimento di rifiuti ad un soggetto autorizzato, intervenuto dopo la scadenza del titolo, non è naturalmente in grado di integrare le condizioni dell’art. 188, comma 3, lett. b) appena citato. Il conferimento ad un soggetto in possesso di un’autorizzazione scaduta equivale, infatti, al conferimento effettuato ad un soggetto non autorizzato e comporta il concorso del produttore nella gestione illecita effettuata da quest’ultimo[48].

Per quanto attiene, invece, alle eventuali violazioni poste in essere dal gestore dell’impianto rispetto alla legge o alle prescrizioni autorizzative, riteniamo che, come si è già accennato, difficilmente possa configurarsi una responsabilità del produttore in buona fede. Si pensi, in particolare, al caso in cui l’autorizzazione dell’impianto di destinazione preveda specifiche modalità gestionali, quali, in particolare, tecniche e tempistiche di trattamento dei rifiuti. In tale ipotesi, non potendosi configurare, in capo al produttore dei rifiuti, uno specifico potere impeditivo e di controllo in ordine all’esecuzione delle menzionate procedure, non potrà conseguentemente configurarsi una posizione di garanzia del medesimo produttore e quindi, una sua penale responsabilità.

Questo, probabilmente, con l’eccezione del caso in cui il produttore si sia reso colpevolmente responsabile della mancata considerazione di segnali di allarme, quali potrebbero essere, ad esempio, il costo di smaltimento eccessivamente basso rispetto al mercato, ovvero la gestione, da parte del cessionario, di rifiuti, con parametri quantitativi e temporali incompatibili con le infrastrutture, in possesso del cessionario stesso. Potrebbe, in tali ipotesi, essere, a ragione, evocata l’elaborazione giurisprudenziale, che fonda, sulla non considerazione dei segnali di allarme appunto, la responsabilità degli amministratori non esecutivi di società di capitali, per l’illecito realizzato da amministratori in possesso di poteri delegati[49].

 

7. La classificazione dei rifiuti.

 

Abbiamo esaminato, nel paragrafo precedente, le ipotesi nelle quali il comportamento del produttore rileva, principalmente, in termini omissivi; casi in cui, appunto, dalla mancata verifica, in ordine all’idoneità sotto il profilo autorizzativo del cessionario dei rifiuti, deriva, al produttore, un addebito di responsabilità a titolo di concorso.

Veniamo ora ad analizzare, sia pure in modo sintetico, il caso in cui il produttore affidi rifiuti, non correttamente classificati ad un soggetto incaricato delle relative attività di gestione.

Come sopra evidenziato, per insegnamento consolidato, la classificazione dei rifiuti costituisce obbligo del produttore. Infatti, è il produttore, che, con la sua attività, ha determinato, di fatto, la formazione del rifiuto; ed è, pertanto, quest’ultimo il soggetto più qualificato, per effettuare le attività di qualificazione del rifiuto ed attribuzione del codice CER. Lo stesso codice CER, infatti, non è altro che una serie numerica, atta ad individuare, con un sistema di suddivisione per classi, la tipologia di attività che ha prodotto il rifiuto. La qualificazione della tipologia di rifiuto è, quindi, una conseguenza della corretta individuazione dell’attività che l’ha prodotto, nonché della caratterizzazione, effettuata, se del caso, con il supporto di verifiche analitiche. Un rifiuto, in altre parole, assume un codice CER, piuttosto che un altro, in funzione dell’attività che l’ha prodotto. E quindi, coerentemente, è il soggetto che ha svolto tale attività che assume la responsabilità della citata qualificazione.

Dall’attribuzione di una specifica “identità” al rifiuto discendono una serie di conseguenze giuridiche di non poco conto. Il sistema autorizzativo è, infatti, basato sui codici CER; la tipologia dei rifiuti è il primo degli elementi necessari del provvedimento autorizzativo, per quanto chiaramente previsto dall’art 208, comma 11, del Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152[50]. L’erronea classificazione dei rifiuti determina un’illegittimità, per così dire, a catena, che si propaga per tutta la filiera della gestione: oltre all’illecito amministrativo ed al reato previsti dall’art. 258, comma 4, del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152[51], si concretizzerà, infatti, un’attività di gestione di rifiuti non autorizzata, ai sensi dell’art. 256 dello stesso Decreto[52].

Si pensi, a titolo esemplificativo, all’ipotesi di un impianto autorizzato per la gestione di rifiuti non pericolosi, che si trovasse a gestire rifiuti pericolosi, conferiti come non pericolosi appunto, in conseguenza di un’erronea classificazione operata dal produttore. Varrebbero naturalmente le stesse considerazioni anche in caso di errata qualificazione dei rifiuti, all’interno della medesima categoria dei rifiuti pericolosi o non pericolosi. La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che “il trattamento di un rifiuto diverso da quello autorizzato equivale a trattamento di rifiuto senza autorizzazione”[53].

Atteso il rilevo della classificazione dei rifiuti nel sistema del diritto ambientale, analizziamone, sia pure in via sintetica, i profili problematici. Una corretta classificazione dei rifiuti è un risultato che presuppone una corretta e verificabile procedura. In tale contesto, assumono particolare rilievo le verifiche di carattere analitico. L’attività finalizzata al rilascio del certificato di analisi richiede la conoscenza di elementi di fatto afferenti al ciclo produttivo del rifiuto, nonché di specifiche competenze tecniche per l’effettuazione delle attività di campionamento e di verifica analitica in senso stretto. La fase di campionamento costituisce, senza dubbio, uno dei momenti più delicati per l’affidabilità della verifica. Si osservano, a tale proposito, nella prassi diverse modalità operative. Le attività di prelievo e campionamento possono essere effettuate, con modalità predeterminate e/o condivise tra produttore ed analista o meno. L’analista, ovvero suoi incaricati, possono essere affidatari delle attività di campionamento, o quest’ultimo può essere effettuato dal produttore o suoi incaricati.

Le scelte concretamente adottate incidono, senza dubbio, sull’affidabilità della classificazione dei rifiuti e sul giudizio di colpevolezza del produttore. In particolare, la sussistenza di una proceduralizzazione, tecnicamente corretta e verificabile, delle attività, che conducono dal campionamento, all’analisi ed infine alla classificazione del rifiuto, consentirà al produttore di documentare l’adempimento dei propri doveri di diligenza. Per contro, l’inconsistenza delle procedure o la loro inidoneità potranno rivelare la volontà di eludere le disposizioni vigenti, agevolando la riconduzione della condotta del produttore a quella prevista nelle fattispecie di reato sopra indicate.[54]

L’accertamento analitico, assume particolare rilievo, laddove venga impiegato per l’identificazione del carattere pericoloso o meno dei rifiuti. E’ evidente, infatti, che l’attribuzione della classificazione di non pericoloso ad un rifiuto, che in realtà si riveli in sede di controllo pericoloso, determinerà l’applicazione dal gravoso apparato sanzionatorio, previsto per la gestione non autorizzata di rifiuti pericolosi appunto. A tale proposito, l’accertamento analitico, anche ai fini penali, presuppone un’adeguata, oggettiva e verificabile attività di cernita ed individuazione del corretto set di sostanze pericolose, che dovranno essere oggetto di approfondimento analitico; attività che dovrà essere svolta in coerenza con le indicazioni che provengono da un’approfondita conoscenza del processo produttivo.

 L’esigenza di trasparenza nella caratterizzazione rende opportuna l’adozione di un modus operandi virtuoso, che informi di sé l’intero percorso della caratterizzazione stessa. A tale proposito, assume particolare rilievo la ricognizione del ciclo produttivo e la redazione di una documentazione afferente al processo di produzione dei rifiuti, aggiornabile ed a cui l’analista possa accedere. L’analista deve essere coinvolto anche nella fase di prelievo e campionamento, se non con una partecipazione operativa diretta, mediante una condivisione delle modalità; ciò anche in attuazione dei principi di responsabilizzazione e cooperazione, previsti art. 178 del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152 e sui quali ci siamo già soffermati. Deve, in altre parole, realizzarsi un rapporto di proficua collaborazione tra analista e produttore, informato dalla finalità, di pervenire ad una coerente e corretta classificazione dei rifiuti, che costituisce il risultato di un percorso operativo, come dicevamo, virtuoso e non certo di attività sporadiche e decontestaulizzate.

Inoltre, siccome la composizione dei rifiuti può essere soggetta a variazione nel tempo, laddove emergano elementi tali da far dubitare dell’affidabilità della classificazione già adottata, il produttore diligente dovrà rinnovare le attività di verifica propedeutiche alla classificazione stessa. Tale esigenza di approfondimento, potrà verificarsi, ad esempio, laddove alcune delle verifiche analitiche diano risultati non in linea con quelli riscontrati con continuità in precedenza. Anche qui, l’obbligo di diligenza sembra concretizzarsi in quell’attenzione ai “segnali di allarme”, che è stata teorizzata in ambiti del tutto differenti dell’ordinamento e di cui abbiamo fatto cenno nel precedente paragrafo.

In sede di verifica delle attività di classificazione dei rifiuti sotto un profilo penale, rileverà, anche in questo caso, il complessivo assetto della relazione instaurata dal produttore con l’analista, nonché la relativa formalizzazione e documentazione. Se, quindi, la classificazione dei rifiuti è l’esito di una procedura, tanto maggiore sarà il livello di prova e documentazione dell’affidabilità di tale procedura, tanto maggiore sarà il livello documentato dell’adempimento del dovere di diligenza del produttore. Conseguentemente minore sarà la possibilità di ricondurre la condotta del produttore stesso al reato di gestione non autorizzata di rifiuti.

 

8. La responsabilità del committente per le attività affidate in appalto.

Non appare opportuno, nell’economia del presente lavoro, soffermarci diffusamente sulle disposizioni del Decreto Legge, 19 giugno 2015, n. 78, convertito con modificazioni, dalla Legge, 6 agosto 2015, n. 125, che hanno modificato la formulazione dell’art. 183, comma 1, lett. f), del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152.

Le ragioni e le implicazioni dell’introduzione della categoria del produttore dei rifiuti, c.d. “in senso giuridico” sono state, infatti, già sufficientemente illustrate[55]. La dottrina ha, in particolare, evidenziato come tale introduzione non abbia determinato una duplicazione di obbligazioni tra produttore materiale e produttore giuridico dei rifiuti, ma abbia, nella sostanza, meglio focalizzato gli obblighi di vigilanza in capo a quest’ultimo, laddove affidi a terzi le materiali attività di gestione dei rifiuti[56].

Del pari, è oramai consolidato l’orientamento che ritiene l’appaltatore qualificabile come produttore dei rifiuti generati nel corso delle attività affidate in appalto. Infatti la Suprema Corte[57] ha, da ultimo, affermato che “l’appaltatore, in ragione della natura del rapporto contrattuale, che lo vincola al compimento di un’opera o alla prestazione di un servizio con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio è, di regola, il produttore del rifiuto su di lui gravano, quindi, i relativi oneri, pur potendosi verificare, come osservato in dottrina, casi in cui, per la particolarità dell’obbligazione assunta o per la condotta del committente, concretatasi in ingerenza o controllo diretto sull’attività dell’appaltatore, detti oneri si estendono anche a tale ultimo soggetto.”

E’ opportuno, invece, soffermarci sulla possibilità del trasferimento della posizione giuridica di produttore dei rifiuti, nel contesto dell’esternalizzazione delle attività di impresa ed in particolare di manutenzione ordinaria o straordinaria delle infrastrutture e se sia, in qualche modo, configurabile, nel nostro ordinamento, una delega penalmente scriminante, con riferimento alle obbligazioni connesse alla medesima qualifica di produttore.  Nella pratica, infatti, appare talvolta complesso stabilire se l’attività esternalizzata da un imprenditore, per il tramite di un contratto di appalto, consenta di qualificare il soggetto incaricato di svolgere tale attività, come produttore dei rifiuti. Vi possono essere una varietà di fattispecie: da quella in cui il soggetto terzo si impegna ad effettuare specifici e isolati interventi (lo smontaggio e sostituzione di un componente impiantistico, ad esempio) a quella in cui esso si fa carico di una complessa e articolata attività di manutenzione.

Il punto di riferimento per la corretta individuazione del soggetto in possesso dello status di produttore va sempre rinvenuto nell’art. 183 del Decreto Legislativo, 3 aprile 2006, n. 152. Bisognerà capire, nella sostanza, chi è il soggetto che ha realizzato l’attività che ha prodotto rifiuti.  Nelle ipotesi citate a titolo esemplificativo, l’attività generatrice dei rifiuti potrebbe essere, su un piano teorico, individuata, sia in quella riconducibile all’impresa committente, che in quella, ad essa servente, posta in essere dall’affidatario dell’intervento o della manutenzione. Per una corretta individuazione del produttore dei rifiuti deve essere, tuttavia, considerata l’attività più prossima alla generazione dei rifiuti, appunto. Ma la menzionata attività generatrice, per essere considerata tale, dovrà possedere caratteristiche minime di autonomia ed organizzazione.

Nel caso di un soggetto chiamato a prelevare un componente esausto presso un sito industriale, non sarà possibile individuare un’attività autonoma e organizzata produttrice del rifiuto diversa da quella svolta dal titolare di tale sito. Sarà quindi quest’ultimo, il produttore del rifiuto. Se, tuttavia, il medesimo titolare del sito procedesse ad affidare, invece, ad un terzo, un’attività di manutenzione straordinaria, il carattere organizzato ed autonomo di quest’ultima attività, permetterà di considerare il terzo stesso, come produttore dei rifiuti generati nel corso della manutenzione straordinaria stessa.

Se, quindi, la qualifica di rifiuto deriva dalla tipologia di attività che viene posta in essere, vi è poco spazio per un trasferimento volontario o contrattuale della posizione di garanzia connessa alla qualifica di produttore dei rifiuti, che si connota in termini originari. O meglio, un trasferimento è possibile solo nella misura in cui il rapporto concretamente posto in essere determini, effettivamente, una traslazione dell’attività generatrice dei rifiuti, come sopra qualificata. In tale contesto, il contratto o la delega, non pare possano avere un potere traslativo di obblighi e responsabilità, se non nella misura in cui determinino un effettivo trasferimento delle attività, cui è riconducibile lo status di produttore dei rifiuti.

Come, in materia di sicurezza, lo status di datore di lavoro deriva dalla sussistenza in capo ad un soggetto di tutti i poteri decisionali e di spesa in seno all’impresa o all’unità produttiva, in tema di rifiuti, lo status di produttore è conseguenza dello svolgimento dell’attività generatrice degli stessi.

E come la qualifica di datore di lavoro può essere trasferita (o meglio incardinata) in capo ad un soggetto solo con l’attribuzione dei citati poteri, quella di produttore rifiuti, può essere trasferita solo con le citate attività. Il datore di lavoro può, infatti, bene avvalersi del supporto di soggetti terzi per l’adempimento degli obblighi non delegabili[58], ma tale collaborazione non potrà avere un effetto scriminante, per lo stesso datore di lavoro. Allo stesso modo l’affidamento a terzi delle attività connesse agli adempimenti, per così dire, non delegabili del produttore, quali la classificazione dei rifiuti ed il relativo conferimento a soggetti autorizzati[59], non sarà in grado di determinare una traslazione della posizione di garanzia e della connessa responsabilità penale del produttore medesimo.

 

 



[1] Il lavoro è frutto comune dei due autori. Ad ogni modo, Sara Faina ha redatto i paragrafi. 1, 2, 3 e 4, e Gianpaolo Mocetti i paragrafi 5, 6, 7, 8. Il presente articolo è stato pubblicato, in forma ridotta, su "Ambiente Legale Digesta", n. 2 Marzo-Aprile 2017.

[2]L’obbligazione originaria del cittadino riguarda solo le astensioni”, sintetizza lucidamente FEUERBACH in Lehrbuch des gemeinen in Deutschland geltenden pinlichen Rechts, Giessen, 1805, 24-25, evidenziando una linea di tendenza tipica dei sistemi codicistici dell’età liberale, che assegna alla responsabilità per omissione un ruolo ridotto e marginale.

[3] NEPPI MODONA, Tecnicismo e scelte politiche nella riforma del codice penale, in Democrazia e diritto, 1977.

[4] Sottolinea la peculiarità strutturale dei reati omissivi, fra gli altri, RONCO M., Commentario sistematico al codice penale, Bologna, 2007, peculiarità che attiene al piano del fatto tipico, dell’elemento soggettivo, del tentativo, del disvalore morale e giuridico tra le due tipologie di illecito: “violando il divieto il soggetto è psichicamente attivo versus la causazione dell’offesa, mentre violando il comando è psichicamente inerte versus la promozione del bene giuridico”.

[5] La dottrina tradizionale ha tentato di attribuire in primis all’omissione un’essenza fisico-naturalistica, ravvisandovi alternativamente un’inerzia, un aliud facere o un “movimento interno nervoso con cui si arresta l’impulso ad agire”. Tali percorsi ricostruttivi si sono, tuttavia, dimostrati incapaci di cogliere in pieno il fondamento della condotta omissiva: il primo, inidoneo a distinguere l’omissione dalla mera inerzia, priva di alcuna valenza penale; il secondo, che manca di considerare che, non sempre, chi omette di compiere l’azione dovuta compie un’altra azione, potendo rimanere totalmente inerte; il terzo, che identificando l’omissione con lo sforzo di inibizione che trattiene i nervi motori che spingono il soggetto all’azione, riduce la stessa ad un’entità meramente psichica, come tale non riconducibile alla più ampia nozione di condotta.

[6] Unitamente condivisa la terminologia, risulta ancora discussa la linea di demarcazione tra le due tipologie di reato. Secondo un primo orientamento (tra gli altri, VANNINI, I reati commissivi mediante omissione, Roma, 1916), ormai superato, il criterio distintivo tra le due fattispecie andrebbe ricercato nel carattere della norma violata: di comando, nei reati omissivi propri; di divieto, in quelli omissivi impropri. Si è, tuttavia, evidenziato a più voci che la differenza tra divieti e comandi si fonda, piuttosto, sulla natura della condotta richiesta: mentre i divieti esigono l’omissione, i comandi, invece, l’esecuzione di un’azione. Sono così emerse due soluzioni alternative: l’una che fa perno sulla struttura della fattispecie; l’altra sulle modalità di tipizzazione dell’illecito. Secondo quest’ultimo orientamento, puramente formale, i reati omissivi propri sarebbero tipizzati espressamente dalla legge, quelli impropri, di contro, sarebbero carenti di una previsione legislativa espressa, risultando dalla combinazione della norma penale di parte speciale configurante una fattispecie commissiva con la clausola generale dell’art. 40, cpv., c.p. (si veda, in tal senso, FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, in Foro Italiano, 1983, V). Per converso, la prima e maggiormente condivisa soluzione ricostruttiva elabora un criterio distintivo di tipo “materiale”: diversamente dai reati omissivi propri, integrati dal solo mancato compimento di un’azione comandata dalla legge, senza che rilevi il verificarsi dell’evento, nei reati omissivi impropri la realizzazione dell’evento appartiene alla fattispecie, il cui nucleo essenziale consiste nel mancato impedimento di un evento materiale. L’omittente assume, quindi, la veste di garante della salvaguardia del bene protetto e risponde anche dei risultati connessi al suo mancato attivarsi (così, MANTOVANI, Diritto penale, Padova, 2015)

[7] L’ambito di operatività della clausola di equivalenza ex art. 40, cpv., c.p., è, tuttavia, tradizionalmente limitato alle sole ipotesi commissive di evento causalmente orientate, per le quali, cioè, il legislatore non pretenda specifiche modalità di condotta tali da risultare incompatibili con una realizzazione omissiva.

[8] Alla stregua della c.d. teoria formale dell’obbligo (si veda, ad es., PALAZZO, Corso di diritto penale. Parte generale, Torino, 2006), in ossequio al prncipio della riserva di legge in materia penale, un obbligo di attivarsi rilevante ex art. 40, cpv., c.p. può nascere esclusivamente dalla legge, penale o extrapenale, o dal contratto. Più discussa, la possibilità di ricondurre nel novero delle fonti legittimanti la precedente azione pericolosa posta in essere dal soggetto, da cui deriverebbe l’obbligo giuridico di attivarsi per eliminare le conseguenze dannose.

[9] FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per omissione, cit. Secondo l’opinione dottrinale qui riferita, l’elemento determinante per decidere dell’esistenza di una posizione di garanzia in capo ad un certo soggetto non sarebbe il dato formale rappresentato dalla giuridicità della fonte della relativa situazione di obbligo, ma il criterio sostanziale dell’effettivo dominio del garante su determinati fattori causativi dell’evento.

[10] ROMANO, Commentario sistematico del Codice penale, Milano, 2004.

[11] Tipica l’ipotesi di cui all’art. 593 c.p. che sancisce a carico di “chiunque” l’obbligo di prestare soccorso a soggetti trovati in stato di incapacità di provvedere a sé stessi o comunque in pericolo. Il soccorritore occasionale, a differenza del garante, in mancanza di un preesistente potere impeditivo dell’insorgenza della situazione di pericolo, può, esclusivamente in via di fatto, impedire che tale situazione di pericolo evolva in una situazione maggiormente lesiva.

[12] Obblighi giuridici di protezione possono derivare dalle fonti più disparate. Ad esempio, nell’ambito dei rapporti di famiglia, è la legge che impegna i genitori a garantire la vita e l’integrità fisica dei figli minori; e, nei rapport tra i coniugi, l’obbligo reciproco di assistenza morale e materiale. Dalla fonte convenzionale deriva, invece, in via esemplificativa, il dovere di proteggere la vita dei bagnanti assunto dal bagnino, attraverso un contratto stipulato con il concessionario di uno stabilimento balneare.

[13] Vengono qui in evidenza sia pericoli creati da forze della natura, sia pericoli connessi allo svolgimento di attività umane. Ad esempio, l’obbligo di neutralizzare I pericoli per l’incolumità pubblica derivanti da inondazioni incombe su diversi organi, centrali e periferici, in cui si articola il Servizio della Protezione civile. Quanto agli obblighi di controllo su fonti di pericolo legate allo svolgimento di attività umane, si pensi, invece, ai pericoli per l’incolumità pubblica connessi al trasporto su strade sterrate.

[14] Tra gli altri, MANTOVANI, Diritto penale, cit.

[15] La figura del reato concorsuale nasce, pertanto, dalla reciproca integrazione tra la norma generale di cu all’art. 110 c.p. e la singola norma incriminatrice di parte speciale. Quattro sono gli elementi comunemente intesi come costitutivi di tale peculiare fattispecie. In particolare, la pluralità di agenti costituisce il primo e il più tipico dei requisiti della figura di cui all’art. 110 c.p., in quanto connaturato al concorso. È, inoltre, indispensabile che siano realizzati i requisiti necessari per la sussistenza di una fattispecie penalmente rilevante, consumata o tentata, in ossequio ai principi di materialità e di offensività che ispirano il nostro ordinamento penale. Perché un soggetto risponda della commissione di un reato a titolo di concorso è necessario, poi, che abbia apportato un contributo personale alla realizzazione dello stesso, di natura materiale o morale (istigazione o determinazione), che non si limiti ad una mera adesione psicologica al fatto illecito, ostandovi il principio cogitationis poenam nemo patitur. Accanto all’elemento oggettivo, è, infine, necessaria la partecipazione soggettiva di ciascun concorrente nel reato, a titolo di dolo (consistente nella coscienza e volontà del fatto criminoso, unitamente alla volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato) o colpa (che richiede almeno la ricorrenza di un legame psicologico con l’agire altrui).

[16] Si veda, in particolare, Cass. pen., Sez. II, 17 settembre 1997, n. 9252

[17] Cass. pen., Sez. III, 8 luglio 1983, in Cass. pen.,, 1984, 2263

[18] Cass. pen., Sez. III, 10 giugno 2005, n. 21966

[19] Cass. pen., Sez. III, 1 luglio 2002, n. 32158

[20] In quest’ultimo caso, la forza vincolante del contratto trova il suo fondamento nella legge che, all’art. 1372 c.c., attribuisce un tale valore all’incontro della volontà delle parti. Sennonché, l’efficacia vincolante del contratto non è da sola sufficiente a determinare la nascita di un obbligo di garanzia, essendo del pari necessario che sulla base del contratto – concluso con il titolare dell’interesse da proteggere o con un suo precedente garante - si sia attribuito ad un soggetto il ruolo di “istanza di protezione” di un certo bene: è quanto avviene allorché, sulla scorta del contratto, il bene sia concretamente affidato, sorgendo così un effettivo rapporto tra garante e bene da proteggere.

[21] Così, GARGANI, Ubi culpa, ibi omissio. La successione di garanti in attività inosservanti, in Ind. Pen., 2000, 581.

[22] In campo medico, l’effettivo dominio sulla situazione fattuale oggetto di cessione viene a realizzarsi anche grazie all’obbligo informativo che grava sul medico uscente, dovendo questi rendere edotto il subentrante della necessità di un’attenta osservazione e di un controllo costante dell’evoluzione della malattia del paziente che sia soggetto a rischio di complicanze.

[23] Chi cede, infatti, un’attività immune da violazioni procedurali può legittimamente invocare il principio di affidamento, non essendo sufficiente a fondare la responsabilità penale la sola prevedibilità della commissione di fatti colposi da parte di terzi autoresponsabili, essendo venuto meno il precedente obbligo giuridico di attivarsi per impedire l’evento.

[24] Cass. pen., Sez. IV, 26 maggio 1999, n. 214248: “Non si può quindi ipotizzare affidamento quando colui che si affida sia in colpa per avere violato determinate norme di condotta e, ciononostante, confidi che altri che gli succede nella posizione di garanzia elimini la violazione e ponga rimedio a conseguenze negative di sua colpa già estrinsecata”.

[25] In ossequio al principio di legalità, infatti, parte della dottrina si era mostrata contraria ad ammettere che il titolare degli obblighi di garanzia, individuato dalla legge penale, li dismettesse attravero il loro trasferimento ad altro soggetto discrezionalmente scelto e individuato con atto di autonomia privata.

[26] In linea con tale elaborazione giurisprudenziale, il Legislatore del 2009 è intervenuto a disciplinare il fenomeno della delega nel campo della sicurezza sul lavoro (T.U. 9 aprile 2008, n. 81) che costituisce oggi l’archetipo formale di riferimento per ogni altro settore non espressamente toccato dalla iniziativa normativa.

[27] In realtà sul campo si fronteggiano due orientamenti altalenanti della giurisprudenza: quello che ritiene che si possa fare a meno del requisito della forma scritta quando il trasferimento di funzioni sia ricavabile dalla concreta ripartizione di compiti e poteri nelle imprese di grandi dimensioni; e quello che è, invece, contrario alle deleghe implicite e prive della forma scritta, reputando necessaria anche una formale pubblicità delle stesse all’interno e all’esterno dell’organizzazione.

[28] Così, ad esempio, Cass. pen., Sez. III, 17 gennaio 2000, n. 422.

[29] Può ben residuare, quindi, una responsabilità del delegante in relazione al reato commesso dal delegato nell’esercizio dei poteri assegnatili. La questione non si pone in termini problematici nei casi in cui, essendo colposo il reato commesso dal delegato, si contesti al delegante un concorso anche omissivo di tipo colposo, addebitandosi un negligente monitoraggio dell’attività espletata nell’esercizio della delega. Più complessa la questione nei casi in cui sia doloso il reato commesso dal delegato, essendo richiesto, in tali ipotesi, che il delegante abbia quantomeno accettato il rischio di commissione della fattispecie, omettendo, pertanto, con dolo eventuale.

[30] Posto che l’ingerenza è cosa diversa dal controllo e postula un intervento e una diretta e penetrante influenza ed interferenza da parte del delegante nell’attività e nelle scelte del delegato, la giurisprudenza ritiene che la stessa configuri un vero e proprio atto di revoca della delega conferita, comportando perciò una riemersione della responsabilità piena del delegante (Cass. pen., Sez. IV, 30 maggio 1991, n. 11457).

[31] Art. 183, comma 1, lett. f), D. Lgs., 3 aprile 2006, n. 152.

[32] In particolare, si vedano gli artt. 7, D. Lgs. 133 del 2005, 2, D.M. 3 agosto 2008, 8, D.M. 5 febbraio 2008.

[33] Cass. Pen., Sez. Feriale, 13 novembre 2012, n. 43886.

[34] Secondo quanto previsto dal Catalogo Europeo dei Rifiuti (CER), ogni rifiuto è identificato da un codice numerico di 6 cifre, dove ciascuna coppia di numeri ne identifica la classe, la sottoclasse e la categoria. L’assegnazione del codice CER ad un rifiuto rispetta una procedura indicata ai punti 2. – 3. (3.1., 3.2., 3.3., 3.4.) all’Allegato D alla Parte IV del D. Lgs., 3 aprile 2006, n. 152, che deve essere applicata dal produttore con molta attenzione, rispettando la sequenza operativa descritta. La scorretta classificazione non è, di per sé, sanzionata da alcuna norma, ma può condurre alla commissione di diversi reati puniti con sanzione penale (gestione di rifiuti non autorizzata, traffico illecito di rifiuti).

[35] I rifiuti stoccati devono, infatti, essere divisi per categorie omogenee (è vietato miscelare categorie diverse di rifiuti pericolosi e rifiuti pericolosi con rifiuti non pericolosi) e nel rispetto delle relative norme tecniche e, per i rifiuti pericolosi, nel rispetto anche delle disposizioni specifiche previste, anche con riferimento all’imballaggio e all’etichettatura. Inoltre, i rifiuti stoccati non devono contenere policlorodibenzodiossine, policlorodibenzofurani, policlorodibenzofenoli in quantità superiore a 2,5 parti per milione (ppm), né policlorobifenile e policlorotrifenili in quantità superiore a 25 parti per milione (ppm).

[36] I tempi di giacenza si misurano fondamentalmente in base alle registrazioni di messa in carico fatte sul registro di carico e scarico. Il sistema sanzionatorio prevede che se non si rispettino tali regole si incorre, alternativamente, nei reati di deposito incontrollato o abbandono di rifiuti e discarica abusiva (art. 256, D. Lgs., 3 aprile 2006, n. 152).

[37] Il produttore di rifiuti conserva l’onere del corretto avvio allo smaltimento o recupero fino alla destinazione finale: non si spoglia, quindi, della responsabilità dei suoi rifiuti semplicemente consegnandoli al trasportatore terzo, ma conserva l’onere di vigilanza circa il buon esito del viaggio dei rifiuti verso il sito finale che deve essere necessariamente conosciuto e verificato sia dal produttore sia dal trasportatore al momento della partenza.

[38] Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, alla disciplina di cui agli artt. 2051, 2052, 2054, comma 3, del c.c.

[39] Non ci si sofferma, in questa sede, sulle implicazioni dell’introduzione della categoria di produttore in senso giuridico operata dal D.L. 19 giugno 2015, n. 78, convertito con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2015, n. 125, cui faremo cenno nel paragrafo 8 che segue.

[40] Per un’interessante ricostruzione dei profili della responsabilità penale dei protagonisti della filiera della gestione dei rifiuti, si veda PAONE, Le responsabilità soggettive nella filiera dei rifiuti (nota a Cass. pen. n. 13363/2012), in Ambiente & Sviluppo, 11/2012.

[41] Si veda Cass. Civ., Sez. I, 1 settembre 1995, n. 9211, che, pur in un contesto normativo anteriore al D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, connota come pericolosa, ai sensi dell’art. 2050 c.c., l’attività di gestione dei rifiuti tossici (sulla base della classificazione allora vigente) ed individua una responsabilità solidale di tutti i soggetti coinvolti nel ciclo di produzione e di smaltimento degli stessi.

[42] Deve essere evidenziato, infatti, che, fino all’intervento normativo operato dalla L. 22 maggio 2015, n. 68, l’unica fattispecie di delitto prevista in materia di gestione dei rifiuti dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152 era quella di cui all’art. 260.

[43] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 22 settembre 2004, n. 40618, incentrata, invero, sulla responsabilità del committente (che sarà oggetto di approfondimento nel paragrafo 8), ma che riporta in motivazione principi di carattere generale.

[44] Anche a tale proposito si vedano le considerazioni e la giurisprudenza di cui al contributo di PAONE, cit.

[45] Sul rilievo degli elementi caratterizzanti la relazione tra produttore e smaltitore dei rifiuti in una fattispecie di tipo associativo per illeciti ambientali commessi in relazione a rifiuti prodotti da attività date in appalto, si veda Cass. Pen., Sez. III, 20 marzo 2014, n. 13025, nel contesto della quale sono state poste a fondamento dell’affermazione del concorso “a) l'anomalia della clausola contrattuale volta ad addossare i costi dello smaltimento del grit esausto sull'appaltante a fronte di una gestione dello stesso grit interamente affidata alla appaltatrice; b) l'indubbio vantaggio economico che derivava da tale clausola; c) la totale mancanza di verifiche da parte dell'indagato sull'operato della società (…) nello smaltimento.”.

[46] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 14 maggio 2014, n. 19884, che richiama anche Cass. Pen., Sez. III, 4 giugno 2013 n. 29727; (in tal senso conformi: Cass. Pen., Sez. III, 27 marzo 2007 n. 18038, Cass. Pen., Sez. III, 1 aprile 2004 n. 21588 e Cass. Pen., Sez. III, 19 febbraio 2003 n. 16016).

[47] Sulla responsabilità del trasportatore e sulla collocazione delle attività di trasporto a pieno titolo nell’ambito della attività di gestione dei rifiuti, si veda TAR Veneto, Venezia, Sez. III, 24 novembre 2009, n. 2968, nella quale si legge che “Il Collegio non ritiene, inoltre, di poter condividere la prospettazione della società ricorrente secondo la quale l'essere stata incaricata del solo trasporto dei rifiuti implica che la stessa vada esente da ogni responsabilità in ordine alla loro gestione e, quindi, anche in relazione all'assenza delle autorizzazioni prescritte per l'impianto nel quale sono stati stoccati. Ed infatti, secondo la giurisprudenza l'attività di trasporto dei rifiuti a soggetto risultato, poi, in posizione irregolare quanto alle necessarie autorizzazioni, è assimilabile a quella di abbandono dei rifiuti stessi.”.

 

[48]Corte di Appello Perugia, 11 maggio 2012, nella quale si legge che (….) è onere del produttore o detentore di verificare in modo rigoroso che il soggetto al quale i rifiuti vengono conferiti per le ulteriori fasi, tanto più per lo smaltimento, sia munito del necessario titolo autorizzativo, non potendo egli in alcun modo invocare la buona fede, ove non dimostri di aver fatto quanto era nelle sue possibilità per compiere quella verifica. Nel caso di specie la prova dell'insussistenza di un valido titolo abilitativo emergeva per tabulas, proprio perché la documentazione ostensibile e consultabile recava l'indicazione della data del rilascio dell'autorizzazione: ciò comportava altresì che, in assenza di sopravvenienze, la scadenza non avrebbe potuto oltrepassare il quinquennio. Ed allora deve concludersi che l'imputato non avrebbe potuto confidare sulle apparenze di un'attività che proseguiva tal quale, avendo invece la possibilità di avvedersi della scadenza del titolo, salva la prova, del tutto mancata, di elementi che potessero fondare il convincimento incolpevole del rinnovo dell'autorizzazione. Men che mai sarebbe potuto parlarsi di ignoranza inevitabile della legge penale, posto che il regime delle proroghe di cui s'è detto non poteva in alcun modo interferire con la durata del titolo e che comunque non consta un intervento della P.A. tale da ingenerare in concreto un erroneo convincimento. Ciò posto, è d'uopo rilevare che nel caso in cui il produttore o detentore dei rifiuti conferisca rifiuti per lo smaltimento a soggetto privo di titolo abilitativo, concorre con quest'ultimo nell'illecita attività di gestione (Cass. III, 19-12-2007, Cestaro, Cass. III, 19-2-2003, Battaglino).”.

[49] Cfr. MENARDO, La responsabilità penale omissiva degli amministratori privi di delega, contributo del 19 novembre 2015 disponibile su “www.dirittopenalecontemporaneo.it”.

[50] Cfr. La richiamata disposizione prevede che “L'autorizzazione individua le condizioni e le prescrizioni necessarie per garantire l'attuazione dei principi di cui all'articolo 178 e contiene almeno i seguenti elementi:

a)  i tipi ed i quantitativi di rifiuti che possono essere trattati (….).

[51] Tale disposizione prevede che “Le imprese che raccolgono e trasportano i propri rifiuti non pericolosi di cui all’ articolo 212, comma 8, che non aderiscono, su base volontaria, al sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti (SISTRI) di cui all’ articolo 188-bis, comma 2, lettera a), ed effettuano il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all'articolo 193 ovvero indicano nel formulario stesso dati incompleti o inesatti sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria da milleseicento euro a novemilatrecento euro. Si applica la pena di cui all'articolo 483 del codice penale a chi, nella predisposizione di un certificato di analisi di rifiuti, fornisce false indicazioni sulla natura, sulla composizione e sulle caratteristiche chimico-fisiche dei rifiuti e a chi fa uso di un certificato falso durante il trasporto.”.

[52] Si veda, in merito, FIMIANI, Responsabilità e possibili cautele nella caratterizzazione dei rifiuti, in Rifiuti – Bollettino di informazione normativa, 5/2010.

[53] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 9 febbraio 2005, n. 12349.

[54] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 29 dicembre 2009, n. 49826, nella quale si legge che “Appare infine ugualmente logico sostenere - alla luce del quadro di riferimento esaminato - che l'attività del ricorrente sostanziatasi nel fare analizzare da un laboratorio privato solo 5 Kg di materiale a suo dire scavato nel cantiere della erigenda discarica, corrobori la tesi di un comportamento complessivo tendente ad eludere le disposizioni vigenti.” .

 

[55] Si veda a tale proposito, tra gli altri, OMAR HAGI KASSIM, La nozione di produttore del rifiuto alla luce della recente Cass. Pen. 10 febbraio 2015, n. 5916 e del conseguente intervento del legislatore, in Rivista Quadrimestrale di diritto dell’ambiente, 2/2015.

[56] Cfr. FICCO, Produttore iniziale dei rifiuti tra obblighi e responsabilità, la rivoluzione copernicana nei rapporti tra committente ed esecutore, in Rifiuti – Bollettino di informazione normativa, n. 233/234 novembre-dicembre 2015.

[57] Cfr. Cass. Pen., Sez. III, 16 marzo 2015, n. 11029, che in motivazione espressamente richiama Cass. Pen, Sez. III, 25 maggio 2011, n. 25041; Cass. Pen., Sez. III, 22 settembre 2004, n. 40618; Cass. Pen., Sez. III, 28 gennaio 2003, n. 15165; Cass. Pen., Sez. III, 5 aprile 2011, n. 35692).

[58] Si pensi al supporto solitamente fornito da consulenti o dal responsabile del servizio di prevenzione e protezione al datore di lavoro in sede di valutazione dei rischi.

[59] Si pensi, in questo caso, ai servizi forniti, nella pratica commerciale, dalle imprese di trasporto rifiuti, in ordine all’analisi ed alla classificazione dei rifiuti ed alla connessa attività di individuazione degli impianti di recupero o smaltimento.

 

 
 
 
 
 
 

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