Il limitato tempo riservato dagli organizzatori dell'incontro odierno al capitolo disciplinare mi suggerisce, anzi mi obbliga, a ricordare Tacito iniziando il mio intervento con un cenno alla filosofia che sta alla base non solo dell'ordinamento disciplinare, ma anche di ogni ordinamento punitivo che aspiri a definirsi civile.
E il cenno è a quella tipizzazione dell'illecito antitetica alla discrezionalità del giudice ed in un certo senso al giusto processo.
Passo ad un altro cenno.
Chi parla ritiene superata ogni e qualsiasi ragione di dubbio sulla serietà della giustizia disciplinare spesso etichettata sprezzantemente come giustizia domestica o meglio addomesticata e in quanto tale diversa e lontana dalla vera giustizia.
Va, invece, detto che quella che riguarda i magistrati è una giustizia particolarmente severa se è vero, ed è vero, che la categoria dei magistrati è più di ogni altra sottoposta al rigore sanzionatorio.
E la comparazione corre, con non l'avesse capito, con lo sterminato esercito dei pubblici dipendenti e con l'ancora più sterminato esercito dei liberi professionisti gli uni e gli altri soggetti ad un regolamento disciplinare non solo diverso ma molto più permissivo di quello applicato ai magistrati.
Dire, come purtroppo si dice e si ripete, che i magistrati sono gli unici cittadini che non pagano per gli errori commessi significa dire cosa non vera che il dato statistico è pronto a smentire.
È vero che il giudizio disciplinare a carico dei magistrati, come del resto qualsiasi giudizio punitivo, spesso si conclude con una pronuncia assolutoria.
Che non elimina, tuttavia, le conseguenze negative per l'incolpato del giudizio sia quanto alla progressione della sua carriera che al pagamento dell'onorario che dovrà corrispondere al suo difensore, magistrato o avvocato che sia.
Mi si può rispondere che si tratta in entrambi i casi del danno che subisce qualsiasi cittadino accusato di un illecito; danno che è risarcibile nei soli casi in cui vengono ad essere lesi diritti personale.
Se contrariamente a quanto potrebbe pensarsi e spesso si pensa, l'ordinamento disciplinare dei magistrati non è stato, dunque, pensato per assicurare l'impunità ad una categoria di servitori dello Stato che di tutto ha bisogno tranne che della impunità, va tuttavia escluso che si tratti di un ordinamento che vada bene così com'è e che non debba essere invece riformato.
E la opportunità o meglio la necessità di una riforma è attestata indirettamente da tutte le proposte continuamente e inutilmente avanzate pur essendo espressive di un disagio autentico della società.
E di queste proposte, senza indossare la veste del legislatore, una mi sembra indilazionabile ed è quella che vuole eliminare la incompatibilità ontologica tra due funzioni: quella di governare e quella di giudicare.
E la riforma dovrebbe consistere, parlo sempre per cenni, nel rendere reciprocamente indipendenti e autonomi l'organo disciplinare e l'organo gestorio.
Occorre in poche parole avere la consapevolezza che l'organo disciplinare è un giudice in senso proprio e non può dunque essere nominato dagli stessi soggetti che dovrà poi giudicare e ancor meno assumere un colore politico (mi riferisco ai membri cosiddetti laici).
In entrambi i casi, signori, avremmo un giudice privo di quella imparzialità e indipendenza senza le quali il giudizio cessa di essere tale o, peggio ancora, si trasforma in una parvenza di giudizio o in un giudizio solo apparente.
L'organo di governo e l'organo disciplinare non possono a seconda dei giorni esercitare due funzioni che non solo sono diverse, ma sono e devono rimanere autonome e indipendenti: quella di governo della magistratura e quella di giudice della stessa magistratura che viene governata.
Non ho la necessità di ricordare, trattandosi di un principio elementare della divisione dei poteri, che chi governa non deve giudicare e chi giudica non deve governare.
E l'unico e deplorevole caso in cui le due funzioni vengono ad essere identificate è offerto proprio dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Si dice che una delle riforme più necessarie e urgenti sarebbe quella di eliminare il correntismo.
Non sono affatto d'accordo.
L'alternativa al correntismo è la sorte e chi vi parla ha conosciuto in ambito universitario i danni prodotti da questo singolare modo elettivo.
Ritengo che uno dei modi più corretti di rappresentare una categoria è, invece, quello, democratico, del giudizio della stessa categoria.
E ricordo a me stesso che la libertà di associazione è tutelata dall'art. 18 della Costituzione e che la libertà di associazione non può non essere comprensiva della libertà di eleggere coloro che l'associazione sono chiamati a rappresentare.
Mentre, dunque, governo e giudizio sono due funzioni incompatibili e rendono, perciò stesso, urgente e indilazionabile la loro reciproca indipendenza e autonomia, il divieto del correntismo non ha nessuna copertura costituzionale o normativa e non necessita di alcuna riforma che tra l'altro sarebbe difficile da individuare e non viene infatti individuata facendolo diventare una semplice espressione priva di giuridica consistenza e di portata essenzialmente politica.
E allora l’unica soluzione corretta sarebbe di affidare il giudizio disciplinare ad un organo ai vertici dell’ordinamento nei confronti del quale non può valere né il sospetto di parzialità né quello di incompetenza.
E quest'organo esiste nel nostro ordinamento con il nomen iuris di Corte Costituzionale e con la funzione testuale di giudicare (art. 134 Cost.).
Un'altra riforma che, forse a causa dell'età, ha per me assunto un carattere ripetitivo è quella dell'introduzione nell'ordinamento disciplinare dei magistrati di una riforma che ritengo, e penso di non sbagliare, essenziale ad un corretto svolgimento della funzione punitiva.
Ovviamente, la riabilitazione dovrebbe essere modulata in relazione alla gravità degli illeciti commessi.
Ma, quando si tratta di illeciti di scarsa rilevanza, mi riferisco ad alcune ipotesi di ritardato deposito di un provvedimento, ho ritenuto, ritengo e continuo a ritenere che la riabilitazione può incentivare l'incolpato a non incorrere più nell'illecito e quindi risponda non solo a criteri di giustizia ma anche (e direi soprattutto) ad un corretto esercizio della punizione ricordando che la pena, per precetto costituzionale, deve essere diretta alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.).
Sicchè, e concludo sul punto, la perdurante, mancata introduzione della riabilitazione non può non sollevare dubbi di incostituzionalità.
E qui mi fermo sperando di avervi convinto della necessità di una riforma della giustizia disciplinare.
Anche se sono consapevole che la perdurante in attuazione della necessaria riforma fa assumere al mio convincimento il colore positivo della speranza o, forse, quello negativo dell'illusione.
E se così è non mi resta che ringraziarVi comunque dell'attenzione che mi avete voluto riservare.