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Magistratura Indipendente

PENALE  

La lettura in ottica precauzionale delle misure di prevenzione

  Penale 
 venerdì, 1 dicembre 2017

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Contesto sistematico e possibili effetti di natura penale

di GIANPAOLO MOCETTI, Magistrato ordinario in tirocinio presso la Procura della Repubblica di Perugia

 
 

Sommario: 1. Il principio “chi inquina paga” e la responsabilità per gli oneri di bonifica. 2. La perimetrazione degli obblighi del proprietario incolpevole, secondo l’Adunanza Plenaria e la Corte di Giustizia. 3. La recente giurisprudenza amministrativa in materia di misure di prevenzione. 4. Sintesi e spunti di riflessione in un’ottica penalistica.

 

1.  Il principio “chi inquina paga” e la responsabilità per gli oneri di bonifica.

 Spesso accade che i fenomeni di inquinamento non vengano intercettati dalle autorità preposte alla loro repressione, sia in via amministrativa che penale, nel momento in cui si producono; ancora più spesso accade che l’autore non venga individuato.

E’, quindi, frequente che i terreni inquinati siano nella titolarità di un proprietario incolpevole che ha subito la dolosa o colposa azione inquinante di terzi, non identificati o non più perseguibili, o che è venuto in possesso dei beni in un momento successivo a quello in cui si è verificato l’evento inquinante).

Il principio euro unitario “chi inquina paga” di cui all’art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e l’apparato normativo che ne discende consente – o meglio – impone di ascrivere al soggetto autore dell’inquinamento una responsabilità piena ed incondizionata, per le attività ed i costi di ripristino allo status quo ante.

Tale responsabilità è stata, peraltro, in tempi recenti, rafforzata con la previsione di una tutela penale apprestata dall’art. 452-terdecies del c.p., introdotto dalla L. 22 maggio 2015, n. 68, che ora punisce il soggetto che non provvede alla bonifica, al ripristino o al recupero dello stato dei luoghi, essendovi tenuto per legge, per ordine del giudice ovvero di un’autorità pubblica.

La nuova disciplina ha, come noto, corretto la stortura presente all’art. 257 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che faceva scattare la sanzione penale per i soggetti responsabili d’avere determinato una situazione di inquinamento, solo in caso di mancata effettuazione della bonifica “in conformità al progetto approvato dall'autorità competente nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 242 e seguenti” del medesimo decreto, generando notevoli problematiche applicative proprio nei casi più gravi, ovvero quelli in cui mancava il progetto stesso.

La verifica degli obblighi del proprietario incolpevole ha posto, invece, maggiori problemi, connettendosi anche alla riflessione sulla dimensione ontologica del principio “chi inquina paga”: regola programmatica di razionalità economica che deve orientare le scelte dei vari ordinamenti nazionali alla internalizzazione dei costi ambientali delle attività economiche e che, come tale, ha bisogno di una mediazione operata da specifiche scelte legislative? O norma precettiva fondante del sistema della responsabilità ambientale?

Non è questa la sede per sviluppare un tema così ampio e complesso, è, però, certo che l’istituto della responsabilità extracontrattuale cui naturalmente si riconduce il principio “chi inquina paga”, non riesce a disciplinare in modo compiuto la relazione intersoggettiva che si determina in caso di inquinamento; il modello della responsabilità aquiliana “funziona” solo se i danneggianti ed i danneggiati sono soggetti individuati, cosa che, in caso di danno ambientale, spesso non accade.

E ciò, sia perché l’autore dell’illecito sovente non è identificato o non è perseguibile, sia per lo sfasamento temporale che può determinarsi tra azione ed evento dannoso, sia, ancora, perché gli effetti dannosi si propagano e vanno ad incidere su una platea indeterminata di soggetti.

Dottrina e giurisprudenza si sono, per questo, sforzate di pervenire ad un corretto inquadramento sistematico della responsabilità da inquinamento, approdando a soluzioni diverse del rapporto esistente tra il principio del “chi inquina paga” e l’istituto della responsabilità extracontrattuale.

E così, c’è chi ha ritenuto che la responsabilità da inquinamento presupponga - oltre al fatto ed al danno - l’elemento soggettivo (il dolo o la colpa) ed il nesso di causalità, al pari della responsabilità aquiliana; chi ha ritenuto sufficiente il solo nesso di causalità, configurando tale responsabilità, in termini oggettivi; chi, da ultimo, l’ha riconnessa al mero rapporto con la res, sostanziandola in una responsabilità da posizione.

  E’ evidente che solo una connotazione in termini oggettivi della responsabilità per gli oneri di bonifica consente di chiamare in causa un soggetto che, essendo proprietario di un terreno inquinato, non ne abbia determinato, con dolo o con colpa, l’inquinamento.

A tal proposito, è opportuno rammentare che la giurisprudenza amministrativa (cfr. la stessa T.A.R. Liguria – Genova – Sez. I, 12 aprile 2007, n. 621) ha, talvolta, disancorato il principio del “chi inquina paga” dalla struttura della responsabilità extra contrattuale, facendo riferimento alla teoria dell’analisi costi/benefici.

In quest’ottica, il criterio di imputazione del danno ambientale non si incentra sull’elemento soggettivo del dolo o della colpa:  il danno ambientale deve essere imputato a colui che è nelle condizioni di valutare i costi ed i benefici e, quindi, all’operatore che conduce l’attività da cui il rischio promana. Soltanto chi governa il rischio è chiamato a rispondere degli eventi dannosi che si producono nel corso della sua attività, a prescindere da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo del dolo e della colpa.

Questo il contesto sistematico in cui i pratici del diritto sono chiamati ad operare[1].

 

2. La perimetrazione degli obblighi del proprietario incolpevole, secondo l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di Giustizia.

 

Le regole del D. Lgs. 152/16, sono state efficacemente schematizzate dal Consiglio di Stato, nella citata pronuncia, resa in Adunanza Plenaria 25 settembre 2013, n. 21), come segue
: “1) il proprietario, ai sensi dell'art. 245, comma 2, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione di cui all'art. 240, comma 1, lett.1), ovvero "le iniziative per contrastare un evento, un atto o un'omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia";
2) gli interventi di riparazione, di messa in sicurezza, di bonifica e di ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l'inquinamento (art. 244, comma 2);
3) se il responsabile non sia individuabile o non provveda (e non provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato), gli interventi che risultassero necessari sono adottati dall'Amministrazione competente (art. 244, comma 4);
4) le spese sostenute per effettuare tali interventi possono essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi tra l'altro l'impossibilità di accertare l'identità del soggetto responsabile ovvero che giustifichi l'impossibilità di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo in rivalsa verso il proprietario, che risponde nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell'esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4);
5) a garanzia di tale diritto di rivalsa, il sito è gravato di un onere reale e di un privilegio speciale immobiliare (art. 253, comma 2)”.

Il Consiglio di Stato, tratte le delineate conclusioni sul piano dell’assetto normativo nazionale, aveva, però, dubitato della compatibilità di un tale assetto con il diritto euro unitario; in particolare, si era posta la questione del se l’assenza di un obbligo di bonifica in capo al proprietario incolpevole – che è pur sempre il soggetto che ha la custodia del sito e ne trae utilità – potesse ritenersi compatibile con i vincoli imposti dall’Unione al legislatore nazionale.  Per questo, il Consiglio di Stato aveva rimesso alla Corte di Giustizia UE la seguente questione interpretativa:
- "se i princìpi dell'Unione Europea in materia ambientale sanciti dall'art. 191, paragrafo 2, del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea e dalla direttiva 2004/35/U.e. del 21 aprile 2004 (articoli 1 ed 8 n. 3; 13 e 24 considerando) - in particolare, il principio per cui "chi inquina, paga", il principio di precauzione, il principio dell'azione preventiva, il principio, della correzione prioritaria, alla fonte, dei danni causati all'ambiente - ostino ad una normativa nazionale, quale quella delineata dagli articoli 244, 245 e 253 del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, che, in caso di accertata contaminazione di un sito e d'impossibilità d'individuare il soggetto responsabile della contaminazione o di ottenere da quest'ultimo gli interventi di riparazione, non consenta all'autorità amministrativa d'imporre l'esecuzione delle misure di sicurezza d'emergenza e bonifica al proprietario non responsabile dell'inquinamento, prevedendo, a carico di quest'ultimo, soltanto una responsabilità patrimoniale limitata al valore del sito dopo l'esecuzione degli interventi di bonifica".

La Corte di Lussemburgo, con la sentenza del 4 marzo 2015 ( resa nella causa C-534/13), confermando peraltro, il proprio orientamento (già espresso nella sentenza 9 marzo 2010, C- 378/08), ha risolto la questione interpretativa sollevata dal Consiglio di Stato nel senso che "la direttiva 2004/35/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, deve essere interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale (...) la quale, nell'ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile della contaminazione di un sito o ottenere da quest'ultimo le misure di riparazione, non consente all'autorità competente di imporre l'esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall'autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l'esecuzione di tali interventi".

E’ evidente che nel quadro risultante da tali autorevoli pronunce, che, pure, sono ampiamente supportate sul piano normativo e sistematico, emergano, in un’ottica di tutela ambientale, delle criticità.

Criticità evidenti non solo laddove il soggetto che ha determinato l’inquinamento non è stato individuato o non è più perseguibile, ma anche quando in cui questi ceda il compendio immobiliare inquinato ad un acquirente “incolpevole”, proprio al fine di sottrarsi agli oneri di bonifica.

È verosimilmente, anche in ragione di ciò che la giurisprudenza amministrativa più recente ha prestato particolare attenzione alla corretta perimetrazione delle misure di prevenzione esigibili dal proprietario attuale del sito inquinato, a prescindere dal contributo che questi abbia dato alla situazione di contaminazione.

 

3. La recente giurisprudenza amministrativa in materia di misure di prevenzione.

Abbiamo visto che, così come chiarito dalla giurisprudenza, il proprietario incolpevole è tenuto solo alle misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. i) del D.Lgs. 03 aprile 2006, n. 152, oltre ad assumere naturalmente una responsabilità patrimoniale nei limiti del valore dell’immobile, sul quale gravano l’onere reale e il privilegio speciale di cui all’art. 253, commi 1 e 2 dello stesso decreto.

E’ quindi evidente come, anche sulla base delle considerazioni svolte nel paragrafo che precede, la precisa individuazione delle misure di prevenzione assuma un rilievo centrale nel sistema; non è, allora, probabilmente un caso che il Consiglio di Stato, dopo la citata Adunanza Plenaria n. 21/2013, si sia occupato, almeno in tre occasioni, di tale istituto. Sarà utile ripercorrere tali ultimi sviluppi giurisprudenziali.

Nel caso affrontato in prime cure dal T.A.R. Liguria 12 aprile 2007, n. 621, una società aveva ricevuto e stoccato fanghi da utilizzare nella propria attività d’impresa, facendo affidamento su analisi che, con riferimento agli stessi fanghi, asseveravano il rispetto delle concentrazioni di fattori inquinanti a livelli consentiti. L’amministrazione comunale interessata aveva disposto alcune misure di prevenzione e remissione in pristino del sito, consistenti in interventi di messa in sicurezza, presentazione alla regione ed al comune territorialmente competenti del piano di caratterizzazione e dei conseguenti progetti, preliminare e definitivo, per la bonifica dell’area; il tutto in applicazione dell’art. 17 del D.Lgs. 22/97 e del D.M. 471/99, allora vigenti.

L’operatore economico aveva impugnato i provvedimenti amministrativi che prescrivevano tali interventi, sul presupposto che gli stessi potevano essere ordinati solo al responsabile dell’inquinamento, ovvero, nella prospettiva del ricorrente, al produttore dei fanghi. Sia il T.AR. Liguria, che il Consiglio di Stato non hanno accolto le doglianze della società, confermando la legittimità dei provvedimenti assunti dall’amministrazione.

In particolare, il Consiglio di Stato con la sentenza dell’8 marzo 2017, n. 1089, ha richiamato l’orientamento già ampiamente illustrato dell’adunanza plenaria n. 21/2013, per il quale “ai sensi degli artt. 242, comma 1, e 244 comma 2, del D.Lgs. n. 152 del 2006 , una volta riscontrato un fenomeno di potenziale contaminazione di un sito, gli interventi di caratterizzazione, messa in sicurezza d'emergenza o definitiva, di bonifica e di ripristino ambientale possono essere imposti dalla Pubblica amministrazione solamente ai soggetti responsabili dell'inquinamento e cioè ai soggetti che abbiano in tutto o in parte generato la contaminazione tramite un proprio comportamento commissivo od omissivo, legato all'inquinamento da un preciso nesso di causalità, non essendo configurabile una responsabilità di mera posizione del proprietario del sito inquinato (cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25 settembre 2013, n. 21; Corte di giustizia, sez. III, 4 marzo 2015, C-534/13).”

Nella stessa sentenza, non si è, tuttavia, mancato di rimarcare che “se è vero, per un verso, che l'Amministrazione non può imporre, ai privati che non abbiano alcuna responsabilità diretta sull'origine del fenomeno contestato, lo svolgimento di attività di recupero e di risanamento, secondo il principio cui si ispira anche la normativa comunitaria, la quale impone al soggetto che fa correre un rischio di inquinamento di sostenere i costi della prevenzione o della riparazione, per altro verso, la messa in sicurezza del sito costituisce una misura di prevenzione dei danni e rientra pertanto nel genus delle precauzioni, unitamente al principio di precauzione vero e proprio e al principio dell'azione preventiva, che gravano sul proprietario o detentore del sito da cui possano scaturire i danni all'ambiente e, non avendo finalità sanzionatoria o ripristinatoria, non presuppone affatto l'accertamento del dolo o della colpa (cfr., in questi termini, Cons. Stato, sez. V, 14 aprile 2016, n. 1509; Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2015, n. 3544).”

Nel caso in esame, l’accumulo dei fanghi operato dalla società ricorrente si poneva come antecedente causale del fenomeno di inquinamento e, quindi, nessun valore poteva essere assegnato all’insussistenza dell’elemento soggettivo in capo alla società ricorrente; insussistenza, peraltro, non pacifica ad un’attenta lettura[2]. Dalla pronuncia in esame, si può dedurre che, laddove un fenomeno di inquinamento venga a prodursi in conseguenza di un’attività posta in essere ad un soggetto ancorché non in dolo o in colpa, lo stesso sarà tenuto a tutte le attività necessarie alla messa in sicurezza dei luoghi; sembra, quindi, affermarsi l’orientamento che “predica” l’autonomia dell’illecito ambientale da quello aquiliano, informato alla necessaria sussistenza dell’elemento soggettivo. Non solo, le citate attività di messa in sicurezza del sito, vengono ricondotte al genus delle precauzioni e, come tali, non si connotano in termini sanzionatori, ma possono essere prescritte al proprietario del sito, a prescindere da qualsivoglia partecipazione dolosa o colposa dello stesso all’azione inquinante.

Gli stessi principi conducono, poi, il Consiglio di Stato a conclusioni differenti nella sentenza 16 luglio 2015, n. 3544.  Sarà, però, utile riassumere, prima, il fatto: una società consortile aveva impugnato la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, 11 gennaio 2010, n. 38 di rigetto del ricorso per l'annullamento di un verbale di conferenza di servizi, tenuta in sede ministeriale, nella parte in cui in cui si prescriveva alla medesima società, in qualità di proprietaria di un compendio immobiliare sito all’interno di un’area di bonifica di interesse nazionale, la presentazione di un piano di caratterizzazione del sito.

Il complesso immobiliare, adibito ad attività di commercio all’ingrosso, era stato, nel recente passato, sede di attività industriali ad alto potenziale inquinante; cosa che aveva indotto la società ricorrente alla presentazione, già in precedenza e di propria iniziativa, di un piano di caratterizzazione.

Ebbene, nel caso in specie, la totale estraneità dell’attività imprenditoriale svolta dal proprietario del sito (ovvero la mera concessione a soggetti terzi di immobili per il commercio all’ingrosso), rispetto a quella che aveva dato vita al rischio di inquinamento, ha portato il giudice amministrativo a ritenere insussistente qualsiasi obbligo di caratterizzazione del sito a carico della società proprietaria ricorrente.

Da qui, l’illegittimità dell’atto amministrativo che pretendeva di imporre tale obbligo e l’annullamento della citata sentenza del Tar Campania. La pronuncia ha fornito al Consiglio di Stato l’occasione di evidenziare che il canone interpretativo, ricavabile dalla citata Sentenza della Corte di Lussemburgo del 4 marzo 2015 ( resa nella causa C-534/13) e relativo alle disposizioni del D. Lgs. 152/06 assume specifico rilievo attraverso il principio dell'interpretazione conforme, anche per chiarire i contenuti del previgente art. 17 del citato D.Lgs. n. 22 del 1997, applicabile ratione temporis al caso specifico[3], in quanto “ispirato allo stesso principio comunitario del "chi inquina paga"” .

Ulteriori spunti di interesse sono forniti dalla Sentenza del Consiglio di Stato 14 aprile 2016, n. 1509, che ha ad oggetto una vicenda, in cui si contrapponevano divergenti interessi di due soggetti imprenditoriali privati.

In particolare, una società (la H.P. S.r.l.), proprietaria di un sito adibito a deposito di combustibile, ne aveva concesso ad un’altra (la K. S.r.l.), nel 2002, il godimento in regime di affitto di ramo di azienda; la gestione industriale dell’immobile da parte della K. S.r.l. si era protratta fino al 2006, data nella quale quest’ultima aveva restituito il compendio alla H.P. S.r.l..

L’amministrazione, sul presupposto che dal sito fossero stati innescati fenomeni di inquinamento di un vicino corso d’acqua, aveva ordinato sia all’impresa che lo aveva gestito, come deposito di combustibile,  fino a pochi mesi prima (ovvero la K. S.r.l.),  sia alla società proprietaria ad essa subentrata nella disponibilità (ovvero la H.P. S.r.l.)[4] di porre in essere misure di sicurezza e di presentare un piano di caratterizzazione.

Il giudice di prime cure, in accoglimento del ricorso della K. S.r.l., aveva annullato in parte il provvedimento amministrativo impugnato, non ritenendo sussistenti elementi oggettivi tali da suffragare la responsabilità della ricorrente e da ricondurre, quindi, alla medesima K.r.l. il fenomeno inquinante . La società proprietaria del sito (H.P. S.r.l.) ha proposto appello, senza, tuttavia, riuscire a fornire la prova del nesso di causalità, tra la condotta della società resistente e l’inquinamento rilevato dall’amministrazione. In considerazione di ciò, il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso, concludendo, in applicazione dei noti principi, per la legittimità dell’attribuzione al proprietario delle attività di messa in sicurezza e prevenzione.

Se ne ricava, allora, che, per il giudice amministrativo, la proprietà di un bene immobile, in particolare se detenuto da un soggetto che ne effettua lo sfruttamento industriale,  determina, in caso di  inquinamento, la esigibilità delle misure di prevenzione, di messa in sicurezza e, talvolta, di caratterizzazione del sito, a meno che lo stesso soggetto non sia in grado di fornire la prova della riconducibilità a terzi dell’evento inquinante.

 

4. Conclusione e spunti di riflessione in un’ottica penalistica.

 Le decisioni appena commentate consentono di delineare i più recenti orientamenti della giurisprudenza amministrativa in materia di misure di prevenzione.

Innanzitutto, l’obbligo dell’attivazione di tali misure ricorre, in un’ottica precauzionale, a prescindere dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa.

Quanto più l’attività del proprietario sul sito si pone in continuità con quella del soggetto che ha prodotto l’inquinamento - e, a maggior ragione, nel caso in cui il proprietario stesso concorra al fenomeno inquinante - tanto più arduo sarà, per il proprietario, sottrarsi agli obblighi di adozione delle misure di prevenzione, essendo necessaria, a tale fine, una rigorosa opera di ricostruzione del fenomeno inquinante, nonché di documentazione della riconducibilità dello stesso al precedente gestore. Ne deriva che, in un’ottica cautelare, gli operatori economici dovranno, in fase di acquisto degli immobili destinati ad attività industriali, prestare particolare attenzione alle condizioni del sito ed alla loro mappatura con strumenti idonei e verificabili, anche “a futura memoria”.

La lettura in termini preventivi e precauzionali delle attività di messa in sicurezza dei siti inquinati, mette in crisi il rapporto di stretta pertinenza tra le stesse e il soggetto che ha determinato l’inquinamento.

In tale ottica, l’acquisto di un compendio immobiliare inquinato può determinare l’assunzione di responsabilità ulteriori, rispetto a quelle di tipo esclusivamente patrimoniale , di cui all’art. 253, comma 2, del D.Lgs. 152/2006.

I negozi tra privati che determinano la successione nella disponibilità o nella proprietà di immobili non possono, in alcun modo, determinare un effetto di affievolimento della responsabilità, che il soggetto “causa” delle situazioni di inquinamento ha e, in un’ottica di tutela ambientale, deve mantenere anche in caso di alienazione del compendio.

Consentire l’estinzione dell’obbligo di bonifica, a seguito della traslazione della proprietà o di un altro diritto reale o personale sull’immobile inquinato, significherebbe permettere ad un soggetto, con un semplice atto negoziale, magari in favore di entità non solvibili, di venir meno ad obblighi imposti dalla legge. E, anche in caso di trasferimento del bene, alla responsabilità del soggetto responsabile dell’inquinamento si affianca, nei limiti sopra indicati, quella del proprietario incolpevole.

La condotta inquinante determina sotto tale profilo un’obbligazione di messa in sicurezza e ripristino che non può essere negozialmente trasferita; né evidentemente possono essere trasferite le responsabilità penali derivanti dall’omessa bonifica; e ciò, come chiarito dalla Corte di Cassazione[5], nemmeno in caso di cessazione dell’attività di impresa o liquidazione della società.

Tale evoluzione della giurisprudenza amministrativa sulla doverosità delle misure di prevenzione potrà produrre un effetto ampliativo dell’area delle condotte penalmente rilevanti, in relazione all’omessa bonifica. Non può sfuggire, infatti, che la previsione dell’art. 452 terdecies del codice penale, incrimina la mancata esecuzione delle opere di bonifica, di ripristino o recupero dello stato dei luoghi, da parte, non solo del responsabile dell’inquinamento, ma anche di qualunque soggetto che a tali opere sia tenuto per legge, per ordine del giudice o dell’autorità. E le misure di prevenzione sono parte della procedura e delle attività di bonifica.

E’ evidente il salto di qualità compiuto, rispetto alla tuttora concorrente disciplina dell’art. 257 del D.Lgs. 152/2006, che identifica il soggetto penalmente responsabile solo nell’autore dell’inquinamento, condizionandone, peraltro, la punibilità alla mancata effettuazione della bonifica in conformità del progetto approvato.

Il reato di omessa bonifica recentemente introdotto nel codice penale ha un più ampio perimetro di applicazione: sia sotto il profilo soggettivo perché può essere commesso da chiunque sia tenuto alle misure misure di contenimento ambientale e non solo dall’autore dell’inquinamento; sia sotto il profilo oggettivo, perché incrimina non solo la mancata bonifica in conformità ad un progetto approvato, ma anche la mancata esecuzione delle opere ripristino o recupero dello stato dei luoghi .

Per valutare gli effetti concreti della riforma sul piano della tutela ambientale, bisognerà attendere la prova applicativa della fattispecie di nuova introduzione e, quindi l’opera della giurisprudenza penale che, a sommesso avviso di chi scrive, non potrà non risentire delle elaborazioni svolte dal giudice amministrativo e di cui si è dato sinteticamente conto.

 



[1] Per un’approfondita disamina, delle tesi che affermano e di quelle che negano la responsabilità per i danni da inquinamento del proprietario incolpevole, cfr. Cons. Stato, Ad. plen. 25 settembre 2013, n. 21

[2] Per alcune considerazioni in ordine alla possibilità di strutturare, quanto meno in termini colposi, la responsabilità di chi riceve rifiuti non conformi alla caratterizzazione effettuata dal produttore, facendo mero affidamento sulle analisi presentate dallo stesso produttore e senza alcuna efficace attività di riscontro, ci si permette di rinviare a Sara Faina e Gianpaolo Mocetti, La responsabilità penale del produttore di rifuti”, in Ambiente Legale Digesta, n. 2/2017, nonché alla giurisprudenza e dottrina ivi ampiamente richiamata.

[3] La conferenza di servizi decisoria, il cui verbale era stato impugnato in primo grado risaliva, infatti, al 1 ottobre 2004, ovvero ad un periodo precedente l’attuazione, nel nostro ordinamento, della direttiva 2004/35/CE .

[4] Per effetto della riconsegna al termine dell’affitto di ramo di azienda.

[5] Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10/03/2015) 14-04-2015, n. 15246

 

 

 

 
 
 
 
 
 

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