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martedì, 13 febbraio 2024 18:55
Magistratura Indipendente

ORDINAMENTO GIUDIZIARIO  

LA LEGGE E IL GIUDICE SUL MULO

  Giudiziario 
 giovedì, 18 gennaio 2024

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di Luigi CAVALLARO, consigliere della Corte di Cassazione

 
 

“Il giudice e la legge”, recita il titolo della prima sessione di questo convegno al quale ho avuto l’onore di essere chiamato a partecipare. Titolo classico quant’altri mai, che evoca una congerie di domande capitali: che cos’è “la legge” oggi, nell’epoca dell’esplosione delle fonti normative interne e soprattutto sovranazionali? E che rapporto intrattiene (o meglio, deve intrattenere) il giudice con questa molteplicità di fonti del diritto, di cui l’art. 1 prel. c.c. non offre che un elenco ormai spaventosamente monco? L’interpretazione giudiziale è opera di cognizione di un precetto preesistente o piuttosto di creazione del precetto del caso singolo?
Per non farvi preoccupare, vi dico subito che non risponderò a nessuna di queste domande.

Vi racconterò invece una storia, anzi una favola, che Italo Calvino scrisse quando aveva appena vent’anni e che s’intitola “Il giudice sul mulo”[2]
Se la conoscete già, sono certo che vi divertirete a riascoltarla; se non la conoscete, confido che vi divertirete lo stesso.

In un paese – così comincia la favola – impiccavano un tizio. In quel mentre, arrivò un vecchio su un mulo e la gente si mise a guardarlo. Il vecchio si sedette sotto una grande quercia che stava in mezzo alla piazza e la gente gli chiese: “Chi sei?”.
“Un giudice”, rispose il vecchio.
La gente chiese allora che cos’era un giudice. “Noi lo sappiamo”, dissero gli anziani: “quando le leggi ancora non erano complete, succedeva che venivano i dubbi nel condannare uno o nel dar ragione o torto, e allora c’era quello apposta che decideva delle ragioni e dei torti e delle pene da dare a ognuno. Quello era il giudice”.
“Bene”, disse la gente, “qui ora il giudice non serve. Qui ora le leggi sono complete, tutto è previsto: non ci sono più dubbi sulla ragione, sul torto, sulle pene. Il giudice non serve”.
“Vabbè”, disse allora il giudice, “io però vi dico che i casi del mondo sono sempre diversi l’uno dall’altro e chiedono leggi nuove ogni momento e ogni uomo”.
“Questa è anarchia”, disse la gente che era intorno.
“No che non è”, disse il vecchio: “perché vera giustizia è ascoltare le doglianze degli uomini e, a seconda dei casi, giudicare; e per ciascuno dire diversa sentenza, ma con animo uguale e rettitudine. Queste sono le virtù del saggio”.
La gente chiese allora cosa volesse dire “saggio”, ma neanche gli anziani lo ricordavano. Sennonché, essendo la gente sempre curiosa del nuovo e avendo molti in dispetto le leggi scritte, avvenne che si disse al vecchio: “Proviamo cosa sai fare”.
Il vecchio diede ordine che togliessero il basto al mulo e, indicando l’uomo che stavano impiccando, disse: “Cominciamo da quello”.
“Ma quello” disse la gente “se lo impiccano è perché dev’essere impiccato”.
“Vediamo”, disse il giudice, “conducetelo a me”.
Così il condannato gli fu condotto e il giudice gli chiese cosa avesse fatto.
“Ha fatto che ha ammazzato sua moglie con un colpo di scure in testa”, dissero gli altri, ma il vecchio rispose: “Bisogna vedere le circostanze”.
“Le circostanze sono previste dai codici”, risposero gli altri e ci fu chi citò dei numeri.
“Nei codici c’è tutto”, continuarono: “Dei secoli ci sono voluti per farli, ma adesso sono completi. Ci sono tutti i casi che possono succedere: per esempio, se uno ammazza sua moglie con un colpo di scure in testa. Lì ci sono tutti i casi, le aggravanti, le attenuanti e tutte le combinazioni possibili delle aggravanti e delle attenuanti. Poi, in fondo a ognuna, c’è scritta la pena. Per un caso come il suo c’è scritto: sia impiccato. Dei secoli ci sono voluti per farli!”
“Vediamo”, disse il giudice. Interrogò l’imputato, vide che aveva ragione e lo mandò assolto.
Rimasero tutti stupefatti, senza sapere che dire. Avevano impiegato dei secoli a fare delle leggi che fossero complete e adesso, che capitava un caso che combinava così bene con le leggi, ecco che veniva fuori un tizio su un mulo a dire che tutto era sbagliato.
Nello stupore generale, ci fu uno che pensò di trarre la cosa a suo vantaggio. Andò a casa, prese la scure e ammazzò la moglie. Poi andò a costituirsi e, quando le guardie lo portarono davanti al giudice, gli disse che le cose erano andate esattamente come quello di prima.
“Allora”, disse il vecchio, “vuol dire che questo lo impicchiamo”.
Il reo confesso ci rimase male. “Ma come, ho sbagliato i calcoli? Eppure ho fatto esattamente come quell’altro!” E ripeté tutto al giudice, insistendo che era proprio tutto uguale. Ma sembrava che più quello aggiungeva particolari, più il giudice s’ostinava a condannarlo. “È lì, il brutto”, diceva: “Mai capitate due cose senza niente di differente. Così, se lui aveva ragione, vuol dire che tu hai torto e sarai impiccato”.
La gente non era convinta. “Va bene, lo impicchiamo”, dissero, “però qui succedono dei pasticci. Vogliamo vederci chiaro”.
E così lo impiccarono e poi tornarono dal vecchio: “Che cosa è questa storia”, chiesero, “che uno ammazza la moglie e una volta è innocente e una volta è colpevole? Qui uno non sa più come deve comportarsi!”
“Capirselo da sé, deve”, rispose il vecchio, “se no le leggi scritte non contano”.
“Capire che cosa?”, chiese la gente. Ma nemmeno gli anziani si ricordavano che ci fosse da capire qualcosa al di fuori delle leggi scritte.
“Qui succedono dei pasticci”, dissero tutti finalmente, “noi non ce ne capiamo”. E rimisero il basto al mulo. Il vecchio salutò tutti, risalì sul mulo e se ne andò, dicono, verso la Mecca. Ma in quel paese, che lo volessero o no, s’erano accorti che qualcosa non andava. Per rimediare, cominciarono a fare leggi contro i giudici.

Fin qui la favola di Calvino: che aveva appunto vent’anni, quando la scrisse, ma – come si vede – saggezza e sapienza come se ne avesse avuti molti di più e, insieme, una laurea in giurisprudenza con tesi di teoria generale del diritto e del processo, lui che non studiò mai diritto.

Ed è su questa favola che vorrei riflettere con voi per qualche minuto. Fin da quando la lessi per la prima volta, tanti anni fa, mi son fatto persuaso che Calvino volesse irridere l’antica pretesa illuministica di ingabbiare la realtà nei codici, che era tornata prepotentemente in auge durante il ventennio fascista; e che, di conseguenza, avrebbe salutato con favore la nouvelle vague postmoderna, che vuole il giudice garante della tutela dei cosiddetti “diritti fondamentali” e gli affida all’uopo il compito di bilanciare valori e principi desunti dalla Costituzione e dalle altre carte dei diritti sovranazionali secondo l’id quod aequum et bonum videbitur, liberando così il suo giudizio dal rigido e algido dettato della fattispecie legale e rimettendolo, piuttosto, alla valutazione della “comunità interpretante” degli altri giudici, del foro, degli accademici.
Ma anche ammettendo che questa sia stata l’intentio auctoris che ha ispirato la favola (Calvino, notoriamente, rimase sempre un anarchico e un libertario), una lettura che privilegi l’intentio operis evidenzia nitidamente che un approccio del genere soffre di numerose criticità[3].
Anzitutto, balza evidente l’imprevedibilità della decisione giudiziale. “Che abbia sbagliato i calcoli?”, si chiede incredulo il reo confesso quando il giudice lo condanna all’impiccagione: e ha ragione, perché questa intrinseca “incalcolabilità” di una decisione giurisdizionale fondata su principi e valori non è che l’altra faccia dell’incontrollabile soggettivismo del giudice nel bilanciare e ponderare gli interessi in conflitto secondo le proprie personali scelte di valore. Natalino Irti e Massimo Luciani insistono da tempo su questo punto: e non posso che rimandarvi alle loro pagine[4].
In secondo luogo, e in stretta correlazione, emerge l’ineffabilità di una decisione del genere. Calvino ce la restituisce plasticamente attraverso due verdetti che appaiono del tutto privi di motivazione; ma che l’ineffabilità sia propria di qualunque decisione che pretenda di fondarsi su principi e valori lo vediamo chiaramente in quelle sentenze, sia di merito che di legittimità, che espressamente si propongono di suffragare la plausibilità di una soluzione per la quale non si trova appiglio in una norma di legge: sono sentenze lunghissime, in cui la sovrabbondanza di riferimenti costituzionali o tratti da fonti sovranazionali si accompagna a concettualizzazioni verbose e, soprattutto, ad un profluvio di citazioni di precedenti di alte corti, in una mescolanza così confusa che il lettore, dopo essersi inutilmente affaticato a cercare il filo conduttore, arriva alla trentesima o cinquantesima pagina così sfinito da essere disposto a credere a qualunque cosa. “Il mistero rende la cosa ineffabile”, diceva Tommaseo nel suo Dizionario dei sinonimi della lingua italiana[5]: e la ratio decidendi di sentenze di questo genere rimane in effetti misteriosa al lettore, che può solo accettarla perché ipse dixit. Non è un caso che, una volta rimosso dal suo incarico, il giudice della nostra favola se ne parta per la Mecca, città santa dell’Islam: al contrario, è la conferma che il suo giudizio poggia su una sapientia che può essere soltanto oggetto di fede.
Ancora, risalta la sostanziale non impugnabilità di una decisione cosiffatta. Nella favola lo intuiamo dal fatto che l’impiccagione ha luogo immediatamente dopo il verdetto, ma da un punto di vista logico è evidente che una decisione che sia frutto del “sentimento di giustizia” proprio del giudicante può essere riformata soltanto in nome di un diverso sentimento di giustizia, cioè, in ultima analisi, sostituendo un arbitrio ad un altro. L’impugnazione perde così la sua funzione di revisione preordinata ad una migliore approssimazione alla verità del giudizio per diventare puro e bruto esercizio di potere.
E cosa resta della certezza del diritto e del principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge? Nulla, come attestano le domande preoccupate che la gente rivolge al giudice: “Cosa vuol dire quest’affare che uno ammazza la moglie e una volta è innocente e una volta è colpevole? Qui uno non sa più come deve comportarsi!”

Ma è la chiusa del racconto a proporci una riflessione particolarmente attuale. Può sembrare una cattiveria gratuita quel “cominciarono a fare leggi contro i giudici”, ma un breve sguardo retrospettivo ci dice precisamente che, quando i rivoluzionari francesi fondarono lo Stato moderno, lo vollero “stato di diritto” nel senso di porre tutti i cives sotto il basto della volontà politica delle assemblee elettive e istituirono il Tribunal (che poi divenne Cour) de cassation precisamente allo scopo di reprimere qualsiasi “ribellione” dei giudici che si fosse tradotta in una contravention expresse au texte de la loi.
C’è insomma una precisa istanza democratica a fondamento della soggezione del giudice alla legge: un giudice che decida contro la legge si fa portatore di un’istanza politica avversa o comunque diversa da quella deliberata dalla maggioranza dei cittadini; diventa un potere autocratico che si erge contro il potere democratico. Lo vorremmo dire, in conclusione, con le parole di un fraterno amico di Calvino, Leonardo Sciascia, che non a caso diffidava di noi giudici: il potere di giudicare i propri simili (che non può essere “finalizzato ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge: spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera”) “non può e non deve essere vissuto come potere”, e anzi, per paradossale che possa apparire, “dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine e al dubbio”; e invece, “una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella sua coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio”: e quando ciò accade, quando cioè “i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo”, allora “la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli”[6]
E a fare le leggi contro i giudici.

Testo rivisto dell’intervento tenuto alla tavola rotonda “Il giudice e la legge”, organizzata nell’ambito del convegno nazionale di Magistratura Indipendente “Le sfide della giurisdizione: i magistrati, la legge e la politica” (Venezia, 10-11 novembre 2023).


[2] Cfr. Italo Calvino, Il giudice sul mulo, ora in Id., Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, a cura di B. Falcetto, Milano, Mondadori, 2023, p. 166 ss. Il testo è riprodotto di seguito, con minime modifiche.
[3] Sulla differenza tra intentio auctoris e intentio operis abbiamo tenuto presente Umberto Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano, La nave di Teseo, 2016, spec. p. 36 ss.
[4] V. almeno Natalino Irti, Un diritto incalcolabile, Torino, Giappichelli, 2016; Massimo Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, Giuffrè, 2023.
[5] Citiamo dall’edizione napoletana del 1892 (p. 673).
[6] Leonardo Sciascia, La dolorosa necessità del giudicare, ora in L. Cavallaro e R.G. Conti (a cura di), Diritto verità giustizia. Omaggio a Leonardo Sciascia, Bari, Cacucci, 2021, p. 153 s.

 
 
 
 
 
 

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