sommario: 1. L’essere, il dover essere del giudice e la guida insostituibile della deontologia giudiziaria. – 2. La crisi epocale della magistratura italiana e la riscoperta necessaria della deontologia giudiziaria. – 3. L’esercizio della giurisdizione e il “potere terribile” della magistratura: il principio di dignità. – 4. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale: il principio di legalità. – 5. La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero: il principio di imparzialità. - 6. Il rispetto di tutte le parti del processo penale: il principio del contraddittorio. – 7. I doveri di sobrietà e di riserbo del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare: il principio di riservatezza e i pericoli del “populismo giudiziario”.
1. L’essere, il dover essere del giudice e la guida insostituibile della deontologia giudiziaria.
Nei miei, ormai tanti, anni di magistratura mi ha sempre accompagnato una domanda: quali sono le qualità, umane e professionali, che un magistrato deve possedere per esercitare legittimamente il suo “potere terribile”[1]?
Questo dilemma, sostanzialmente irrisolto, che ha accompagnato i miei venticinque anni di magistratura, è diventato, con il passare del tempo, una presenza costante e stimolante della mia vita professionale; e a questa domanda, a margine della crisi epocale che sta attraversando l’associazionismo giudiziario e dell’atteggiamento di sconsolata rassegnazione che la accompagna, vorrei dedicare alcune brevi riflessioni.
Al contempo, la necessità di rispondere a questa domanda, oltre a costituire una presenza costante della mia vita professionale, ha sempre orientato i miei comportamenti, rappresentando l’esigenza di risolvere il dilemma che vi è connesso uno stimolo necessario per comprendere che, al di là delle pubbliche virtù tradizionalmente proclamate dai magistrati e dalla magistratura associata, talvolta in buona fede talaltra in mala fede, i loro vizi privati sono rimasti immutati nel tempo, traendo origine dai difetti e dalle debolezze degli esseri umani.
Nonostante tutto, però, la magistratura, grazie a un patrimonio deontologico consolidatosi nel corso di decenni[2], ha sempre trovato al suo interno gli anticorpi per andare avanti e per reagire ai mali che, spesso, inquinano l’animo dei suoi tormentati esponenti, soprattutto quelli più smaniosi di procedere verso ambite mete direttive, prima degli altri, come che sia; mali, che, in fondo, sono quelli che albergano in molti esseri umani: ambizione umana, conformismo sociale, carrierismo professionale.
2. La crisi epocale della magistratura italiana e la riscoperta necessaria della deontologia giudiziaria.
Per rispondere alla domanda sull’essere e sul dover essere del magistrato, a mio avviso, non si può che partire dal ruolo istituzionale svolto dalla magistratura italiana nell’ultimo quarantennio; ruolo che è stato decisivo per la difesa dello Stato di diritto e delle istituzioni repubblicane e che la crisi deontologica che la attraversa non può fare venire meno[3].
Non si può, invero, non riconoscere che, nella lunga fase di crisi della democrazia rappresentativa che sta attraversando il nostro Paese, segnata da continui ripensamenti sul funzionamento del nostro impianto costituzionale, il ruolo della giurisdizione è stato decisivo per arginare lo sviluppo dell’illegalità pubblica e il crollo di credibilità delle nostre istituzioni e per salvaguardare la tenuta dello Stato di diritto.
Tuttavia, dallo scontro che inevitabilmente ne è derivato – tra poteri politici, istituzioni, organismi di categoria –, la difesa incondizionata della giurisdizione ha finito per generare in una parte dell’opinione pubblica e della stessa magistratura italiana la concezione del potere giudiziario come potere intrinsecamente salvifico o, all’opposto, come causa principale delle disfunzioni della Giustizia.
E, soprattutto, queste forme, talvolta acritiche, di difesa del ruolo della magistratura hanno finito per fare trascurare o peggio per avallare prassi giudiziarie non sempre in linea con i principi costituzionali, in contrasto con quella stessa legalità che i magistrati dovrebbero difendere e presidiare.
Per questo, oggi si richiede alla magistratura una riflessione approfondita, probabilmente dolorosa, non solo e non tanto nei confronti dei provvedimenti giudiziari e delle tendenze ermeneutiche che la caratterizzano, quanto soprattutto nei confronti di atteggiamenti, culture e comportamenti professionali, che vanno diffondendosi tra i magistrati italiani e nel mondo della giurisdizione, creando la crisi epocale che, nell’ultimo triennio, ci si è trovati, quasi inaspettatamente, ad affrontare.
La consapevolezza da cui dobbiamo muovere è il riconoscimento dell’espansione, avvenuta in questi anni, del ruolo della giurisdizione, ben oltre le tradizionali funzioni della giustizia civile e penale, destinate, nello Stato liberale, a regolare i rapporti tra i cittadini e ad assicurare la difesa sociale. Questa espansione è dovuta a molteplici fattori, il principale dei quali è certamente rappresentato dall’insufficienza delle istituzioni giurisdizionali a soddisfare le esigenze crescenti di controllo del Paese: da un lato, l’espansione della giurisdizione è dovuta alla crescente domanda di giustizia, sollecitata dalle violazioni dei diritti costituzionalmente stabiliti in tema di ambiente, tutela dei consumatori, tecnologie elettroniche, diritto alla riservatezza, questioni bioetiche; dall’altro, l’espansione della giurisdizione è dovuta all’esigenza di ampliare i controlli di costituzionalità sulle leggi e soprattutto i controlli di legalità sui titolari di pubbliche funzioni, sulle corruzioni, sul malaffare, sulle collusioni con i poteri illegali[4].
A questa espansione della giurisdizione si è accompagnata una crescita, probabilmente abnorme, certamente inevitabile, del potere giudiziario, della responsabilità dei giudici e del ruolo latu sensu politico della giurisdizione, che richiede un rafforzamento delle sue condizioni di legittimità. Non possiamo, del resto, non prendere atto che stiamo assistendo a un indebolimento di alcuni limiti storici, che determinano la crisi delle fonti di legittimazione della giurisdizione e impongono una rilettura dei fondamenti più radicati dell’agire giurisdizionale.
3. L’esercizio della giurisdizione e il “potere terribile” della magistratura: il principio di dignità.
In questa cornice, la prima regola di deontologia giudiziaria non può che riguardare la dignità del magistrato, nella consapevolezza, che dovrebbe assistere ogni rappresentante della giurisdizione, che i magistrati esercitano un “potere terribile”, perché, come diceva Montesquieu[5], è un potere degli uomini sugli uomini, incidendo sulla loro libertà e, come tale, in grado di distruggere la vita delle persone sulle quali è esercitato.
Per questo è un potere intrinsecamente “terribile” – e spesso inviso alla popolazione non solo italiana – che solo garanzie rigorose possono legittimare e che è tanto più legittimo quanto più è regolato da adeguati controlli.
A ben vedere, è proprio la necessità che il principio di dignità influenzi l’operato del magistrato e l’esercizio della giurisdizione ad avere orientato il legislatore nell’introduzione dell’art. 1 d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, recante “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lett. f), legge 25 luglio 2005, n. 150” che, ancorandosi al principio di dignità affermato dall’art. 3 Cost., individua un normotipo comportamentale dell’agire giurisdizionale, statuendo: «Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, dignità, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni»[6].
Queste caratteristiche, del resto, costituiscono – o quantomeno dovrebbero costituire – la piattaforma etica dell’agire giurisdizionale di tutti i magistrati italiani, tanto da essere perfettamente sovrapponibili a quelle regole prefigurate dall’art. 1 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, articolato in tre commi[7].
In particolare, nel primo comma dell’art. 1, intitolato “Valori e principi fondamentali”, si prevede: «Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all’interesse pubblico». Nel secondo comma dell’art. 1, invece, si dispone: «Nello svolgimento delle sue funzioni, nell’esercizio di attività di autogoverno ed in ogni comportamento professionale il magistrato si ispira a valori di disinteresse personale, di indipendenza, anche interna, e di imparzialità». La disciplina dell’art. 1, infine, si conclude con la previsione del terzo comma, che stabilisce: «Il magistrato opera con spirito di servizio per garantire la piena effettività dei diritti delle persone; considera le garanzie e le prerogative del magistrato come funzionali al servizio da rendere alla collettività; presta ascolto ai soggetti che in diverse forme concorrono all’esercizio della giurisdizione e ne valorizza il contributo».
Tali disposizioni, a loro volta, traggono origine dalla previsione dell’art. 97, comma secondo, Cost., che costituisce il parametro di riferimento per tutti gli appartenenti alle pubbliche amministrazioni italiane, a tenore del quale i pubblici uffici «sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».
4. La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale: il principio di legalità.
Dal principio di dignità discende un’ulteriore e imprescindibile regola deontologica, riguardante il principio di legalità, che muove da una consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l’operato del magistrato nell’esercizio della giurisdizione, rappresentata dall’esistenza della tendenziale ambiguità epistemologica del potere giudiziario, che può essere ridotta ma non eliminata dal rigoroso rispetto delle garanzie, prima tra tutte la soggezione del giudice alla legge.
Infatti, se è vero che la legittimazione della giurisdizione si fonda, o quantomeno si dovrebbe auspicabilmente fondare, sulla verità processuale – accertata mediante l’applicazione rigorosa della legge – e che tale verità è sempre relativa, giuridicamente opinabile e probabilistica, allora anche la legittimazione del potere giudiziario non può che essere relativa e soggetta a critiche[8].
In questo senso, non possiamo non prendere atto dell’esistenza di una specifica regola deontologica che, soprattutto in materia penale, riguarda l’accertamento della verità, che è essenzialmente una “verità giuridica”, riguardando la corretta interpretazione delle leggi che il giudice attua all’interno del processo penale, che deve essere “giusto” perché rispettoso delle regole procedurali[9].
Questa regola consiste nel rigoroso divieto, in omaggio ai principi di legalità e di tassatività, dell’analogia in senso sfavorevole al reo e dell’interpretazione estensiva. In materia penale, infatti, il giudice non può inventare figure di reato, ma neppure estendere a fenomeni vagamente analoghi o connessi le fattispecie previste dalla legge.
Né potrebbe essere diversamente perché la verità processuale non è mai una verità assoluta o oggettiva, ma è sempre una “verità probabilistica”, con la conseguenza che è sempre possibile l’errore del magistrato che diventa – con risvolti evidentemente tragici per i cittadini – “errore giudiziario”[10].
Invero, le sole verità assolute sono quelle della logica e della matematica, mentre nelle materie empiriche, proprie delle scienze sociali, la verità assoluta è stricto sensu irraggiungibile e, proprio per questo, si richiede, quale surrogato di un’irraggiungibile certezza oggettiva, quantomeno la certezza legislativa, che impone un’interpretazione quanto più possibile rispettosa del dettato normativo.
La necessità di sottoporre l’esercizio della giurisdizione a un rigoroso rispetto del principio di stretta legalità, così come prefigurato dall’art. 101, comma secondo, Cost., del resto, ha guidato il legislatore italiano nella tipizzazione dell’illecito disciplinare previsto dall’art. 2, lett. ff), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, secondo cui costituisce un illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali «l’adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza»[11].
Per l’inquadramento del principio di legalità, così come prefigurato dagli articoli 101, comma secondo, Cost., e 2, lett. ff), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, occorre fare anche riferimento all’art. 3 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, intitolato “Doveri di operosità e di aggiornamento professionale”, che rappresenta un incostituibile corollario delle norme sopra richiamate, secondo cui: «Il magistrato svolge le sue funzioni con diligenza ed operosità, impegnandosi affinché alla domanda di giustizia si corrisponda con efficienza, qualità ed efficacia. Partecipa attivamente e con assiduità ai momenti organizzativi e di riflessione comune interni all’ufficio. Conserva ed accresce il proprio patrimonio professionale impegnandosi nell’aggiornamento e approfondimento delle sue conoscenze nei settori in cui svolge la propria attività e partecipando alle iniziative di formazione, anche comuni agli altri operatori del diritto».
5. La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero: il principio di imparzialità.
Dai principi di dignità e di legalità discende un’ulteriore e imprescindibile regola deontologica, riguardante il principio di imparzialità, che muove da una consapevolezza, che dovrebbe sempre assistere l’operato del magistrato e l’esercizio della giurisdizione, rappresentata dalla sua disponibilità all’ascolto di tutte le diverse e opposte ragioni e dall’esposizione alla confutazione e alla falsificazione, giuridica oltre che fattuale, delle ipotesi delle parti processuali.
Si tratta di adattare al mondo della giurisdizione il metodo epistemologico della falsificazione elaborato da Karl Popper[12], che impone di verificare la consistenza e la plausibilità di qualunque tesi empirica. Ed è questa disponibilità a esporsi alla confutazione da parte di coloro che devono sopportare le conseguenze dell’attività processuale a fondare il valore etico, oltre che epistemologico, del contraddittorio nella formazione della prova assunto nel processo penale.
Questa disponibilità, al contempo, impone un atteggiamento di neutralità intellettuale e di responsabilità morale da parte del magistrato, basato sulla consapevolezza epistemologica della natura inevitabilmente probabilistica della verità processuale[13]. Tale atteggiamento, a ben vedere, esprime lo spirito stesso del processo accusatorio, in contrapposizione all’approccio inquisitorio, il cui tratto inconfondibile è costituito dalla resistenza del pregiudizio accusatorio a qualunque smentita o controprova, che è la petizione di principio, in forza della quale la tesi della pubblica accusa deve essere suffragata da prove e non deve essere smentita da controprove.
Ed è per questo che l’imparzialità non è soltanto un principio deontologico, ma costituisce un valore epistemologico dell’attività giurisdizionale, non potendosi nemmeno ipotizzare lo ius dicere senza un approccio intellettualmente neutrale da parte del magistrato chiamato a svolgere i suoi compiti[14].
Il giudice e naturalmente il processo, come scriveva Cesare Beccaria secoli addietro, devono esprimere una “indifferente ricerca del vero” ed è su questa indifferenza – che dovrebbe essere propria di ogni attività scientifica e che comporta la disponibilità a rinunciare ai propri convincimenti di fronte alle loro smentite – che si fonda il “processo informativo” che lo stesso Beccaria contrappone al “processo offensivo”, nel quale ultimo l’imputato è un nemico e «non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose»[15].
La necessità di assicurare l’imparzialità di ogni magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ha guidato il legislatore italiano nella tipizzazione dell’illecito disciplinare previsto dall’art. 2 lett. a), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che, ancora una volta, ispirandosi all’art. 111, comma secondo, Cost., stabilisce che costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali «fatto salvo quanto previsto dalle lettere b) e c), i comportamenti che, violando i doveri di cui all’articolo 1, arrecano ingiusto danno o indebito vantaggio ad una delle parti»[16].
Anche in questo caso, nell’inquadramento del principio di imparzialità, così come prefigurato dall’art. 2, lett. a), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, occorre fare ulteriormente riferimento alla previsione dall’art. 9 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, intitolato “L’imparzialità del magistrato”, articolato in due commi.
Nel primo comma dell’art. 9 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, in particolare, si afferma: «Il magistrato rispetta la dignità di ogni persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione». Tale disposizione è integrata dalla previsione del suo secondo comma, a tenore della quale il magistrato nell’esercizio delle sue «opera per rendere effettivo il valore dell’imparzialità impegnandosi a superare i pregiudizi culturali che possono incidere sulla comprensione e valutazione dei fatti e sull’interpretazione ed applicazione delle norme. Assicura che nell’esercizio delle funzioni la sua immagine di imparzialità sia sempre pienamente garantita. A tal fine valuta con il massimo rigore la ricorrenza di situazioni di possibile astensione per gravi ragioni di opportunità».
6. Il rispetto di tutte le parti del processo penale: il principio del contraddittorio.
Dall’affermazione dei principi di dignità, legalità e imparzialità del magistrato penale discende l’ulteriore principio del contraddittorio, che muove da una consapevolezza che dovrebbe sempre assistere l’operato del magistrato e l’esercizio della giurisdizione, rappresentato dal rispetto per tutte le parti processo penale, incluso l’imputato, chiunque esso sia, soggetto debole o forte, incluso il mafioso o il terrorista o il politico corrotto[17].
Né potrebbe essere diversamente: il diritto penale nel suo modello garantista equivale alla legge del più debole e deve anzitutto assicurare la tutela dei soggetti, attivi o passivi, del reato che versano in una condizione processuale svantaggiata[18].
E non dimentichiamo che se nel momento in cui viene commesso il reato il soggetto debole è certamente la persona offesa; nel momento in cui viene attivato il processo penale il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono, necessariamente, l’espressione delle esigenze di tutela della parte più esposta al “potere terribile” della magistratura[19].
Questa regola del rispetto delle parti processuali è un corollario del principio di uguaglianza, dato che equivale al postulato della “pari dignità sociale” di tutte le persone, inclusi, naturalmente, gli imputati – che diventeranno rei solo all’esito del processo penale ex art. 27, comma secondo, cod. pen. – enunciato dalla Costituzione italiana. Tale regola è anche un corollario necessario del principio di legalità, in forza del quale si è puniti per quello che si è fatto e non per quel che si è; si giudica la condotta illecita e non la persona che l’ha commessa; si processa il reato e non il suo autore, le cui connotazioni di identità e di interiorità devono essere tendenzialmente sottratte al giudizio penale[20].
Nel processo penale questo rispetto per l’imputato vale a fondare quell’asimmetria che deve sempre sussistere tra la civiltà del diritto e l’inciviltà del delitto, che è la principale forza della prima quale fattore di legittimazione istituzionale e di isolamento della seconda quale fattore di devianza sociale.
La necessità di assicurare il principio del contraddittorio tra le parti processuali ha indotto il legislatore italiano a tipizzare gli illeciti disciplinari ex art. 2, lett. b), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109. In tale disposizione, infatti, in linea con quanto affermato, dall’art. 111, comma quarto, Cost., si stabilisce che costituiscono un illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali «i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori»[21].
Per l’inquadramento del principio di contraddittorio tra le parti processuali, così come prefigurato dall’art. 2, lett. b), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, occorre fare riferimento ulteriormente alla previsione dell’art. 11 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, intitolato “La condotta nel processo”, articolato in quattro commi.
Nel primo comma dell’art. 11, in particolare, si prevede: «Nell’esercizio delle sue funzioni, il magistrato, consapevole del servizio da rendere alla collettività, osserva gli orari delle udienze e delle altre attività di ufficio, evitando inutili disagi ai cittadini e ai difensori e fornendo loro ogni chiarimento eventualmente necessario». Nel secondo comma dell’art. 11, invece, si stabilisce: «Svolge il proprio ruolo con pieno rispetto di quello altrui ed agisce riconoscendo la pari dignità delle funzioni degli altri protagonisti del processo assicurando loro le condizioni per esplicarle al meglio». Nel terzo comma dell’art. 11, ancora, si prevede: «Cura di raggiungere, nell’osservanza delle leggi, esiti di giustizia per tutte le parti, agisce con il massimo scrupolo, soprattutto quando sia in questione la libertà e la reputazione delle persone». Nel quarto comma dell’art. 11, infine, si prevede: «Fa tutto quanto è in suo potere per assicurare la ragionevole durata del processo».
7. I doveri di sobrietà e di riserbo del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare: il principio di riservatezza e i pericoli del “populismo giudiziario”.
Dall’affermazione dei principi di dignità, legalità, imparzialità e contraddittorio del magistrato penale discende un ulteriore dovere deontologico, rappresentato dal principio di riservatezza, che forse oggi è quello maggiormente controverso.
Invero, i magistrati – tutti i magistrati, ma soprattutto quelli penali – devono evitare con attenzione, nell’attuale società mediatica e telematica, ogni forma di protagonismo giudiziario e di esibizionismo personale[22].
Si comprende, invero, la tentazione, per quanti sono titolari di quello che abbiamo definito un “potere terribile”, della notorietà, del consenso sociale e della celebrazione della funzione giurisdizionale come “potere buono”. Tuttavia, questa tentazione – certamente comprensibile e, in qualche modo giustificabile, per quei magistrati particolarmente esposti a rischi personali per la loro attività giurisdizionale –, laddove estremizzata, deve essere arginata senza esitazione.
Il rifiuto del riconoscimento di ogni legittimità a tale tentazione impone il rifiuto di figure come i “giudice mediatici”, o “i giudici paladini”, che costituiscono la negazione del modello garantista della giurisdizione costituzionalmente orientato, recepito dal nostro ordinamento giuridico.
Tale rifiuto, al contempo, comporta che non possa consentirsi che i magistrati parlino in pubblico della loro attività e dei processi affidatigli, al di fuori dei limiti che sono espressamente previsti dalla legge e salvo casi eccezionali. In questi casi, infatti, ci si pone di fronte non solo alla lesione di quel costume del dubbio e del rispetto per le parti in causa di cui si è parlato prima[23], ma anche a una strumentalizzazione del proprio ruolo istituzionale, che potrebbe scadere in tentazioni demagogiche; tentazioni non del tutto isolate visto i casi di candidature politiche e di esperienze extragiudiziarie di esponenti del mondo giudiziario noti all’opinione pubblica per la loro attività professionale.
Diceva qualche anno addietro Giovanni Fiandaca, con lucido pessimismo, a proposito del “populismo giudiziario” che è la negazione del principio di riservatezza: «Che cos’è […] il populismo “giudiziario”? Come prima definizione, generica e approssimativa, direi che questo fenomeno ricorre tutte le volte in cui il magistrato pretende di assumere un ruolo di autentico rappresentante o interprete dei reali interessi e delle aspettative di giustizia del popolo (o della cosiddetta gente), al di là della mediazione formale della legge e altresì in una logica di supplenza se non addirittura di aperto conflitto con il potere politico ufficiale. Questa sorta di magistrato-tribuno, oltre a pretendere di entrare in rapporto diretto con i cittadini o con alcuni gruppi sociali particolari (e, comunque, di rappresentarne e tutelarne al meglio i corrispondenti interessi o valori), finisce inevitabilmente col far derivare (piuttosto che dal vincolo alla legge) dallo stesso consenso popolare la principale fonte di legittimazione del proprio operato»[24].
Forte di questa consapevolezza e della necessità di assicurare il principio di riservatezza dei magistrati nello svolgimento della loro attività giurisdizionale, il legislatore italiano ha ritenuto di tipizzare due illeciti disciplinari, previsti dall’art. 2, lett. u) e v), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, che si ispirano alla previsione dell’art. 111, comma terzo, Cost.[25]
Secondo la disposizione dell’art. 2, comma 1, lett. u), costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali «la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando è idonea a ledere indebitamente diritti altrui».
Secondo la disposizione dell’art. 2, comma 1, lett. v), invece, costituisce illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali rilasciare «pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all’articolo 5, comma 2, del d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106».
Si tratta, a ben vedere, di forme di tipizzazione disciplinare che costituiscono la plastica concretizzazione di quei pericoli che ha richiamato Giovanni Fiandaca a proposito del “populismo giudiziario”, non infrequenti, soprattutto nei ricorrenti periodi di sfiducia del Paese verso il mondo politico[26].
A tali considerazioni deve aggiungersi che, anche in questo caso, nell’inquadramento del dovere di riservatezza del magistrato penale, così come prefigurato dall’art. 2, lett. u) e v), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, occorre fare ulteriormente riferimento alla previsione dall’art. 6 del Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, intitolato “Rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazioni di massa”, articolato in quattro commi.
Nel primo comma dell’art. 6, in particolare, si prevede: «Nei contatti con la stampa e con gli altri mezzi di comunicazione il magistrato non sollecita la pubblicità di notizie attinenti alla propria attività di ufficio». Nel secondo comma, invece, è stabilito: «Quando non è tenuto al segreto o alla riservatezza su informazioni conosciute per ragioni del suo ufficio e ritiene di dover fornire notizie sull’attività giudiziaria, al fine di garantire la corretta informazione dei cittadini e l’esercizio del diritto di cronaca, ovvero di tutelare l’onore e la reputazione dei cittadini, evita la costituzione o l’utilizzazione di canali informativi personali riservati o privilegiati». Nel terzo comma dell’art. 6, ancora, è stabilito: «Fermo il principio di piena libertà di manifestazione del pensiero, il magistrato si ispira a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni ed interviste ai giornali e agli altri mezzi di comunicazione di massa». Nell’ultimo comma della norma in esame, infine, si prevede: «Evita di partecipare a trasmissioni nelle quali sappia che le vicende di procedimenti giudiziari in corso saranno oggetto di rappresentazione in forma scenica».
[1] L’espressione utilizzata nel testo è mutuata da C.L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi (1748), trad. it., Utet, Torino, 2005; su questi temi, Montesquieu, si era già soffermato, sia pure in termini embrionali, in Lettere persiane (1721), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2020.
[2] Sui rapporti tra deontologia e crisi dell’associazionismo giudiziario, ci si permette di rinviare ai recenti interventi di A. Costanzo, Deontologia, ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario, in www.giustiziainsieme.it, 20 aprile 2021, pp. 1 ss.; M. Donini, Crisi della giustizia e ruolo politico della magistratura penale. Quando si cerca il potere perché non si vuole fare il diritto, in www.questionegiustizia.it, 6 aprile 2021, pp. 1 ss.
[3] Su questi profili, storici e istituzionali, si rinvia agli interventi, risalenti a epoche lontane tra loro, ma di grandissima attualità, di L. Ferrajoli, Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Bari-Roma, 2007, pp. 879 ss.; G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia, 2013, pp. 95 ss.; M. Foucalt, Il governo di sé e degli altri (1982), trad. it., Feltrinelli, Milano, 2018.
[4] Su queste complesse tematiche, si rinvia agli studi di A. Corbino, La democrazia divenuta problema, Eurylink University Presso, Roma, 2020; M. Donini, Il diritto penale come etica pubblica, Mucchi, Modena, 2014; L. Ferrajoli, La giurisdizione. Quattro connotati strutturali, Bari-Roma, Laterza, 2007.
[5] Si rinvia, ancora una volta, a C.L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, cit., pp. 23 ss.
[6] Sulle applicazioni del principio di dignità del magistrato, così come prefigurato dall’art. 1 d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, si rinvia a Cass. civ., Sez. Un., n. 6827 del 24 marzo 2014, Rv. 629804; Cass. civ., Sez. Un., n. 12167 del 15 maggio 2008, Rv. 603108.
[7] Per inquadrare le finalità perseguite dal Codice Deontologico dell’Associazione Nazionale Magistrati, può essere utile richiamare la parte iniziale della premessa, in cui si afferma: «Il nuovo codice etico aggiorna la figura del magistrato, inserito in una società ormai in continua evoluzione. Ricorda, nella sua premessa, che il magistrato opera al solo fine di conseguire la piena effettività dei diritti delle persone. Ne sottolinea parimenti la responsabilità nel buon andamento del servizio giustizia, ma al contempo ne tutela l’indipendenza sia nei rapporti esterni che nell’ambito dell’autogoverno. Prende significativa posizione sul delicato versante dei rapporti col mondo dell’informazione e soprattutto con le degenerazioni delle comunicazioni di massa. Ribadisce espressamente che, una volta eletto in organismi rappresentativi, il magistrato opera senza vincoli di mandato rispetto agli elettori ovvero ai gruppi associati. Con scrupolo rammenta e indica le condotte del magistrato nei suoi rapporti con gli altri protagonisti del processo […]».
[8] Sui temi della legittimazione del potere giudiziario nel più ampio contesto dei sistemi sociali dei Paesi occidentali, si rinvia agli studi di N. Luhmann, Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale (1984), trad. it., il Mulino, Bologna, 1990; Id., Sistema giuridico e dogmatica giuridica (1970), trad. it., il Mulino, Bologna, 1978.
[9] Insuperabili, su questi temi, mi sembrano le riflessioni processualistiche di P. Ferrua, Il giusto processo, Zanichelli, Bologna, 2012; Id., Studi sul processo penale, Giappichelli, Torino, 1988; Id., La difesa nel processo penale, Utet, Torino, 1988.
[10] Si veda P. Ferrua, Il giusto processo, cit., pp. 34 ss.
[11] Sulle applicazioni del principio di legalità nella materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, così come prefigurato dall’art. 2, lett. ff), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, si rinvia a Cass. civ., Sez. Un., n. 4323 del 24 febbraio 2014, Rv. 629550; Cass. civ., Sez. Un., n. 28871 del 9 dicembre 2008, Rv. 605934; Cass. civ., Sez. Un., n. 27172 del 20 dicembre 2006, Rv. 593740; Cass. civ., Sez. Un., n. 22510 del 20 ottobre 2006, Rv. 595510.
[12] Si veda K. Popper, Conoscenza oggettiva (1972), trad. it., Armando, Roma, 1975; Id., Conoscenza oggettiva. Un punto di vista evoluzionistico (1972), trad. it., Armando, Roma, 1975; Id., Logica della scoperta scientifica (1934), Einaudi, Torino, 1970.
Le tesi popperiane, nell’ultimo ventennio, hanno trovato ampio spazio anche nel dibattito giurisprudenziale nostrano, come ci viene dimostrato, ad esempio, dalla risalente, ma sempre attuale, pronuncia delle Sezioni Unite Cass. pen., Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222139-01; su questa decisione si veda anche R. Blaiotta, Con una storica sentenza le Sezioni unite abbandonano l’irrealistico modello nomologico deduttivo di spiegazione causale di eventi singoli. Un nuovo inizio per la giurisprudenza, in Cass. pen., 2003, pp. 1176 ss.
[13] Vedi supra, paragrafo 4.
[14] Sull’imparzialità del magistrato A. Costanzo, Deontologia, ermeneutica e cenni sull’associazionismo giudiziario, cit., p. 3, osserva acutamente che tale dover essere del magistrato consiste nella «assenza di ogni pregiudizio e finisce per risolversi in una virtù personale che consiste nel mantenersi aperti, all’inizio dei ragionamenti, a tutti i possibili punti di vista svincolandosi dai pregiudizi […]». Naturalmente «non può trattarsi di una imparzialità assoluta perché le norme giuridiche muovono da dei presupposti e perseguono degli obiettivi, quindi nascono affette da parzialità perché mirano a costruire una particolare realtà: l’argomentazione giuridica non è libera ma condizionata dai contenuti normativi validamente posti dall’ordinamento giuridico […]».
[15] Si veda C. Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), Feltrinelli, Milano, 1991, p. 26.
[16] Sulle applicazioni del principio di imparzialità nella materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, così come prefigurato dall’art. 2, lett. a), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, si rinvia a Cass. civ., Sez. Un., n. 8563 del 26 marzo 2021, Rv. 660878; Cass. civ., Sez. Un., n. 2610 del 4 febbraio 2021, Rv. 660309; Cass. civ., Sez. Un., n. 24631 del 4 novembre 2020, Rv. 659452; Cass. civ., Sez. Un., n. 19893 del 22 settembre 2020, Rv. 658992; Cass. civ., Sez. Un., n. 15196 del 16 luglio 2020, Rv. 658335; Cass. civ., Sez. Un., n. 30424 del 23 novembre 2018, Rv. 651811.
[17] Su questi temi, si rinvia all’intervento di M. Donini, Diritto penale di lotta vs. diritto penale del nemico, in AA.VV., Contrasto al terrorismo interno e internazionale, a cura di R. Kostoris e R. Orlandi, Giappichelli, Torino, 2006, pp. 19-73.
[18] Si rinvia, sul punto, alle recenti riflessioni di L. Manconi-F. Graziani, Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale, Einaudi, Torino, 2019; ma volendo andare più indietro nei secoli si rimanda a I. Kant, Risposta alla domanda: che cos‘è l’illuminismo?, in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V, Mathieu, Utet, Torino, 2010, pp. 141 ss.
[19] Vedi supra, paragrafo 1.
[20] Su questi temi, un trentennio addietro, è intervenuto autorevolmente L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Bari, 1990, p. 859, mettendo in guardia dai pericoli posti da ogni «modello di antigiuridicità sostanziale anziché formale o convenzionale, che sollecita indagini sui rei anziché sui reati, e che corrisponde a una vecchia e mai spenta tentazione totalitaria: la concezione ontologica – etica o naturalistica – del reato come male quia peccatum e non solo quia prohibitum e l’idea che si debba punire non per quel che si è fatto ma per quello che si è».
[21] Sulle applicazioni del principio del contraddittorio nella materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, così come prefigurato dall’art. 2, lett. b), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, si rinvia a Cass. civ., Sez. Un., n. 1416 del 18 gennaio 2019, Rv. 652232; Cass. civ., Sez. Un., n. 20730 del 28 settembre 2009, Rv. 609492.
[22] Su questi profili, di recente, si è soffermato N. Russo, “In nome del popolo mediatico” (se pure i magistrati smettono di affidarsi al processo), in www.questionegiustizia.it, 16 aprile 2021, pp. 1 ss.; sugli stessi temi, si veda anche il più datato A. Mastropaolo, Democrazia e populismo, in AA.VV., La democrazia in nove lezioni, a cura di M. Bovero e V. Pazé, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 70 ss.
[23] Vedi supra, paragrafi 5 e 6.
[24] Si veda G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, cit., p. 105.
[25] In termini generali, sulle applicazioni del principio di riservatezza nella materia degli illeciti disciplinari dei magistrati, così come prefigurato dall’art. 2, lett. u) e v), d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, si rinvia a Cass. civ., Sez. Un., n. 22373 del 15 ottobre 2020, Rv. 659284; Cass. civ., Sez. Un., n. 17187 del 28 giugno 2018, Rv. 649830.
[26] Si veda, ancora, G. Fiandaca, Populismo politico e populismo giudiziario, cit., p. 109, dove, tra l’altro, si afferma nel tentativo di inquadrare le linee ideologiche che sorreggono il “populismo giudiziario”, l’Autore osserva che tale fenomeno culturale tende «ad assumere una fisionomia più chiara e proporzioni più consistenti laddove il sistema politico-partitico versi in uno stato di manifesta crisi e fenomeni di antipolitica, o meglio di politica antipartitica minacciano di occupare lo spazio di una politica ufficiale sempre più debole e in affanno […]».