Sommario: 1. Introduzione. – 2. L’evoluzione giurisprudenziale anteriore alla legge Balduzzi: valorizzazione ed applicazione dell’art. 2236 c.c. – 3. La legge Balduzzi: ermeneusi ed eredità. – 4. La legge Gelli-Bianco e l’introduzione dell’art. 590-sexies c.p.: aporie e problematiche. – 5. Il contrasto giurisprudenziale sull’art. 590-sexies c.p.: la sentenza Tarabori e la sentenza Cavazza. – 6. L’intervento delle Sezioni Unite: la sentenza Mariotti, uno sguardo d’insieme. – 6.1. Segue: ruolo e natura delle linee guida alla luce dell’art. 5, l. 24/2017. – 6.2. Segue: la metodologia ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite. La prospettata questione di legittimità costituzionale ed il suo superamento. – 7. L’interpretazione adottata dalle Sezioni Unite: la soluzione del quesito e l’enunciazione dei principi di diritto. – 7.1. Segue: premessa sulla natura giuridica dell’art. 590-sexies c.p. – 7.2. Segue: l’ambito di operatività della causa di non punibilità: il recupero ermeneutico del parametro della gravità della colpa. – 8. Ratio decidendi e gravità della colpa: l’art. 2236 c.c. e la tradizione giurisprudenziale e dottrinale antecedente alla novella. – 8.1. Segue: l’intenzione del legislatore storico: i lavori parlamentari. – 9. Questioni di diritto intertemporale. – 10. Conclusioni: una lettura critica.
Abstract: Il presente articolo si prefigge l’obiettivo di ripercorrere lo sviluppo normativo e giurisprudenziale in tema di responsabilità penale colposa del professionista sanitario a partire dalle posizioni più risalenti fino a giungere all’emanazione della legge Balduzzi e della successiva, ed attualmente vigente, legge Gelli-Bianco. Punto fondamentale dell’analisi è rappresentato dal commento e dalla lettura critica della recente sentenza n. 8770/2018 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione (c.d. Mariotti), la quale, recuperando in via ermeneutica il criterio della gravità della colpa, è pervenuta a razionalizzare il testo del nuovo art. 590-sexies c.p., tentandone un’interpretazione costituzionalmente conforme.
Abstract in English: The present work aims to analyse the normative and jurisprudential development of criminal negligence of health professional starting by old positions until emanation of legge Balduzzi and the following, and nowadays in force, legge Gelli-Bianco. Fundamental focus of the analysis is the comment and critical lecture of the recent sentence n. 8770/2018 of the Sezioni Unite of Corte di cassazione (the so call “Mariotti sentence”), which, hermeneutically recovering gravity of negligence as parameter of liability, rationalized the new art. 590-sexies c.p. text, trying to obtain a constitutionally conform interpretation.
1. Introduzione
Nel presente articolo si cercherà, dopo aver rapidamente ripercorso le tappe fondamentali dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in ordine alla responsabilità penale per colpa del medico-chirurgo, di dare conto della soluzione ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite, soffermando in particolare l’attenzione sul parametro della gravità della colpa, scomparso dal testo normativo ma recuperato dai giudici della nomofilachia in via interpretativa.
2. L’evoluzione giurisprudenziale anteriore alla legge Balduzzi: valorizzazione ed applicazione dell’art. 2236 c.c.
Come noto, infatti, la giurisprudenza più risalente (anni ’60 e ’70), era incline ad un atteggiamento di estrema mitezza nei confronti della condotta del sanitario, il quale, in fin dei conti, svolge un’attività di fondamentale importanza sociale. Si limitava, pertanto, la responsabilità medica solamente a casi di colpa grave intesa in senso assai limitato. Si trova affermato, infatti, che essa consisterebbe «nell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter adoperare correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria. Pertanto, dovendo la colpa del medico essere valutata dal giudice con larghezza di vedute e comprensione, sia perché la scienza medica non determina in ordine allo stesso male un unico criterio tassativo di cure, sia perché nell’arte medica l’errore di apprezzamento è sempre possibile, l’esclusione della colpa professionale trova un limite nella condotta del professionista, incompatibile col minimo di cultura e di esperienza che deve legittimamente pretendersi da chi sia abilitato all’esercizio della professione medica»[1].
Tuttavia, com’è altrettanto noto, l’art. 43, c. 3, c.p. non effettua alcuna distinzione – quanto all’an respondeatur – fra i diversi gradi di colpa, ammettendo dunque la punibilità anche per colpa lievissima. Il grado di essa, infatti, è considerato solamente in relazione al quantum respondeatur (artt. 61, n. 3 e 133, c.p.). Ebbene, la giurisprudenza in discorso – per evitare di risultare eccessivamente generica ed indulgenziale – si è servita di un parametro normativo estraneo all’ordinamento penale, ossia quello contenuto nella disposizione dell’art. 2236 c.c. (Responsabilità del prestatore d’opera), che prevede: «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave». Si è ritenuto, infatti, che esso potesse essere applicato anche al settore penale per una serie di motivi. Anzitutto, infatti, si segnalava come, anche in diritto civile, esso fosse circoscritto solamente alla risoluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, ossia al solo parametro della perizia, intervenendo per gli altri due (diligenza e prudenza) la disposizione ordinaria dell’art. 1176 c.c., e dunque potendosi pervenire ad addebito di responsabilità anche solamente per colpa lieve. In secondo luogo, si sosteneva che – operando tale estensione nell’applicazione dell’art. 2236 c.c. – non si facesse altro, in definitiva, che uniformare la repressione penale a quella civile, essendo irragionevole che l’ordinamento punisca penalmente (e dunque servendosi di quello che dovrebbe essere uno strumento sussidiario e di ultima ratio) condotte che invece il diritto civile (la cui punizione, come si sa, ha caratteristiche risarcitorio-retributive del tutto peculiari) ritiene lecite.
Tale indirizzo giurisprudenziale, divenuto vero e proprio diritto vivente, è stato altresì alla base di una pronuncia della Corte costituzionale, la sentenza 22 novembre 1973, n. 166[2], relativa alla questione di legittimità degli artt. 589 e 42 c.p. (ma meglio, come sottolineato dalla Corte stessa, 43) in relazione all’art. 2236 c.c. per contrasto con l’art. 3 Cost. Il rimettente, infatti, osservava che la limitazione di responsabilità del medico ai soli casi di colpa grave era potenzialmente lesiva dell’art. 3 Cost., venendo a creare una situazione di disparità ingiustificata fra diversi soggetti ugualmente sottoposti al precetto penale, e venendo, nei fatti, a delimitare una sorta di privilegio nei confronti della categoria medica. A parità di condizioni, infatti, solamente il medico avrebbe potuto invocare l’applicazione dell’art. 2236 c.c., non altri. Il caso all’origine della questione, infatti, vedeva coinvolti un medico chirurgo ed un diplomato in odontotecnica e protesi dentaria. Evidentemente, a parità di grado della colpa, solamente il primo avrebbe potuto beneficiare del diritto vivente in questione. La Corte, tuttavia, ha ritenuto non fondata la questione argomentando che «la particolare disciplina in tema di responsabilità penale, desumibile dagli artt. 589 e 42 (e, meglio, 43) del codice penale, in relazione all’art. 2236 del codice civile, per l’esercente una professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata […] di fronte a due opposte esigenze, quella di non mortificare la iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso». Di conseguenza, «il differente trattamento giuridico riservato al professionista la cui prestazione d’opera implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, e ad ogni altro agente che non si trovi nella stessa situazione, non può dirsi collegato puramente e semplicemente a condizioni (del soggetto) personali o sociali. La deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti». In definitiva, quindi, la Corte costituzionale non ha ritenuto di dover censurare il diritto vivente in quanto non determinante una disparità di trattamento eccessivamente estesa (era infatti limitata alla sola imperizia) né considerabile come irragionevole.
Lo sviluppo giurisprudenziale successivo{3], tuttavia, risultava frammentato in due diverse impostazioni. Da un lato, infatti, vi era un orientamento che continuava a fare applicazione dell’art. 2236 c.c., non intendendolo, tuttavia, in quanto tale ma bensì quale semplice regola di esperienza o parametro di giudizio, fondante la responsabilità del medico-chirurgo per colpa generica[4].
Peraltro, tale orientamento aggiungeva dei requisiti a quelli previsti da detto articolo, allo scopo di chiarificarlo e di applicarlo a situazioni ancora più circoscritte. In particolare, infatti, si riteneva che il medico potesse andare esente da responsabilità per colpa nel caso in cui, congiuntamente: avesse comunque rispettato le comuni regole di diligenza e di prudenza, avesse dovuto affrontare problemi tecnici di particolare difficoltà, fosse incorso in imperizia non grave e, requisito questo di totale creazione giurisprudenziale, vi fosse stata la necessità di agire immediatamente, stante la situazione di emergenza[5].
Dall’altro lato, tuttavia, troviamo un orientamento del tutto contrario all’applicabilità dell’art. 2236 c.c. (sotto qualsiasi veste) nell’ordinamento penale, anche con riferimento alla sola imperizia[6]. Gli argomenti addotti a sostegno di tale impostazione riguardavano in particolare il fatto che l’art. 2236 c.c. afferisca solamente al diritto civile e che dunque verrebbe applicato in ambito penale per analogia; che, fondandosi il rimprovero della colpa penale sulla prevedibilità ed evitabilità dell’evento, non sarebbero mai dati casi di speciale difficoltà tecnica ai sensi dell’art. 2236 c.c.; e che si finirebbe per creare realmente – al di là di quanto affermato dalla Corte costituzionale – un privilegio proprio della sola categoria medica.
Dalla parte opposta, invece, chi militava per l’estensione rispondeva a questi argomenti adducendo che – se è vero che i due rami dell’ordinamento sono fra loro diversi – non è meno vero che non dovrebbero essere fra di loro in contraddizione, «nel senso che non può essere considerata antigiuridica in sede penale una condotta che una norma dell’ordinamento civile dichiara espressamente lecita»[7].
Ad ogni modo, quanto al rispetto delle linee guida, la giurisprudenza di legittimità è sempre stata chiara nell’escluderne un’efficacia scusante ipso facto, rappresentando esse solamente orientamenti di massima, e non vere e proprie fonti formali e codificate di regole cautelari rigide, capaci di ridurre l’aerea del rischio entro i margini di quello consentito.
La giurisprudenza civile sull’art. 2236 c.c., dal canto suo, è sempre stata costante nel ritenere che il medico andasse esente da responsabilità solamente in caso di problemi tecnici di particolare complessità – caratterizzati, in senso rigoristico, in ogni caso da straordinarietà ed eccezionalità, dal trascendere cioè le conoscenze mediche ordinarie, nonché dal dover essere provati dal convenuto – e solamente laddove, nel risolvere tali problemi, incorresse in imperizia grave, rispondendo ordinariamente in caso di negligenza ed imprudenza[8].
3. La legge Balduzzi: ermeneusi ed eredità.
Il testo dell’art. 3 della legge Balduzzi – abrogato dalla legge Gelli-Bianco – era il seguente:
«L'esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l'obbligo di cui all'articolo 2043 del codice civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo».
Come si nota, il legislatore interveniva limitando la responsabilità degli esercenti la professione sanitaria ai soli casi di colpa grave (o, con una litote, di colpa non lieve), laddove si fossero attenuti alle linee guida ed alle buone pratiche.
Diversi sono stati gli elementi controversi di detta disposizione. Per quanto qui di specifico interesse, in particolare, veniva introdotta una rilevantissima novità, ossia l’utilizzo della dosimetria della colpa già con riferimento all’an respondeatur e non soltanto al quantum di pena. Come noto, infatti, giusto l’art. 43, c. 3, c.p., il nostro ordinamento penale prevede che la colpa sia sempre punibile, senza alcuna distinzione per il grado di essa, il quale viene in rilievo, ex art. 133, n. 3, c.p., solamente in relazione alla determinazione dell’entità della pena. Di conseguenza, la scelta della Balduzzi è stata nel senso di creare, rispetto alla regola generale, un’eccezione, applicabile solamente ai professionisti di ambito sanitario, e vincolata a due elementi: il sostanziale rispetto delle linee guida (parametro sfuggevole, atteso che di esse si diceva solamente che dovevano essere «accreditate dalla comunità scientifica» e nulla di più) e la gravità della colpa (senza tuttavia che venissero date indicazioni normative circa i criteri per ritenere integrato detto parametro).
È stata la giurisprudenza di legittimità a chiarire l’ambito di applicabilità in concreto di detta disposizione, risolvendo diverse questioni e trovandosi in contrasto su altre.
Deve essere in particolare menzionata la più importante sentenza al riguardo, ossia la sentenza Cantore (Cass., Sez. IV, n. 16237 del 29 gennaio 2013, Rv. 255105)[9], che coglieva pienamente i due elementi di novità anzidetti, in un apprezzabile sforzo interpretativo volto a fissare, costruttivamente, i limiti di applicazione della disposizione de qua. In essa, infatti, si trovava anzitutto valorizzato il ruolo delle linee guida (purché scientificamente accreditate ed attendibili), le quali, tuttavia, non costituendo vero e proprio parametro di colpa specifica, «vanno in concreto applicate senza automatismi, ma rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico». Di conseguenza, il ruolo «non meccanicistico» di esse portava ad affermare che «potrà ben accadere che il professionista si orienti correttamente in ambito diagnostico o terapeutico, si affidi cioè alle strategie suggeritegli dal sapere scientifico consolidato, inquadri correttamente il caso nelle sue linee generali e tuttavia, nel concreto farsi del trattamento, commetta qualche errore pertinente proprio all’adattamento delle direttive di massima alle evenienze ed alle peculiarità che gli si prospettano nello specifico caso clinico. In tale caso, la condotta sarà soggettivamente rimproverabile, in ambito penale, solo quando l’errore non sia lieve». Parimenti, «potrà pure accadere che, sebbene in relazione alla patologia trattata le linee guida indichino una determinata strategia, le già evocate peculiarità dello specifico caso suggeriscano addirittura il discostarsi radicalmente dallo standard, cioè di disattendere la linea d’azione ordinaria. Una tale eventualità può essere agevolmente ipotizzata, ad esempio, in un caso in cui la presenza di patologie concomitanti imponga di tenere in conto anche i rischi connessi alle altre affezioni e di intraprendere, quindi, decisioni anche radicalmente eccentriche rispetto alla prassi ordinaria». Di conseguenza, quindi, la legge Balduzzi escludeva la responsabilità del professionista sanitario in caso di colpa lieve dovuta a quelli che in dottrina sono stati chiamati adempimenti imperfetti ovvero adempimenti inopportuni delle linee guida. Sempreché, ovviamente, si trattasse per l’appunto di colpa lieve. Parrebbe, infatti, che in caso di totale disapplicazione di esse – stante il tenore letterale della disposizione – non potesse invero configurarsi una colpa diversa da quella grave, anche se, occorre precisare, laddove esse debbano essere del tutto disattese in quanto inadeguate al caso specifico, si ricadrebbe nel caso dell’adempimento inopportuno, nel caso in cui il sanitario non se ne astenesse del tutto, con conseguente limitazione di responsabilità solo alla colpa grave. In altri termini: laddove le linee guida risultassero inadeguate rispetto al caso specifico ed il sanitario non se ne discostasse, incorrerebbe in responsabilità solamente ove esistessero macroscopiche evidenze dell’inadeguatezza. Solo in tal caso, infatti, la colpa sarebbe grave.
La sentenza de qua, poi, affrontava anche il secondo elemento di novità della legge Balduzzi (appunto, quello della colpa grave), circa il quale – chiarito che «l'esperienza giuridica insegna che, quando una categoria giuridica si scompone in distinte configurazioni, l'interprete si trova solitamente ad affrontare complesse questioni che riguardano il tratteggio dell'area di ciascuna figura e la collocazione nell'uno o nell'altro contenitore concettuale di comportamenti che si trovano in una sfumata zona grigia sita ai margini del metaforico segno di confine» – essa si accodava alla più accorta dottrina nell’individuazione dei criteri da cui inferire la gravità della colpa, con la consapevolezza della grandissima importanza rivestita dalla relativa valutazione nel nuovo quadro normativo.
Infine, essa perveniva altresì alla razionalizzazione dogmatica della nuova disciplina, chiarendo che il legislatore, per il tramite di essa, aveva inteso pervenire ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p., avendo ristretto l'area del penalmente rilevante individuata da questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due sottofattispecie, una conservante natura penale e l'altra divenuta penalmente irrilevante. In altri termini, in ambito sanitario, nel rispetto degli individuati criteri, la colpa lieve cessava di essere penalmente rilevante.
Soffermandoci dunque sulla questione della gravità della colpa, occorre chiarire quanto segue. La colpa penale è invero, ormai pacificamente, considerata graduabile, per precisa scelta legislativa[10]. A differenza del codice Zanardelli, infatti, il quale nulla diceva al riguardo, il codice vigente offre molteplici conferme di detta graduabilità. Anzitutto, espressa menzione del grado della colpa è compiuta dall’art. 133, c. 1, n. 3, c.p. quale criterio per dosare la pena nei reati colposi; inoltre, in questo senso devono considerarsi anche gli artt. 43, c. 3 e 61, n. 3, c.p. sulla colpa con previsione, considerata vera e propria forma aggravata della colpa più che autonoma figura a sé stante. Infine, nella legislazione speciale si rinvengono alcuni casi in cui la punibilità per colpa è espressamente limitata solamente alle ipotesi di colpa “grave” (ad es. l’art. 217 l. fall. in tema di reato di bancarotta semplice). Altra acquisizione ormai pacifica è quella per cui, pur essendo graduabile al pari della colpa civile, non ci si possa, in relazione alla colpa penale, servire degli strumenti civilistici (primo fra tutti, l’art. 2236 c.c.) per stabilirne il grado, attesa la strutturale differenza fra le due specie di colpa, che impone la ricerca di criteri peculiari dell’indagine penalistica.
Nel ricercare tali criteri penalistici, bisogna in primo luogo evidenziare come sia possibile che un’indicazione al riguardo venga direttamente data dal legislatore, anche se, come detto, non è stato il caso della legge Balduzzi. Diversamente, la dottrina ha elaborato una serie di criteri, di carattere ora oggettivo, ora soggettivo, da seguire per riuscire a graduare la colpa in maniera quanto più accurata possibile. Anzitutto, la coscienza, variamente intesa, che può accompagnare la colpa, rappresenta un ottimo indicatore della sua gravità. In caso di colpa cosciente (ossia in cui la coscienza si rivolga alla situazione di pericolo) ovvero di colpa con rappresentazione (che alla cosciente aggiunge la consapevolezza anche di elementi ulteriori del fatto) si darà applicazione proprio all’art. 133, c. 1, n. 3, ritenendo – a seconda del quantum e della specificità della coscienza – più o meno grave la condotta colposa. Nel caso in cui poi si possa addirittura parlare di vera e propria colpa con previsione dell’evento, si applicherà direttamente la circostanza aggravante di cui all’art. 61, n. 3, nuovamente parametrata sul quantum e sulla specificità della previsione dell’evento.
In secondo luogo, nella colpa incosciente valido criterio è anche quello del quantum di prevedibilità e di evitabilità, che può aggravare la colpa, o anche, nel caso in cui il comportamento alternativo lecito non sia in grado di evitare in concreto la realizzazione dell’evento, escluderla del tutto.
Ancora, altro criterio – questa volta soggettivo – è dato dal quantum di esigibilità della condotta doverosa da parte del soggetto agente: quanto più essa è esigibile, e tanto più grave sarà la colpa, così come, viceversa, mancando la possibilità di richiedere concretamente all’agente una condotta diversa da quella tenuta, dovrebbe considerarsi esclusa la colpevolezza e quindi, conseguentemente, anche la colpa.
Ancora, rilevante è anche la motivazione alla base della condotta (tipico è l’esempio della guida spericolata ed imprudente con conseguenze lesive, la quale, a seconda del motivo per cui sia stata posta in essere, risulterà più o meno grave: così, certamente meno grave verrà considerata se realizzata da un autista di ambulanza in una situazione di emergenza, rispetto ad altri casi), nonché, e correlativamente, l’atteggiamento mostrato dall’agente verso altrui situazioni di interesse od altrui beni giuridici.
Ancora, a livello di condotta, rileverà altresì la presenza di circostanze anormali concomitanti, nel momento in cui non siano tali da escludere la suitas e dunque da funzionare in chiave scriminante, ma semplicemente rendano più difficoltoso il rispetto della cautela doverosa e quindi possano porsi quali circostanze attenuanti (coperte dall’art. 62-bis c.p., oppure direttamente dall’art. 133, c. 1, n. 3, c.p.).
Sicuramente fondamentale, nel graduare la colpa, è poi il criterio del quantum di divergenza tra la condotta doverosa e quella effettivamente tenuta: tanto più rilevante sarà lo scarto e tanto più grave sarà la colpa (ad es., va da sé che, nella circolazione stradale, causare eventi lesivi a seguito di un incidente provocato per eccesso di velocità sarà tanto più grave quanto più si sia superato il limite, non potendosi certo considerare sullo stesso piano la condotta di chi lo superi di appena 10 km/h e quella di chi, invece, lo superi di oltre 100 km/h). Medesimo ragionamento va fatto, peraltro, anche con riferimento all’ipotesi di colpa impropria dell’eccesso colposo dai limiti di una scriminante (art. 55 c.p.), rispetto alla gravità della divergenza dalle condizioni che la legge stabilisce per ritenere legittimamente esercitata la scriminante medesima.
Resta ancora da sottolineare come, molto spesso, il giudice si trovi ad avere a che fare con diversi criteri contemporaneamente, dovendo procedere ad una loro valutazione mediante il ragionamento di equivalenza, prevalenza o soccombenza tipico del concorso di circostanze.
Infine, va menzionata anche la questione della valutazione delle colpe concorrenti, divenendo l’analisi comparativa ancora più complessa quando si presenti il concorso di colpa di più agenti o della stessa vittima, da graduarsi necessariamente sulla base di criteri di approssimazione.
Tutto ciò premesso e considerato, appare di fondamentale importanza analizzare il diritto vivente formatosi sulla legge Balduzzi, e derivato, in grandissima parte, dalla sentenza Cantore. La giurisprudenza di legittimità si è mostrata sostanzialmente recettiva rispetto all’illustre precedente, condividendone quasi tutti i principi di diritto, e specificandone in alcuni casi la portata.
Si trova affermato, infatti, che il semplice rispetto delle linee guida non vale ad escludere ipso facto la responsabilità, dovendo comunque accertarsi se la specificità del quadro clinico del paziente imponesse un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato da dette linee guida (Cass., Sez. IV, 22 aprile 2015, n. 24455, Rv. 263732), e se, comunque, il comportamento terapeutico appropriato avrebbe avuto una qualificata probabilità di evitare l'evento (Cass., Sez. IV, 5 novembre 2013, n. 18430, Rv. 261294). In caso contrario, infatti, risulta connotata da colpa non lieve la condotta del medico il quale si attiene a linee guida accreditate anche quando la specificità del quadro clinico del paziente imponga un percorso terapeutico diverso rispetto a quello indicato dalle menzionate linee guida, con conseguente necessità di disattendere queste ultime, in quanto inadeguate (Cass., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 2168, Rv. 261764).
Viene, inoltre, ribadita l’avvenuta parziale abrogazione degli artt. 589 e 590 c.p., con conseguente applicabilità del regime previsto dall’art. 2, c. 2, c.p. (Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Rv. 266904).
Ancora, si trovano sovente applicati i criteri suddetti di individuazione della gravità della colpa, con particolare considerazione per il quantum di divergenza fra la condotta tenuta e la condotta doverosa omessa, configurandosi la colpa grave a norma dell'art. 3 della legge 8 novembre 2012, n. 189, quando si è in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all'agire appropriato, come definito dalle linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, tenuto conto della necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle specifiche condizioni del paziente (Cass., Sez. IV, 15 aprile 2014, n. 22281, Rv. 262273). In particolare, si afferma che in tema di responsabilità per attività medico-chirurgica, al fine di distinguere la colpa lieve dalla colpa grave, possono essere utilizzati i seguenti parametri valutativi della condotta tenuta dall'agente: a) la misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi, b) la misura del rimprovero personale sulla base delle specifiche condizioni dell'agente; c) la motivazione della condotta; d) la consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa (Cass., Sez. IV, 8 maggio 2015, n. 22405, Rv. 263736). Sempre sul punto, poi, la Suprema Corte (Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Rv. 266904) ha affermato che può ragionevolmente ravvisarsi una colpa grave «solo quando si sia in presenza di una deviazione ragguardevole rispetto all’agire appropriato, rispetto al parametro dato dal complesso delle raccomandazioni contenute nelle linee guida di riferimento, quando cioè il gesto tecnico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia ed alle condizioni del paziente». Diversamente, «quanto più la vicenda risulti problematica, oscura, equivoca o segnata dall’impellenza, tanto maggiore dovrà essere la propensione a considerare lieve l’addebito nei confronti del professionista che, pur essendosi uniformato ad una accreditata direttiva, non sia stato in grado di produrre un trattamento adeguato ed abbia determinato, anzi, la negativa evoluzione della patologia».
Tale sostanziale uniformità di orientamenti viene drasticamente meno in riferimento ad un punto importante, ossia quello relativo all’ambito di operatività della disciplina de qua in relazione alle tre species di colpa generica (negligenza, imprudenza, imperizia). Il punto controverso è infatti se la parziale abolitio criminis – letteralmente riferita alla colpa lieve – debba comprendere tutte e tre le specie, ovvero la sola imperizia.
Un primo orientamento accoglie la soluzione restrittiva, dal momento che le linee guida conterrebbero solamente regole di perizia (Cass., Sez. IV, 8 luglio 2014, n. 7346, Rv. 262243; Cass., Sez. IV, 20 marzo 2015, n. 16944, Rv. 263389; Cass., Sez. IV, 27 aprile 2015, n. 26996, Rv. 263826; Cass., Sez. V, del 3 febbraio 2016, n. 18895, non massimata), e non già di diligenza o prudenza, di talché la legge Balduzzi opererebbe soltanto per le condotte professionali conformi alle linee guida contenenti regole di perizia, ma non si estenderebbe agli errori diagnostici connotati da negligenza o imprudenza (Cass., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11493, Rv. 254756; Cass., Sez. III, 4 dicembre 2013, n. 5460, Rv. 258846; nello stesso senso va anche la Cantore).
Un secondo orientamento, all’inverso, abbraccia la soluzione opposta, affermando che la limitazione della responsabilità del medico in caso di colpa lieve opera, in caso di condotta professionale conforme alle linee guida ed alle buone pratiche, anche nella ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall'imperizia, essendo tale interpretazione conforme al tenore letterale della norma, che non fa alcun richiamo al canone della perizia e risponde alle istanze di tassatività dello statuto della colpa generica delineato dall'art. 43, c. 3, c.p. (Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Rv. 266903). Pertanto, la limitazione della responsabilità in caso di colpa lieve, pur trovando terreno d'elezione nell'ambito dell'imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell'agente sia quello della diligenza o della prudenza (Cass., Sez. IV, 1° luglio 2015, n. 45527, Rv. 264897; Cass., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Rv. 260739; Cass., Sez. IV, 19 gennaio 2015, n. 9923, non massimata).
L’art. 3 della legge Balduzzi è stato altresì oggetto, nella sua breve vita, del sollevamento, da parte del Tribunale di Milano, di una questione di legittimità costituzionale, ritenuta tuttavia inammissibile dal Giudice delle leggi. La pronunzia in questione è l’ordinanza 2-6 dicembre 2013, n. 295[11]. La questione sottoposta alla Corte era per la verità assai nutrita ed articolata. In particolare, infatti, si lamentava l’eccessiva genericità della causa di esclusione della punibilità e del parametro, di inedita utilizzazione quanto all’an respondeatur, della colpa lieve. In tale vaghezza si ravvisava pertanto contrasto con i principi di ragionevolezza e di tassatività previsti dagli artt. 3 e 25, c. 2, Cost., nonché con la funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.). In secondo luogo, si ravvisava altresì contrasto con l’art. 33 Cost. nella parte in cui tutela la libertà della scienza, la quale sarebbe invece stata compressa dalla disposizione censurata, la quale – pur avendo voluto porsi come strumento di contrasto al fenomeno della c.d. “medicina difensiva” – avrebbe in realtà finito con l’accordare un regime di maggior favore al medico passivamente ed acriticamente accettante le linee guida. In ultimo, e soprattutto, il giudice a quo lamentava la lampante violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), dovuta, da un lato, alla potenziale vastissima applicazione della disposizione censurata, suscettibile, infatti, di attrarre nella propria sfera applicativa tutti gli esercenti la professione sanitaria e dunque anche quelli non chiamati ad adottare scelte diagnostiche o terapeutiche o le cui scelte non attengono alla salute umana (come esempio si menzionavano i veterinari, i farmacisti, i biologi e gli psicologi), nonché di riferirsi a tutti i reati colposi eventualmente realizzabili dal sanitario; dall’altro, alla vera e propria creazione di un privilegio per la classe sanitaria rispetto alle altre professioni, collocate in situazione di minor favore.
La Corte, di fronte a tali argomentazioni, rispondeva con ordinanza di manifesta infondatezza a causa del difetto di motivazione in punto di rilevanza della questione, ma comunque precisava «che, al riguardo, occorre anche considerare come, nelle prime pronunce emesse in argomento, la giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto – in accordo con la dottrina maggioritaria – che la limitazione di responsabilità prevista dalla norma censurata venga in rilievo solo in rapporto all’addebito di imperizia, giacché le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia: non, dunque, quando all’esercente la professione sanitaria sia ascrivibile, sul piano della colpa, un comportamento negligente o imprudente».
Si noti, quindi, che la Corte costituzionale – sebbene in una decisione di mero rito – sembrava volere avallare l’orientamento restrittivo circa l’ambito di operatività della disposizione de qua, confermando il proprio medesimo e risalente orientamento in tema di applicabilità dell’art. 2236 c.c. nel settore penale (Corte cost., n. 166 del 22 novembre 1973). Va tuttavia altresì considerato che le pronunce succitate di segno opposto sono tutte posteriori rispetto a tale arresto.
Infine, è bene segnalare che i dubbi di costituzionalità pendenti sulla legge Balduzzi sono stati superati, in conferma della decisione del Giudice delle leggi, anche dalla stessa Cassazione, che ha infatti affermato – peraltro in parziale recupero di precedenti orientamenti – che essa non si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, non potendosi ravvisare profili di irragionevolezza di tale norma rispetto alla diversa disciplina applicabile agli altri operatori del rischio (e per gli stessi sanitari che non applichino il sapere consolidato in linee guida) per i quali, l'esclusione della responsabilità penale per colpa grave, pur potendo operare solo in virtù del principio civilistico di cui all'art. 2236 cod. civ. – applicabile come regola di giudizio cui attenersi nel valutare l'addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà – prescinde, tuttavia, dalla conformità della condotta alle linee guida ed alle buone pratiche di riferimento (Cass., Sez. IV, 19 novembre 2015, n. 12478, Rv. 267814).
In dottrina[12] si evidenziano prese di posizione critiche sia rispetto alla lettera della disposizione, sia rispetto ad alcune delle pronunce giurisprudenziali segnalate.
In via preliminare, è pressoché unanime la sottolineatura dell’eccessiva vaghezza e genericità dell’art. 3 in discorso, soprattutto per quanto riguarda i concetti di “linee guida” e di “colpa grave”, entrambi lasciati normativamente irrisolti. Si segnala, infatti, il pericolo che ciò comporta quanto alle importanti conseguenze derivanti dalla ritenuta integrazione della colpa grave, che segna l’ingresso nell’aerea del penalmente rilevante, pur mancando completamente qualsivoglia indicazione di legge circa i criteri per riconoscerla. Parimenti, è avvertita una forte contraddizione dovuta alla difficoltà di ritenere sussistente un qualsivoglia profilo di colpa, pur nel rispetto di linee guida accreditate (locuzione che, nella sua genericità, si ritiene debba riferirsi, acuendo ulteriormente i problemi, alla migliore scienza ed esperienza del momento, più che ad effettivi parametri formali).
Per quanto specificamente attiene al parametro della gravità della colpa, la più attenta dottrina apprezza la ricostruzione effettuata dalla giurisprudenza Cantore dei criteri di ricognizione del grado della colpa. Si sostiene, infatti, che riferire il grado della colpa non soltanto ad elementi obiettivi (quali, tipicamente, la divergenza fra condotta tenuta e condotta doverosa) ma anche soggettivi (in particolare, come visto, l’esigibilità della condotta doverosa da parte del soggetto concreto) sia l’unico e più efficace mezzo per rinforzare la c.d. colpevolezza della colpa (o misura soggettiva di essa), vale a dire la natura più spiccatamente soggettiva e colpevole di un elemento – quale è quello colposo – la cui storia è segnata irrimediabilmente da sempre più accentuati fenomeni di oggettivizzazione, favoriti dalla natura normativa della colpa e dal difficile percorso di affrancamento che essa ha dovuto compiere rispetto a varie teorie psicologistiche. Invero, la costruzione di un settore – quale quello della responsabilità medica – caratterizzato dalla punibilità della sola colpa grave, ha fatto sperare nella possibilità che la correlazione fra gravità della colpa e sua maggiore ritrovata colpevolezza potesse trovare un utile banco di prova, da cui poi espandersi a tutto l’ordinamento. Non possono infatti essere qui taciute alcune importanti definizioni di colpa grave elaborate in occasione di studi o di possibili riforme. In particolare, si consideri quello elaborato da G. Forti, M. Catino, F. D’Alessandro, C. Mazzucato, G. Varraso e relativo proprio al settore medico, nel quale si prevedeva l’introduzione, nel codice penale, dell’art. 590-ter (Morte o lesioni come conseguenza di condotta colposa in ambito sanitario), il cui testo si riporta affinché possa confrontarsi con l’attuale art. 590-sexies: «1. L’esercente una professione sanitaria che, in presenza di esigenze terapeutiche, avendo eseguito od omesso un trattamento, cagioni la morte o una lesione personale del paziente è punibile ai sensi degli articoli 589 e 590 solo in caso di colpa grave. 2. Ai sensi del presente articolo la colpa è grave quando l’azione o l’omissione dell’esercente una professione sanitaria, grandemente inosservante di regole dell’arte, ha creato un rischio irragionevole per la salute del paziente, concretizzatosi nell’evento». Come si vede, una definizione di colpa grave assai raffinata, capace di vincolarla – più che a buone pratiche o a linee guida – alla maggiore o minore osservanza delle leges artis, in unione con la considerazione del rischio e dell’evento, due cardini, come noto, dell’intera teorica della colpa. Ancora, degno di nota è, sul punto, il progetto Pisapia di riforma del codice penale, che prevedeva, all’art. 13, lett. e), una vera e propria definizione generale di colpa grave, nei termini seguenti: «la colpa sia grave quando, tenendo conto della concreta situazione anche psicologica dell’agente, sia particolarmente rilevante l’inosservanza delle regole ovvero la pericolosità della condotta, sempre che tali circostanze oggettive siano manifestamente riconoscibili». Come si vede, una maggiore gravità della colpa implica un maggior livello di colpevolezza, basato sia su elementi oggettivi (la rilevanza dell’inosservanza delle regole), sia su elementi soggettivi (la concreta situazione psicologica dell’agente).
Pur venendo lodata per questa apertura verso la misura soggettiva della colpa, tuttavia, la giurisprudenza di legittimità non va esente da critiche in relazione alla citata limitazione dell’operatività della legge Balduzzi alla sola imperizia. Tale orientamento – sintetizzato dal brocardo culpa levis sine imperitia non excusat – è ritenuto derivare dall’evoluzione giurisprudenziale precedente (la quale, in relazione all’art. 2236 c.c., riteneva che il parametro di giudizio in esso presente fosse applicabile alla sola imperizia, con avallo della Corte costituzionale), dalle lacune testuali dell’art. 3, non essendo chiaro non solo cosa siano le linee guida ma nemmeno quale ne sia il contenuto, nonché dal timore di creare – accogliendo un’interpretazione estensiva – veri e propri vuoti di tutela, ossia zone di impunità, laddove si ritenesse esente da responsabilità anche per negligenza ed imprudenza il sanitario che si sia adeguato a direttive cliniche dettate da mere necessità economiche. Ad ogni modo, l’orientamento in discorso viene criticato per diverse ragioni. In primo luogo perché il dato letterale della disposizione non autorizza tale indebita limitazione, parlando solamente di colpa tout court. In secondo luogo perché non è affatto vero che le linee guida contengano solo e necessariamente regole di perizia, potendo al contrario contenere anche norme di attenzione e cura verso attività considerate pericolose, non essendo dalla legge specificato nulla quanto al loro contenuto. In terzo luogo perché – come insegna autorevole e risalente dottrina – è assai difficile distinguere in concreto fra le tre species di colpa generica; operazione, peraltro, mai rivestita, nel nostro di ordinamento, di conseguenze così importanti come l’individuazione dell’an respondeatur di tanto gravi delitti. Infine, perché un’interpretazione tanto restrittiva limiterebbe la disposizione entro ridottissimi margini di applicazione, e restringerebbe eccessivamente il concetto – come detto già fumoso – di imperizia, che infatti altro non sarebbe che vera e propria negligenza od imprudenza qualificata, come tale non nettamente distinguibile dalle altre due species.
Sotto ulteriore profilo, poi, si ritiene che la stringata ordinanza della Corte costituzionale non abbia assolutamente dissolto i profili di incostituzionalità della disposizione, in particolare con riferimento alla duplice discriminazione che essa porrebbe in essere. Da una parte, infatti, si mostrerebbe discriminatoria già internamente, ossia con riferimento alla stessa attività medica, a causa della coniugazione fra linee guida e colpa grave. Ci si interroga, infatti, sul senso di limitare la responsabilità solamente di quei sanitari che abbiano seguito le linee guida e non anche di coloro che, invece, abbiano fatto applicazione del migliore sapere scientifico (magari di recente elaborazione), non ancora consolidato in linee guida; nonché sulla irragionevolezza di esentare da responsabilità anche casi in cui la colpa, per quanto lieve, intervenga rispetto a situazioni non particolarmente difficili. Dall’altra, poi, inaggirabile sarebbe la evidente discriminazione esterna rispetto a professionisti non sanitari che pure si trovano a fronteggiare situazioni complesse caratterizzate da grande rischio e da elevata utilità sociale.
Infine, la dottrina si esprime in senso fortemente critico nei confronti dell’impostazione dogmatica elaborata dalla sentenza Cantore e poi abbracciata da tutta la giurisprudenza successiva, secondo la quale la gravità della colpa verrebbe, in definitiva, ad essere criterio di esclusione della tipicità del reato, demarcando l’ambito del penalmente rilevante e permettendo di parlare di parziale abolitio criminis della colpa lieve. Si ritiene, infatti, che questa impostazione presti il fianco a due ordini di critiche. Da una parte, l’aver sostanzialmente vanificato il pur importante passo avanti compiuto nell’attualizzazione della colpevolezza della colpa, vincolando la gravità di essa alla mera tipicità; dall’altra, dal punto di vista processuale, l’aver imposto de facto di elevare contestazione – con relativa prova – anche con riferimento al grado della colpa, non potendosi parlare di fatto tipico senza la contestazione della gravità di essa. Ciò chiarito, si propone una ricostruzione diversa. Escluso che la limitazione di responsabilità de qua integri una causa di esclusione della tipicità nonché una causa di esclusione dell’antigiuridicità (rimanendo ex professo risarcibile il danno ex art. 2043 c.c.), non resta che considerarla o come una causa di esclusione della colpevolezza (ricostruzione dogmaticamente più precisa ma dalle conseguenze più delicate) ovvero come mera causa di esclusione della punibilità strictu sensu, eccezionale e dunque insuscettibile di essere applicata estensivamente.
4. La legge Gelli-Bianco e l’introduzione dell’art. 590-sexies c.p.: aporie e problematiche.
Come noto, la c.d. legge Gelli-Bianco (legge 8 marzo 2017, n. 24 – Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie), in vigore dal 1° aprile 2017, ha proceduto all’abrogazione della previgente disciplina contenuta nell’art. 3, c. 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con legge 8 novembre 2012, n. 189 (c.d. legge Balduzzi) ed a novellare il codice penale, aggiungendovi l’art. 590-sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario).
La legge Gelli-Bianco contiene soprattutto due articoli assai rilevanti, l’art. 5 e l’art. 6. L’art. 5 (Buone pratiche clinico-assistenziali e raccomandazioni previste dalle linee guida) fornisce, finalmente, una definizione specifica di cosa debba intendersi per linee guida nell’attività medica, stabilendone ben precisi criteri formalistici (comma 1)[13], nonché le modalità di pubblicazione (comma 3)[14].
L’art. 6 (Responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria), invece, prevede al comma 1 la menzionata novella al codice, disponendo l’inserimento dell’art 590-sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario): «1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell'esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. 2. Qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». Al comma 2, poi, contiene l’esplicita abrogazione dell’art. 3, c. 1, d.l. 158/2012.
Come si vede, si tratta di un testo[15]{, in parte oscuro, particolarmente diverso dal precedente Balduzzi. In particolare, infatti, deve essere notato come scompaia del tutto il riferimento alla colpa grave (o non lieve), rimettendo all’apparenza la causa di esclusione della punibilità al mero rispetto delle linee guida, sempre che tuttavia esse risultino adeguate al caso specifico. In questo modo, come è stato evidenziato, si rompe il binomio introdotto dal decreto Balduzzi fra colpa grave e rispetto delle linee guida, a norma del quale, nel rispetto delle linee guida, non avrebbe potuto esservi punibilità che per colpa grave. Inoltre, la Gelli-Bianco compie un passo ulteriore rispetto al precedente Balduzzi, prevedendo espressamente la limitazione alla sola imperizia, nonché ai soli delitti di cui agli artt. 589-590 c.p., con ciò nei fatti cristallizzando alcuni orientamenti giurisprudenziali formatisi sul d.l. 158/2012.
Ciò premesso, ad un primo sguardo, l’art. 590-sexies prevede l’operare di tre presupposti affinché il sanitario possa andare esente dal rimprovero per colpa: in primo luogo che l’evento si sia verificato a causa di imperizia (dunque non per negligenza od imprudenza), in secondo luogo che siano state rispettate le linee guida individuate ai sensi di legge (o, in mancanza, le buone pratiche), ed in terzo luogo, che tali linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto. Come si coglie intuitivamente, qualcosa non funziona, nel momento in cui si ammetta che – pur nel rispetto di adeguate linee guida – possa ravvisarsi imperizia nella condotta del sanitario. In altre parole, gli ultimi due presupposti confliggono con il primo, a meno di non salvarli interpretativamente (e le Sezioni Unite hanno abbracciato, come si vedrà, tale soluzione) contando sulla generale elasticità delle linee guida, le quali, bisognose di applicazione e concreta integrazione, potrebbero ben essere erroneamente applicate od interpretate rispetto alla letteratura di riferimento proprio per imperizia.
Un’ulteriore problematica generale da segnalare è quella soggettiva, legata alla corretta individuazione dei professionisti cui andrà applicato il nuovo regime. Dal punto di vista letterale, l’art. 590-sexies parla di «esercizio della professione sanitaria», non diversamente da quanto faceva l’art. 3 d.l. 158/2012 menzionando «l’esercente la professione sanitaria», ma aggiunge il riferimento ai soli artt. 589-590 c.p., risolvendo parte dei problemi e lasciandone un’altra parte ancora aperta. La maggiore questione, sotto questo profilo, è infatti la seguente: fermo l’art. 348 c.p., rientrano nella sfera di applicazione oggi della legge Gelli-Bianco, ieri del decreto Balduzzi, anche quei soggetti che svolgano semplicemente di fatto l’attività medica, senza averne i titoli? Si potrebbe ritenere che la risposta debba essere positiva, dato che, a volte, non il titolo – comunque indispensabile – ma le singole capacità permettono ad alcuni soggetti di esercitare correttamente l’attività de qua. Tuttavia, si può obiettare – indubbiamente a ragione, ed infatti è questa la soluzione migliore – che il regime di favore previsto dalle disposizioni in esame si basa sull’intento di non deprimere eccessivamente l’esercizio dell’attività medica, e dunque di incentivarne la fondamentale funzione sociale, e che nessuno di questi scopi ha minimamente a che fare con soggetti che, ponendosi al di fuori dell’ordinamento, esercitino abusivamente la professione, violando soprattutto – e questo pare davvero il rilievo risolutivo – la più macroscopica regola cautelare qui prospettabile, ossia quella che imponga di astenersi tout court dall’attività in mancanza dei titoli necessari[16]{Quanto, invece, alla questione circa le specifiche figure professionali (diverse dal medico) che sarebbero ricomprese nell’art. 590-sexies, il riferimento puntuale agli artt. 589-590 c.p. – ossia a delitti contro la vita e l’incolumità delle persone[17] – permette oggi di ritenere escluso il veterinario. Per contro, invece, si deve continuare a ritenere, come era anche sotto il previgente regime, che gli infermieri e le ostetriche possano beneficiare del trattamento più favorevole, così come, in generale, tutti coloro che svolgano l’attività tipica degli operatori sanitari, ossia l’attività diagnostica e terapeutica, volta alla cura della salute degli esseri umani.
A questo punto, emergono chiaramente i problemi interpretativi sollevati dalla nuova disposizione, e che sono stati oggetto dell’intervento delle Sezioni Unite. Solo una certezza è infatti ritraibile dal testo, e cioè che nel caso, assai intuitivo, in cui vi sia radicale inosservanza delle linee guida, nonché in quello di adempimenti inopportuni di esse, non potrà esservi esclusione di punibilità, e la responsabilità andrà affermata anche per colpa lieve (a differenza del decreto Balduzzi, infatti, il non applicare adeguate linee guida al caso concreto non rileverà solamente in ipotesi di colpa grave, ma sempre, essendo scomparsa la limitazione).
Nel caso in cui, invece, il sanitario commetta qualche errore nel conformarsi a linee guida adeguate al caso specifico nonché adeguatamente individuate, sorgerà un dubbio interpretativo: si potrà, in questo caso, ritenere che le linee guida siano state ugualmente rispettate (con conseguente applicabilità dell’art. 590-sexies) ovvero, al contrario, si riterrà che, non essendolo state correttamente, non lo saranno state affatto? In entrambi i casi le conseguenze sembrano invero drastiche: ritenere che linee guida parzialmente rispettate permettano comunque l’operare della disposizione in discorso significa di fatto ampliarne notevolmente la portata; viceversa, ritenere che invece si debbano sempre considerare come non rispettate, impone un’interpretazione eccessivamente restrittiva, soprattutto alla luce della succitata contraddizione: quale spazio residuerebbe per ritenere sussistente l’imperizia se l’unico caso in cui si considerasse operante l’art. 590-sexies fosse quello del completo e corretto adempimento delle linee guida?
5. Il contrasto giurisprudenziale sull’art. 590-sexies c.p.: la sentenza Tarabori e la sentenza Cavazza
Era inevitabile che un chiarimento interpretativo venisse dalla Suprema Corte di Cassazione, la quale, nonostante il poco tempo, è effettivamente intervenuta sul punto, con due pronunce della IV Sezione penale fra loro drasticamente in contrasto[18]. Si è imposto così un intervento delle Sezioni Unite, sollecitate in questo senso d’ufficio dal Presidente della IV Sezione, e convocate dal Primo Presidente all’udienza pubblica del 21 dicembre 2017. Occorre preliminarmente operare una ricostruzione del contrasto in parola.
Con la prima sentenza in discorso, c.d. Tarabori[19], la Corte – dopo aver espresso un generale e preliminare giudizio di favore nei confronti del nuovo “sistema” codificato di linee guida previsto dall’art. 5 della legge Gelli-Bianco e poi richiamato dall’art. 590-sexies c.p., ed averne tuttavia sottolineato la natura di parametro non esclusivo di valutazione della condotta del sanitario e non idoneo a fondare addebito per colpa specifica – esprime con nettezza i dubbi da più parti avanzati sull’irrazionalità del testo. Si dice infatti testualmente che «la lettura della nuova norma suscita alti dubbi interpretativi, a prima vista irresolubili», dal momento che «si legge che non è punibile l'agente che rispetta le linee guida accreditate […], nel caso in cui esse risultino adeguate alle specificità del caso concreto. L'enunciato, come è stato da più parti sottolineato, attinge la sfera dell'ovvietà: non si comprende come potrebbe essere chiamato a rispondere di un evento lesivo l'autore che, avendo rispettato le raccomandazioni espresse da linee guida qualificate e pertinenti ed avendole in concreto attualizzate in un modo che “risulti adeguato” in rapporto alle contingenze del caso concreto, è evidentemente immune da colpa».
La nuova disciplina poi, secondo il Collegio, «risulta di disarticolante contraddittorietà» nel momento in cui venga posta in connessione con la prima parte del testo normativo, che appunto impone la non punibilità nel caso in cui l’evento si verifichi, pur alle condizioni appena dette. Tale disarticolante contraddittorietà è tale, per il giudice di legittimità, da porre in luce «incongruenze interne tanto radicali da mettere in forse la stessa razionale praticabilità della riforma in ambito applicativo».
Per evitare tale completa vanificazione, dunque, si impone un’interpretazione di carattere correttivo, che la Corte individua nel senso di limitare l’operatività del neonato articolo come se il legislatore avesse voluto «escludere la punibilità anche nei confronti del sanitario che, pur avendo cagionato un evento lesivo a causa di comportamento rimproverabile per imperizia, in qualche momento della relazione terapeutica abbia comunque fatto applicazione di direttive qualificate; pure quando esse siano estranee al momento topico in cui l'imperizia lesiva si sia realizzata». Per esemplificare si fa l’esempio di un chirurgo che nell'atto di asportazione di una neoplasia addominale nel rispetto delle linee guida, tuttavia, nel momento esecutivo, per un errore tanto enorme quanto drammatico, invece di recidere il peduncolo della neoformazione, tagli un'arteria con effetto letale. Di conseguenza, il nuovo paradigma di esclusione della responsabilità non si potrà applicare alle «condotte che, sebbene poste in essere nell'ambito di relazione terapeutica governata da linee guida pertinenti ed appropriate, non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo».
La soluzione opposta, ossia quella strettamente letterale per la quale in ogni caso di imperita esecuzione di linee guida adeguate al caso di specie il sanitario dovrebbe andare esente da responsabilità, non potrebbe, secondo la Corte, venire accolta, per diversi motivi. In particolare, infatti, essa si porrebbe in plateale contrasto con gli artt. 32 e 3 Cost., quest’ultimo in relazione non soltanto alla disciplina vigente per altre professioni parimenti rischiose, ma anche in riferimento ai parametri della negligenza e dell’imprudenza. Posto, infatti, che non eccentrica appare la scelta di fondo del legislatore di ammorbidire la tanto temuta spada di Damocle della repressione penale gravante sulla categoria medica (a scopi deflattivi anche della c.d. medicina difensiva) con riferimento esclusivo all’imperizia (anche se una chiara demarcazione fra le tre species di colpa generica è inedita nell’ordinamento e probabilmente assai difficoltosa in generale), ci si può tuttavia interrogare sulla razionalità di tale discriminazione nel momento in cui venga intesa come assoluta. In altri termini: la ratio sottesa alla valorizzazione della sola imperizia regge anche nel confronto fra una condotta gravemente imperita (es. quella riportata supra) ed una lievemente imprudente (come, ad es., l’allontanarsi dall’ospedale appena cinque minuti prima del dovuto, confidando nel perfetto stato di ripresa di un paziente in postoperatoria che poi in realtà vada incontro ad una complicanza gestibile se il medico fosse stato presente proprio in quel frangente di tempo)? Davvero la prima è meritevole di essere sempre scusata, a differenza della seconda?
Ancora, la Corte sottolinea come una scelta interpretativa del genere potrebbe avere pesanti ricadute anche sull’altro versante di responsabilità, ossia quello civilistico. Giusto il disposto dell’art. 7, l. 24/2017, infatti, «il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell'esercente la professione sanitaria ai sensi dell'art. 5 della presente legge e dell'art. 590-sexies del codice penale». Di conseguenza, la nuova disciplina non solo escluderebbe la responsabilità penale, ma potrebbe anche far conseguentemente diminuire la quantificazione del danno in sede civile.
Infine, con riferimento al profilo intertemporale, la Corte, in questa prima sentenza, ritiene che la legge Balduzzi sia più favorevole, e dunque ultrattivamente vigente ex art. 2, c. 4, c.p., in quanto ancorata al parametro della gravità della colpa, che invece adesso perde di rilevanza, operandosi una riviviscenza dell’abrogata responsabilità per colpa lieve. Se prima, infatti, il sanitario poteva vedere esclusa la propria responsabilità per colpa lieve (intendendosi come tale ogni caso di colpa, e non solamente l’imperizia), ora invece ciò potrebbe accadere solamente per l’imperizia, e senza che nulla sia specificato quanto al grado. In un obiter dictum, tuttavia, la Corte richiama la rilevanza ermeneutica del parametro di giudizio di cui all’art. 2236 c.c., il quale, se applicato quanto meno a livello interpretativo (essendone stata esclusa da tempo l’applicazione diretta in ambito penale), potrebbe ammorbidire la scomparsa totale del riferimento al grado della colpa.
A poca distanza dal precedente Tarabori, la Suprema Corte è tornata sull’interpretazione della legge Gelli-Bianco, in modo del tutto contrastante, anche se ad opera della medesima Sezione, con la sentenza Cavazza[20], la quale, invero, non contiene alcun riferimento al primo arresto.
Il ricorso riguardava – a differenza del primo, legato alla delicata responsabilità dello psichiatra – un caso che ben si prestava a chiamare nuovamente in causa i nodi problematici dell’art. 590-sexies c.p., poiché relativo ad un vero e proprio errore esecutivo nel corso di un intervento di ptosi (lifting), dovuto ad imperizia, e dal quale era derivata la perdita di sensibilità del paziente in ristretta zona frontale destra, ancora persistente dopo cinque anni. I giudici di merito avevano ritenuto non applicabile la legge Balduzzi, trattandosi di colpa grave.
Ebbene, la Corte di cassazione questa volta dà un’interpretazione del tutto divergente rispetto a quella della sentenza Tarabori, ritenendo che la legge Gelli-Bianco debba essere intesa nel senso più letterale possibile, accogliendo pertanto proprio quella ricostruzione radicalmente criticata in precedenza, ossia quella per cui la causa di non punibilità dovrebbe essere applicata in tutti i casi di imperizia che si presentino pur nel rispetto di linee guida adeguate, e dunque ad ogni ipotesi di errore esecutivo, senza considerazione alcuna per il grado dell’imperizia. La Corte giunge a tale conclusione valorizzando la lettera e la finalità della legge: «sotto il primo profilo, il legislatore, innovando rispetto alla legge Balduzzi, non attribuisce più alcun rilievo al grado della colpa, così che, nella prospettiva del novum normativo, alla colpa grave non potrebbe più attribuirsi un differente rilievo rispetto alla colpa lieve, essendo entrambe ricomprese nell’ambito di operatività della causa di non punibilità; sotto l’altro concorrente profilo, giova ribadire che con il novum normativo si è esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi per la sua possibile responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile».
Di conseguenza – pur facendo salva la possibile ed eccezionale ultrattività della legge Balduzzi in casi specifici in cui essa possa concretamente essere più favorevole – la Suprema Corte riteneva che la nuova disciplina fosse più favorevole, perché tesa ad escludere la punibilità del medico in tutti i casi in cui egli abbia rispettato le adeguate linee guida, ma sia ciononostante incorso comunque in imperizia, come tipicamente può accadere in caso di errore esecutivo; e senza, in tal caso, che rilevi affatto il grado dell’imperizia. La Corte, poi, si diceva consapevole del possibile attrito che tale nuova disciplina potrebbe creare con l’art. 3 Cost., ma non lo approfondiva, non essendo rilevante per il caso di specie.
In ultimo, la sentenza Cavazza prendeva decisamente posizione sulla natura dogmatica dell’art. 590-sexies c.p., ritenendolo una palese causa di non punibilità, come tale posta dal legislatore per escludere la mera punibilità in alcuni casi di colpa medica in ossequio a ragioni di opportunità, e dunque non riguardando assolutamente il profilo della colpevolezza. In questo modo, il reato verrebbe comunque ad esistenza, con tutte le conseguenze relative alle statuizioni civili. La sentenza Tarabori, invece, aveva ritenuto che la nuova disciplina incidesse sulla «parametrazione della colpa» e che dunque si ponesse – riteniamo – come scusante, capace di far venire meno la sussistenza stessa del reato, pur lasciando il fatto illecito.
Come si vede, le due sentenze si ponevano in un radicale contrasto – relativo allo spinoso problema dell’errore esecutivo verificatosi nonostante la corretta ricognizione ed il rispetto sostanziale di linee guida “codificate” ai sensi dell’art. 5, l. 24/2017 che risultino altresì adeguate al caso di specie –, così riassumibile.
Un primo “orientamento” (per quanto improprio risulti l’utilizzo di tale termine in riferimento ad una sola sentenza), riteneva che l’art. 590-sexies c.p. debba considerarsi una scusante e non una causa di esclusione della mera punibilità e che non debba trovare applicazione, con riferimento al problema controverso, nel caso di condotte che non risultino per nulla disciplinate in quel contesto regolativo, pur collocandosi in un generale rispetto di fondo delle linee guida predette, con ciò limitandone fortemente l’applicabilità, ma salvaguardandone il più possibile la legittimità costituzionale[21].
Un secondo “orientamento”, invece, riteneva di doversi strettamente attenere alla lettera ed alla ratio del novum normativo, il quale viene dunque considerato causa di non punibilità prevista dal legislatore per ragioni di opportunità; e conseguentemente il suo margine di applicabilità veniva esteso fino a raggiungere la lettera della legge, la quale prevede che in tutti i casi in cui l’imperizia sia configurabile nonostante il rispetto delle predette linee guida, il sanitario debba andare esente da responsabilità, senza che ulteriori valutazioni debbano essere compiute. Secondo tale lettura, quindi, l’applicabilità risulterebbe estesa al massimo, tuttavia a scapito, quanto meno prima facie, della compatibilità costituzionale.
In parole ancora più semplici: è come se le due sentenze avessero deciso di porre la linea di demarcazione fra l’applicabilità e la non applicabilità dell’art. 590-sexies c.p. in due punti molto distanti fra loro, assodato che, dal punto di vista strettamente letterale, non vi sarebbe spazio per alcuna sua applicazione. Una volta capito che – per salvare la novella dall’irrazionalità letterale che la affligge – era necessario interpretarla come riferentesi ad ipotesi in cui, pur essendo presenti i requisiti dell’imperizia, del rispetto e della adeguatezza delle linee guida, essi non siano tuttavia presenti “per l’intero”, ma solamente parzialmente, la questione diventava ove fissare “la soglia” di tale parzialità. La sentenza Tarabori rispondeva ponendola molto in là, mentre la sentenza Cavazza non la spostava, fermandosi a questo primo, ineludibile, espediente ermeneutico, e ritenendo pertanto che in tutti questi casi essa sia applicabile. Di conseguenza, le due interpretazioni differivano con riferimento proprio al requisito dell’adeguatezza delle linee guida al caso di specie: la sentenza Tarabori, infatti, attribuiva tale requisito sia alla scelta delle raccomandazioni previste dalle linee guida, sia all’attuazione delle stesse, mentre la sentenza Cavazza limitava tale requisito alla sola scelta, ammettendo ampio esonero da responsabilità nella fase esecutiva.
Circa il regime intertemporale, poi, non v’è chi non veda che accedendo alla prima interpretazione si tendeva a ritenere più favorevole la legge Balduzzi (in quanto applicabile a tutti i casi di colpa lieve), mentre condividendo la seconda si riteneva che la legge Gelli-Bianco risulti sicuramente più favorevole, quanto meno in relazione all’imperizia, escludendo la punibilità senza riferimento al grado della colpa, e quindi anche in caso di imperizia grave.
6. L’intervento delle Sezioni Unite: la sentenza Mariotti, uno sguardo d’insieme.
La questione sottoposta al Supremo Collegio era la seguente: «Quale sia, in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni, l’ambito applicativo della previsione di “non punibilità” prevista dall’art. 590-sexies cod.pen., introdotta dalla legge 8 marzo 2017, n. 24».
La sentenza, dopo aver ripercorso le innovazioni principali introdotte dalla legge Gelli-Bianco ed aver tracciato un rapido excursus sulla disciplina previgente (in particolare sulla legge Balduzzi), perviene alla soluzione del quesito tramite un’interpretazione costituzionalmente conforme che deriva dall’utilizzo di precisi canoni ermeneutici, i quali permettono alla Corte di recuperare nel corpus normativo dell’art. 590-sexies il riferimento alla gravità della colpa per imperizia, parametro non più presente a livello letterale. Oltre a ciò, la sentenza contiene anche alcune conferme in ordine al corretto modo di intendere il ruolo e la natura delle linee guida, anche sotto la nuova disciplina, nonché alcuni spunti di riflessione, in chiusura, circa la delicata questione intertemporale.
Ad uno sguardo di insieme, l’arresto, invero alquanto conciso anche se tendenzialmente completo, sembra essere pervenuto nel merito all’unica soluzione praticabile senza adire la Corte costituzionale, anche se, come si sottolineerà nel prosieguo, tale obiettivo è stato raggiunto forse a scapito della piena correttezza metodologica, andando assai oltre il testo della legge.
Occorre adesso passare all’analisi puntuale del contenuto della sentenza, per poi riservare alle conclusioni una lettura critica della stessa.
6.1. Segue: ruolo e natura delle linee guida alla luce dell’art. 5, l. 24/2017.
Le Sezioni Unite colgono pienamente la rilevanza dell’innovazione, ponendosi nel solco già tracciato dal precedente De Luca-Tarabori e dalla dottrina più accorta. Il nuovo sistema, infatti, si mostra oggi ben più efficiente di quello passato, venendo a porsi come guida di altissimo livello – in quanto risultante dalla convergenza delle più accreditate fonti del sapere scientifico, vagliate e garantite da apposito controllo di tipo pubblicistico – per il sanitario, sicuramente disorientato, in precedenza, dal proliferare delle linee guida, e dal loro sovrapporsi, con conseguente difficoltà di rinvenire le più attendibili o le più adeguate per il singolo caso[25].
Soprattutto, tuttavia, la Corte sottolinea come il più rilevante vantaggio offerto da un sistema formalizzato di linee guida sia da individuare, usando le parole della sentenza, nella maggiore determinatezza che esso è in grado di offrire alle fattispecie colpose, «fattispecie che, nella prospettiva di vedere non posto in discussione il principio di tassatività del precetto, integrato da quello di prevedibilità del rimprovero e di prevenibilità della condotta colposa, hanno necessità di essere etero-integrate da fonti di rango secondario concernenti la disciplina delle cautele, delle prescrizioni, degli aspetti tecnici che in vario modo fondano il rimprovero soggettivo». Si allude qui, evidentemente, al mai sopito problema della natura c.d. “aperta” delle fattispecie colpose[26], le quali, proprio in quanto essenzialmente normative, non possono che trovare al di fuori di loro stesse il contenuto del precetto che ne fonda l’osservanza. La conseguenza più evidente di tale loro natura è la possibile carenza di determinatezza nell’elaborazione del precetto penale, nonché di legalità, non essendo evidentemente possibile, né tanto meno auspicabile (in punto di completezza di tutela) che sia la legge a tipizzare tutti i precetti possibili che possano fondare un addebito per colpa. Tale vulnus di determinatezza, presente indubbiamente anche nei casi di colpa specifica, è particolarmente evidente in relazione alle ipotesi di colpa generica.
In tale quadro dogmatico complessivo, l’intervento del legislatore del 2017 si mostra particolarmente prezioso, in quanto punta a recuperare la determinatezza delle fattispecie di cui agli artt. 589 e 590 c.p. (ove compiute da sanitari) senza però ricorrere allo strumento della colpa specifica, ma bensì rinforzando i parametri normativi esterni (le linee guida), in base ai quali concretizzare (“riempire”) le tre species di colpa generica. In questo modo, ove le linee guida – se anche inserite in un contesto di forte “codificazione” come quello che si preannuncia – dovessero mostrarsi inadeguate o non sufficientemente al passo con la migliore scienza del momento, dovranno necessariamente essere accantonate. Anche in relazione a tale aspetto, le Sezioni Unite recepiscono lo sviluppo dogmatico precedente, e risultano particolarmente chiare. Le linee guida, affermano i giudici della nomofilachia, non perdono la loro «intrinseca essenza», ossia quella di «costituire un condensato delle acquisizioni scientifiche, tecnologiche e metodologiche concernenti i singoli ambiti operativi, reputate tali dopo un’accurata selezione e distillazione dei diversi contributi, senza alcuna pretesa di immobilismo e senza idoneità ad assurgere al livello di regole vincolanti». Di conseguenza, non si tratta di «veri e propri precetti cautelari, capaci di generare allo stato attuale della normativa, in caso di violazione rimproverabile, colpa specifica, data la necessaria elasticità del loro adattamento al caso concreto», che esclude l’operare di qualsivoglia automatismo per cui si vada esenti da responsabilità sol che si siano rispettate le linee guida, ove inadeguate. Ciò, peraltro, risulta indubbiamente ribadito anche dalla lettera della legge, che infatti fa in ogni caso salve le esigenze di adeguatezza alle specificità del caso concreto.
6.2. Segue: la metodologia ermeneutica adottata dalle Sezioni Unite. La prospettata questione di legittimità costituzionale ed il suo superamento.
A questo punto, le Sezioni Unite, dopo aver rapidamente ripercorso i punti salienti del contrasto giurisprudenziale a quo[27], iniziano ad entrare nel vivo della questione, dando conto dello strumentario ermeneutico di cui hanno deciso di servirsi per pervenire ad una decisione.
In primo luogo, i giudici della nomofilachia si richiamano al canone interpretativo posto dall’art. 12, c. 1, delle preleggi, a norma del quale deve essere valorizzato soprattutto il significato immediato delle parole, nonché quello derivante dalla loro connessione, nonché il canone dell’intenzione del legislatore. Di conseguenza, se al giudice è sicuramente precluso interpretare le disposizioni normative contra legem, non gli è altrettanto impedito di pervenire ad interpretazione praeter legem, qualora ciò sia necessario per pervenire all’unica soluzione in grado di giungere ad un «risultato costituzionalmente adeguato».
D’altra parte, continuano le Sezioni Unite, «il tentativo di sperimentare una interpretazione costituzionalmente conforme è il passaggio necessario e, se come nella specie concluso con esito positivo, ostativo all’investitura della Corte costituzionale».
Pertanto, la Corte delinea così i due canoni interpretativi utilizzati per la soluzione del quesito: quello dell’intenzione storica del legislatore (come si vedrà più ancora di quello della lettera della legge o dell’intenzione obiettiva del legislatore), ritratto dall’art. 12 preleggi, e quello dell’interpretazione costituzionalmente conforme, mediante il quale i giudici riterranno di poter evitare di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 590-sexies.
Come noto, infatti, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, nella propria requisitoria in sede di discussione in pubblica udienza, aveva profilato dettagliatamente la necessità di sollevare questione di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale. Il Procuratore, infatti, dopo aver ripercorso le interpretazioni confliggenti offerte dalle due sentenze della IV Sezione, si era soffermato sull’interpretazione letterale (quella della sentenza Cavazza), la quale era indubbiamente in grado di offrire un dato certo, e cioè che «la legge Gelli Bianco abbia abrogato il riferimento alla colpa lieve e che al posto di essa abbia inserito un’equazione chiara, che suona così: “applicazione corretta del protocollo giusto = nessuna imperizia = nessuna colpa = nessun reato” »[28]. La novella, quindi, opererebbe sia in caso di imperizia lieve, sia in caso di imperizia grave, dal momento che «la graduabilità della colpa per imperizia […] non è scritta nella nuova norma ed è arduo volere leggere a tutti i costi laddove la norma non dice». Tale convincimento sarebbe invero rafforzato dall’interpretazione storica, posto che il novum legislativo avrebbe esplicitamente inteso favorire la posizione del medico, riducendo gli spazi della sua responsabilità penale, ferma restando la responsabilità civile. Né potrebbe farsi seguito all’interpretazione offerta dalla sentenza De Luca-Tarabori, la quale, pur in un apprezzabile sforzo intellettuale, per rendere una lettura costituzionalmente conforme finisce per pagare un prezzo troppo alto, «in termini di incertezza delle regole da applicare e, perfino, in termini di neutralizzazione della riforma».
Chiarito, quindi, che l’unica interpretazione secundum legem è quella letterale ed aggiunto che, a detta del Procuratore, l’art. 590-sexies avrebbe natura di norma completamente in bianco, funzionante a tutti gli effetti come una scriminante speciale, capace di escludere gli elementi tipici del fatto (o dell’antigiuridicità), evidentissimi apparivano i profili di incostituzionalità della novella. In particolare, infatti, la disposizione confliggerebbe con gli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 32, 33, 101, 102, 111, Cost.
Il più importante vulnus sarebbe quello arrecato all’art. 3 Cost., dal momento che duplice sarebbe la violazione del principio di eguaglianza. Anzitutto, si creerebbe una discriminazione interna rispetto alle tre species di colpa generica: solamente l’imperizia, anche se grave, sarebbe scriminata, non già la negligenza o l’imprudenza, anche laddove fossero lievi. In secondo luogo, si produrrebbe una discriminazione altresì esterna, dal momento che il solo professionista a godere di tale trattamento di particolare favore sarebbe quello sanitario, con irragionevole disparità di trattamento rispetto ad altre categorie professionali. Soprattutto, è il caso di notare, dal momento che il combinarsi delle due discriminazioni avrebbe come conseguenza non soltanto un regime di particolare favore, ma addirittura impernierebbe tale favore proprio sull’esonero da responsabilità penale nel caso in cui il medico – solo fra i professionisti – violasse specificamente le leges artis che regolano la sua attività, id est nei casi di imperizia.
In secondo luogo, vi sarebbe violazione altresì dell’art. 25 Cost., in punto di tassatività, dal momento che la norma opera non soltanto con riferimento a linee guida “positivizzate” ma anche con riferimento alle buone pratiche, ossia ad indicazioni desumibili aliunde senza ulteriore specificazione normativa.
In terzo luogo, violato sarebbe anche l’art. 27 Cost., attesa la rinuncia a ragionare in termini di responsabilità colpevole, tramite il riferimento alla prevedibilità ed evitabilità dell’evento ed alla graduazione della responsabilità caso per caso.
In quarto luogo, risulterebbe la violazione dell’art. 32 Cost., atteso che una migliore tutela della salute, individuale e collettiva, non può che realizzarsi adattando il più possibile la terapia alle esigenze del paziente, piuttosto che rifugiandosi nell’acritica applicazione delle linee guida.
In quinto luogo, violata sarebbe anche la dignità professionale del medico, tutelata dal combinato disposto degli artt. 2 e 33 Cost., proprio perché risulterebbe eccessivamente compressa dal dovere di adeguarsi alle linee guida, dovere che ne mortificherebbe la libertà terapeutica.
In sesto luogo, vi sarebbe infine violazione del combinato disposto degli artt. 24, 101, 102 e 111 Cost., dal momento che il legislatore avrebbe imposto al giudice il mero compito di controllore del rispetto delle linee guida, senza poter compiere ulteriori valutazioni.
Come accennato, le Sezioni Unite ritengono di non seguire la strada della questione di costituzionalità, aggirabile a livello ermeneutico. Secondo i giudici di legittimità, infatti, nulla impedisce di superare i rilievi avanzati dal Procuratore generale mediante l’interpretazione costituzionalmente conforme, la quale, oltre che praticabile, si mostra altresì doverosa come preliminare strumento di “filtro” delle questioni astrattamente prospettabili. Le Sezioni Unite sono molto chiare sul punto, ritenendo loro preciso compito, «nell’esercizio della funzione nomofilattica, individuare il significato più coerente del dato precettivo, anche scegliendo tra più possibili significati e plasmando la regola di diritto la quale deve mantenere il carattere generale ed astratto». Di conseguenza, esse ritengono, e su questo si tornerà più diffusamente infra, che l’interpretazione costituzionalmente conforme sia nel caso di specie assolutamente praticabile, in quanto non risulta volta ad esplicare «un’efficacia sanante di deficit di tassatività della norma, non condividendosi il sospetto che la scelta sulla portata normativa dell’art. 6 sia sospinta dalla esistenza di connotati di incertezza e di imprevedibilità delle conseguenze del precetto, le quali, se ravvisate, avrebbero condotto alla sola possibile soluzione di sollevare, nella sede propria, il dubbio di costituzionalità».
Secondariamente, ad avviso dei giudici, la questione di legittimità costituzionale prospettata si rivelava anche irrilevante rispetto al caso sottoposto alla loro attenzione, nel quale veniva chiaramente in rilievo un comportamento negligente e non già imperito.
Ricapitolando, quindi, la Corte ritiene che nella propria funzione nomofilattica rientri doverosamente anche il tentativo di raggiungere un’interpretazione costituzionalmente conforme, capace, nell’impostazione della sentenza in commento, non già di attribuire tassatività ad una disposizione che ne è assolutamente priva (mancanza che avrebbe imposto di sollevare la questione di legittimità), ma bensì di ritrarre da una disposizione dall’interpretazione controversa, la norma che più risulti conforme a Costituzione. Per compiere tale operazione – i cui passaggi rappresentano il vero cuore della motivazione, come subito si vedrà – le Sezioni Unite si dotano di alcuni strumenti ermeneutici, quali in particolare l’interpretazione storica e l’accantonamento di tutte le interpretazioni che, in un modo o nell’altro e sulla base anche dello sviluppo antecedente della materia, risultino incompatibili con il dettato costituzionale.
7. L’interpretazione adottata dalle Sezioni Unite: la soluzione del quesito e l’enunciazione dei principi di diritto.
«L'esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall'esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da negligenza o imprudenza;
b) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
c) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico- assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
d) se l'evento si è verificato per colpa "grave" da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate».
Come si nota, evidente è il recupero del parametro della gravità della colpa per imperizia, limitatamente alla sola fase esecutiva, restando le fasi di selezione delle linee guida e di adeguamento di esse al caso concreto rette dagli ordinari canoni della colpa, e dunque da addebito per imperizia, negligenza ed imprudenza sia lieve sia grave. In caso di negligenza ed imprudenza, poi, anche nella fase esecutiva il sanitario risponderà per colpa lieve.
Occorre ora ripercorrere i passaggi che hanno portato le Sezioni Unite a rendere questa interpretazione ed a considerarla costituzionalmente conforme.
7.1. Segue: premessa sulla natura giuridica dell’art. 590-sexies c.p.
In altre parole, il novum normativo, lungi dal porsi quale specificazione derogatoria della disciplina generale della colpa, rappresenta pienamente una causa di non punibilità, ossia una causa all’operare della quale il legislatore ha ritenuto che il fatto, pure in se stesso integrante tutti i requisiti del reato, sia dal punto di vista oggettivo sia da quello soggettivo, debba andare esente da pena, secondo un bilanciamento di interessi concorrenti, risolto in base ad una valutazione di opportunità nel senso della non punibilità. La causa di non punibilità sarebbe quindi lo strumento tecnico-dogmatico utilizzato dal legislatore per perseguire effettivamente lo scopo di deflazione della medicina difensiva. Il sanitario, infatti, saprebbe che, ove rispettasse scrupolosamente ma non acriticamente le “nuove” linee guida formalizzate e le adattasse ed applicasse al caso concreto, ma ciononostante incorresse in imperizia, allora non andrebbe incontro alla sanzione penale, perché il legislatore – in una scelta discrezionale di politica criminale – ha ritenuto che la serenità del medico nell’esercizio della propria professione (dalla quale deriva, più in generale, la garanzia effettiva del diritto costituzionale alla salute) dovesse prevalere, in un giudizio di bilanciamento, rispetto agli interessi della repressione penale, almeno in questa ipotesi particolare.
Secondo la Corte, la disparità di trattamento dovuta al regime così delineato non potrebbe comunque dirsi irragionevole se, all’esito del processo interpretativo, si possa ricavarne un ambito di operatività non confliggente con i confini tracciati dalla Corte costituzionale (sent. 166/1973 e ord. 295/2013).
Riservando un approfondimento al riguardo, è da notare incidentalmente come la scelta compiuta dalle Sezioni Unite circa la natura giuridica sia da apprezzare, in quanto tenta di ricondurre la novella ad una sorta di “eccezione” del sistema, interpretabile come tale, senza ulteriori conseguenze nell’ordinamento. Come noto, l’interpretazione sviluppatasi sulla legge Balduzzi aveva ritenuto che la disposizione avesse proceduto a parziale abolitio criminis, con ciò configurandosi come causa di esclusione di tipicità del fatto. Le critiche a tale impostazione avevano invece rilevato come potesse trattarsi di causa di esclusione della colpevolezza, ovvero della mera punibilità. La legge Gelli-Bianco, al contrario, proprio perché riferentesi a categorie normative eccentriche e di sicuro non sistematiche non può che configurare una causa di non punibilità dovuta a ragioni di opportunità accolte dal legislatore. Sarebbe invero alquanto improbabile che il legislatore avesse deciso di escludere la colpevolezza del reato (con tutte le conseguenze) solamente con riferimento ad una species di colpa generica, e peraltro senza alcuna indicazione circa la sua gravità. La causa di non punibilità, al contrario, permette di salvare completamente le statuizioni civili (che pure rimangono legate, in qualche modo, a quelle penali per il tramite dell’art. 7, l. 24/2017), e non va ad incidere sulla colpa, che sarebbe in ogni caso rinvenibile, in quello che sarebbe un vero e proprio reato, “semplicemente” sottratto alla pena per scelta speciale del legislatore.
7.2. Segue: l’ambito di operatività della causa di non punibilità: il recupero ermeneutico del parametro della gravità della colpa.
A questo punto, chiariti i canoni ermeneutici di riferimento e la natura giuridica della novella, le Sezioni Unite passano a «sperimentare una interpretazione della norma che consenta di darle concreta applicazione».
Il punto di partenza è rappresentato dall’individuazione, compiuta a suo tempo dalla sentenza Cantore e qui valorizzata, del concetto di errore nel concreto farsi del trattamento terapeutico, e dunque nella conseguente macro-distinzione fra fase della selezione delle linee guida e fase di attuazione delle stesse. Si è già visto come la legge Gelli-Bianco preveda ora l’operare di tre presupposti per il proprio funzionamento: l’imperizia, il rispetto delle linee guida e l’adeguatezza di esse al caso concreto. Gli ultimi due presupposti si riferiscono evidentemente alla fase di selezione delle linee, nello svolgimento della quale si richiede estrema precisione al sanitario, così come nell’adattamento delle linee guida al caso specifico (che può essere considerata operazione immanente a tale fase). Il primo presupposto, ossia l’imperizia, attiene invece alla fase esecutiva, attuativa delle corrette linee guida al caso concreto. Secondo la Corte, infatti, «l’errore non punibile non può, alla stregua della novella del 2017, riguardare – data la chiarezza dell’articolo al riguardo – la fase della selezione delle linee-guida perché, dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”, qualsiasi errore sul punto, dovuto a una qualsiasi delle tre forme di colpa generica, porta a negare l’integrazione del requisito del “rispetto”. Ne consegue che la sola possibilità interpretativa residua non può che indirizzarsi sulla fase attuativa delle linee-guida, sia pure con l’esigenza di individuare opportuni temperamenti che valgano a non esporre la conclusione a dubbi o censure sul piano della legittimità costituzionale». Ebbene, tali temperamenti opportuni vengono rinvenuti dalla Corte nell’intensità dello scostamento dalle linee guida nel momento esecutivo di esse: solamente uno scostamento macroscopico, grave, determinerà l’irrogazione della sanzione penale, mentre un errore lieve risulterà escluso dalla punibilità ad opera dell’art. 590-sexies.
Mentre nella fase selettiva il legislatore pretende, senza eccezioni, che il professionista sanitario sia accorto, prudente, preparato sulle leges artis, impeccabile nelle diagnosi anche differenziali, aggiornato circa le nuove acquisizioni scientifiche e capace di fare scelte ex ante adeguate e personalizzate rispetto al quadro clinico in evoluzione, con la conseguenza che la punibilità non potrà mai essere esclusa per un errore colpevole intervenuto in tale fase, nella fase esecutiva, in caso di c.d. errore esecutivo, viene invece di nuovo in considerazione «la necessità di circoscrivere un ambito o, se si vuole, un grado della colpa che, per la sua limitata entità, si renda compatibile con la attestazione che il sanitario in tal modo colpevole è tributario della esenzione dalla pena per aver rispettato, nel complesso, le raccomandazioni derivanti da linee-guida adeguate al caso di specie».
L’interpretazione costituzionalmente conforme praticata dalle Sezioni Unite, pertanto, muove da una premessa di fondo inaggirabile, e cioè dalla considerazione che la mera lettera della legge, dalla quale è scomparso il riferimento al grado della colpa, si presti molto di più ad interpretazioni “estensive” assimilabili a quelle della sentenza Cavazza (la quale probabilmente, forte della prescrizione e della conseguente irrilevanza della questione di costituzionalità nel caso sottoposto alla sua attenzione, aveva voluto provocatoriamente aprire alla riflessione su tali chiarissime possibilità interpretative) che non ad interpretazioni dogmaticamente raffinate e costituzionalmente accettabili quale quella della sentenza De Luca-Tarabori, con il rischio che si finisca davvero per sottrarre all’ambito della punibilità penale la colpa del sanitario per imperizia esecutiva in toto, con evidente vulnus quanto meno al principio costituzionale di eguaglianza e ragionevolezza.
La Corte è infatti perfettamente consapevole del rischio di illegittimità costituzionale sotteso ad un’interpretazione eccessivamente letterale della disposizione. Essa infatti afferma che ragionare nel senso di estendere «l’esenzione da pena anche a comportamenti del sanitario connotati da “colpa grave” per imperizia […] evocherebbe, per un verso, immediati sospetti di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento ingiustificata rispetto a situazioni meno gravi eppure rimaste sicuramente punibili, quali quelle connotate da colpa lieve per negligenza o imprudenza; determinerebbe, per altro verso, un evidente sbilanciamento nella tutela degli interessi sottesi, posto che la tutela contro la “medicina difensiva” e, in definitiva, il miglior perseguimento della salute del cittadino ad opera di un corpo sanitario non mortificato né inseguito da azioni giudiziarie spesso inconsistenti non potrebbero essere compatibili con l’indifferenza dell’ordinamento penale rispetto a gravi infedeltà alle leges artis, né con l’assenza di deroga ai principi generali in tema di responsabilità per comportamento colposo, riscontrabile per tutte le altre categorie di soggetti a rischio professionale; determinerebbe, infine, rilevanti quanto ingiuste restrizioni nella determinazione del risarcimento del danno addebitabile all’esercente una professione sanitaria ai sensi dell’art. 7 della legge Gelli-Bianco, poiché è proprio tale articolo, al comma 3, a stabilire una correlazione con i profili di responsabilità ravvisabili ex art. 590-sexies c.p.».
Si impone, pertanto, nelle intenzioni della Corte, il recupero di quel solo parametro che, da sempre presente nello sviluppo normativo e giurisprudenziale della materia, possa permettere di recuperare ragionevolezza alla disposizione, e cioè, appunto, il grado della colpa (sub specie, questa volta, di imperizia). Invero, si tratta, come riconosce lo stesso giudice della nomofilachia, di parametro di sicura efficacia in questo senso, avendo in passato ricevuto l’avallo del giudice delle leggi.
Riassumendo, quindi, l’ambito di operatività ricavato dalle Sezioni Unite per la causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies c.p. chiama in causa tre distinti piani, intersecantisi fra loro: quello della fase del processo terapeutico (selettiva delle linee guida ovvero esecutiva di esse), quello della specie di colpa generica (negligenza, imprudenza ovvero imperizia) e quello del grado della colpa generica. Nella fase selettiva, nulla quaestio: per tutte e tre le forme di colpa generica e quale che ne sia il grado il sanitario risponderà comunque, ove dovesse individuare linee guida inadeguate al caso di specie. Nella fase esecutiva, invece, occorre operare due distinzioni. In primo luogo, in riferimento alle tre species: da una parte negligenza ed imprudenza e dall’altra l’imperizia. L’errore esecutivo dovuto alle prime due non escluderà mai la punibilità del sanitario, al di là del grado. In secondo luogo, e con riferimento alla sola imperizia, l’errore esecutivo “scuserà” solo se dovuto ad imperizia lieve, non invece ove sia determinato da imperizia grave, elemento, quest’ultimo, totalmente recuperato in via ermeneutica.
La Corte confuta, peraltro, la più conferente obiezione che può essere mossa rispetto a tale recupero, dal punto di vista dogmatico, ossia quella che «applicando rigorosamente il criterio della valutazione ex ante ed in concreto il giudizio di prevedibilità ed evitabilità della colpa» potrebbe giungersi comunque ad escludere, in radice, la configurabilità della colpa, nei casi di imperizia lieve o lievissima, senza necessità di riferirsi al grado della stessa. Ritiene infatti che lo sviluppo della materia (in particolare la legge Balduzzi), facendo invece espresso riferimento al grado della colpa abbia dimostrato come sia percorribile anche una strada alternativa, che valorizzi la dosimetria della colpa anche al di là dei fini previsti dall’art. 133 c.p., strada che ritiene di voler continuare a percorrere. Né si ritiene giustificabile il timore che la distinzione fra colpa lieve e colpa grave possa essere «fonte di scelte non prevedibili ed ondivaghe, dipendenti dalla ampiezza della valutazione del giudice e quindi in contrasto con la necessaria tassatività del precetto», dal momento che analogo timore è ravvisabile anche con riguardo al parametro dell’esigibilità della condotta.
Tre sono le argomentazioni che, in applicazione dei criteri ermeneutici già individuati, permettono alle Sezioni Unite di operare il recupero del grado della colpa: l’art. 2236 c.c., la tradizione giuridica precedente e l’intenzione del legislatore storico, ricavata dai lavori parlamentari. Occorre ora analizzarle nel dettaglio.
8. Ratio decidendi e gravità della colpa: l’art. 2236 c.c. e la tradizione giurisprudenziale e dottrinale antecedente alla novella.
Tale interpretazione aveva ricevuto anche l’avallo della Corte costituzionale, la quale, infatti, nella sentenza 166/1973, aveva ammesso che il sistema della responsabilità penale colposa del sanitario potesse essere integrata dall’art. 2236 c.c. «così da ricavarsene il principio, costituzionalmente compatibile, della gradualità della colpa da “imperizia” del sanitario impegnato nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e il riconoscimento della possibilità di esenzione di una parte di essa dal rilievo penalistico».
La regola di giudizio contenuta nell’art. 2236 c.c., poi, aveva di fatto influenzato tutta l’evoluzione successiva della materia, che si era andata delineando sempre di più verso la valorizzazione della dosimetria della colpa in chiave scusante (e non solamente attenuante, a norma dell’art. 133 c.p.), culminando nella disposizione della legge Balduzzi. Di conseguenza, le Sezioni Unite, citando e riprendendo alcuni precedenti[29], ritengono che possa essere proprio tutta questa evoluzione non soltanto ad avvalorare il recupero ermeneutico in discorso, ma anche ad indirizzare validamente l’interprete sui criteri mediante i quali dosare la colpa, che sono poi quelli tradizionalmente elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. In particolare, le Sezioni Unite richiamano il fatto che nella demarcazione del grado della colpa rientrino sia la misurazione della colpa in senso oggettivo e soggettivo (ossia quale misura del rimprovero personale mosso all’agente concreto), sia, e soprattutto, il classico criterio “quantitativo”, del quantum di scostamento dal comportamento doveroso omesso. Quanto più «l’approccio terapeutico risulti marcatamente distante dalle necessità di adeguamento alle peculiarità della malattia, al suo sviluppo, alle condizioni del paziente» e tanto più grave sarà la colpa.
8.1. Segue: l’intenzione del legislatore storico: i lavori parlamentari.
Pertanto, la scomparsa della distinzione per gradi della colpa nel testo definitivo non può leggersi come un rifiuto totale della differenziazione del grado della colpa, non risultando affatto che questa fosse l’intenzione del legislatore storico. Ne consegue che «può dunque ammettersi che la colpa lieve è rimasta intrinseca alla formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento». Ciò permette alla Corte di ritenere che la propria interpretazione sia espressione di una «ratio compatibile con l’esegesi letterale e sistematica del comando espresso», ossia con lo scopo che essa si era prefissa originariamente.
9. Questioni di diritto intertemporale.
La Corte prosegue: «in secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi […] mentre non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole». Il secondo caso, pertanto, si riferisce ad errore per lieve imperizia intervenuto nella fase selettiva delle linee guida, che oggi non risulta in nessun caso sottratta alla punibilità. Anche qui, potrà trovare applicazione la legge Balduzzi quale legge più favorevole.
Infine: «in terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto da causa di non punibilità in base all’art. 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio». Il terzo caso, quindi, relativo all’errore dovuto ad imperizia grave nella fase esecutiva delle adeguate linee guida, mostra una sostanziale equivalenza di disciplina: sanzione penale in ogni caso, con esclusione solamente laddove l’imperizia sia lieve. A livello dogmatico – stando all’elaborazione giurisprudenziale offerta dalla Cassazione sulla legge Balduzzi ed oggi anche sulla novella – vi è in realtà una certa differenza, trattandosi oggi di causa di non punibilità e ieri di parziale abolitio criminis, ma a livello “pratico” vi è in effetti una certa omogeneità di soluzioni.
La responsabilità civile resta ferma, anche sotto la nuova disciplina e nonostante le rilevanti novità introdotte al riguardo[31], anche per colpa lieve, di qualsiasi tipo.
10. Conclusioni: una lettura critica.
Per procedere a tale analisi giova immaginare un esempio concreto. Il primario del reparto di urologia di un ospedale, attenendosi alle adeguate linee guida per il caso specifico che è posto alla sua attenzione, sottopone un paziente ad ureteroscopia con finalità diagnostica, nel corso della quale, tuttavia, determina per imperizia la perforazione dell’uretere (si consideri, peraltro, che il 95% dei traumi ureterali è di tipo iatrogeno e che, nello specifico, danni ureterali sono stati riportati fino al 4% delle ureteroscopie). Egli, essendo in endoscopia, effettua intraoperatoriamente la diagnosi, interrompe la procedura ed applica una endoprotesi a doppio J. A seguito della rimozione della endoprotesi (correttamente effettuata dopo 4-6 settimane) e della valutazione della via escretrice mediante imaging con mdc, emergono alcune complicanze, dovute all’originale lesione ureterale e capaci di peggiorare la qualità della vita del paziente, ossia, in particolare, fistole e stenosi (entrambe risolvibili con interventi chirurgici, le seconde, peraltro, caratterizzate da recidiva)[32], ampiamente qualificabili come lesioni personali gravissime ex art. 590, c. 2, c.p.
Ora, occorre chiedersi come sarebbe applicato l’art. 590-sexies c.p. secondo l’interpretazione delle Sezioni Unite in un caso del genere. Come si vede, un primo punto dirimente è il seguente: la linea guida che prescriveva di effettuare l’ureteroscopia a scopo diagnostico è stata rispettata, nonostante l’errore di esecuzione (anche tenendo in conto che tutti i successivi adempimenti riparatori sono stati effettuati lege artis), ovvero la si deve intendere per non rispettata? Seguendo il ragionamento compiuto dai giudici della nomofilachia, dobbiamo convenire di trovarci in presenza di una selezione corretta di una linea guida adeguata al caso di specie (in parole povere: per effettuare la diagnosi in quel caso particolare la migliore linea guida prescriveva di compiere un’ureteroscopia) e dunque nel campo di operatività dell’art. 590-sexies. Ciò posto, bisogna chiedersi se l’errore esecutivo possa essere considerato manifestazione di imperizia. Nonostante il dubbio – invero non eccentrico – che, date le modalità operative con cui l’ureteroscopia deve essere effettuata, si sia in presenza più di un errore di imprudenza che non di vera e propria imperizia, si può ritenere di essere in presenza di imperizia. Ciò posto, ecco emergere il punto dirimente: tale imperizia deve essere considerata grave oppure no? Evidentemente, dal momento che solo nel 4% dei casi si determina un danno ureterale nel corso di un’ureteroscopia e che ad operare è un primario urologo (con la conseguenza che l’agente modello di riferimento non è né quello generico del medico né quello specifico del medico urologo, bensì quello, assai specializzato, del medico urologo primario), si dovrà convenire che il grado dell’imperizia possa essere considerato grave. Tutto ciò considerato, dovremo ritenere che l’art. 590-sexies, per come interpretato dalle Sezioni Unite, non escluda la punibilità del primario, in quanto l’errore – posto in essere nella fase esecutiva e dovuto ad imperizia, entrambi requisiti che potrebbero permettere di applicare la novella – è da ritenersi grave.
Ebbene, la domanda cui si cercherà di dare una risposta nel corso di queste brevi riflessioni è la seguente: in questo caso, esemplificativo in astratto di moltissimi altri che si presenteranno sicuramente in concreto, è davvero possibile ritenere che l’errore grave dovuto ad imperizia risulti ancora sottoposto a sanzione penale alla luce di una disposizione normativa che, letteralmente, stabilisce che «qualora l'evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto»?
In primo luogo, occorre partire dall’unico dato pacifico, al quale l’arresto delle Sezioni Unite non ha potuto che portare ulteriore conforto, vale a dire la natura delle linee guida. Esse non devono essere intese, nemmeno nel nuovo regime, quali parametri di colpa specifica fondanti la responsabilità del sanitario, restando invece mere fonti di colpa generica. Negligenza, imprudenza ed imperizia del medico-chirurgo sono oggi parametri meno indeterminati proprio grazie al nuovo sistema formalizzato di linee guida. Il primo innegabile pregio della riforma è da rinvenirsi proprio in questa accentuazione di determinatezza della fattispecie. L’eterointegrazione della fattispecie – indispensabile nel caso di fattispecie colpose, vieppiù se a colpa generica, come in questo caso – può oggi servirsi di uno strumento particolarmente utile, ossia un insieme “codificato” di linee guida, sottoposto a vaglio pubblico. Ciò chiarito, non si deve tuttavia andare oltre. Il diritto alla salute dei cittadini, il principio di libertà terapeutica del medico e gli stessi elementi essenziali della colpa impediscono di configurare le “nuove” linee guida come fonti di colpa specifica. È la stessa lettera della legge a muoversi in questa direzione, nel fare salve le esigenze di adeguamento al caso specifico. Né, d’altra parte, potrebbe postularsi che il mero rispetto delle corrette linee guida valga sempre sic et simpliciter ad escludere la punibilità, nemmeno ove le si volesse considerare fonti specifiche, essendo noto che, dogmaticamente e normativamente, la colpa generica svolge sempre un ruolo sussidiario e residuale, laddove la colpa specifica non si dimostri efficace nel fronteggiare i rischi. Ciò è vero in tutti i settori, anche quelli – quale la circolazione stradale – dominati addirittura per lo più da regole specifiche c.d. “rigide”. A fortiori dovrà essere vero, come sempre lo è stato, anche in riferimento ad un settore molto più complicato ed “elastico”, quale quello della responsabilità sanitaria.
Se dunque la ricostruzione operata dalle Sezioni Unite sulle linee guida non può che ritenersi corretta, maggiori dubbi sorgono in riferimento al recuperato parametro della gravità della colpa, scomparso dal testo della disposizione.
Bisogna qui, a parere di chi scrive, tracciare una distinzione preliminare, fra il piano del metodo ed il piano del merito, ed anticipare subito che l’operazione compiuta dalle Sezioni Unite, se pure non possa che considerarsi adeguata, anche se non l’unica possibile, nel merito, ingenera non pochi dubbi di carattere metodologico, in parte superati dall’autorità del Collegio nomofilattico. Sempre in via preliminare, poi, occorre valorizzare il ruolo svolto dal precedente De Luca-Tarabori, il quale aveva effettivamente compiuto uno sforzo interpretativo ammirevole per cercare di trovare un senso alla nuova disposizione senza travalicarne i confini testuali ma tentando, allo stesso tempo, di non farla manifestamente confliggere con il dettato costituzionale.
Ciò premesso, occorre partire dal piano metodologico. Si deve sul punto osservare che le Sezioni Unite hanno effettivamente travalicato il dato testuale, pur richiamando a sostegno del proprio sforzo ermeneutico l’art. 12 delle preleggi. Invero, gli unici canoni di cui esse si sono largamente avvalse sono stati quello dell’interpretazione costituzionalmente conforme, volta a sterilizzare una possibile questione di legittimità costituzionale, e quello dell’intenzione storica del legislatore. L’operazione che ne è seguita è così schematizzabile. In presenza di un netto ed evidente contrasto fra l’intenzione storica del legislatore (che andava nel senso di voler impedire esoneri di responsabilità in caso di imperizia grave) e la ratio legis obiettiva, ritraibile dalla lettera della disposizione (la quale, cristallinamente, menziona la sola «imperizia», senza alcuna graduazione), le Sezioni Unite hanno inteso interpretare nel senso dell’intenzione storica, ritenuto l’unico costituzionalmente conforme. In questo modo, tuttavia, hanno introdotto nella disposizione un elemento che da essa era stato espressamente eliminato. Nonostante la presenza di numerosi argomenti a sostegno di tale recupero, argomenti sviscerati e valorizzati dalla motivazione in commento, e nonostante tale opera ermeneutica provenga pur sempre dalla massima autorità nomofilattica dell’ordinamento, non è possibile non avanzare alcune perplessità al riguardo. Nella scelta fra sollevare la questione di legittimità costituzionale e procedere ad un’interpretazione fortemente creativa quali elementi devono essere valorizzati, e fino a che punto possono spingersi le Sezioni Unite, rispetto ad un testo normativo illogico ma apparentemente chiaro? Il tentativo di esperire l’interpretazione costituzionalmente conforme è necessario anche in un caso apparentemente “scolastico” quale quello attuale? Se l’intervento della Corte costituzionale non è ritenuto invocabile in via preferenziale nemmeno in un caso di palese incostituzionalità letterale per violazione dell’art. 3 Cost. quale quello attuale, in cui il richiamo all’imperizia tout court si mostra totalmente irragionevole, non si vede in quali altri casi esso possa esserlo. Soprattutto considerando che la giurisprudenza di merito non ha avuto materialmente modo di formarsi sulla materia de qua, e che l’interpretazione delle Sezioni Unite, fortemente creativa, finisce parzialmente per essere un’interpretazione in malam partem, in pieno contrasto, si ripete, con la lettera della legge.
Sotto il profilo letterale, peraltro, non può tacersi un ulteriore elemento, trascurato dai giudici della nomofilachia, e cioè il fatto che la legge Gelli-Bianco menzioni più volte espressamente la locuzione “colpa grave” e precisamente per tre volte all’interno dell’art. 9 (relativo alla responsabilità amministrativa per danno erariale del professionista sanitario), statuendo, in particolare, al c. 1, che «L'azione di rivalsa nei confronti dell'esercente la professione sanitaria può essere esercitata solo in caso di dolo o colpa grave». Ora, non v’è chi non veda che risulta difficilmente sostenibile che il legislatore, pur volendo escludere esoneri di responsabilità penale per il sanitario in caso di imperizia grave, e pur essendo perfettamente conscio della possibilità di ricorrere, nonostante l’abrogazione della Balduzzi, al concetto di “colpa grave” (o quanto meno a quello di gravità, anche se con riferimento all’unica species dell’imperizia) poiché utilizzato nello stesso testo normativo della legge n. 24/2017 (art. 9), si sia semplicemente “dimenticato” di inserire tale riferimento all’art. 6, imponendo all’interprete di considerarlo implicito e di interpretare di conseguenza. Certamente, si tratta di due tipi di responsabilità differenti e dunque di due diversi “settori” concettuali e normativi della medesima legge, ma ciò non toglie che, stando alla sentenza in commento, in tutti e due debba leggersi un elemento comune – la gravità della colpa – che è tuttavia espressamente menzionato solamente in uno.
Se dal piano del metodo ci si sposta a quello del merito, non si può che convenire che l’interpretazione delle Sezioni Unite pare essere l’unica accettabile. Solamente recuperando il parametro della gravità della colpa si poteva impedire alla norma di essere palesemente incostituzionale, e gli argomenti addotti a sostegno di tale tesi sono tutti corretti e condivisibili. La stessa Corte costituzionale, assai probabilmente, ove investita della questione, sarebbe pervenuta alla medesima soluzione, salvo che non avesse effettivamente dichiarato la questione inammissibile, essendo il ricorso di specie relativo ad un evidente caso di negligenza e non già di imperizia, e non potendo pertanto trovare applicazione l’art. 590-sexies c.p.
L’inevitabilità, in un modo o nell’altro, della soluzione nel merito[33] e l’accettabilità del metodo seguito in quanto adottato dall’organo di nomofilachia della Corte di cassazione, il solo cui si possa riconoscere, nella giurisdizione comune, la possibilità di accedere a tale alto livello di creatività ermeneutica, non permettono comunque di aggirare alcuni interrogativi di fondo, legati al rapporto fra i formanti dell’ordinamento. La sentenza in commento è un’ottima testimonianza della tendenziale inversione di importanza dei formanti che negli ultimi decenni ha colpito gli ordinamenti di civil law. Sempre di più, infatti, a fronte di un legislatore marcatamente inidoneo allo svolgimento del proprio ruolo ed al conseguente scadimento della qualità della produzione normativa (nel nostro ordinamento particolarmente acuito dall’eccessività quantitativa di tale produzione), la giurisprudenza è chiamata ad un ruolo suppletivo e di “contenimento dei danni”, che finisce però per trasformarsi sovente in un’opera di vera e propria creazione del diritto, assimilabile a quella caratteristica dei sistemi di common law. Tale meccanismo presenta almeno due punti critici. Il primo è rappresentato dalla sottrazione, o, se si vuole, dall’assorbimento della responsabilità politica gravante sul legislatore da parte della giurisprudenza, la quale, ponendo al riparo dalla scure dell’incostituzionalità anche disposizioni che invece dovrebbero trovare proprio in tale scure il fisiologico epilogo, impedisce che l’incompetenza del legislatore emerga pienamente, e possa trovare nella dialettica politica il prezzo della propria responsabilità. Il secondo è invece dato dal rapporto fra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale. Se vi sono interpretazioni non consentite ai giudici comuni – e dunque nemmeno alle Sezioni Unite – ciò non vuol dire che esse non siano, invece, consentite all’organo specificamente rivolto a valutare la conformità a Costituzione delle leggi, ossia alla Corte costituzionale.
[2] Per il testo integrale, v. Cortecostituzionale.it. La sentenza è altresì pubblicata in Foro it., 1974, I, pp. 19 ss. ed in Giu. cost., 1973, pp. 1795 ss. Al riguardo, si considerino altresì R. Blaiotta, La colpa, in G. Lattanzi-E. Lupo (a cura di) Commentario al Codice Penale (in particolare art. 43), Giuffrè, Milano, 2000, p. 536; P. Veneziani, I delitti contro la vita e l’incolumità individuale (vol. III) – I Delitti colposi (tomo 2), in G. Marinucci-E. Dolcini, Trattato di diritto penale – Parte speciale, Cedam, Padova, 2009, p. 324.
[3] Per il quale, tolte le più puntuali indicazioni che seguono, si rinvia a F. Giunta-D. Micheletti-P. Piccialli-P. Piras, Il diritto penale della medicina nella giurisprudenza di legittimità, Edizioni Scientifiche Italiane, Pisa, 2009; D. Micheletti, La colpa del medico. Prima lettura di un’indagine sul campo, in Criminalia, 2008, pp. 171 ss.; R. Riz, Colpa penale per imperizia del medico: nuovi orientamenti, in Ind. pen., 1985, pp. 267 ss.; F. Siracusano, Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della giurisprudenza sulle forme e gradi della colpa, in Cass. pen., 1997, pp. 1639 ss.; A. Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale, Giuffrè, Milano, 2012, pp. 118 ss.
[4] V., ex multis, Cass., Sez. II, 23 agosto 1994, n. 11695, Rv. 199757; Cass., Sez. IV, 21 giugno 2007, n. 39592, Rv. 237875; Cass., Sez. IV, 22 novembre 2011, n. 4391, Rv. 251941; Cass., Sez. IV, 5 aprile 2011, n. 16328, Rv. 251960; Cass., Sez. IV, 27 gennaio 1984, n. 6650, Rv. 165329; Cass., Sez. IV, 2 ottobre 1990, n. 14446, Rv. 185685; Cass., Sez. IV, 24 giugno 1983, n. 8917, Rv. 160868; Cass., Sez. IV, 13 giugno 1983, n. 7670, Rv. 160314; Cass., Sez. IV, 30 novembre 1982, n. 1494, Rv. 157496; Cass., Sez. IV, 19 febbraio 1981, n. 5860, Rv. 149347; Cass., Sez. IV, 4 dicembre 2012, n. 10615, Rv. 256337; Cass., Sez. IV, 16 febbraio 1987, n. 4515, Rv. 175642; Cass., Sez. IV, 11 marzo 1983, n. 5448, Rv. 159415; Cass., Sez. IV, 5 novembre 1984, n. 12249, Rv. 171396; Cass., Sez. IV, 26 aprile 1983, n. 9653, Rv. 161232; Cass., Sez. IV, 20 ottobre 1980, n. 4023, Rv. 148613.
[5] V., Cass., Sez. IV, 29 settembre 1997, n. 1693, Rv. 210351, in cui si afferma che quando il medico «debba risolvere problemi diagnostici e terapeutici in presenza di quadro patologico complesso e passibile di diversificati esiti, nonché della necessità di agire con urgenza, l’eventuale errore, conducente a morte o lesione personale del paziente, può essere valutato sulla base del parametro individuato dall’art. 2236 c.c.; al contrario, quando non si presenti una situazione emergenziale, ovvero quando il caso non implichi problemi di particolare difficoltà, così come quando venga in considerazione negligenza o imprudenza, i canoni valutativi della condotta colposa non possono essere che quelli ordinariamente adottati nel campo della responsabilità penale per la causazione di danni alla vita o all’integrità fisica delle persone con la particolarità che il medico deve sempre attenersi alla regola della massima diligenza e prudenza».
[6] V., Cass., Sez. IV, 28 ottobre 2008, n. 46412, Rv. 242251; Cass., Sez. IV, 21 aprile 2006, n. 21473, Rv. 234414; Cass., Sez. IV, 16 giugno 2005, n. 28617, Rv. 232447; Cass., Sez. IV, 22 febbraio 1991, n. 4028, Rv. 187774; Cass., Sez. IV, 5 febbraio 1991, n. 9553, Rv. 188199; Cass., Sez. IV, 24 giugno 1987, n. 8360, Rv. 176416; Cass., Sez. IV, 9 giugno 1981, n. 9367, Rv. 150650; Cass., Sez. IV, 18 dicembre 1989, n. 10289, Rv. 184881; Cass., Sez. IV, 2 giugno 1987, n. 11733, Rv. 177085; Cass., Sez. IV, 24 gennaio 1984, n. 2734, Rv. 163321. Si consideri poi Cass., 23 novembre 2010, n. 8254, in Cass. pen., 2012, fasc. 2, pp. 547 ss., con nota di T. Campana, Colpa professionale nell’attività medico-chirurgica, nella quale si afferma che non può dirsi esclusa la responsabilità del medico in riguardo all’evento lesivo occorso al paziente per il solo fatto che abbia rispettato le linee guida, avendo il dovere di curare utilizzando i presidi diagnostici e terapeutici di cui al tempo la scienza medica disponeva. Per più ampi riferimenti, v. R. Blaiotta, La colpa, cit., pp. 538-539, nonché D. Castronuovo, La cola penale, Giuffrè, Milano, 2009, p. 548. Per la giurisprudenza di merito nel senso del testo, v. P. Veneziani, I delitti, cit., p. 328. In dottrina, ex plurimis, N. Mazzacuva, Problemi attuali in materia di responsabilità penale del sanitario, in Riv. it. med. leg., 1984, pp. 399 ss.; V. Napoleoni, Nuovi orientamenti del supremo Collegio in tema di responsabilità colposa nell’esercizio dell’arte sanitaria, in Cass. pen., 1980, pp. 1561 ss.
[7] V. P. Nuvolone, Colpa civile e colpa penale, in P. Nuvolone, Trent’anni di diritto e procedura penale, Cedam, Padova, 1969, I, p. 702.
[8] V., Cass. civ., Sez. III, 19 aprile 2006, n. 9085, Rv. 589634; Cass. civ., Sez. Un., 6 maggio 1971, n. 1282, Rv. 351466; Cass. civ., Sez. II, 17 marzo 1981, n. 1544, Rv. 412206; Cass. civ., Sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297, Rv. 573252; Cass. civ., Sez. III, 11 marzo 2002, n. 3492, Rv. 552973; Cass. civ., Sez. III, 18 ottobre 1994, n. 8470, Rv. 488123; Cass. civ., Sez. I, 18 aprile 1978, n. 1845, Rv. 391234; Cass. civ., Sez. III, 3 marzo 1995, n. 2466, Rv. 490903; Cass. civ., Sez. III, 1° febbraio 1991, n. 977, Rv. 470735.
[9] V. Cass., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 16237, in Dirittopenalecontemporaneo.it, con nota di F. Viganò, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità del medico in una importante sentenza della Cassazione; nonché in Cass. pen., 2014, fasc. 5, pp. 1670 ss., con nota di S. Grosso, I limiti della colpa medica per effetto della legge n. 189 del 2012; sempre in Cass. pen., 2013, fasc. 9, pp. 2999 ss., con nota di C. Cupelli, I limiti della colpa medica per effetto dell’art. 3 della legge n. 189 del 2012; nonché in Dir. pen. proc., 2013, fasc. 6, pp. 696 ss.; nonché in Giust. pen., 2013, fasc. 12, II, pp. 703 ss., con nota di C. Valbonesi, La Cassazione apre alle linee guida quali criterio di accertamento della colpa medica; v. altresì G. L. Gatta, Colpa medica e art. 3, co. 1 d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in Dirittopenalecontemporaneo.it; A. Roiati, Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione, in DPC, Rivista trimestrale, 4, 2013, pp. 99 ss.; G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli- Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dirittopenalecontemporaneo.it (9 marzo 2017), pp. 3 e 9-10. In generale sulla giurisprudenza in materia, v. F. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 c.c. e legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Dirittopenalecontemporaneo.it; P. Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, in Dirittopenalecontemporaneo.it.
[10] Sull’argomento, v. F. Mantovani, voce Colpa, in Digesto delle materie penalistiche, II ed., Utet Giuridica, Torino, 1988, pp. 312-313; G. Marini, voce Colpa (II: diritto penale), in Enciclopedia giuridica Treccani, VI ed., Roma, 1988, p. 12; M. Gallo, voce Colpa penale (diritto vigente), in Enciclopedia del diritto, XIII ed., Giuffrè, Milano, 1964, p. 643; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale – Parte generale, Zanichelli, Bologna, 2016, p. 603; R. Blaiotta, La colpa, cit., pp. 527 ss.; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, Art. 1-85 (in particolare artt. 42-43), Giuffrè, Milano, 2004, I, pp. 438 ss.; D. Pulitanò, La colpa, in A. Crespi-G. Forti-G. Zuccalà (a cura di), Commentario breve al codice penale, Cedam, Padova, 2008, pp. 218 ss.; T. Padovani, Il grado della colpa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1969, pp. 819 ss.; G. Losappio, Dosimetria della colpa civile e penale, in Ind. pen., 1992, pp. 701 ss.
[11] V., per il testo completo, Cortecostituzionale.it; al riguardo, v. G. L. Gatta, Colpa medica e linee guida: manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto Balduzzi sollevata dal Tribunale di Milano, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura, cit., p. 7.
[12] V., ex multis e senza pretesa di esaustività, F. Basile, Un itinerario giurisprudenziale sulla responsabilità medica colposa tra art. 2236 c.c. e legge Balduzzi (aspettando la riforma della riforma), in Dirittopenalecontemporaneo.it; R. Blaiotta, La colpa, cit.; R. Blaiotta, Legalità, determinatezza, colpa, in Criminalia, 2012, pp. 375 ss.; R. Blaiotta, La responsabilità medica, cit., pp. 313 ss.; G. M. Caletti, Non solo imperizia: la Cassazione amplia l’orizzonte applicativo della Legge Balduzzi, in Dir. pen. proc., 2015, fasc. 9, pp. 1147 ss.; D. Castronuovo, La colpa, cit., pp. 548 ss.; G. Civello, Responsabilità medica e rispetto delle “linee guida”, tra colpa grave e colpa lieve (La nuova disposizione del “decreto sanità”), in Arch. Pen., 2013, fasc. 1, pp. 85 ss.; C. Cupelli, I limiti della colpa medica per effetto dell’art. 3 della legge n. 189 del 2012, in Cass. pen., 2013, fasc. 9, pp. 2999 ss.; G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale, cit., p. 603; G. Forti, Il “quadro in movimento” della colpa penale del medico, tra riforma auspicate e riforme attuate, in Dir. pen. proc., 2015, fasc. 6, pp. 738 ss.; M. Gallo, voce Colpa, cit., p. 643; G. L. Gatta, Colpa medica e art. 3, co. 1 d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis (parziale) per i reati commessi con colpa lieve, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G. L. Gatta, Colpa medica e linee guida: manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto Balduzzi sollevata dal Tribunale di Milano, in Dirittopenalecontemporaneo.it; S. Grosso, I limiti della colpa medica per effetto della legge n. 189 del 2012, in Cass. pen., 2014, fasc. 5, pp. 1670 ss.; S. Logroscino-V. Drago, Sulla responsabilità penale del medico, in Riv. pen., 2013, fasc. 9, pp. 857 ss.; G. Losappio, Dosimetria, cit., pp. 701 ss.; A. Manna, Causalità e colpa in ambito medico fra diritto scritto e diritto vivente, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, fasc. 3, pp. 1176 ss.; A. Manna, Medicina difensiva e diritto penale – Tra legalità e tutela della salute, Pisa University Press, Pisa, 2014, pp. 161 ss.; F. Mantovani, voce Colpa, cit., pp. 312-313; F. Mantovani, Colpa medica e sue mutazioni, in Giust. pen., 2013, fasc. 1, pp. 2 ss.; G. Marini, voce Colpa, cit., p. 12; A. Martuscelli, Il c.d. decreto Balduzzi e la “colpa” del medico, in Riv. pen., 2014, fasc. 4, pp. 343 ss.; T. Padovani, Il grado, cit., pp. 819 ss.; M. Pelissero, La colpa medica nella giurisprudenza penale, in Contratto e impresa, 2015, fasc. 3, pp. 540 ss.; C. Pezzimenti, La responsabilità penale del medico tra linee guida e colpa “non lieve”: un’analisi critica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, fasc. 1, pp. 311 ss.; P. Piras, Culpa levis sine imperitia non excusat: il principio si ritrae e giunge la prima assoluzione di legittimità per la legge Balduzzi, in Dirittopenalecontemporaneo.it.; L. Risicato, Linee guida e imperizia “lieve” del medico dopo la l. 189/2012: i primi orientamenti della Cassazione, in Dir. pen. proc., 2013, fasc. 6, pp. 696 ss.; L. Risicato, La Cassazione identifica un’ipotesi di colpa “non lieve” del medico: è vera imperizia, in Dir. proc. pen., 2014, fasc. 4, pp. 422 ss.; A. Roiati, Il ruolo del sapere scientifico e l’individuazione della colpa lieve nel cono d’ombra della prescrizione, in DPC, Rivista trimestrale, 4, 2013, pp. 99 ss.; S. Torraca, Nuovi confini della responsabilità penale del medico dopo il c.d. decreto Balduzzi, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2012, fasc. 3, pp. 817 ss.; C. Valbonesi, La Cassazione apre alle linee guida quali criterio di accertamento della colpa medica, in Giust. pen., 2013, fasc. 12, II, pp. 703 ss.; C. Valbonesi, Linee guida e protocolli per una nuova tipicità dell’illecito colposo, in Riv. it. dir. pen. proc., 2013, fasc. 1, pp. 250 ss.; F. Viganò, Linee guida, sapere scientifico e responsabilità del medico in una importante sentenza della Cassazione, in Dirittopenalecontemporaneo.it.
[13] Il quale, infatti, prevede: «Gli esercenti le professioni sanitarie, nell'esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali».
[14] «Le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse elaborati dai soggetti di cui al comma 1 sono integrati nel Sistema nazionale per le linee guida (SNLG), il quale è disciplinato nei compiti e nelle funzioni con decreto del Ministro della salute, da emanare (omissis) entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge. L'Istituto superiore di sanità pubblica nel proprio sito internet le linee guida e gli aggiornamenti delle stesse indicati dal SNLG, previa verifica della conformità della metodologia adottata a standard definiti e resi pubblici dallo stesso Istituto, nonché della rilevanza delle evidenze scientifiche dichiarate a supporto delle raccomandazioni».
[15] Per un primo commento alla legge, v. P. Piras, Imperitia sine culpa non datur. A proposito del nuovo art. 590 sexies c.p., in Dirittopenalecontemporaneo.it; P. Piras, La riforma della colpa medica nell’approvanda legge Gelli-Bianco, in Dirittopenalecontemporaneo.it; C. Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza: il passo avanti della Cassazione (e i rischi della riforma alle porte), in Dirittopenalecontemporaneo.it; C. Cupelli, Lo statuto penale della colpa medica e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura, cit.; P. F. Poli, Il d.d.l. Gelli-Bianco: verso un’ennesima occasione persa di adeguamento della responsabilità penale del medico ai principi costituzionali?, in Dirittopenalecontemporaneo.it; F. Centonze-M. Caputo, La risposta penale alla malpractice: il dedalo di interpretazioni disegnato dalla riforma Gelli-Bianco, in Riv. it. med. leg., 2016, p. 1361 ss.; O. Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi” e “disegno di legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. pen., 2017, p. 386 ss.; G. Pavich, La responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria: cosa cambia con la legge Gelli-Bianco, in Cass. pen., 2017, p. 2961 ss.; G. Alpa, "Ars interpretandi" e responsabilità sanitaria nella nuova legge "Bianco-Gelli", in Contratto e impresa, 2017, p. 728 ss.; L. Bettiol, Riforma Gelli-Bianco: il ruolo delle linee guida nel giudizio di responsabilità penale in campo sanitario, in Foro it., 2017, c. 236; G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma "Gelli-Bianco", in Dir. pen. proc., 2017, p. 1369 ss.; M. Caputo, La responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria dopo la L. n. 24 del 2017 ... "quo vadit"? Primi dubbi, prime risposte, secondi dubbi, in Danno e responsabilità, 2017, p. 293 ss.; F. Cembrani, Su alcuni snodi critici della Legge "Gelli-Bianco", in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2017, p. 873 ss.; C. Cupelli, La responsabilità penale degli operatori sanitari e le incerte novità della legge Gelli-Bianco, in Cass. pen., 2017, p. 1765 ss.; F. D'Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma "Gelli-Bianco", in Dir. pen. proc., 2017, p. 573 ss.; A. Palma, Molto rumore per nulla: la legge Gelli-Bianco di riforma della responsabilità penale del medico, in Rivista italiana di medicina legale e del diritto in campo sanitario, 2017, p. 523 ss.; L. Risicato, Colpa dello psichiatra e legge Gelli-Bianco: la prima stroncatura della Cassazione, in Giur. it., 2017, p. 2201; D. Roncali, Le linee-guida e le buone pratiche: riflessioni medico-legali a margine della legge Gelli-Bianco, in Danno e responsabilità, 2017, p. 28
[16] V. G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura, cit., p. 7.
[17] Anche se un profilo di possibile incostituzionalità della nuova disposizione si rinviene proprio nella limitazione solamente a questi due delitti, lasciando ad esempio fuori quello di interruzione colposa di gravidanza.
[18] Sul contrasto, v. C. Cupelli, Lo statuto penale, cit.; F. Centonze-M. Caputo, La risposta penale, cit., p. 1361; O. Di Giovine, Colpa penale, “legge Balduzzi”, cit., p. 386; C. Cupelli, Cronaca di un contrasto annunciato: la legge Gelli-Bianco alle Sezioni Unite, in Dirittopenalecontemporaneo.it.
[19] Cass., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, Rv. 270213-14, P.C. Tarabori in proc. De Luca, in Foro it., 2017, c. 493, con nota di L. Bettiol; in Dirittopenalecontemporaneo.it, con nota di C. Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio; ivi, con nota di P. Piras, Il discreto invito della giurisprudenza a fare noi la riforma della colpa medica; ivi, con nota di M. Formica, La responsabilità penale del medico: la sedazione ermeneutica di una riforma dal lessico infelice; ivi, con nota di C. Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio; in Dir. pen. proc., 2017, p. 1369 ss., con nota di G.M. Caletti-M.L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma "Gelli-Bianco"; in Guida Al Diritto Il Sole 24ore Settimanale, 2017, p. 72 ss., con nota di G. Amato, Psichiatra condannato per condotta "leggera" con paziente psicotico; in Riv. it. med. leg., 2017, p. 713 ss., con nota di M. Caputo, "Promossa con riserva". La legge Gelli-Bianco passa l'esame della Cassazione e viene "rimandata a settembre" per i decreti attuativi.
[20] Cass., Sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 50078, Rv. 270985, Cavazza, in Cass. pen., 2018, p. 161 ss., con nota di C. Cupelli, Quale (non) punibilità per l'imperizia medica? La legge Gelli-Bianco nell'interpretazione delle Sezioni unite.; in Dirittopenalecontemporaneo.it, con nota di P. Piras, La non punibilità dell’imperizia medica in executivis; in Guida Al Diritto Il Sole 24ore Settimanale, 2018, p. 74 ss., con nota di G. Amato, Sussiste la colpa quando è ravvisato un errore inescusabile; in Arch. pen., 2018, fasc. 1, con nota di F.P. Bisceglia, Il discutibile secondo lifting giurisprudenziale su di un tessuto normativo difettoso.
[21] Come i primi commentatori non hanno mancato di osservare: v. C. Cupelli, Cronaca di un contrasto annunciato, cit.
[22] Sulla quale, per un primo commento, v. C. Cupelli, L'art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un'interpretazione 'costituzionalmente conforme' dell'imperizia medica (ancora) punibile, in Dirittopenalecontemporaneo.it; G. Amato, Conclusione giusta in linea con la norma e contro le negligenze, in Guida dir. Sole 24 Ore, 2018, 12, pp. 13 ss.
[23] La sentenza in commento dà conto, peraltro, a p. 9, di come tanto l’istituzione dell’Osservatorio di cui all’art. 3 della legge Gelli-Bianco quanto la formazione dell’elenco previsti dall’art. 5 siano ufficialmente avvenuti mediante la pubblicazione di due decreti del Ministero della Salute, in data, rispettivamente, 2 agosto e 29 settembre 2017 (G.U., Serie Generale, n. 186 del 10 agosto 2017 e n. 248 del 23 ottobre 2017).
[24] Secondo una prima tesi, da respingere dato il tenore testuale dell’art. 590-sexies, esse sarebbero assimilabili alle linee guida. In accordo con una seconda tesi, invece, esse sarebbero qualcosa di diverso, ora da identificarsi con i protocolli clinici, ora con «indicazioni trattamentali di comprovata efficacia anche se non regolamentate» (v. G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura, cit., p. 24). Questa seconda qualificazione – ossia quella di esse quali modelli comportamentali consolidati ed accreditati dalla comunità scientifica anche se non positivizzati in specifiche linee guida – sembra essere quella maggioritaria in dottrina (v. in particolare V. A. Fiori-D. Marchetti, L’art. 3 della Legge “Balduzzi” n. 189/2012 ed i vecchi e nuovi problemi della medicina legale, in Riv. it. med. leg., 2013, p. 568 ss.). In effetti, si tratta in prevalenza di prassi scientifiche anche documentate (in coerenza con le conoscenze scientifiche), mancanti tuttavia degli stringenti requisiti per poter essere considerate linee guida. Di esse, dagli artt. 5 e 6 della legge 24/2017 ricaviamo solamente che devono essere – anche se non lo si dice espressamente, come invece avviene per le linee guida – adeguate al caso specifico e, soprattutto, che è necessario attenervisi in subordine rispetto alle linee guida, con le quali, dunque, si trovano in rapporto di sussidiarietà. In più, l’art. 3 della medesima legge istituisce presso l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS), l’Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità, con intento delimitativo e di controllo. Sembra evidente che, nel periodo intermedio fra l’entrata in vigore della legge e l’effettiva attuazione dell’art. 5, le linee guida attualmente seguite nella prassi medica dovranno continuare ad essere rispettate e varranno – ai fini del nuovo regime – quali mere buone pratiche, richiamate pur sempre, anche se in via subordinata, dall’art. 590-sexies.
[25] La centralità delle linee guida nella nuova normativa, peraltro, si spiega soprattutto tramite la costatazione che esse possono servire per gestire al meglio il rischio clinico, contenendo la spesa pubblica. Si tratta della tematica del contrasto al rischio clinico (nell’ottica della c.d. Clinical Risk Management – CRM), per rispondere alla quale le linee guida rappresentano sicuramente lo strumento più appropriato dal punto di vista logistico ed economico, permettendo di raggiungere la maggior efficacia al minor costo possibile. Ecco quindi che, evidentemente, una delle ragioni alla base della legge Gelli-Bianco è sicuramente da rinvenire nel contrasto al fenomeno della c.d. medicina difensiva.
Non può tuttavia essere taciuto il rischio, connesso al nuovo sistema di accreditamento, che diverse linee guida relative alle medesime operazioni ed elaborate da diversi soggetti previsti dall’art. 5 vengano a sovrapporsi ed a confliggere, e non sembra che la nuova legge abbia individuato una soluzione per questa eventualità. Per più diffusi riferimenti, v. G. M. Caletti-M. L. Mattheudakis, Una prima lettura, cit., p. 22.
[26] Al riguardo si veda, assai esaustivamente, D. Castronuovo, La colpa, cit., pp. 279 ss.
[27] In particolare, viene rilevata la differenza di visioni fra le due sentenze in contrasto circa la natura giuridica dell’art. 590-sexies c.p. e circa il regime intertemporale. Per la sentenza De Luca-Tarabori, infatti, non si tratterebbe di vera e propria causa di esclusione della punibilità, quanto piuttosto di un atecnico e ripetitivo riferimento al giudizio di responsabilità con riguardo alla parametrazione della colpa. Il regime intertemporale, quindi, favorirebbe la precedente legge Balduzzi, avendo decriminalizzato tutte le condotte connotate da colpa lieve, a prescindere dal tipo. Secondo la sentenza Cavazza, al contrario, saremmo in presenza di vera e propria causa di esclusione della punibilità per la sola imperizia, operante nella fase esecutiva delle linee guida. Di conseguenza, quanto a queste ipotesi, essa si porrebbe come più favorevole della Balduzzi.
[28] La citazione, così come quelle che seguono, è tratta dal testo scritto della requisitoria pronunciata dal Sostituto Procuratore generale, dott. Fulvio Baldi, all’udienza pubblica dinanzi alle Sezioni Unite del 21 dicembre 2017, rinvenibile sul sito Giurisprudenzapenale.com.
[29] In particolare: la sentenza Cantore; Cass., Sez. IV, 11 maggio 2016, n. 23283, Denegri; Cass., Sez. IV, 8 maggio 2015, n. 22405, Rv. 263736, Piccardo; Cass., Sez. IV, 9 ottobre 2014, n. 47289, Rv. 260740, Stefanetti.
[30] Per la ricostruzione dei lavoratori preparatori si è attinto dalla Relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte Suprema di Cassazione n. 84/2017, inedita.
[31] Come noto, la legge Gelli-Bianco ha riformato la responsabilità civile del sanitario riportandola nell’alveo della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., anche ove il sanitario svolga la propria prestazione all’interno di strutture, salvo che abbia agito nell'adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente. Ha poi introdotto l’azione diretta da parte del paziente nei confronti della struttura e limitato l’azione di rivalsa verso il sanitario ai soli casi di dolo o colpa grave. Per una più ampia analisi, senza pretesa di esaustività, v. L. Bugiolacchi, Le strutture sanitarie e l'assicurazione per la r.c. verso terzi: natura e funzione dell'assicurazione obbligatoria nella Legge n. 24/2017 (Legge "Gelli/Bianco"), in Resp. civ. e prev., 2017, 3, pp. 1032 ss.; G. Alpa, "Ars interpretandi" e responsabilità sanitaria nella nuova legge "Bianco-Gelli", in Contratto e impresa, 2017, 3, pp. 728 ss.; A. D'Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corriere giur., 2017, 6, pp. 769 ss.; M. Faccioli, La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. "Legge Gelli-Bianco"): profili civilistici (Prima parte), in Studium iuris, 2017, 6, pp. 659 ss.
[32] Per le indispensabili nozioni mediche di base necessarie all’elaborazione di tale esempio, v. F. Porpiglia, Urologia, Torino, 2015, p. 60 ss.
[33] Una strada alternativa, per la verità, avrebbe potuto essere rappresentata dal seguire l’interpretazione data dalla sentenza De Luca-Tarabori almeno per questa delicata fase di prima vigenza della disposizione, lasciando la giurisprudenza di merito libera di interpretare ed elaborare la norma, ed eventualmente di sollevare essa stessa questione di legittimità costituzionale dell’interpretazione suddetta ove ritenuta eccessivamente restrittiva, ovvero di quella letterale (che, per la propria patente incostituzionalità, avrebbe certamente chiamato in causa la Corte costituzionale, ove ritenuta preferibile). D’altra parte, non ci si può nascondere che una situazione di aperto contrasto fra le sole due interpretazioni effettivamente praticabili dai giudici comuni fosse già stata raggiunta in seno alla Cassazione medesima, imponendo la remissione della questione alle Sezioni Unite, anche e soprattutto per risolvere la confusione ingenerata dalla disposizione fra gli operatori del settore.