1. Il corso del Novecento ha visto sempre più degradare l’idea che la conoscenza umana possa fondarsi su un’autentica base ontologica, a nutrimento di una visione che concepisce la realtà conoscibile (o la realtà tout court, secondo certi approcci) come pura rappresentazione soggettiva. Lo stridente attrito tra queste due prospettive segna il claudicante cammino identitario percorso dall’Occidente contemporaneo.
Sin dalla prima metà del XIX secolo, con l’irradiazione del pensiero filosofico di Schopenhauer e, poi, di Nietzsche (la fortuna del secondo, come noto, è postuma), si è progressivamente radicata una visione del mondo come volontà e rappresentazione (l’opera fondamentale di Schopenhauer è del 1819). La realtà degrada a prodotto della sua rappresentazione soggettiva, verso cui la volontà individuale protende il proprio potere d’azione (Wille zur Macht), libera da vincoli autoritativi che non sia l’individuo stesso a rappresentare fuori di sé (in prospettiva sociale e politica), e autorappresentare in sé (in prospettiva antropologica e morale).
Il soggettivismo gnoseologico, la negazione dell’esistenza di sistemi d’ordine naturali, la sfiducia nell’accessibilità del “senso” della realtà (l’inaccessibilità intellettiva del noumeno, secondo Kant), si riversano nel rifiuto postmoderno delle grandi narrazioni di principio (il cristianesimo, il razionalismo, il marxismo…), nell’abbandono del concetto di Essere e nella fascinazione per le forme di pensiero debole e, ancor più radicalmente, nell’avversione all’idea che la natura esista come sistema provvisto di un ordine proprio, che non sia lo stesso soggetto a costruire o ordinare a posteriori tramite l’impiego delle proprie facoltà cognitive. In questa prospettiva, gli stessi “fatti” - prodotto dell’organizzazione relazionale tra “dati” - non sono pensabili se non in quanto ordinati dalle strutture cognitive formali applicate dal soggetto esperiente.
La contesa tra essere e rappresentazione riguarda ogni ambito della conoscenza, non esclusi i modelli cognitivi propri della giurisdizione: il ruolo della giurisdizione è l’attuazione di rappresentazioni che la volontà (o un insieme di volontà) pretende trasformare in fatto, o quello di assicurare, sul piano storico delle relazioni politiche, sociali, antropologiche, l’effettività dell’ordine sistemico inscritto nell’ontologia anche dell’essere umano e delle cose?
Sono radicalmente diverse le implicazioni che tali opposte prospettive comportano sul piano della teoria dell’interpretazione, del rapporto con i sistemi valoriali, della contesa tra giustizia formale e giustizia sostanziale.
L’autorità politica è a sua volta interpellata dal medesimo dilemma: chi detiene il potere di dettare le regole è libero di rappresentarsi qualunque progetto di riforma dell’esistente, cui indirizzare la potenza attuativa della propria volontà, o è chiamato a rispettare un ordine sistemico che dall’esterno ne vincola i margini (o indirizza i fini) di legittimo dispiegamento?
Forse è utile fare cenno, una volta per tutte, all’evidente: la giustapposizione progressismo-conservatorismo ha ben poco a che vedere con l’opposizione tra sinistra e destra politiche. Sono innumerevoli gli esempi che dimostrano la rottura di tale simmetria, a cominciare dal rivoluzionato atteggiamento assunto oggi dal partito repubblicano nel sistema politico statunitense, finiti i tempi del Grand Old Party e della parentesi neo-cons.
2. – Paul Kahn argomenta che “progetto” e “sistema” sono le due forme narrative in competizione che organizzano il modo in cui immaginiamo la natura dell’ordine legale. Un progetto trae il suo principio ordinatore dall’atto intenzionale di un soggetto libero. Un sistema trae il suo principio ordinatore in modo immanente e spontaneo. Nella prospettiva di Kahn, scrivere una riforma costituzionale è un progetto. Il mercato invece è un sistema, in quanto la legge della domanda e dell’offerta non può essere fondata intenzionalmente da alcuno (al più, si può tentare di interferirvi, tramite l’attuazione di un progetto). Analogamente, la common law è un sistema, in quanto i principi legali emergono da un incessante processo di decisioni particolari, alla cui origine vi è la stessa comunità (con i suoi customs), che il diritto mira a ordinare. Anche il mondo naturale è un luogo di ordine senza un’intenzione (emblematico, pur con le dovute precisazioni, il concetto di teleonomia in Jacques Monod). La società stessa è un luogo di ordine senza un’intenzione, e su tale assunto trova fondamento lo sviluppo delle moderne scienze sociali.
Le categorie di progetto e di sistema aiutano a focalizzare l’essenziale linea distintiva che intercorre tra pensiero progressista e pensiero conservatore. I progressisti concepiscono la politica, ma anche l’esercizio della giurisdizione, come il dominio dei progetti (ad esempio di riforma sociale, di lotta alle discriminazioni, di promozione di taluni diritti civili), anche rompendo l’ordine esistente per sostituirlo con un ordine migliore (il destino progressivo dell’umanità è, del resto, un caposaldo di ogni progressismo). Per contro, i conservatori concepiscono la legge e le costituzioni come il prodotto di una lenta crescita, un sistema organico che emerge spontaneamente dall’ordine immanente delle cose (ad esempio della natura, della famiglia, della comunità, del mercato).
Il difficile dibattito sulla definizione di “dignità umana”, nella sua centralità giuridica, politica e morale,[1] raffigura in modo emblematico il conflitto, concettuale e identitario, che contrappone l’idea (progressista) di progetto e l’idea (conservatrice) di sistema. Da un lato, la concezione della dignità in senso soggettivo: essa identifica ed esaurisce il concetto di dignità nell’imperativo che impone di proteggere l’autodeterminazione della volontà di ciascuno. In sostanza, è il riconoscimento della pretesa che l’oggetto della volontà individuale diventi fatto e, in questo senso, una variazione semantica della libertà di autodeterminazione del soggetto.
Tale impostazione ha trovato particolare diffusione nell’ambito dei progetti di riforma giuridica su temi di peculiare sensibilità etica: inizio e fine-vita, pratiche procreative medicalmente assistite, alimentazione e idratazione forzata, suicidio assistito (sono note le vicende Welby, Englaro, DJ Fabo e i loro risvolti giudiziari, anche di livello costituzionale), accesso all’adozione in relazione alla questione della parità di genere.
Dall’altro lato, la dignità intesa in senso oggettivo: essa riconosce alla dignità un’autonoma struttura sostanziale, svincolata dal fondamento autodeterminativo della volontà. La dignità in senso oggettivo può ben porsi in concorrenza o in contrapposizione con le finalità progettuali che la volontà individuale si prefigga di perseguire. La concezione oggettiva non pretende che alla volontà individuale possa o debba essere negato ogni rilievo, prevede semmai che sia lo stesso contenuto oggettivo della dignità a porre le condizioni e i limiti del campo di esistenza entro cui la libertà di autodeterminazione individuale può o deve assumere valore.
3. - Mi sembra che, nell’Occidente contemporaneo, l’approccio rappresentativo-volontaristico (o progressista, nell’accezione sopra tratteggiata) sia sostanzialmente preponderante: sia a livello dell’immaginario collettivo, che Freddie Mercury, in Innuendo, cantava in versione pop (“…you can be anything you want to be, be free…”), riassumendo in una frase, col suo genio, tutti gli elementi costitutivi di tale narrativa (potere, volontà, libertà); sia a livello della più avanzata elaborazione dottrinale, come dimostrato dal fatto che, tra le principali contemporanee dottrine giuridico-filosofiche di giustificazione fondativa dei diritti umani (teoria positivistica, teoria strumentale, teoria normativa, tra le più in voga), nessuna di esse è di impronta giusnaturalista. Del resto, è sufficiente partecipare a un qualunque dibattito giuridico sull’argomento per constatare, già a livello epidermico, quanto sia diffusamente inviso l’originario approccio giusnaturalistico che fu proprio, tra l’altro, della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
Eppure, in un contesto culturale, politico, morale, giuridico che disconosca ogni principio d’ordine immanente all’ordine naturale dell’essere, è molto problematico (e io credo disperato) il tentativo di ritrovare un fondamento autentico e stabile a giustificazione del senso stesso dei diritti umani, se intesi quali diritti inerenti alla persona per ciò che è, e perciò resistenti a qualunque volontà che, in un determinato (e fatalmente transeunte) contesto socio-politico, pretenda di imporne una rappresentazione svincolata dalla struttura costitutiva del suo essere.
È quindi ideologica ogni rappresentazione dedotta da un’idea che resti indifferente al piano storico della realtà (si pensi all’homo politicus nel pensiero marxista, alla razza ariana nel nazismo, a Émile di Rousseau, ma anche ad Eva che nell’Eden mangia del frutto della conoscenza del bene e del male). Non è un caso che Il trionfo della volontà, terribile capolavoro cinematografico di Leni Riefensthal, è il titolo assegnato al più noto filmato di propaganda nazista.
Ecco che i diritti fondamentali sono suscettibili di trovare riconoscimento secondo le modalità, i contenuti e le condizioni dettate dalla rappresentazione che, in un dato momento, abbia il potere di imporne la cogenza. Questa visione reca effetti irrimediabilmente decostruttivi: essa intacca il carattere “universale” dei diritti umani (o lo nega alla radice, con effetto paradosso), il fondamento della loro selezione, la possibilità d’essere della stessa relazione intersoggettiva.
4. – Il neo-costituzionalismo contemporaneo tenta generalmente di superare il problema del fondamento dei diritti umani riaffermando un neo-positivismo che ne radichi la giustificazione sui testi costituzionali nazionali e sovranazionali, ritenendo in tal modo di sottrarre il tema al pericoloso dibattito sui valori. Eppure, la storia ha più volte mostrato come le costituzioni si possono fare e disfare, per vie più o meno legali o fattuali. Tanto più che il sistema giuridico ben si presta ad essere ricostruito non come scienza dell’ordine della realtà, ma come tecnica del linguaggio.
Un ordine giuridico che voglia riconoscere l’essere umano quale titolare universale di dignità e libertà, è ai sistemi che deve volgere il proprio sguardo. Deve essere paziente, perché lenta è la ricerca nelle cose delle radici dei progetti. Deve essere dialogico, perché è il dia-logos tra i distinti l’unico fondamento possibile di una pace che non sia fatua tolleranza.
Nella contemporanea contesa tra potenze planetarie, e tra i diversi modelli socio-antropologici di cui ciascuna è portatrice, è questo il campo in cui l’Occidente gioca la partita della propria identità, del proprio senso, della propria esistenza.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
Edmund Burke, Riflessioni sulla Rivoluzione in Francia, 1790.
Joe Atkinson, Human Rights as Foundations for Labour Law, in Philosophical Foundations of Labour Law, 2018.
Augustin Cochin, L’esprit du jacobinisme, 1979.
Genesi, II, 1-6.
Natalino Irti, Il destino di Nomos, in Elogio del diritto, 2019.
Victor Klemperer, La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, 1998.
Paul W. Kahn, Origins of Order: Project and System in the American Legal Imagination, 2019.
Jean-François Lyotard, La conditione postmoderne. Rapport sur le savoir, 1979.
Virginia Mantouvalou, Are labour rights human rights?, in European Labour Law Journal, vol. 3, no. 2, 2012.
Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1885.
Jean-Jacques Rousseau, Émile ou De l’éducation, 1762.
Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1819.
Gianni Vattimo, La fine della modernità, 1985.
[1] Artt. 2, 3, 13 comma 4, 27 comma 3, 29, 32, 36 e 41 della Costituzione italiana; art. 1 della Costituzione tedesca; art. 1 CdfUe e art. 2 Tue; artt. 1, 22 e 23 della Dichiarazione universale dei diritti umani; Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite del 1945.
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