E’ certo una ovvietà sottolineare come la Magistratura italiana sia oggi investita da un complesso di critiche; ed abbia perso (forse è più esatto dire “dissipato”) la gran parte di quel consenso, che le derivava dall’aver costituito il perno della lotta dello Stato contro la violenza politica e mafiosa, contro le varie forme di corruttela.
Mentre non è affatto ovvia l’ identificazione delle circostanze che hanno determinato questa perdita di popolarità; ed ancor più difficile è valutare se, ed in quale parte, questo calo di consensi sia effetto di una qualche “colpa” o disfunzione del giudiziario cui sarebbe meritorio porre rimedio; oppure debba essere serenamente accettato come conseguenza di scelte giuste, “coraggiose” e “controcorrente”.
Perciò la riflessione sulle problematiche della giustizia in Italia non può essere circoscritta alle ovvie negative considerazioni sulle prassi evidenziate dalla “vicenda Palamara”. Ed infatti il convegno 2019 del Centro studi Rosario Livatino è stato aperto da una lucida relazione del prof. Mauro Ronco che ha evidenziato la profonda trasformazione del ruolo della Magistratura nell’ordinamento costituzionale italiano a seguito di un insieme di impulsi sociali e di riforme politico giuridiche; non ultima la sostanziale abolizione ad opera della legge costituzionale n. 3/1993 di quella “autorizzazione a procedere” che nella sostanza sottraeva i parlamentari alla giurisdizione penale.
Ronco indica con chiarezza le modifiche costituzionali che hanno assegnato alla Magistratura un ruolo fondamentale nel garantire non solo più il “rispetto della Costituzione”, ma anche quello “dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (art. 117 Cost. come modificato dalla legge costituzionale n.3/2001); con “un novorum normativo che rompe il dominio della legalità interna; con il corollario della perdita della posizione di centralità giuridica del Parlamento e della sovranità politica. Il potere sovrano tende a passare dalla classe dei politici eletti dal popolo, alla classe dei giudici”; con conversione, soggiungo, della “democrazia parlamentare” alla “democrazia giudiziaria”.
Residua dunque al Parlamento, constata Ronco, solo una funzione normativa sub primaria, in cui al Parlamento sfugge la possibilità di “intercettare le regole che nascono dall’interpretazione giudiziale, in quanto queste si avvalgono di un formante internazionale ed europeo o, al limite costituzionale, che sfugge completamente al potere determinativo del Parlamento”.
Infine Ronco sottolinea come il potere politico abbia, sotto profili fondamentali, delegato ai magistrati il compito di plasmare la politica giudiziaria e la politica criminale. La bilancia viene cioè anche qui a “pendere sull'organo che si è affermato come rappresentante politico dell'intera magistratura, cioè il Consiglio Superiore della Magistratura, nonché sulle Procure della Repubblica e sulla Direzione Nazionale Antimafia. La delineazione dei fini della politica giudiziaria e, soprattutto, della politica criminale sfugge al Parlamento e, conseguentemente al Governo, che ne dovrebbe essere l'esecutore fedele”.
Nel quadro tracciato dal saggio di Mauro Ronco si collocano le ulteriori relazioni.
Incalza Carlo Guarnieri: “la conseguenza forse più critica della odierna situazione è che l' assetto organizzativo lascia al giudice spazi di interpretazione dei testi normativi estremamente ampi. Ci si può quindi domandare in che misura la "soggezione alla legge" da parte del giudice possa essere ancora considerato un elemento di garanzia, dato che sempre più spesso la "legge" è posta dallo stesso giudice”.
Si tratta di una considerazione che assume ancora maggiore rilievo nel caso del pubblico ministero. In quanto , “gli spazi di discrezionalità sono ancora maggiori, visto il carattere inevitabilmente complesso delle attività di questo magistrato`”. Si tratta di spazi che spesso “non trovano nel giudice un valido contrappeso, forse anche per via del nesso organizzativo che lo lega al pubblico ministero. Il risultato è lo sviluppo di un notevole potere, come indirettamente dimostrato dalle pressioni, ormai di pubblico dominio, che da ogni parte vengono spesso esercitate sul CSM quando si tratta di decidere la nomina dei capi delle procure più importanti”.
Conclude Guarnieri: “l'attuale assetto della nostra magistratura non sembra garantire la qualità delle capacità professionali dei suoi componenti`. Anzi, proprio la debolezza delle valutazioni di professionalità lascia ampio spazio a pressioni di vario tipo, specie nel processo di nomina alle posizioni di maggiore rilievo. Il dilatarsi poi dei margini di discrezionalità interpretativa rende sempre più illusoria la "soggezione" del giudice alle norme del sistema giuridico”. Ne consegue il progressivo indebolimento della garanzia dei diritti del cittadino - affidata alle mutevoli interpretazioni del magistrato - e dello stesso legame con la sovranità popolare, tradizionalmente assicurato dalla "soggezione" del giudice alla legge. Ci troviamo così di fronte “ad un processo di «giudiziarizzazione della politica» che, alla lunga, non può non innescare un mutamento radicale della natura del nostro regime politico, con conseguenze ancora non facili da valutare appieno”.
A sua volta Domenico Airoma prende in esame le conseguenze sull’ “universo giustizia” della presenza delle correnti. E correttamente osserva come in simile riflessione si debba logicamente prender le mosse dalla esistenza di Magistratura Democratica (ora ampliata come “Area”) cioè di un soggetto politico che giustamente Airoma qualifica come “molto più di una corrente”.
Il sorgere di un raggruppamento di magistrati dichiaratamente schierato nell’agone politico come “di sinistra” e che orgogliosamente rivendita i riflessi di questa scelta anche in sede giurisprudenziale ha per logica conseguenza determinato il sorgere di correnti che hanno assunto come valore fondante l’esigenza che i magistrati siano estranei allo scontro politico dei partiti; in particolare è sorta la corrente denominata “Magistratura Indipendente”; e la dialettica fra Magistratura Democratica e Magistratura Indipendente ha costituito una costante del dibattito ideale interno della magistratura, con ricadute non irrilevanti sull’esercizio del potere giudiziario.
Questo dibattito ha assunto toni e atteggiamenti diversi a seconda delle tematiche su cui MD ha scelto di esercitare la propria “politicità”.
Si deve cioè -secondo me- dar atto che quando il “gigantismo giudiziario” di cui Airoma registra la esistenza si è esercitato su tematiche largamente condivise nella opinione pubblica e nella magistratura, quali la lotta alla criminalità organizzata ed alla corruzione, il dibattito circa il valore e le modalità di esercizio di questo “gigantismo” non ha seguito le linee di frattura correntizie e ha dato luogo a convergenze (che alcuni definivano “sorprendenti”) fra magistrati di MI e colleghi di MD uniti, ad esempio, dalla solidarietà (o dalle critiche) verso il pool di “mani pulite”; verso le proposte ordinamentali ed operative di Giovanni Falcone.
Oggi l’area culturale di cui MD fa parte appare orientata a cavalcare istanze fortemente divisive in particolare a resuscitare “ sotto nuove vesti, la polemica contro il formalismo e la legalità positiva; secondo cui giudici sono chiamati a incarnare la missione loro assegnata da quella parte della dottrina che ritiene che le questioni attinenti in particolare al bio-diritto non possano essere affidate alle mutevoli maggioranze parlamentari ma vadano attribuite a chi è capace di assecondare la nuova corrente antropologica”, che teorizza “nuovi diritti” che deriverebbero dalla teoria del gender; dal riconoscimento della filiazione omosessuale; dal così detto “diritto ad accedere ad una morte dignitosa”.
Il testo di Airoma si conclude con la enunciazione di un conflitto di principio già pienamente avvertito dalla sapienza greca. Troviamo infatti nei testi classici la notissima affermazione di Antigone sul prevalere delle leggi di Zeus e della Giustizia, dell’Ethos, sui comandi degli uomini. E vediamo che la sofoclea tragedia di Antigone, viene tradizionalmente interpretata come un attacco al formalismo di Creonte posto che : «non era Zeus che bandiva il (tuo) editto, né la Giustizia che è presso i numi infernali».
Ma, a ben vedere, Creonte non si appella però solo al valore formale delle sue leggi, né è ha emesso il divieto di procedere alla sepoltura di Polinice per capriccio o per sadismo; al contrario agisce in osservanza di una concezione barbarica della giustizia che esige il traditore della patria sia punito anche dopo morto. Dunque alla «giustizia di Antigone» (« non per odiare, ma per amare sono nata») si contrappone una patriottica «giustizia di Creonte» («chi volle devastare la terra nativa, saziarsi di sangue e menar schiavi i cittadini...sia abbandonato insepolto cadavere»); le propagini della «giustizia di Creonte» si estendono del resto fino ai giorni nostri, come dimostrano i non infrequenti episodi di vilipendio del cadavere del nemico vinto (a Piazzale Loreto come a Kabul).
Alfredo Mantovano che ha curato la pubblicazione degli atti ha anche assunto il profilo più difficile: cioè la indicazione del “quid agendum”, il compito di individuare quali strumenti, quali valori possano in qualche misura consentire di superare , porre rimedio allo sconcerto suscitato dallo “scandalo Palamara”. Ed anche di sciogliere alcuni dei nodi suscitati dall’attuale assetto della Magistratura.
Mantovano individua due istituti in cui si realizza una confusione di funzioni e qualifiche: il pubblico ministero e la sezione disciplinare del Consiglio Superiore; e propone la eliminazione di queste contraddizioni istituzionali.
L’A. descrive con precisione la situazione attuale:
“l'esigenza di una separazione vera fra P.M. e giudice non sussisteva 40 anni fa, perché l'ordinamento e il codice di procedura penale erano differenti: in base al codice di procedura penale del 1930 la polizia giudiziaria svolgeva le indagini con un margine di autonomia e, a conclusione, ne consegnava gli esiti al P.M. Il P.M. non era il coordinatore delle indagini, bensì colui che a esse garantiva un filtro di giuridicità per trasmettere al giudice quel che meritava di essere sottoposto a giudizio. Con un sistema del genere si giustificava l'appartenenza del P.M. e del giudice al medesimo ordine giudiziario. Col codice di procedura penale del 1988 il cambiamento è stato sostanziale: il P.M. è diventato il capo della polizia giudiziaria, dirige le indagini e poi le sottopone alla verifica del giudice; è parte pubblica a tutti gli effetti. Pubblica, ma parte. Non ha senso che appartenga in tutto e per tutto al medesimo ordine del giudice: svolge un ruolo diverso. Su questo la Commissione Bicamerale per le riforme istituzionali - quasi un quarto di secolo fa! - aveva raggiunto una intesa di massima fra gruppi politici di orientamento differente: a conferma di una convinzione prevalente, al di là delle appartenenze di schieramento”.
Propone anche una soluzione piuttosto drastica: una forma di separazione dei requirenti dai giudicanti di guisa che il giudicante sia liberato dal vincolo (già segnalato da Guarnieri) con il requirente che nasce dalla appartenenza ad un medesimo corpo con la concreta possibilità che il requirente sia chiamato -ad esempio- a formulare pareri sulla capacità professionale del giudicante.
Alcuni hanno prospettato una diversa soluzione che mi parrebbe teoricamente preferibile, ma che credo inattuabile: l’obbligo per il magistrato di alternare le funzioni giudicanti con quelle requirenti, in modo da favorire una completa omogeneità di atteggiamenti e di valori. Ma una proposta di questo genere, avanzata da ultimo da Ettore Manca in Quotidiano di Puglia 13 febbraio 2021, incontrerebbe in primis la opposizione dei PM che farebbero non a torto notare che costringere chi abbia manifestato elevate capacità inquirenti a trasferirsi in un ufficio civile (e viceversa) sarebbe uno spreco di comprovate professionalità.
Forse ha maggiori possibilità di essere accolta l’altra proposta ripresa da Mantovano, che porrebbe eliminare l’assurdo costituito dal fatto che organo giudicante delle responsabilità disciplinari dei magistrati è l’apposita sezione disciplinare del CSM “i cui componenti togati sono finora stati eletti con criteri di appartenenza correntistica da quegli stessi magistrati potenzialmente destinatari dell'accertamento disciplinare”.
Si potrebbe, ad esempio, suggerisce Mantovano, estrarre i giudici disciplinari a sorte tra un elenco di personaggi qualificati (alti magistrati a riposo, rettori universitari…) oppure conservare la scelta attraverso elezioni ma con votazione separata rispetto ai componenti dell’”altro” CSM che conserverebbe le attuali funzioni amministrative (talvolta “alte” tal altra di minor rilievo).
In definitiva, mi pare si debba prender atto dell’importante ruolo culturale che oggi esercita il “Centro Livatino” costituendo una “voce fuori dal coro” del “pensiero unico” portato avanti, anche nel settore giuridico, da riviste di peso e rilevante spessore quali “Giustizia Insieme” e “Questione Giustizia”.
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