Sommario: Imprese (ex) mafiose e dumping. – 2. Le misure di prevenzione antimafia. – 3. L’informativa prefettizia antimafia. - 4. Libertà economiche e dignità umana.
1. Imprese (ex) mafiose e dumping
Un elemento costante e consolidato in tutte le organizzazioni mafiose italiane è la riduzione progressiva delle componenti violente e militari del metodo mafioso[1]: esse cedono il passo alla promozione di relazioni di scambio e collusione nei mercati illegali e ancor più legali. Accanto al reinvestimento dei proventi illeciti nell’economia pubblica, dove le mafie prediligono il ricorso sistematico alla corruzione per facilitare l’infiltrazione negli appalti e nei sub-appalti, si sta infatti accostando una sempre più spiccata connotazione imprenditoriale delle mafie, che conduce a un allentamento dei tratti violenti e intimidatori, lasciando spazio a profili soggettivi e a condotte economiche che tendono a acquisire una connotazione sempre più distante dalla tradizionale matrice mafiosa, ma più vicina a configurazioni di impresa politico-criminale[2].
La “logica degli affari”, viene sempre maggiormente preferita alla “logica dell’appartenenza”. Quest’ultima mira ad assicurare la coesione interna, i legami di lealtà, il coordinamento e la cooperazione tra gli affiliati. La logica degli affari, invece, predilige una razionalità strumentale, finalizzata a ottenere vantaggi e benefici materiali, soprattutto – anche se non esclusivamente – di tipo economico. In questo senso, la mafia privilegia il reinvestimento nei traffici illeciti e sempre più nell’economia legale, con la promozione di relazioni di collusione e complicità esterne. Peraltro le imprese mafiose, pur partendo da un’accumulazione violenta o gestendo solo attività illegali (in gran parte legate a gioco, droga, prostituzione, contrabbando), arrivano sul mercato legale senza quasi mai abbandonare quello illegale[3]. L’impresa mafiosa coinvolge abitualmente e strutturalmente il mondo legale e quello illegale: è un’impresa economica dalla duplicità strutturale, e dimostra che i due mondi possono essere l’uno la continuazione dell’altro. Le mafie si trovano a loro agio e sfruttano le opportunità di un mercato capitalistico sempre più opaco e continuano ad operare sul mercato illegale anche se si sono stabilmente affermate sul mercato legale.
Ma anche quando l’imprenditore mafioso per ipotesi decida di abbandonare definitivamente il mercato illegale e voglia dedicarsi in maniera assorbente ad una attività legale egli godrà comunque di un formidabile vantaggio concorrenziale. Ad esempio infatti l’imprenditore onesto e intelligente, che abbia lavorato una vita per offrire sul mercato un bene o un servizio di qualità ad un prezzo accessibile, può subire la concorrenza, evidentemente sleale, dell’impresa mafiosa che usufruisce dei vantaggi conseguiti illecitamente in settori illegali consistenti nel poter offrire quegli stessi beni o servizi offerti dall’imprenditore non mafioso ad un prezzo inferiore (attingendo alle riserve di capitale accumulate in precedenza)[4], così provocando l’inevitabile fuoriuscita dal mercato dell’imprenditore onesto e conquistarne così la sua fetta di mercato, per poi, una volta eliminato il concorrente e aver creato una situazione di posizione dominante che si avvicini al monopolio, alzare i prezzi per sfruttare tale posizione di dominio sul mercato[5]. Si tratta di una tipica condotta di dumping, che integra allo stesso tempo, a prescindere dalla circostanza che a porla in essere sia stata o meno un’impresa mafiosa, una ipotesi sia di concorrenza sleale ex art. 2598 cod. civ. sia di abuso di posizione dominante ex art. 3 della legge n. 287 del 1990 (cd. legge antitrust)[6].
In effetti, a prescindere dall’uso della violenza e della forza intimidatoria del vincolo associativo, il fenomeno mafioso è di dimensioni e di pericolosità tali e la mole di capitali provenienti da attività illecite che si riversano nei mercati legali è così ingente che tali capitali si traducono in atti e comportamenti che inquinano e falsano in maniera decisiva il libero e naturale gioco della concorrenza in vasti settori dell’economia legale.
Infatti, proprio perché l’impresa ex mafiosa, - in quanto non più mafiosa - potrebbe non essere più destinataria di una interdittiva prefettizia antimafia, è quanto mai decisivo che l’autorità amministrativa disponga degli strumenti adeguati ad anticiparne le mosse, a prevenirla, con un costante monitoraggio del fenomeno, la conoscenza delle sue specifiche manifestazioni, la individuazione e valutazione dei relativi sintomi, la rapidità di intervento, con l’inevitabile conseguenza che l’informazione antimafia prefettizia non può che essere fondata su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria[7], perché, paradossalmente, se fosse fondata su elementi più concreti e solidi e su prove più consistenti, arriverebbe troppo tardi, quando ormai i danni commessi dall’impresa mafiosa sarebbero irreversibili (ad esempio perché l’impresa mafiosa si è aggiudicata un appalto oppure quella ex mafiosa con delle politiche anticoncorrenziali di dumping è riuscita ad escludere dal mercato e a far fallire delle imprese rispettose della legalità)[8].
2. Le misure di prevenzione antimafia
Le misure di prevenzione antimafia[9] sono disciplinate dagli artt. 1 ss. del codice antimafia e possono essere personali o patrimoniali: le prime hanno una funzione prettamente preventiva mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati mentre le seconde hanno una funzione meramente ripristinatoria della situazione quo ante, perché l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma solo la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà. Entrambe le tipologie di misure di prevenzioni dunque non possono essere equiparate alle pene, che hanno una funzione punitiva e conseguentemente non soggiacciono a tutte lo strumentario di garanzie che ruota intorno al processo penale[10].
Le misure di prevenzione personali, oggi organicamente disciplinate nel codice antimafia, rappresentano l’approdo di una lunga evoluzione storica, le cui origini risalgono alla legislazione di polizia ottocentesca[11]: il requisito della pericolosità per la sicurezza pubblica del destinatario delle misure di prevenzione personali accomuna le stesse alle misure di sicurezza disciplinate dal codice penale, dalle quali tuttavia le prime si differenziano in quanto non presuppongono l’instaurarsi di un processo penale nei confronti del soggetto. Sufficiente e necessario a legittimare l’applicazione di una misura di prevenzione personale è, infatti, che l’attività criminosa risulti da evidenze che la legge indica o come elementi di fatto o come indizi; evidenze che devono essere vagliate dal tribunale nell’ambito di un procedimento retto da regole probatorie e di giudizio diverse da quelle proprie dei procedimenti penali.
Imperniate come sono su un giudizio di persistente pericolosità del soggetto, le misure di prevenzione personale hanno una chiara finalità preventiva anziché punitiva, mirando a limitare la libertà di movimento del loro destinatario per impedirgli di commettere ulteriori reati, o quanto meno per rendergli più difficoltosa la loro realizzazione, consentendo al tempo stesso all’autorità di pubblica sicurezza di esercitare un più efficace controllo sulle possibili iniziative criminose del soggetto[12]. L’indubbia dimensione afflittiva delle misure stesse non è, in quest’ottica, che una conseguenza collaterale di misure il cui scopo essenziale è il controllo, per il futuro, della pericolosità sociale del soggetto interessato: non già la punizione per ciò che questi ha compiuto nel passato[13].
La CEDU con la sentenza De Tommaso[14] ha espressamente escluso che le misure di prevenzione personali sottoposte al suo esame costituiscano sanzioni di natura sostanzialmente punitiva, come tali soggette ai vincoli che la Convenzione detta in relazione alla materia penale. la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 2 del IV Protocollo della Convenzione - che garantisce la libertà di circolazione - da parte del d.lgs. n. 159 del 2011 in tema di misure di prevenzione nei confronti di soggetti “pericolosi” ([15]), in quanto tale norma italiana non garantisce adeguatamente la prevedibilità della misura e la sua applicazione è rimessa alla discrezionalità del giudice in contrasto con il principio di determinatezza e tassatività.
In particolare, la Corte EDU ha ravvisato una violazione della libertà di circolazione per difetto di prevedibilità e precisione delle norme relative ai soggetti idonei e alle condizioni necessarie per l’applicazione della misura di prevenzione, nonché alle prescrizioni che il giudice può imporre per dar corpo alla misura. La Corte EDU non si addentra più di tanto nella questione giuridica circa la natura giuridica delle misure di prevenzione, a lei interessando soltanto che, aldilà della qualificazione formale di tali misure come sanzioni penale (circostanza negata dalla Cassazione), esse, in quanto rappresentano sostanzialmente una pena, godano delle garanzie proprie della Carta EDU. La sentenza De Tommaso è dunque un caso in cui la Corte EDU chiede all’Italia, non di limitare – come invece accaduto con la Corte di Giustizia nel caso Taricco ricordato in precedenza - ma di allargare lo spazio del diritto penale[16]. Né la Corte costituzionale, nelle varie occasioni in cui ha sinora avuto modo di pronunciarsi sulle misure di prevenzione personali, ha mai ritenuto che esse soggiacciano ai principi dettati, in materia di diritto e di processo penale, dagli articoli 25, secondo comma, 27, 111, terzo, quarto e quinto comma, e 112, Cost. Tuttavia, la stessa CEDU nella stessa sentenza ha affermato che le misure di prevenzione disciplinate nell’ordinamento italiano costituiscono però pur sempre misure limitative della libertà di circolazione sancita dall’art. 2 Prot. n. 4 CEDU; misure che, come tali, sono legittime solo in quanto sussistano le condizioni previste dal par. 3 della norma convenzionale in questione (in particolare: idonea base legale, finalità legittima, “necessità in una società democratica” della limitazione in rapporto agli obiettivi perseguiti).
In direzione analoga si è mossa anche la Corte costituzionale, che – accanto ai non sempre costanti riferimenti all’art. 25, terzo comma, Cost. – ha sempre affermato, sin dalle sue prime sentenze del 1956 in materia, che l’esecuzione delle misure di prevenzione di volta in volta sottoposte al suo esame comportavano una restrizione della libertà personale sancita dall’art. 13 Cost.; restrizione che certamente consegue alle prescrizioni che ineriscono alla sorveglianza di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma, 2, del d.lgs. n 159 del 2011, le quali – anche laddove non sia disposto l’obbligo o il divieto di soggiorno – comportano, ad esempio, l’obbligo di fissare la propria dimora e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità, nonché il divieto di uscire o rincasare al di fuori di certi orari. Conseguentemente, le misure in questione in tanto possono considerarsi legittime, in quanto rispettino i requisiti cui l’art. 13 Cost. subordina la liceità di ogni restrizione alla libertà personale, tra i quali vanno in particolare sottolineate la riserva assoluta di legge (rinforzata, stante l’esigenza di predeterminazione legale dei «casi e modi» della restrizione) e la riserva di giurisdizione.
Gli esiti cui è approdata la giurisprudenza costituzionale italiana finiscono così per attribuire un livello di tutela ai diritti fondamentali dei destinatari della misura della sorveglianza speciale, con o senza obbligo o divieto di soggiorno, che è superiore a quello assicurato in sede europea. La riconduzione delle misure in parola all’alveo dell’art. 13 Cost. comporta, infatti, che alle garanzie (richieste anche nel quadro convenzionale) a) di una idonea base legale delle misure in questione e b) della necessaria proporzionalità della misura rispetto ai legittimi obiettivi di prevenzione dei reati (proporzionalità che è requisito di sistema nell’ordinamento costituzionale italiano, in relazione a ogni atto dell’autorità suscettibile di incidere sui diritti fondamentali dell’individuo), debba affiancarsi l’ulteriore garanzia c) della riserva di giurisdizione, non richiesta in sede europea per misure limitative di quella che la Corte EDU considera come mera libertà di circolazione, ricondotta in quanto tale al quadro garantistico dell’art. 2 Prot. n. 4 CEDU.
Assai più recente è stato l’ingresso nell’ordinamento italiano delle misure di prevenzione patrimoniali della confisca e del correlato sequestro.
Il presupposto giustificativo della confisca di prevenzione – e pertanto dello stesso sequestro, che ne anticipa provvisoriamente gli effetti – è «la ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato con i proventi di attività illecita»[17]. La confisca “di prevenzione” e la confisca “allargata” (e i sequestri che, rispettivamente, ne anticipano gli effetti) costituiscono dunque altrettante species di un unico genus, che può identificarsi nella confisca dei beni di sospetta origine illecita – ossia accertata mediante uno schema legale di carattere presuntivo. Le difficoltà cui tale prova va incontro hanno fatto sì che la confisca “tradizionale” si rivelasse inidonea a contrastare in modo adeguato il fenomeno dell’accumulazione di ricchezze illecite da parte della criminalità, e in specie della criminalità organizzata: fenomeno particolarmente allarmante, a fronte tanto del possibile reimpiego delle risorse per il finanziamento di ulteriori attività illecite, quanto del loro investimento nel sistema economico legale, con effetti distorsivi del funzionamento del mercato[18].
In conformità a tale ratio, la giurisprudenza della Corte di cassazione, con riferimento tanto al sequestro e alla confisca di prevenzione quanto alla confisca “allargata”, ha intrapreso un percorso volto a circoscrivere l’area dei beni confiscabili, limitandoli a quelli acquisiti in un arco temporale ragionevolmente correlato a quello in cui il soggetto risulta essere stato impegnato in attività criminose[19]. Rispetto, in particolare, al sequestro e alla confisca di prevenzione, le Sezioni unite sono pervenute a tale risultato chiarendo la necessità di accertare lo svolgimento di attività criminose da parte del soggetto con riferimento al lasso temporale nel quale si è verificato, nel passato, l’incremento patrimoniale che la confisca intende neutralizzare: requisito, quest’ultimo, non scritto, ma discendente evidentemente dalla necessità di conservare ragionevolezza alla presunzione (relativa) di illecito acquisto dei beni, sulla quale il sequestro e la confisca di prevenzione si fondano. Tale presunzione, infatti, in tanto ha senso, in quanto si possa ragionevolmente ipotizzare che i beni o il denaro confiscati costituiscano il frutto delle attività criminose nelle quali il soggetto risultava essere impegnato all’epoca della loro acquisizione, ancorché non sia necessario stabilirne la precisa derivazione causale da uno specifico delitto. La presunzione relativa di origine illecita dei beni, che ne giustifica l’ablazione in favore della collettività, non conduce necessariamente a riconoscere la natura sostanzialmente sanzionatorio-punitiva delle misure in questione; e non comporta, pertanto, la sottoposizione delle misure medesime allo statuto costituzionale e convenzionale delle pene. In effetti, nell’ottica del sistema, l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico[20]. Non può, dunque, ritenersi compatibile con quella funzione l’acquisizione di beni contra legem, sicché nei confronti dell’ordinamento statuale non è mai opponibile un acquisto inficiato da illecite modalità[21].
In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene, di cui il soggetto risulti titolare o abbia la materiale disponibilità, sia stato acquistato attraverso una condotta illecita – presunzione a sua volta fondata sul puntuale riscontro, da parte del giudice, dei requisiti dettati dalla normativa in esame – o a fortiori in presenza di prove dirette di tale origine illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta; bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì (eventualmente attraverso la confisca per equivalente) che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere.
In assenza di connotati afflittivi ulteriori, la finalità dell’ablazione patrimoniale ha, in tale ipotesi, carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene. Quest’ultimo potrà, così, essere sottratto al circuito criminale, ed essere invece destinato – quanto meno ove non sia possibile restituirlo a un precedente titolare, che ne fosse stato illegittimamente spogliato – a finalità di pubblico interesse, come quelle istituzionalmente perseguite dall’Agenzia nazionale dei beni confiscati.
Pur non avendo natura penale, sequestro e confisca di prevenzione restano peraltro misure che incidono pesantemente sui diritti di proprietà e di iniziativa economica, tutelati a livello costituzionale (artt. 41 e 42 Cost.) e convenzionale (art. 1 Prot. addiz. CEDU).
Esse dovranno, pertanto, soggiacere al combinato disposto delle garanzie cui la Costituzione e la stessa CEDU subordinano la legittimità di qualsiasi restrizione ai diritti in questione, tra cui – segnatamente –: a) la sua previsione attraverso una legge (artt. 41 e 42 Cost.) che possa consentire ai propri destinatari, in conformità alla costante giurisprudenza della Corte EDU sui requisiti di qualità della “base legale” della restrizione, di prevedere la futura possibile applicazione di tali misure (art. 1 Prot. addiz. CEDU); b) l’essere la restrizione “necessaria” rispetto ai legittimi obiettivi perseguiti (art. 1 Prot. addiz. CEDU), e pertanto proporzionata rispetto a tali obiettivi, ciò che rappresenta un requisito di sistema anche nell’ordinamento costituzionale italiano per ogni misura della pubblica autorità che incide sui diritti dell’individuo, alla luce dell’art. 3 Cost.; nonché c) la necessità che la sua applicazione sia disposta in esito a un procedimento che – pur non dovendo necessariamente conformarsi ai principi che la Costituzione e il diritto convenzionale dettano specificamente per il processo penale – deve tuttavia rispettare i canoni generali di ogni “giusto” processo garantito dalla legge (artt. 111, primo, secondo e sesto comma, Cost., e 6 CEDU), assicurando in particolare la piena tutela al diritto di difesa (art. 24 Cost.) di colui nei cui confronti la misura sia richiesta.
Alla progressiva opera di giurisdizionalizzazione di tali misure si è accompagnata dunque una progressiva tipizzazione dei comportamenti assunti come presupposto delle misure di prevenzione (personali e, a partire dal 1982, patrimoniali), i cui destinatari iniziarono gradualmente ad essere individuati dal legislatore mediante il richiamo alle numerose tipologie specifiche di reato, tra cui quello di associazione mafiosa, che oggi sono confluite nell’elenco tassativo contenuto nell’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011.
3. L’informativa prefettizia antimafia
Il problema della tipicità e della tassatività posto per le misure di prevenzione si pone a maggior ragione per le misure interdittive antimafia, basate sull’uso di strumenti, accertamenti, collegamenti, risultanze, necessariamente anche atipici come atipica, del resto, è la capacità, da parte delle mafie, di perseguire i propri fini. E solo di fronte ad un fatto inesistente od obiettivamente non sintomatico il campo valutativo del potere prefettizio, in questa materia, deve arrestarsi.
L’art. 83 (Ambito di applicazione della documentazione antimafia) del codice antimafia (d.lgs. n. 159 del 2011) stabilisce che le pubbliche amministrazioni e gli enti pubblici, anche costituiti in stazioni uniche appaltanti, gli enti e le aziende vigilati dallo Stato o da altro ente pubblico e le società o imprese comunque controllate dallo Stato o da altro ente pubblico nonché i concessionari di lavori o di servizi pubblici, devono acquisire la documentazione antimafia di cui all'articolo 84 prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti relativi a lavori, servizi e forniture pubblici. La documentazione antimafia è appunto disciplinata dagli artt. 84 ss.; l’art. 84 stabilisce che la documentazione antimafia è costituita dalla comunicazione antimafia e dall'informazione antimafia. La comunicazione e l’attestazione antimafia consistono entrambe nell'attestazione della sussistenza o meno di una delle cause previste dall’art. 67 di sospensione, divieto o decadenza da autorizzazioni, licenze iscrizioni in albi[22] etc. A sua volta l’art. 67 ricollega tali decadenze, sospensioni o divieti all’emanazione di una misura di prevenzione: si desume quindi che la documentazione antimafia può provocare le conseguenze negative previste dall’art. 67 quando ricorrano le stesse condizioni che legittimano l’emanazione di una misura di prevenzione. Occorre altresì aggiungere che, a differenza della comunicazione antimafia e delle misure di prevenzione, l'informazione antimafia può scaturire anche da eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Quindi, sembrerebbe dedursi, da questo quanto mai confuso e poco chiaro sistema di rinvii (tanto più grave in relazione alla rilevanza delle penetranti conseguenze della documentazione antimafia e della circostanza che la mafia prospera proprio in situazioni di opacità) che l’imprenditore destinatario di una misura di prevenzione o di una comunicazione o informazione antimafia “negative” non possa né avere rapporti con la pubblica amministrazione né esercitare una qualsiasi attività imprenditoriale a prescindere da eventuali rapporti con la pubblica amministrazione: in altre parole non potrà fare l’imprenditore. L’art. 84 del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (Codice antimafia) riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi. Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa, quale emerge dalla legislazione antimafia, non può tuttavia sostanziarsi in un sospetto della Pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero questo istituto, pietra angolare del sistema normativo antimafia, ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali “unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”.
La formulazione della fattispecie normativa a struttura aperta, propria dell’informazione interdittiva antimafia, consente all’autorità amministrativa e, ove insorga contestazione in sede giurisdizionale, al giudice amministrativo di apprezzare, in sede di sindacato sull’eccesso di potere, tutta una serie di elementi sintomatici dai quali evincere l’influenza, anche indiretta (art. 91, comma 6, d.lgs. n. 159 del 2011), delle organizzazioni mafiose sull’attività di impresa, nella duplice veste della c.d. contiguità soggiacente o della c.d. contiguità compiacente, elementi che sfuggirebbero, invece, ad una rigorosa, tassativa, asfissiante tipizzazione di tipo casistico, che elenchi un numerus clausus di situazioni “sintomatiche”.
Negare però in radice che il Prefetto possa valutare elementi “atipici”, dai quali trarre il pericolo di infiltrazione mafiosa, vuol dire annullare qualsivoglia efficacia alla legislazione antimafia e neutralizzare, in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale, proprio la sua decisiva finalità preventiva di contrasto alla mafia, finalità che, per usare ancora le parole della Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza De Tommaso c. Italia, consiste anzitutto nel “tenere il passo con il mutare delle circostanze” secondo una nozione di legalità sostanziale. Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale “poiché il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale”[23].
Il Consiglio di Stato ha così enucleato le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli, affermando che il giudice deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale nel bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie[24].
4. Libertà economiche e dignità umana
Nella sentenza n. 57 del 2020 della Corte costituzionale, il giudice rimettente aveva sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 89-bis e 92 del codice antimafia, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, osservando che con le norme censurate si sono estese ai destinatari di un provvedimento amministrativo quale è l’informazione antimafia prefettizia (basata o su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria - perché solo sintomatici e indiziari - o sulla sussistenza solo di tentativi di infiltrazione mafiosa), le conseguenze pesantemente negative previste dall’art. 67 del d.lgs. n. 159 del 2011 ossia il divieto non solo di intrattenere rapporti con la pubblica amministrazione (in particolare di partecipare a gare di appalto) ma anche di esercitare una attività imprenditoriale puramente privatistica, così privando il destinatario del diritto di esercitare l’iniziativa economica e ponendolo nella stessa situazione di colui che risulti destinatario di una misura di prevenzione personale applicata con provvedimento definitivo e con le garanzie giurisdizionali.
Secondo il rimettente, nonostante l’estrema nocività del fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nell’economia e la necessità di una risposta efficace che elimini i soggetti economici mafiosi dall’economia legale in genere e non solo escluderli dai rapporti con la pubblica amministrazione, una legislazione che affida tale radicale risposta ad un mero provvedimento amministrativo, quale è l’informazione antimafia prefettizia, porrebbe seri dubbi di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost. Ad opinione del giudice a quo, sarebbe infatti irragionevole ricollegare ad un provvedimento di natura amministrativa gli stessi effetti di una misura di prevenzione applicata con un provvedimento di natura giurisdizionale, paralizzando di fatto il diritto costituzionalmente protetto dall’art. 41 Cost.[25] all’esercizio dell’iniziativa economica (di cui l’iniziativa imprenditoriale è l’estrinsecazione più significativa e importante), tanto più che l’effetto dell’informazione interdittiva antimafia è immediato e non è subordinato alla definitività del provvedimento e l’autorità amministrativa non può procedere ad alcuna esclusione delle decadenze e dei divieti, a differenza di quanto può fare il tribunale nel caso in cui per effetto degli stessi venissero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia.
Senonché, secondo la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 57 del 2020, la mafia costituisce un fenomeno così grave e pericoloso da legittimare gravi e incisive limitazioni ad una importante libertà personale quale è quella di svolgere una iniziativa economica[26], pur se tali limitazioni si basano su un provvedimento amministrativo, ed è per questo che la questione sollevata viene dichiarata infondata (sia pure non manifestamente).
Ma secondo la Corte costituzionale a giovarsi dell’interdittiva antimafia prefettizia non è solo la sicurezza e l’ordine pubblico, ma anche il mercato. Il corretto funzionamento del meccanismo concorrenziale e quindi del mercato costituisce infatti un diritto fondamentale della collettività[27] ed è dunque ragionevole, in una prospettiva di bilanciamento tra valori costituzionali, che, per il bene della collettività (sono attori attivi sul mercato infatti non solo gli imprenditori ma anche i consumatori) venga sacrificato il diritto fondamentale di un singolo, quando questi abbia tenuto una condotta tale da far ragionevolmente ritenere una contiguità con la mafia. In effetti, la Corte di Cassazione a sezioni unite ha nel 2005[28] per la prima volta riconosciuto che anche i consumatori - e non solo gli imprenditori concorrenti (circostanza che invece era già pacifica) - subiscono un danno dalla violazione della legge antitrust e che tale danno è risarcibile ex art. 2043 c.c. e consiste nella differenza tra il prezzo effettivamente pagato e quello che il consumatore avrebbe pagato in condizioni di concorrenza. Ebbene, l’argomento principale delle Sezioni unite consiste nel riconoscimento del mercato quale bene giuridico tutelato dalla legge antitrust: il mercato è infatti il luogo ove operano, con pari dignità e importanza, imprenditori e consumatori, soggetti entrambi parimenti meritevoli di essere risarciti in caso di condotte anticoncorrenziali che li possano danneggiare. La Cassazione inoltre non ritiene necessario, al fine della risarcibilità del danno, riconoscere in capo al consumatore un diritto soggettivo al mantenimento di una situazione di concorrenza del mercato, ma semplicemente un interesse giuridicamente tutelato in relazione, deve ritenersi, agli artt. 2, 3, 6[29] della legge antitrust (legge n. 287 del 1990) che, vietando le condotte anticoncorrenziali, attribuiscono il connotato della giuridicità all’interesse dei consumatori all’esistenza di un mercato in condizioni di concorrenza. Infatti già la nota sentenza della Cassazione n. 500 del 1999[30] aveva riconosciuto la risarcibilità degli interessi legittimi motivando sul fatto che l’art. 2043 c.c. deve essere inteso nel senso che è ingiusto il danno derivante dalla lesione di situazioni giuridiche soggettive anche diverse dal diritto soggettivo. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, deve notarsi che la Suprema Corte sempre più spesso fonda la risarcibilità di interessi di incerta consistenza, o comunque di non facile riconducibilità ad un diritto soggettivo, ancorando gli stessi a diritti fondamentali: si pensi ad esempio al danno non patrimoniale da uccisione di congiunto in relazione al diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.
La rilevanza comunitaria non solo della concorrenza ma anche del consumatore non può dunque che costituire un ulteriore argomento a favore della particolare incisività della informativa prefettizia antimafia. Inoltre, negli ultimi anni la tutela della concorrenza ha acquistato nuova linfa e una centralità che non aveva prima della riforma del titolo V della Costituzione (riforma che introduce per la prima volta - nell’art. 117, comma 2, lett. e) della Costituzione . la parola concorrenza nella Legge fondamentale), mentre ha un rilievo di primo piano tra i principi fondanti il diritto comunitario. Ma, più che per la circostanza di essere per la prima volta citata nella Costituzione (trattandosi “semplicemente” di una norma relativa alla ripartizione di competenze legislative tra Stato e Regione, anche se l’assegnazione di tale competenza allo Stato e la sua dimensione trasversale acquisita nella giurisprudenza della Consulta le attribuiscono sicuramente una centralità nell’ordinamento costituzionale prima assolutamente sconosciuta) gli ultimi anni di attività della Costituzione dimostrano una importanza della concorrenza in virtù della valorizzazione della portata precettiva dell’art. 41 Cost.[31], che nel ventunesimo secolo ha conquistato nelle sentenze della Corte costituzionale una vitalità prima sconosciuta.
Pertanto, ed è questo il passaggio decisivo nel ragionamento della sentenza n. 57 del 2020 della Consulta, sia quanto al profilo della ragionevolezza (e quindi dell’art. 3 Cost.) sia quanto al profilo del sacrificio del diritto all’iniziativa economica (e quindi dell’art. 41 Cost., che peraltro non viene compromessa in perpetuo dato il carattere provvisorio della misura – dodici mesi l’informazione antimafia e sei mesi la comunicazione antimafia – proprio per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno irreversibile al destinatario dell’interdittiva antimafia prefettizia), la risposta amministrativa non si può ritenere sproporzionata rispetto ai valori che grazie a questa misura interdittiva sono tutelati, ossia da un lato la sicurezza, l’ordine pubblico, la pacifica convivenza, le esigenze di difesa sociale e di contrasto alla criminalità[32] e dall’altro la concorrenza e l’utilità sociale.
Pertanto, sempre secondo la citata sentenza Consulta, sarebbe erroneo limitare l’interdizione dell’attività economica dell’impresa mafiosa ai soli rapporti con la pubblica amministrazione, dovendosi ritenere altrettanto dannosa la semplice permanenza sul mercato dell’impresa mafiosa, perché ne altera il corretto funzionamento concorrenziale fondato sulla legge della domanda e dell’offerta, che dovrebbe premiare non l’impresa mafiosa ma l’impresa che è in grado di offrire sul mercato l’idea migliore alla migliore qualità e al miglior prezzo.
Ma la Corte costituzionale si spinge ancora oltre: il pericolo mafioso è in grado di incidere in maniera così incisiva sul corretto funzionamento del mercato che il danno che si determina investe non solo la concorrenza, ma anche la libertà e dignità umana[33]. Infatti, l’uscita dal mercato dell’impresa corretta e onesta (ad esempio a seguito del dumping posto in essere dall’impresa mafiosa) significano il fallimento dell’imprenditore e la disoccupazione per i suoi lavoratori, con inevitabili conseguenze in termini di povertà, frustrazione, sfiducia nelle istituzioni e nei propri ideali, tentazione di scendere a compromessi con le imprese mafiose e ad assoggettarsi alla sue regole pur di ottenere i mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia: tutto questo provoca la perdita non solo delle libertà economiche ma anche di quelle personali e quindi, in definitiva, della dignità dell’individuo. Se un vero e più profondo fondamento, allora, si vuole generalmente rinvenire nella legislazione antimafia e, particolarmente, nell’istituto dell’informazione prefettizia antimafia, esso davvero riposa nella dignità della persona, principio supremo del nostro ordinamento, il quale opera come limite all’attività di impresa, ai sensi dell’art. 41, comma 2, Cost., laddove la disposizione costituzionale prevede che l’iniziativa economica privata, libera, non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno – in un crescendo valoriale - alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana[34], principi che permeano l’intero ordine costituzionale, connotando la forma di Stato in termini di democrazia sostanziale e trovano uno specifico ambito di applicazione anche nelle disposizioni riguardanti le libertà economiche.
[1] Cass. pen., sez. I, 51489 del 29/11/2019 Ud. (dep. 20/12/2019), secondo cui il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso di cui all'art. 416-bis cod. pen. è configurabile con riferimento ad un'articolazione territoriale di una mafia storica (nella specie, una cosca tedesca di 'ndrangheta), allorché la stessa, per effetto del collegamento organico-funzionale con la casa-madre, dotato del carattere della riconoscibilità esterna e non limitato, pertanto, a forme di collegamento che si consumino soltanto al suo interno sul piano dell'adozione di moduli organizzativi e di rituali di adesione, si avvalga di una forza di intimidazione intrinseca che, pur non necessitando di forme eclatanti di esteriorizzazione del metodo mafioso, non consiste nella mera potenzialità, non esercitata e quindi meramente presuntiva, dell'impiego della forza, ma nella spendita d'una vera e propria fama criminale ereditata dalla casa-madre.
[2] S. Pellegrini, L'impresa grigia. Le infiltrazioni mafiose nell'economia legale, Ediesse, Roma, 2018, 55.
[3] La commistione da parte dell’impresa mafiosa tra affari leciti e illeciti e testimoniata da un nutrito indirizzo giurisprudenziale in tema di misure di prevenzioni patrimoniali che consente la confisca di tutto il patrimonio dell’impresa mafiosa quand’anche non sia possibile distinguere tra proventi frutto di attività lecita ed illecita: Cass. pen., sez. 6, n. 49750 del 04/07/2019 Cc. (dep. 06/12/2019), secondo cui in tema di misure di prevenzione patrimoniali, può essere disposta la confisca di tutto il patrimonio immobiliare e societario del proposto qualora l'apporto di componenti lecite si sia risolto nel consolidamento e nell'espansione della sistematica e reiterata attività di riciclaggio e di reimpiego di preponderanti capitali illeciti sì da non essere più scindibile la minoritaria quota lecita, stante il risultato sinergico dei capitali impiegati, determinante una loro inestricabile commistione e contaminazione; Cass. pen., sez. 5, n. 32017 del 08/03/2019 Cc. (dep. 18/07/2019), secondo cui in tema di misure di prevenzione patrimoniali, la confisca disposta ai sensi dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, di una impresa costituita in forma societaria che abbia stabilmente operato avvalendosi della forza di intimidazione di un'associazione mafiosa o, comunque, in cointeressenza con essa, si estende a tutto il patrimonio aziendale e a tutto il capitale sociale (ivi comprese le quote sociali intestate a terzi), nonostante l'origine lecita dei fondi impiegati per la sottoscrizione delle quote, laddove sia accertata la disponibilità sostanziale della impresa da parte del proposto o l'attività economica risulti condotta, sin dall'inizio, con mezzi illeciti.
[4] E. Saccà, Impresa individuale e societaria illecita, Milano, 1988, 127; V. Panuccio, Impresa illecita, in Enc. giur., Roma, 1989, XVI, 76.
[5] Si pensi ad esempio al caso di un imprenditore (ex) mafioso che decida di aprire un albergo sul lungomare di Ostia ed esercitare tale attività in maniera perfettamente lecita (senza assumere alcun dipendente in nero, perfettamente in regola con tutte le normative a tutela del lavoro, della prevenzione incendi, pagando regolarmente tutte le imposte di tutti i tipi etc.) che entri in concorrenza con un altro imprenditore non mafioso. Immaginiamo altresì per ipotesi che l’imprenditore mafioso non sfrutti in maniera particolare il suo pregresso patrimonio di conoscenze e che dunque i suoi vecchi “clientes” che vogliano andare in vacanza ad Ostia – come anche tutti gli altri villeggianti - non vadano per partito preso nel suo albergo ma scelgano l’albergo, come nei modelli astratti degli economisti puri, solo in ragione del miglior rapporto qualità-prezzo. E’ evidente che l’imprenditore (ex) mafioso non ha il problema – come quello non mafioso di andare in banca a chiedere un finanziamento per aprire l’albergo, di illustrare l’idea imprenditoriale per convincere il direttore a erogare il prestito e soprattutto non avrà il problema di restituire, con gli interessi, il prestito ricevuto, potendo contare sul proprio patrimonio precedentemente accumulato in attività illecite, che gli permetterà di offrire le sue camere doppie con servizio di mezza pensione in alta stagione a 100 euro a camera, quando il prezzo appena remunerativo, praticato anche dall’altro concorrente, sarebbe di 150 euro. L’imprenditore non mafioso, assillato dalla necessità di guadagnare per restituire il prestito alla banca e pagare tutti i costi fissi dell’albergo e posto davanti ad una scelta tra due alternative entrambe disastrose, continuare con il suo prezzo di 150 euro a notte, perdendo tutti i clienti o abbassare il prezzo a 100 euro sapendo però di poter resistere a quel prezzo per poco tempo: in quest’ultima ipotesi l’imprenditore (ex) mafioso, sapendo che il suo concorrente potrà resistere per poco, continuerà a tenere il prezzo ella camera doppia con mezza pensione a 100 euro fino a che il suo rivale non avrà chiuso l’albergo: a questo punto potrà immediatamente alzare i prezzi a 200 euro sfruttando la sua posizione dominante appena raggiunta. E’ evidente dunque che, non avendo egli più rapporti con ambienti mafiosi avendo egli tagliato tutti i ponti con le sue precedenti attività illecite, riuscirà anche ad ottenere una informativa antimafia prefettizia positiva: l’unica tutela per l’impresa non mafiosa e contare sulla tutela civilistica della concorrenza sleale e su quella pubblicistica della legge antitrust. Ma rileggendo con attenzione le massime di cui alla nota precedente ci si renderà conto che la tutela in realtà è offerta solo laddove la condotta di dumping integri effettivamente un abuso di posizione dominante, ossia quando la condotta anticoncorrenziale faccia sentire i suoi effetti sull’intero territorio nazionale o in una sua parte rilevante: nell’esempio appena fatto invece, in cui sono stati presi in considerazione solo due alberghi su uno stesso lungomare di una stessa località di villeggiatura è evidente che la legge antitrust non potrà trovare applicazione, perché, riprendendo le parole di Cass., SU, 4 febbraio 2005, n. 2207, “la legge antitrust non si occupa dell'intesa tra i barbieri di un piccolo paese”.
[6] Cass. 7 febbraio 2020, n. 2980, secondo cui la vendita sottoscosto o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi, è contraria ai doveri di correttezza ex art. 2598, comma 1, n. 3), c.c. solo se si connota come "illecito antitrust" (legge n. 287 del 1990), in quanto posta in essere da un'impresa in posizione dominante e praticata con finalità predatorie di soppressione della concorrenza, traducendosi così in un danno per i consumatori ed il mercato, realizzandosi in tale ipotesi l'illecito concorrenziale da "dumping" interno; Cass. 26 gennaio 2006, n. 1636, in Foro it., 2006, I, 687, sentenza secondo la quale la vendita sottocosto (o comunque a prezzi non immediatamente remunerativi) in tanto è contraria ai doveri di correttezza di cui all'art. 2598, numero 3, cod. civ., in quanto a porla in essere sia un'impresa che muove da una posizione di dominio e che, in tal modo, frapponga barriere all'ingresso di altri concorrenti sul mercato o comunque indebitamente abusi di quella sua posizione non avendo alcun interesse a praticare simili prezzi se non quello di eliminare i propri concorrenti per poi rialzare i prezzi approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare.
[7] Sottolineano questo aspetto le due sentenze della Corte costituzionale n. 57 del 2020 e n. 4 del 2018, le quali entrambe dichiarano infondate questioni di legittimità costituzionale dell’interdittiva prefettizia antimafia: la Consulta infatti, pur non negando che le garanzie del singolo imprenditore siano oggettivamente minori rispetto a quelle che sarebbero garantite da un procedimento amministrativo ma da un processo giurisdizionale, ammette che questo sacrificio del singolo si giustifica in relazione ad un bilanciamento di valori che impone di privilegiare le ragioni dell’urgenza e della possibilità per la collettività di agire su di un mercato ove non sia inquinato il gioco concorrenziale.
[8] E’ stato infatti evidenziato (Consiglio di Stato, sezione terza, sentenze 30 gennaio 2019, n. 758 e 3 aprile 2019, n. 2211), che l’interdittiva prefettizia antimafia implica una valutazione tecnico-discrezionale dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e se, da una parte, deve considerare una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d.lgs. n. 159 del 2011: quali i cosiddetti delitti spia), altri, a condotta libera, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che può desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d.lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata. La pubblica amministrazione è infatti tenuta a rispettare il principio fondamentale di legalità sostanziale, che presiede all’esercizio di ogni attività amministrativa e che si estrinseca nell’equilibrata ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, la libertà di impresa, da un lato, e la tutela dei fondamentali beni che presidiano il principio di legalità sostanziale. La prefettura è dunque tenuta ad una attenta valutazione di tali elementi attraverso una motivazione accurata ed esauriente, che deve offrire un quadro chiaro, completo e convincente delle ragioni dell’interdittiva antimafia, provvedimento amministrativo poi peraltro soggetto ad un vaglio della giurisdizione amministrativa pieno ed effettivo, perché il giudice amministrativo procede ad un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza. Il risultato di questo impegno è, secondo la Consulta, la individuazione di un nucleo consolidato (Consiglio di Stato, sezione terza, 5 settembre 2019, n. 6105) di situazioni indiziarie, che sviluppano e completano le indicazioni legislative, costruendo un sistema di tassatività sostanziale.
[9] Esistono infatti anche misure di prevenzioni estranee al codice antimafia: cfr. Corte cost. n. 195 del 2019 che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113 (Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, norma che ha ampliato l’elenco dei luoghi in relazione ai quali, al fine di tutelarne il decoro e la sicurezza pubblica, può trovare applicazione il divieto di accesso in specifiche aree urbane (il cosiddetto DASPO urbano). Il legislatore, nel contesto di un articolato intervento diretto a rafforzare la sicurezza nelle città, aveva introdotto questa speciale misura, mirata a tutelare anche il decoro di particolari luoghi (il cosiddetto DASPO urbano), conformandola al modello del divieto di accesso ai luoghi dove si svolgono manifestazioni sportive (DASPO), regolato dall’art. 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401 disposizione richiamata, in particolare, quanto al regime di convalida giudiziaria dei provvedimenti interdittivi e della ricorribilità per cassazione; Corte cost. n. 512 del 2002 che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive), sollevata, in riferimento all’art. 13, terzo comma, della Costituzione in quanto presupposto della eccezionale necessità ed urgenza, richiesto dall’art. 13 della Costituzione, affinché l’autorità di pubblica sicurezza possa temporaneamente adottare provvedimenti incidenti sulla libertà personale è pienamente vigente nell’ordinamento giuridico, rappresentando attualmente sia un presupposto dell’azione amministrativa, sia un criterio per il relativo giudizio di convalida effettuato dall’autorità giudiziaria. Come la Corte costituzionale ha già avuto modo di affermare con riferimento ad altre misure restrittive della libertà personale emanate da autorità di pubblica sicurezza (sentenza n. 64 del 1977), il fatto stesso che tali misure siano qualificate dalla legge come facoltative – come accade nel caso di specie – obbliga il soggetto titolare del potere a "verificare la ricorrenza in concreto della necessità ed urgenza dell’intervento", consentendo, conseguentemente al giudice della convalida di verificarne l’effettiva esistenza. Il fatto che la legge, in ossequio all’art. 13 della Costituzione, abbia definito tassativamente i casi in cui il questore può imporre l’obbligo di comparizione, implica infatti che la stessa autorità di pubblica sicurezza debba motivare il provvedimento in relazione all’esistenza di situazioni di eccezionale necessità ed urgenza. La non automaticità del provvedimento e, quindi, la necessità di una sua ponderata motivazione e conformazione, richiedono anzitutto che l’autorità amministrativa, in presenza di un soggetto al quale ha irrogato il divieto di accesso, valuti comunque le ragioni di necessità e di urgenza che richiedono anche l’adozione dell’obbligo di comparizione (e ciò a maggior ragione in seguito alla recente modifica, introdotta dal d.l. n. 336 del 2001, convertito, con modificazioni in legge n. 377 del 2001, in base alla quale il provvedimento può arrivare ad una durata massima di tre anni). In secondo luogo, spetterà alla autorità giudiziaria, in ossequio al sistema di garanzie previsto dall’art. 13 della Costituzione, valutare, in sede di convalida del provvedimento, la sussistenza delle condizioni richieste per la sua adozione sul piano della necessità ed urgenza, nonché l’adeguatezza del suo contenuto anche sotto il profilo della durata.
[10] Cfr. Cass. pen, Sez. 5, n. 50202 del 08/10/2019 Cc. (dep. 11/12/2019), secondo cui nel giudizio di prevenzione, considerata l'autonomia del procedimento rispetto al giudizio di merito, la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri prescritti dall'art. 192 cod. proc. pen., né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti.
[11] E.Gallo Misure di prevenzione, in Enc. Giur. Treccani, vol. XX, Roma 1990, appendice agg. 1996; G. Fiandaca, voce Misure di prevenzione, profili sostanziali, in Dig. delle Disc. Pen., vol. III, Torino 1994, 123.
[12] Cass. pen. Sez. 2, n. 27855 del 22/03/2019 Cc. (dep. 24/06/2019), secondo cui in tema di misure di prevenzione, l'appartenenza ad una associazione mafiosa integra un'ipotesi di pericolosità sociale qualificata anche quando la condotta del proposto, pur non riconducibile ad una vera e propria partecipazione al gruppo criminale, sia apprezzabile in termini di vicinanza all'associazione tale da risultare, attraverso un contributo fattivo alle attività ed allo sviluppo del sodalizio, funzionale agli interessi della stessa. (Fattispecie in cui la Corte, non ravvisando un conflitto di giudicati, ha ritenuto immune da censure la decisione di rigetto dell'istanza di revoca del decreto applicativo di misure di prevenzione personali e reali formulata da un proposto che, pur assolto da addebiti associativi, tuttavia risultava, sulla base di adeguata motivazione, aver tenuto una condotta di "vicinanza funzionale" ad una organizzazione mafiosa, desunta da fatti diversi ed antecedenti rispetto a quelli per i quali era stata pronunciata assoluzione in sede penale).
[13] Corte cost. n. 24 del 2019.
[14] CEDU, sentenza 23 febbraio 2017, De Tommaso contro Italia, par. 143. La Corte di Strasburgo, esaminando il ricorso del De Tommaso - soggetto cui era stata applicata da parte del Tribunale di Bari nel 2008 una misura di prevenzione personale ai sensi dell'art. 1 l.n.1423 del 1956 (cd. pericolosità generica) - ha ritenuto sussistente la violazione dell'art. 2 Prot. 4 Conv. EDU (disposizione che tutela la libertà di circolazione). In particolare, la violazione è stata ricollegata al giudizio negativo sui contenuti della previsione regolatrice interna, essendosi rilevato un deficit di chiarezza tale da determinare scarsa prevedibilità - in capo ai destinatari - delle conseguenze sfavorevoli delle proprie azioni, con eccesso di discrezionalità del giudice in sede di delibazione dei presupposti applicativi delle misure di prevenzione : [..]La Corte osserva che, nonostante il fatto che la Corte costituzionale sia intervenuta in diverse occasioni per chiarire i criteri da utilizzare per valutare se le misure di prevenzione fossero necessarie, l'applicazione di tali misure resta legata a un'analisi prospettica da parte dei tribunali nazionali, dato che né la Legge né la Corte costituzionale hanno individuato chiaramente le “prove fattuali” o le specifiche tipologie di comportamento di cui si deve tener conto al fine di valutare il pericolo che la persona rappresenta per la società e che può dar luogo a misure di prevenzione. La Corte ritiene pertanto che la Legge in questione non contenesse disposizioni sufficientemente dettagliate sui tipi di comportamento che dovevano essere considerati costituire un pericolo per la società.
[15] Si tratta in particolare degli artt. 1, 3 e 5, legge n. 1423 del 56 (oggi parzialmente trasposti negli artt. 1, 6 e 8 del d.lgs. 159 del 2011), che a giudizio della Corte EDU conferiscono un potere discrezionale assai ampio al giudice, ed hanno un coefficiente di prevedibilità troppo basso, con la conseguenza che al cittadino non è dato conformare con certezza ed a priori le proprie condotte al precetto normativo, in contrato con i principi espressi dagli artt. 6 (che afferma il principio nulla poena sine lege) e 7 della Carta EDU (che afferma il principio del diritto dell’imputato a un giusto processo) nonché – potrebbe aggiungersi - degli artt. 47-50 della carta di Nizza, che affermano analoghi principi. Si pensi ad es. all’indeterminatezza dell’art. 1 del d.lgs. 159 del 2011, secondo cui le misure di prevenzione si applicano a: «a) coloro che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi; b) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose…».
[16] Per quanto riguarda le misure imposte dai giudici di Strasburgo al Sig. De Tommaso, la Corte ha osservato che alcune di esse erano formulate in termini molto generici e che le prescrizioni erano estremamente vaghe e indeterminate; in particolare con riferimento all’obbligo di "condurre una vita onesta e rispettosa della legge " e di "non dare motivo di sospetto". E 'stato quindi impossibile per il Sig. De Tommaso verificare l’effettiva portata delle prescrizioni imposte con la sorveglianza speciale. La Corte ha ritenuto che la legge italiana aveva lasciato al giudice nazionale un potere discrezionale eccessivo e senza indicare con sufficiente chiarezza la portata di tale discrezionalità e le modalità del suo esercizio. La Cassazione a sezioni unite sembra aver recepito questa impostazione: cfr. Cass. pen., S.U., 27 aprile 2017, Paternò, che al quesito «se la norma incriminatrice di cui all’art. 75 d.lgs. n. 159 del 2011, che punisce la condotta di chi violi gli obblighi e le prescrizioni imposti con la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. cit., abbia ad oggetto anche la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”» ha dato risposta negativa, «in quanto trattasi di prescrizioni generiche e indeterminate, la cui violazione può tuttavia rilevare in sede di esecuzione del provvedimento ai fini dell’eventuale aggravamento della misura». In precedenza aveva invece affermato Cass. pen, 10 giugno 2015 n. 30398, D’Ippolito, che è “convenzionalmente” legittima l’applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all'entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poiché le stesse, in quanto connotate da natura preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di "pena" di cui all'art. 7 CEDU.
[17] Corte cost. n. 24 del 2019, cit., e 195 del 2019, cit.; Cass., sez. un., Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014 Cc. (dep. 02/02/2015), in dirittopenalecontemporaneo.it, 2014, con nota adesiva di F. Menditto, Le Sezioni unite verso lo statuto della confisca di prevenzione: la natura giuridica, la retroattività e la correlazione temporale; Cass. pen. Sez. 5 , n. 49479 del 13/11/2019 Cc. (dep. 05/12/2019) secondo cui in tema di confisca di prevenzione disposta nei confronti di soggetto indiziato di appartenere ad una associazione mafiosa, anche nel caso in cui la fattispecie concreta consenta di determinare il momento iniziale e finale della pericolosità qualificata, è legittimo disporre la misura ablativa su beni acquisiti in periodo successivo a quello di cessazione della pericolosità sociale, purché l'acquisto risulti effettuato attraverso il reimpiego dei frutti dell'attività illecita, da accertare sulla base di una pluralità di indici fattuali altamente dimostrativi della diretta derivazione causale delle acquisizioni patrimoniali dalla provvista formatasi nel periodo di compimento dell'attività delittuosa.
[18] Corte cost. n. 33 del 2018.
[19] Cass. pen., Sez. 1, n. 36499 del 06/06/2018 Cc. (dep. 30/07/2018), secondo cui, in tema di confisca disposta ai sensi dell'art. 12-sexies d.l. n. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992, il giudice non può esimersi dal considerare il momento di acquisizione del bene al fine di verificare che esso non risulti talmente lontano dall'epoca di commissione del "reato spia" da rendere "ictu oculi" irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da un'attività illecita, sia pure complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna.
[20] Corte cost. n. 4 del 2018 40 e 41 cost.
[21] Cass., sez. un. pen., n. 4880 del 2015.
[22] Il caso che ha dato origine al procedimento davanti al giudice ordinario che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale da cui è scaturita la sentenza n. 57 del 2020 nasce proprio dalla cancellazione di un artigiano dal relativo albo.
[23] Cass. pen., sez. II, 01/03/2018 Cc. (dep. 09/07/2018)
[24] Consiglio di Stato, sezione terza, sentenza 5 settembre 2019, n. 6105.
[25] L’art. 41 della Costituzione, formato da tre commi, è il frutto dell’accordo tra le tre anime presenti in sede di Assemblea Costituente, quella liberale (si pensi a Luigi Einaudi), di cui è espressione il co. 1 (libertà d’iniziativa economica), quella cattolica (si pensi a Alcìde De Gasperi), di cui è espressione il co. 2 (l’utilità sociale e i c.d. limiti “negativi” alla libertà d’iniziativa economica), quella comunista/socialista (si pensi a Palmiro Togliatti) di cui è espressione il co. 3 (c.d. limiti “positivi” alla libertà d’iniziativa economica): ogni anima dell’Assemblea Costituente ispira dunque in particolare un comma dell’art. 41, ma l’articolo va letto unitariamente e proprio da questa lettura complessiva emerge il tentativo, se non di una fusione armoniosa tra queste tre anime, di un “compromesso” (per citare la parola che usa Togliatti), in altre parole di un tentativo di instaurare una pacifica convivenza tra ideologie e principi apparentemente difficilmente conciliabili.
[26] L’esigenza di limitare il fenomeno mafioso consente anche di limitare il diritto costituzionale ad essere informati: Cass. pen. Sez. 1, n. 48522 del 11/10/2019 Cc. (dep. 28/11/2019), secondo cui è legittimo il provvedimento di parziale limitazione nella ricezione della stampa periodica (nella specie un settimanale nazionale), imposto ai sensi dell'art. 18-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, ad un detenuto in regime differenziato ex art. 41-bis della stessa legge, avente ad oggetto le sole parti dello stampato contenenti notizie su clan mafiosi i cui esponenti siano ristretti insieme al predetto, in quanto rispondente alle esigenze di prevenzione dei reati e di ordine e sicurezza interne dell'istituto, insite nella necessità di impedire che questi ultimi possano venire a conoscenza, per il tramite del medesimo, di fatti di cronaca concernenti la loro zona di provenienza, mantenendosi così aggiornati sulle relative dinamiche criminali e verificando l'esecuzione di eventuali ordini fatti pervenire all'esterno.
[27] L. Delli Priscoli, I diritti fondamentali della collettività, tra tutela del mercato da parte della Corte di Giustizia e dei diritti fondamentali dell’uomo da parte della Corte di Strasburgo, in Riv. dir. comm., 2018, I, 182.
[28] Cass., S.U., 4 febbraio 2005, n. 2207, in Giur. comm., 2006, II, 256, con nota adesiva di L. Delli Priscoli, Equilibrio del mercato ed equilibrio del contratto.
[29] Si tratta delle norme che rispettivamente vietano le intese, gli abusi di posizione dominante e le concentrazioni (artt. 2, 3 e 6 della legge n. 287 del 1990).
[30] Cfr. Cass., SU, 20 gennaio 1999, n. 500, Foro it., 1999, I, 2487, con nota adesiva di R. Pardolesi.
[31] Sulla riconducibilità della concorrenza all’art. 41 Cost. cfr. Corte cost. n. 56 del 2020; nn. 137 e 83 del 2018, sentenze secondo le quali la nozione di “concorrenza” comprende sia le misure legislative di tutela in senso proprio, intese a contrastare gli atti e i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati, sia le misure legislative di promozione, volte a eliminare limiti e vincoli alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, ovvero a prefigurare procedure concorsuali di garanzia che assicurino la più ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici.
[32] Corte cost. n. 18 del 2020; nn. 195, 187 e 99 del 2019, n. 211 del 2018; n. 76 del 2017; n. 63 del 2016, sentenze che specificano altresì che il perseguimento degli interessi costituzionali alla sicurezza, all’ordine pubblico e alla pacifica convivenza, infatti, è affidato dalla Costituzione in via esclusiva allo Stato (art. 117, primo comma, lettera h, Cost.). Si tratta di diritti fondamentali della collettività che sempre più spesso trovano spazio nelle sentenze della Corte costituzionali quali valori che entrano in bilanciamento e sono in grado di limitare diritti fondamentali del singolo. Tali diritti fondamentali della collettività non hanno un riferimento ad una precisa norma della costituzione semplicemente perché non possono essere confinate entro una sola norma in quanto trasversali a tutti i valori e a tutte le norme costituzionali. Una comunità in balia della criminalità, priva di ordine pubblico e ove non siano garantite la pacifica convivenza e vi sia disinteresse per la difesa sociale non sarebbe in grado di assicurare la tutela di alcun diritto fondamentale dell’individuo.
[33] Corte cost., n. 57 del 2020, cit.
[34] Consiglio di Stato, sez. III, sentenza 30 gennaio 2019, n. 758.