SOMMARIO:
1. Iniziativa economica e norme imperative di ordine pubblico economico – 2. La tutela dell’ambiente e della salute e il nuovo assetto dei limiti all’iniziativa economica – 3. Il mercato e il ruolo dell’imprenditore all’interno di esso – 4. Liberalizzazioni e regolazione del mercato – 5. La tutela del risparmio e il diritto degli investitori ad essere informati - 6. Riservatezza societaria e tutela della privacy dei soci - 7. Principio consensualistico, neoformalismo e smart contracts. - 8. La tutela del mercato nella prospettiva dell’Unione europea. - 9. La tutela del nucleo essenziale dei diritti fondamentali nel mercato.
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1. Iniziativa economica e norme imperative di ordine pubblico economico
In un saggio pubblicato nel secolo scorso, il mio Maestro Agostino Gambino aveva già intuito e tracciato le principali linee evolutive del diritto del mercato del ventunesimo secolo[1]. Osserva Gambino che quando l’esercizio dell’iniziativa economica è assistito dalla limitazione di responsabilità ai capitali investiti, quale naturale contrappeso alla minore garanzia offerta ai terzi la libertà di iniziativa economica ha trovato storicamente la sua concreta e profonda limitazione nel dovere di osservare regole giuridiche inderogabili; in effetti tale iniziativa economica è in grado di dare i suoi frutti solo grazie agli innumerevoli rapporti che l’imprenditore intreccia con i terzi nel contesto del mercato: il mercato del lavoro, che dà all’imprenditore lo strumento primario della produzione e il mercato dei beni e servizi nella duplice espressione dei fornitori dei capitali e degli strumenti produttivi e, al termine del ciclo, degli acquirenti e fruitori dei prodotti.
Il ventesimo secolo si contrappone al diciannovesimo – quest’ultimo fortemente caratterizzato dal liberismo – proprio per la consistente introduzione di queste regole inderogabili, che attenevano, nel campo del diritto delle procedure fallimentari alla tutela paritaria o differenziata dei terzi nei confronti dell’imprenditore in dissesto[2], nel campo del diritto del lavoro alla tutela dei lavoratori (con una massiccia legislazione speciale, all’interno della quale spiccavano la Carta del lavoro del 1927 e lo Statuto dei lavoratori del 1970)[3]; nel campo del diritto societario dapprima alla tutela delle minoranze dei soci mediante l’inderogabilità legislativa dell’articolazione di competenze nell’organizzazione delle società di capitali[4] e successivamente alla tutela di quegli stessi soci di minoranza ma anche dei potenziali investitori (non solo in azioni ma anche in obbligazioni societarie: e questa distinzione si sta progressivamente assottigliando, tanto che l’autonomia negoziale può dar luogo a forme ibride di titoli partecipativi) mediante una rigida disciplina informativa riguardante correttezza, verità e intelligibilità dei bilanci e in genere delle rappresentazioni contabili che orientano gli eventuali acquisti.
Conseguentemente, la giurisprudenza del secolo scorso, sulla base di questo assetto giuridico dei rapporti dell’imprenditore con i terzi, ha elaborato principi di ordine pubblico economico, che rappresentavano il nucleo essenziale delle norme inderogabili; nel ventunesimo secolo invece i principi di ordine pubblico economico relativi alla tutela dei soci di minoranza nel diritto societario e dei creditori nel diritto delle procedure concorsuali si sono attenuati (non necessariamente però a scapito degli interessi dei suddetti soci e creditori) per far posto all’autonomia privata e norme derogabili, mentre si sono invece sviluppati lungo la direttrice già tracciata degli obblighi informativi quanto ai soci di minoranza, agli investitori e ai contraenti “deboli” (non necessariamente consumatori anche imprenditori[5]) e lungo invece le direttrici inedite rappresentate da un lato dalla tutela della concorrenza e dall’altro dalla legislazione antimafia[6].
Nel ventesimo secolo viene data una lettura riduttiva e comunque non immediatamente precettiva ma meramente programmatica di molte norme della Costituzione: sostanzialmente ignorato è l’art. 47 Cost. (a mente del quale «la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito») mentre anche l’art. 41 Cost. trova scarsa applicazione sia nelle sentenze della Consulta che in quelle della Cassazione e scrive coerentemente Irti che in tale norma «manca la prospettiva orizzontale, dello svolgersi dell’iniziativa nei confronti di altri soggetti privati ... concorrenza e mercato, cioè i rapporti vicendevoli tra imprenditori ed i rapporti tra imprenditori e consumatori, rimangono estranei alla Carta repubblicana, che conosce soltanto il profilo protettivo della libertà»[7].
In effetti, la scelta dei Costituenti è stata nel senso di considerare l’iniziativa economica come libera[8], ma al contrario di molte libertà civili essa non è qualificata come inviolabile[9] (si vedano invece gli artt. 13, 14, 15 Cost., in tema rispettivamente di libertà personale, domicilio, corrispondenza); sono inoltre apprestati vincoli assai più rigidi e penetranti (cfr. commi 2 e 3 dell’art. 41 Cost.) di quelli previsti per le libertà civili; infine la Corte costituzionale non ha mai qualificato l’iniziativa economica come diritto fondamentale. Questi dati hanno fornito il fondamento giustificativo di quelle ricostruzioni che hanno assegnato alla predetta libertà uno status di libertà “dimidiata”, di un rango diverso ed inferiore rispetto alle libertà civili, non configurabile come diritto fondamentale[10].
Pertanto, fin dall’inizio l’art. 41 Cost., soprattutto per quanto riguarda il limite dell’“utilità sociale” ha avuto numerose critiche[11], per la sua formulazione “pericolosamente generica, troppo ampia, inconoscibile, indeterminata e indeterminabile: una norma che non ha significato è una norma per definizione anticostituzionale e arbitraria. Qualunque interpretazione darà il legislatore futuro alla norma essa sarà valida. Nessuna Corte giudiziaria potrà negarle validità, perché tutte le leggi saranno conformi a ciò”[12].
Proprio sull’onda di queste critiche, mai sopite, cominciate già durante i lavori della Costituente e arrivate ai giorni nostri mediante una serie di decreti legge, poi convertiti in legge, che hanno affermato, quanto ai limiti alla libertà di iniziativa economica privata, il principio della riserva di legge (è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge). In effetti, già dal 1964 (sentenza n. 40) la Corte costituzionale si era espressa nel senso che la riserva di legge nell’art. 41 Cost., pur senza che si possa negare una sua certa modulazione, rappresenta una costante, se non altro per l’espressione utilità sociale, la cui indubitabile indeterminatezza ne rende quanto meno complessa l’immediata operatività, implicando l’opportunità, se non la necessità, dell’intermediazione del legislatore. La novità di questa disciplina sta dunque nell’ancorare i limiti imponibili all’iniziativa economica alla protezione di ben definiti valori costituzionali, quali il lavoro, l’ambiente e la salute: non è sufficiente una qualsiasi legge dunque per porre un freno all’attività economica, occorre anche che quella legge abbia il chiaro obiettivo di tutelare i predetti valori.
L’esame della giurisprudenza costituzionale evidenzia innanzitutto un dato statistico incontrovertibile, ossia la circostanza che nel ventunesimo secolo sono notevolmente incrementate le questioni poste alla Corte costituzionale nelle quali viene indicato l’art. 41 Cost. (e in particolare il limite all’iniziativa economica rappresentato dall’utilità sociale) quale parametro alla luce del quale valutare la legittimità costituzionale di una norma. Più limitato invece è l’uso che Di tale norma fa la Cassazione, per lo più proprio solo nel richiamare il contenuto di sentenze della Corte costituzionale[13].
D’altro canto non va sottovalutato il fatto che anche la libertà di iniziativa economica ha avuto un notevole aumento di citazioni, sia nella legislazione che nelle sentenze della Consulta che in quelle della Cassazione[14], pur confermandosi della stessa sempre la stessa definizione: «il legislatore costituzionale ha opportunamente costruito tale libertà non come assoluta (ma a guardar bene in realtà non esistono libertà assolute - ossia senza limiti - nel nostro ordinamento), ma l’ha subordinata, fra l’altro, al vincolo costituito dal mancato contrasto con l’utilità sociale»[15].
In effetti, la giurisprudenza costituzionale in tema di restrizioni della libertà di iniziativa economica privata ne ha individuato il limite insuperabile nell’arbitrarietà e nell’incongruenza – e quindi nell’irragionevolezza – delle misure restrittive adottate per assicurare l’utilità sociale. La Corte costituzionale ha, infatti, «costantemente negato che sia “configurabile una lesione della libertà d’iniziativa economica allorché l’apposizione di limiti di ordine generale al suo esercizio corrisponda all’utilità sociale”, oltre, ovviamente, alla protezione di valori primari attinenti alla persona umana, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, Cost., purché, per un verso, l’individuazione dell’utilità sociale “non appaia arbitraria” e, “per altro verso, gli interventi del legislatore non la perseguano mediante misure palesemente incongrue”[16].
Fatto sta che nel ventunesimo secolo la Corte costituzionale parla di iniziativa economica e utilità sociale a proposito di salute, ambiente, lavoro, autonomia contrattuale, proprietà. In ogni caso, la giurisprudenza costituzionale ha evidenziato che ha ben poco senso - o forse non ne ha per nulla - considerare isolatamente le singole disposizioni dell’art. 41 Cost. Esse invece acquistano un significato tutto nuovo e per nulla contraddittorio e se lette unitariamente: esprimono una esigenza di bilanciamento tra i diversi valori in gioco, e in particolare tra quello dell’imprenditore e del professionista in genere a dar libero sfogo alla propria iniziativa economica e quella della collettività al rispetto di alcuni valori fondamentali, quali la salute e l’ambiente[17].
[1] A. Gambino, Imprenditore e mercato: iniziativa economica e regole giuridiche, in AA.VV., Il diritto della transizione, Kluwer Ipsoa, Milano, 1998, 25. Sia nel caso dei contratti atipici sia in quelli tipici, è possibile individuare la stessa gerarchia delle fonti che disciplinano il contratto: al primo posto vengono le leggi ordinarie che hanno carattere imperativo, poi le clausole stabilite dalle parti, poi ancora le leggi ordinarie che hanno carattere dispositivo e infine gli usi e l’equità (art. 1374 cod. civ.): in ogni caso l’autonomia delle parti incontra dunque un limite nelle norme imperative o inderogabili che dir si voglia.
[2] R. Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, I, Giuffré, Milano, 1974, 26. Il diritto fallimentare, tradizionalmente caratterizzato a differenza del diritto civile da norme inderogabili, mantiene tuttora, pur nell’assai rilevante contaminazione con norme che si aprono significativamente all’autonomia negoziale (cfr., ad esempio il D.L. n. 118 del 2021, convertito in legge n. 147 del 2021 che all’art. 2 introduce l’istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa), un nucleo forte di norme imperative dirette ad assicurare tendenzialmente la par condicio creditorum. In questo senso, sulla tuttora persistente rilevanza di norme imperative di ordine pubblico economico, cfr., ex plurimis, Cass. 5 agosto 2020, n. 16706, in Fall., 2021, 503, con nota adesiva di S. Delle Monache, Buon costume e fallimento, sentenza secondo cui in sede di insinuazione al passivo del fallimento, deve ritenersi nullo ex art. 1418 c.c. il titolo negoziale dissimulante un negozio di finanziamento (nella specie erogato in più tranches a fronte di forniture non eseguite) stipulato dall'imprenditore insolvente, in violazione del dovere di richiedere senza indugio il fallimento o comunque di non aggravare il dissesto dell'impresa con operazioni dilatorie, in quanto contrario a norme imperative, in particolare di natura penale, quali il divieto di aggravare il dissesto e di ordine pubblico economico, integrando la relativa stipula una fattispecie di reato (art. 217, comma 1, n. 4, della legge fallimentare), di cui è chiamato a rispondere, a titolo di concorso, anche il finanziatore.
[3] M. Barcellona, Ordine pubblico e diritto privato, Europa dir. priv., 2020, 939. Cfr. Cass. 8 aprile 1999, n. 3433, secondo cui l'art. 4 della legge 7 agosto 1982, n. 526 (secondo cui la retribuibilità del periodo destinato alle cure termali è sottoposta alla triplice condizione che: a)vi sia una malattia in atto accertata (secondo le modalità previste nello stesso articolo e cioè) da medici dipendenti della U.S.L. da questa indicati fra gli specialisti della patologia considerata, i quali abbiano autorizzato la relativa terapia; b)la malattia richieda effettivamente cure idrotermali; c) le cure suddette siano giudicate non rinviabili) pone una disciplina di ordine pubblico economico, non derogabile dalle parti.
[4] Cfr., ad esempio, Cass. 13 giugno 2017, n. 14695, secondo cui In tema di società di capitali, atteso che la norma che riserva all'assemblea la nomina e la revoca degli amministratori è inderogabile, in quanto di ordine pubblico economico per la sua incidenza su interessi generali della collettività, e che le deliberazioni dell'assemblea debbono essere inderogabilmente prese con l'osservanza del metodo collegiale, non può ammettersi che, attraverso singole clausole contrattuali, le parti possano giungere, di fatto, a svuotare la portata di tali principi; Cass. 29 dicembre 2011, n. 30020, secondo cui è nullo, in quanto contrario all'ordine pubblico economico, l'atto di compravendita delle quote di una società a responsabilità limitata concluso nonostante il regime di inalienabilità sancito dall'art. 2476 cod. civ. (il quale, nel testo anteriore alla riforma societaria, richiamava l'art. 2343 cod. civ.), per i casi in cui sia mancata la necessaria valutazione di congruità del conferimento da parte dell'organo amministrativo. Tale divieto, infatti, si fonda sull'esigenza di tutelare la società, garantendo l'effettività del capitale sociale, e, nel contempo, i terzi acquirenti delle partecipazioni sociali, operando a presidio dell'interesse generale e pubblico a che la circolazione delle medesime si attui secondo il regime della certezza del valore ad esse attribuito, a tutela dell'affidamento e non essendo il terzo legittimato ad accedere all'esame degli atti interni della società. Trattandosi di norma inderogabile, né lo statuto, né l'assemblea possono derogare al divieto e permettere la libera circolazione delle partecipazioni prima che il procedimento di verifica sia positivamente concluso, mentre la nullità della compravendita può essere dedotta da qualsiasi interessato e rilevata d'ufficio, anche in difetto di specifica domanda del terzo acquirente, sussistendo l'interesse dell'ordinamento a rimuovere l'atto per le turbative che la sua conservazione può creare nel sistema della circolazione delle partecipazioni sociali.
[5] Cfr. ad esempio Cass., 15 settembre 2017, n. 21476, secondo cui, in tema di leasing traslativo, risoltosi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, il patto c.d. di deduzione – per mezzo del quale deve essere riconosciuto al concedente l’importo complessivo dovuto dall’utilizzatore, a titolo di ratei scaduti e a scadere nonché quale prezzo del riscatto del bene, maggiorato degli interessi moratori convenzionali, anche se decurtato del prezzo di riallocazione del bene oggetto del contratto – è nullo per contrarietà all’ordine pubblico economico ed, in particolare, alla previsione di cui all’art. 1526 c.c., applicabile in via analogica a tutti i casi di risoluzione anticipata del contratto, anteriormente alla dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore.
[6] L. Delli Priscoli, Diritto di iniziativa economica dell’impresa sospettata di essere collusa con la mafia e diritto della collettività ad un mercato concorrenziale”, in Giur. comm., 2021, II, 41.
[7] N. Irti, Il diritto della transizione, in Riv. dir. priv., 1997, 11.
[8] Sono rare le Costituzioni ottocentesche che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa economica privata distinta e autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà, prevalendo il modello tradizionale dell’indistinzione o del riconoscimento implicito della libertà economica nella proclamazione del diritto di proprietà (cfr. R. Niro, Commento all’art. 41 Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Torino, 2006, 847).
[9] Non può poi non citarsi la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (c.d. CEDU che, pur essendo subordinata alla Costituzione, ha comunque un valore superiore rispetto agli atti avente forza di legge: cfr. Corte Cost. nn. 348 e 349 del 2007), il cui art. 16 stabilisce che “è riconosciuta la libertà d'impresa, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”: nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo quest’ultimo inciso determina la possibilità di una severa e significativa limitazione della libertà d’impresa in nome di una migliore protezione dei diritti fondamentali dell’uomo. Così, ad esempio, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all’epoca vigente, la Corte di Strasburgo (sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società democratica». La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall’art. 50 L.F. nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione». Cfr. L. Delli Priscoli, La rilevanza dello status nella protezione dei soggetti deboli nel quadro dei principi europei di rango costituzionale, in Riv. dir. comm., 2012, 322; H. Bonura, G. Fonderico, Amministrazioni pubbliche, società di capitali e libertà d'iniziativa economica, in Giur. comm., 2019, I, 985.
[10] Cfr. in questo senso M. Luciani, La produzione economica privata nel sistema costituzionale, Padova, 1983, 582.
[11] Cfr. E. Cheli, Libertà e limiti dell’iniziativa economica privata, in Rass. dir. pubbl., 1960, I, 300, che definisce la norma “indeterminata nel suo nucleo politico centrale” e “anfibologica”, suscettibile cioè di essere sviluppata in opposte direzioni.
[12] Cfr. Luigi Einaudi e il suo intervento nella seduta del 13 maggio 1947, in A.C., II, 39337-38. Egli affermava che le libertà civili e le libertà economiche sono reciprocamente dipendenti: ciascuna forma di libertà emerge solo in presenza delle altre e che una eccessiva compressione delle libertà economiche avrebbe inevitabilmente compromesso le altre.
[13] Cfr. ad es. Cass. S.U. 20 giugno 2012 n. 10130, che a proposito dell’indennità di espropriazione richiama la sentenza n. 348 del 2007 e conseguentemente il «ragionevole legame» con il valore di mercato; Cass. 5 maggio 2020 n. 8473, che a proposito del contratto di autotrasporto di cose e del relativo sistema di tabelle tariffarie (c.d. "a forcella", ossia con limiti massimi e minimi), richiama la sentenza n. 386 del 1996), affermando che il divieto di stipulazione di contratti che comportino prezzi di trasporto determinati fuori dei limiti massimi e minimi previsti dalle tabelle, il quale non è in contrasto con la libertà di iniziativa economica, garantendo alle imprese un certo margine di utile e la facoltà di muoversi liberamente tra i minimi e massimi tariffari, assicura il bilanciamento della libertà di impresa con l'utilità sociale, evitando situazioni di concorrenza sleale realizzata mediante il contenimento dei corrispettivi in pregiudizio potenziale della qualità e sicurezza del trasporto.
[14] Cfr., ex plurimis, Corte cost. nn. 287, 143, 141 del 2019; Cass. 27 aprile 2020, n. 8197; Cass. 7 febbraio 2020, n. 2980.
[15] Cfr., ex plurimis, Corte cost. n. 289 del 2010.
[16] Corte cost. n. 217 del 2021.
[17] Cfr. G. Amato, Il mercato nella Costituzione, in Quad. Cost. 1992, 17, il quale non negava certo che i costituenti, in assenza di una «cultura del mercato», avessero consapevolmente voluto lasciare al solo codice civile la tutela della concorrenza, «nella ovvia presunzione che essa corrisponda ad interessi privati, non pubblici»: l'intento era quello di difendere l'iniziativa economica privata dell'imprenditore assoggettandolo non alla concorrenza ma a controlli e indirizzi pubblici. Amato metteva anche in evidenza come, allo stato, nella produzione giuridica legata al diritto pubblico dell'economia, fosse regolarmente assente la tutela della concorrenza. Tuttavia Amato dimostrava di cogliere lo spirito dei tempi, segnalando che, per il tramite dell'allora Comunità europea, era ormai entrata in Italia la cultura del mercato e, con essa, «le regole per salvaguardarne la concorrenzialità e per ottenere, per questa strada, efficienza economica». Cfr. anche A. Iannotti della Valle, La tutela della concorrenza ai tempi di google android tra fondamenti costituzionale e analisi tecnologica, Dir. inform. inf., 2021, 283, Autore il quale evidenzia che nel testo originario della Costituzione repubblicana del 1948 non vi era alcun riferimento esplicito alla tutela della concorrenza e, nonostante la stessa potesse essere dedotta da alcune disposizioni, per lungo tempo il dibattito non è parso destare l'interesse della dottrina costituzionalistica. Un punto di svolta si è avuto certamente con l'entrata in vigore della legge n. 287 del 1990, recante norme per la tutela della concorrenza e del mercato, il cui art. 1 citava quale suo fondamento proprio l'art. 41 della Costituzione. Oggi un riferimento esplicito alla tutela della concorrenza in Costituzione è presente all'interno del nuovo art. 117 della Carta, in seguito alla legge cost. n. 3/2001. Tuttavia, si tratta di un richiamo effettuato solo nell'ambito della distribuzione di competenze tra Stato e Regioni, dunque almeno in apparenza non particolarmente significativo. Più precisamente, il richiamo è effettuato al comma 2, lett. e), che inserisce la tutela della concorrenza tra le materie a competenza esclusiva dello Stato. In realtà, il riferimento non alla concorrenza in sé, ma alla «tutela» della concorrenza, rende il richiamo più significativo di quanto possa sembrare a una prima lettura: la concorrenza, resa oggetto di tutela, diverrebbe così un bene costituzionalmente rilevante. A ben vedere, però, il fondamento costituzionale della concorrenza è da ricercarsi anche nel comma 1 di tale art. 117, che assoggetta formalmente l'Italia ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, e quindi, in ultima istanza, tale fondamento deve essere rinvenuto anche nel diritto dell'Unione europea.