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PENALE  

Il Trattato di Lisbona

  Penale 
 sabato, 28 ottobre 2017

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di ANDREA VENEGONI, magistrato addetto all'ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione

 
 

Questo è ciò che avviene nel 2007 con l’approvazione del Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, che rivoluziona la struttura dell’Unione: si supera, appunto, la suddivisione in pilastri; il quadro istituzionale diventa omogeneo e vi è una sostanziale unificazione del procedimento legislativo, nel senso di rendere generale – salvo eccezioni - quello che nel preesistente sistema era il “metodo comunitario” proprio del primo pilastro, con la proposta della Commissione e l’approvazione del Consiglio e del Parlamento. È superata anche la distinzione degli atti legislativi: gli stessi sono unificati nelle forme del regolamento e della direttiva.

Ma, soprattutto, in materia penale il Trattato di Lisbona prevede ora una competenza espressa ed esplicita dell’Unione negli artt. 82 e 83 TFUE, sia in campo sostanziale che processuale. Una competenza a dettare, con direttiva, norme minime comuni per ravvicinare le legislazioni degli Stati.
L’art. 82, in particolare, riguarda le norme processuali, mentre l’art. 83 le norme di diritto sostanziale. Riguardo a quest’ultima disposizione, è stato detto in dottrina che essa delinea due tipi di potestà dell’Unione in diritto penale sostanziale. Nel comma 1, in particolare, individua una competenza penale “diretta” o “primaria” per dettare norma minime comuni al fine di armonizzare le definizioni di vari reati gravi, di cui la norma contiene una lista esplicita. Molto interessante è, poi, il secondo comma, che individua una competenza penale “indiretta” o “secondaria” dell’Unione: secondo tale norma, l’Unione può intervenire con norme di diritto penale per tutelare beni e interessi dell’Unione di natura extrapenale, quando il ricorso al diritto penale assicuri una migliore e più efficace protezione degli stessi. È da notare la analogia di espressione con quanto la Corte di Giustizia aveva detto non solo fin dal 1989, nel caso del mais greco, ma anche con la sentenza del 2005 nel caso sulla protezione dell’ambiente, che il legislatore sembra, quindi, aver voluto tradurre in norma di legge.
Anche nel Trattato di Lisbona, però, il campo della lotta alle frodi si presenta come speciale. Esso è disciplinato in una norma esplicita, l’art. 325 TFUE. La stessa, oltre a prevedere gli obblighi già esistenti nei precedenti Trattati, non contiene più la esclusione degli interventi in diritto penale che era contenuta nel suo predecessore, l’art. 280 del Trattato CE. Secondo alcuni, ciò significa che tale norma rappresenta una base legale specifica per interventi legislativi nel campo della lotta alle frodi anche in diritto penale, che sarebbero sottratti quindi alle basi legali generali degli artt. 82 e 83 TFUE.
Non a caso, la prima proposta di direttiva adottata dalla Commissione Europea nel luglio 2012 nel campo della lotta alle frodi attraverso il diritto penale, si fonda proprio sull’art. 325 TFUE.
Si tratta, appunto, della proposta di direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione attraverso il diritto penale, generalmente nota come “proposta di direttiva PIF”.
Le differenze tra l’utilizzo dell’83 e dell’art. 325 TFUE, ovviamente nel solo campo della lotta alle frodi, sono notevoli: in particolare, secondo l’art. 83 gli atti possono essere adottati solo nella forma di direttiva, e quindi uno strumento non direttamente applicabile nei sistemi nazionali. L’art. 325, invece, non contiene tale limitazione; è stato così ipotizzato, anche se con tesi minoritaria, che, se si ammette che l’art. 325 TFUE possa fondare una potestà legislativa penale dell’Unione nella lotta alle frodi, ciò possa avvenire anche con atti diversi dalle direttive, ed in particolare proprio con un regolamento, atto che, però, avrebbe efficacia diretta nei sistemi nazionali. Peraltro, ciò non è avvenuto in occasione della adozione della sopra citata proposta di armonizzazione dei reati riguardanti la protezione degli interessi finanziari del 2012, che ha avuto, appunto, la forma di direttiva, per quanto adottata sulla base dell’art. 325 TFUE.
L’art 325 TFUE, tuttavia, in questa interpretazione più “estensiva”, avrebbe veramente la potenzialità per essere il fondamento di un autentico diritto penale europeo, almeno nello specifico settore della lotta alle frodi, potendo costituire la base legale per strumenti legislativi in diritto penale direttamente applicabili negli Stati membri, che a questo punto assicurerebbero l’uniformità della disciplina. Si tratterebbe, quindi, della completa realizzazione del diritto penale europeo e dell’area comune di giustizia penale.
Purtroppo, però, la realtà emersa finora è differente. Non solo la stessa Commissione Europea, che pure ha preso a base della proposta di direttiva PIF tale norma, non ha osato adottare sulla base di essa un regolamento, essendosi limitata, come detto, in una operazione di – seppure comprensibile – self restraint , ad adottare una proposta di direttiva, ma nel corso dei negoziati per l’approvazione della proposta, sia il Consiglio della UE, cioè gli Stati, che il Parlamento Europeo hanno dissentito sulla base legale, identificandola nel ben più restrittivo art 83 TFUE. Infatti quest’ultima norma, come ricordato sopra, non solo vincola l’atto alla forma della direttiva, ma prevede che lo strumento legislativo adottato in base ad esso possa prevedere solo “norme minime comuni” per l’armonizzazione del diritto penale degli Stati, una potenzialità quindi ben più modesta di quella che consentirebbe l’art. 325 nella sua massima estensione.
La direttiva è stata così approvata nel luglio 2017 sulla base dell’art. 83 TFUE ed il suo contenuto ne ha certamente risentito.

 
 
 
 
 
 

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