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Magistratura Indipendente

LAVORO  

Il tormentato capitolo della mora del creditore nel rapporto di lavoro

  Lavoro 
 lunedì, 8 giugno 2020

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di SALVATORE CASCIARO, Consigliere della Corte d’appello di Roma

 
 

 

Sommario: 1. La mora del creditore nel rapporto di lavoro: dubbi costituzionalità. - 2. Il revirement delle Sezioni Unite n. 2990 del 2018. - 3. L’evoluzione giurisprudenziale successiva. -  4.  I nodi irrisolti.

 

1. La mora del creditore nel rapporto di lavoro: dubbi costituzionalità.

  1. La questione della mora del creditore nel rapporto di lavoro è a dir poco tormentata nella giurisprudenza della Cassazione. L’indirizzo più risalente inquadrava la vicenda successiva all’accertamento dell’illegittimità (inefficacia o inopponibilità) della cessione d’azienda o di ramo d’azienda nel contesto dell’obbligazione risarcitoria. Il lavoratore, previa offerta della prestazione al datore di lavoro cedente, poteva agire, una volta ottenuta la pronuncia giudiziale a sé favorevole, non già per il pagamento delle retribuzioni maturate nei confronti del cedente, ma solo per il ristoro del danno. E, a riguardo, incideva (evidentemente) la misura della retribuzione erogata dal soggetto cessionario al dipendente ceduto: nel senso che, se questa non era inferiore rispetto a quella corrisposta dal cedente, nessun pregiudizio si era in concreto verificato. Si riteneva, in relazione al profilo della cessione d’azienda o di ramo d’azienda[1], che non potesse esserci obbligo retributivo per il cedente in difetto d’esecuzione della (contro)prestazione lavorativa, la quale, pur dopo la cessione del contratto ex art. 2112 c.c., restava unica ed era adempiuta dal lavoratore solo in favore del cessionario; invero, proprio perché con quest’ultimo proseguiva lo stesso rapporto di lavoro dapprima intercorso con il cedente, non potevano duplicarsi, a fronte di unicità della prestazione, le retribuzioni percepite dal lavoratore.

Altrimenti opinando, questi ne avrebbe tratto un’indebita locupletazione.

Tale impostazione presentava innegabili profili critici, indebolendo la tutela del lavoratore potenzialmente esposto, anche dopo la declaratoria giudiziale di inefficacia della cessione, all’arbitrio del datore di lavoro, il quale ultimo avrebbe potuto sottrarsi all’autorità della statuizione giurisdizionale restando esente, in tale eventualità, da conseguenze economiche per sé pregiudizievoli. Scongiurato il rischio di corrispondere la retribuzione il cui obbligo competeva esclusivamente al cessionario, ed esonerato da responsabilità per il ristoro del danno -non configurabile, s’è detto, laddove non vi fosse differenza tra la misura della retribuzione erogata dal cessionario e quella già corrisposta dal cedente-, il datore di lavoro poteva ben decidere di non conformarsi al dictum di merito, ed era conseguentemente vanificata (con serio vulnus per l’effettività della tutela giurisdizionale) l’utilità dell'azione di accertamento della illegittimità della cessione d’azienda.

La tesi secondo cui il datore aveva un mero obbligo risarcitorio rinveniva, nelle varie pronunce sul tema, unanime recepimento nella giurisprudenza di legittimità[2], che aveva sviluppato il suo percorso argomentativo evidenziando come l’elemento della corrispettività si atteggerebbe con tratti peculiari nel contratto di lavoro; l’indirizzo era divenuto fermo e imperante in guisa da integrare il “diritto vivente”.

Tanto che la Corte d’appello di Roma[3] aveva rimesso alla Corte costituzionale la questione del contrasto tra il “diritto vivente”, costituito dall’interpretazione degli articoli 1206, 1207 e 1217 c.c. nei sensi precisati, e gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (d’ora in poi più brevemente CEDU), censurando le citate disposizioni sulla mora del creditore alla stregua del presupposto che esse limitassero la tutela del lavoratore ceduto al risarcimento del danno anche dopo la sentenza che avesse accertato l’illegittimità o l’inefficacia/inopponibilità del trasferimento d’azienda.

Segnatamente, la Corte rimettente rilevava un contrasto:

a) con l’art. 3 Cost. a causa della ingiustificata ed irragionevole disparità di trattamento che verrebbe realizzata:

– sia rispetto alla disciplina della mora credendi in tutte le altre obbligazioni relative a rapporti contrattuali diversi da quelli di lavoro subordinato;

– sia rispetto alla disciplina delle conseguenze che, in tema di nullità del termine finale apposto al contratto di lavoro subordinato, derivano dalla sentenza (di merito) con cui venga dichiarata la nullità del termine per il periodo successivo alla sentenza medesima;

 b) con l’art. 24 Cost., atteso che la possibilità ivi riconosciuta a tutti di agire in giudizio per la tutela di diritti ed interessi postula che quest’ultima consenta di trarne un’utilità pratica giuridicamente apprezzabile (c.d. effettività della tutela giurisdizionale). Ed invece questa “effettività” sarebbe vanificata:

– sia perché al cedente verrebbe consentito (mediante specifici accordi con il cessionario) di sottrarsi ad libitum alla sentenza (anche passata in giudicato) con cui sia stata dichiarata la nullità o l’inefficacia o l’inopponibilità del trasferimento di ramo d’azienda nei confronti del lavoratore,

– sia perché, e di conseguenza, verrebbe eliminato in radice l’interesse concreto ad agire in giudizio in capo ai dipendenti del datore di lavoro cedente, vista l’inutilità della sentenza quand’anche favorevole, sicché la possibilità di agire in giudizio si tradurrebbe in “vuoto simulacro”;

 c) con l’art. 111 Cost., laddove prevede la garanzia del “giusto processo”, in quanto la “giustezza” del processo è strettamente e propriamente determinata dal grado di “effettività” della tutela che quel processo è (o dovrebbe essere) istituzionalmente in grado di offrire a chi agisce in giudizio;

d) con l’art. 117 Cost., per violazione dell’art. 6 della CEDU, che prevede il “diritto ad un processo equo”: tale può dirsi solo quello che consenta di ottenere la tutela specifica (ove giuridicamente possibile) e comunque più idonea a conseguire la concreta utilità che l’ordinamento riconosce sul piano del diritto sostanziale, in omaggio al carattere prettamente strumentale dei rimedi processuali rispetto alle situazioni giuridiche soggettive da tutelare.

Sennonché, la Corte costituzionale con sentenza 28 febbraio 2019, n. 29[4] dichiarava non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni prospettate dalla Corte rimettente, dando atto che il “diritto vivente” era nelle more sensibilmente mutato, consentendo così di risolvere in via interpretativa i dubbi di costituzionalità prospettati.

 

2. Il revirement delle Sezioni Unite n. 2990 del 2018.  

Sul tema in questione ha profondamente inciso la sentenza 7 febbraio 2018, n. 2990, pronunciata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione.

In tale pronuncia, le Sezioni Unite premettono che la qualificazione risarcitoria dell’obbligazione del cedente, tanto consolidata da avere indotto la Corte d’appello di Roma a sollevare questioni di legittimità costituzionale della normativa così intesa, si fonda essenzialmente sul principio di corrispettività che permea di sé il contratto di lavoro[5].

Alla stregua di tale principio, al di fuori delle eccezioni tassativamente previste dalla legge o dal contratto (come ad es. l’ipotesi del riposo settimanale ex art. 2108 c.c. o delle ferie annuali ex art. 2109 c.c.), il diritto alla retribuzione sorge soltanto quando la prestazione lavorativa sia stata effettivamente resa. In caso contrario sussiste, in capo al datore di lavoro, un obbligo di risarcire il danno. Ebbene, in una prospettiva costituzionalmente orientata, precisano però le Sezioni Unite, occorre rimeditare la regola della corrispettività nell'ipotesi di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa regolarmente offerta. Il riconoscimento di una tutela esclusivamente risarcitoria ridurrebbe sensibilmente l'efficacia dei rimedi che l'ordinamento appresta al lavoratore. Sul datore di lavoro, che persiste nel rifiuto di ricevere la prestazione lavorativa ritualmente offerta dopo l'accertamento giudiziale che ha ripristinato il vinculum iuris, deve ritenersi, dunque, che continui a gravare l'obbligo di corrispondere la retribuzione. Trattasi (a ben vedere) di puntuale applicazione, in difetto di deroghe espresse nella disciplina positiva, del disposto dell’art. 1453 c.c., che è la previsione di riferimento per la disciplina dell'inadempimento nei contratti a prestazioni corrispettive.

  1. Nella ricostruzione delle Sezioni Unite la disciplina del licenziamento illegittimo, che ascrive all’area del risarcimento del danno le indennità dovute dal datore di lavoro fino al dì della reintegrazione, non costituisce utile parametro di raffronto perché essa si configura in termini derogatori e tutt’affatto peculiari. Acquistano, per contro, valenza generale le affermazioni della Corte costituzionale[6] relative alle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine (art. 32, comma 5, della legge 4 novembre 2010, n. 183[7]), a tenore delle quali il danno forfetizzato dall'indennità in esame copre soltanto il periodo cosiddetto "intermedio", quello cioè che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la conversione del rapporto; mentre, per effetto della sentenza che rileva il vizio della pattuizione del termine ed instaura un contratto a tempo indeterminato, il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore, “in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in caso di mancata riammissione effettiva[8].

Da tali principi, sia pure riferiti al solo contratto a termine, le Sezioni Unite evincono, con portata tendenzialmente generale per tutte le ipotesi di riammissione in servizio del lavoratore non rientranti nel campo di applicazione dell’art. 18 St. lav.[9], l’obbligo del datore di lavoro moroso di corrispondere le retribuzioni al lavoratore che non sia stato riammesso in servizio neppure dopo la pronuncia del giudice che abbia ripristinato la vigenza dell'originario rapporto di lavoro. Rivestirebbe in questa prospettiva un ruolo decisivo l’accertamento del giudice che ristabilisce la lex contractus, accertamento che non può essere sminuito nella sua forza cogente (che precederebbe, si noti, il formarsi del giudicato) dal protrarsi dell'inosservanza.

Al profilo processuale fa riscontro poi, sul versante sostanziale, la particolare pregnanza dei diritti riconosciuti al lavoratore a fronte della mora del datore di lavoro. Tali diritti non si esauriscono nel rimedio risarcitorio, ma includono anche il diritto alla controprestazione in consonanza con i principi generali del diritto delle obbligazioni che, pur con le peculiarità connaturate alla specialità del rapporto di lavoro, perseguono anche in quest’ambito un’essenziale funzione di tutela. Una volta escluso che la richiesta di pagamento del lavoratore abbia titolo risarcitorio, non troverà più applicazione, invero, il principio della compensatio lucri cum damno su cui si fonda la detraibilità ex art. 1223 c.c. dell’aliunde perceptum dal risarcimento[10].

 

3. L’evoluzione giurisprudenziale successiva

L’elaborazione successiva della Cassazione ha anche fugato ulteriori suggestioni, come quella secondo cui a fronte dell’unicità del rapporto di lavoro, transitato per effetto della cessione d’azienda dal cedente al cessionario, unica dovrebbe essere la remunerazione spettante al dipendente ceduto.

Ed infatti, è stato opportunamente considerato che la circolazione del rapporto di lavoro si realizza[11] solo quando si perfeziona una fattispecie traslativa conforme al modello legale; diversamente, nel caso di invalidità della cessione (per mancanza dei requisiti richiesti dall’art. 2112 c.c.) e di inconfigurabilità di una cessione negoziale (per mancanza del consenso della parte ceduta quale elemento costitutivo della cessione), quel rapporto di lavoro non si trasferisce e resta nella titolarità dell'originario cedente[12]. Talché, accanto ad una prestazione “materialmente” resa in favore del soggetto con il quale il lavoratore, illegittimamente trasferito con la cessione di ramo d'azienda, abbia instaurato un rapporto di lavoro di fatto (art. 2126 c.c.), ve n’è un'altra “giuridicamente” resa in favore dell'originario datore con il quale il rapporto di lavoro è stato de iure (anche se non de facto, per rifiuto ingiustificato di quel datore) ripristinato, non meno rilevante sul piano del diritto.  A tale principio dà continuità la giurisprudenza successiva[13] secondo cui l’unicità del rapporto presuppone la legittimità della vicenda traslativa regolata dall’art. 2112 c.c.: sicché, una volta accertatane l’invalidità, il rapporto con il destinatario della cessione è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente (sebbene quiescente per l’illegittima cessione d’azienda fino a declaratoria giudiziale).

Ne consegue che al dipendente la retribuzione spetta tanto se la prestazione di lavoro sia effettivamente eseguita, tanto se il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei suoi confronti[14]. Tale mora si realizzerà mediante l'intimazione prevista dall’art. 1217 c.c., senza che occorra, per la liberazione del debitore dall’onere della controprestazione, una sentenza (passata in giudicato) di convalida dell’offerta della prestazione di lavoro; integrando, quest’ultima, un facere infungibile, che impone l’esecuzione di atti preparatori mediante la collaborazione del creditore, sarà insindacabile valutazione di merito l’accertamento dell’equiparazione della prestazione rifiutata alla prestazione effettivamente compiuta per tutto il tempo in  cui il creditore l’abbia resa impossibile non compiendo gli atti di cooperazione necessari[15].

Verrà così a configurarsi una vicenda analoga al rifiuto unilaterale del datore di lavoro di ricevere la prestazione di lavoro, situazione in cui notoriamente permangono immutati gli obblighi scaturenti dal rapporto e in particolare quello di corrispondere la retribuzione[16].

Né varrebbe richiamare, a favore del datore di lavoro cedente, l’istituto dell’adempimento del terzo con riferimento ai pagamenti comunque effettuati dal cessionario al lavoratore ceduto, pagando il terzo, ai sensi degli artt. 1180 e 2036 comma 3 c.c., un debito non proprio e non prevedendo la struttura del negozio, evidentemente, alcuna attribuzione patrimoniale a favore dello stesso solvens[17]; mentre nella specie, si noti, il non più cessionario compensa un’attività lavorativa direttamente resa a vantaggio dell'impresa di cui egli è titolare.

Parimenti non sono applicabili, secondo la giurisprudenza, le disposizioni contenute nel d. lgs. n. 276 del 2003, laddove all’art. 27, comma 2[18] (previsto in materia di somministrazione irregolare ma richiamato anche dall’art. 29, comma 3-bis, in tema di appalto illecito) stabilisce che “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.

Il meccanismo che consente l’incidenza liberatoria degli adempimenti comunque posti in essere dal somministratore o dall’appaltatore è stato infatti richiamato dalla sentenza n. 2990 del 2018 delle Sezioni Unite, cit., ma limitatamente ai “…pagamenti effettuati a vantaggio del soggetto che ha utilizzato effettivamente la prestazione”. Ebbene, il testo della disposizione di legge, che espressamente si riferisce alle fattispecie della somministrazione e dell’appalto, non ne consente l'applicazione diretta alla diversa ipotesi del trasferimento d'azienda. La dictio legis, che riconnette poi l’effetto liberatorio del pagamento esclusivamente in favore del soggetto che “…ha effettivamente utilizzato la prestazione”, esclude altresì un’interpretazione estensiva, e men che meno analogica, che consenta l’applicazione al caso della cessione di ramo d'azienda, ove l’impresa cedente, che dovrebbe beneficiare del pagamento altrui, non utilizza affatto la prestazione del lavoratore ceduto[19]. Tale percorso logico-giuridico, ripreso peraltro dal prevalente indirizzo del S.C.[20], consente alfine di concludere che, a seguito della sentenza di merito con cui venga dichiarata l’illegittimità della cessione del ramo d’azienda e venga ordinata la riammissione in servizio del dipendente ceduto, pur non suscettibile di esecuzione forzata (trattandosi di un facere infungibile), sorge pur sempre il diritto del lavoratore alla retribuzione, che resta inadempiuto pur a seguito dei pagamenti compiuti dal cessionario ex art. 2126 c.c..

 

 4.  I nodi irrisolti

L’obbligo retributivo si ripristina dunque dopo la sentenza di merito, anche se di primo grado, favorevole al lavoratore (che abbia dichiarato l’illegittimità, l’inefficacia o l’inopponibilità della cessione del ramo d’azienda).

Quid iuris se il lavoratore risulti soccombente nel giudizio di primo grado sulla (il)legittimità della cessione d’azienda ma vittorioso in appello, e se tale pronuncia in sede di gravame diventa definitiva?

Il lavoratore, conseguito il giudicato a sé favorevole, può pretendere le retribuzioni a far tempo dalla costituzione in mora o (quanto meno) dalla sentenza del tribunale (anche se a lui sfavorevole, perché integralmente “sostituita” dalla pronuncia in sede di gravame[21]), oppure può avanzare legittimamente le sue richieste retributive per il solo periodo che va dalla sentenza d’appello dichiarativa dell’illegittimità della cessione in poi?

Il principio di diritto espresso da Cass., Sez. Un., 2990/2018, cit., secondo cui “…in tema di interposizione di manodopera, ove ne venga accertata l'illegittimità e dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l'obbligo di quest’ultimo di corrispondere le retribuzioni, salvo gli effetti dell'art. 29 comma 3-bis d. lgs. n. 276/2003, a decorrere dalla messa in mora”, pur se correlato a un ragionamento che, richiamando la disposizione dell’art. 32 comma 5 l. n. 183, cit., fa perno sulla sentenza dichiarativa della fittizietà dell’interposizione di manodopera che ripristina la lex contractus, lascia, nella formulazione non del tutto perspicua, aperti margini per la “retrodatazione” degli effetti del ripristino del sinallagma genetico al dì della costituzione in mora.

Potrebbe allora valutarsi l’incidenza della statuizione d’appello che accerta l’illegittimità della cessione d’azienda, e ciò in quanto dopo il suo passaggio in giudicato gli effetti della pronuncia dovrebbero poter retroagire ex tunc al momento del compimento dell’atto nullo o inefficace. Logico corollario sarebbe ritenere che il dies a quo dell’obbligo retributivo differisca a seconda dei casi.

Se nel corso del giudizio sulla domanda di pagamento delle retribuzioni non può che individuarsi lo spartiacque tra obbligo risarcitorio e obbligo retributivo nel momento in cui viene resa “la sentenza che accerta il vincolo giuridico”, ancorché di primo grado, affermativa della illegittimità della cessione di ramo d’azienda, per contro, qualora sia intervenuto in pendenza del giudizio sulla domanda di pagamento delle retribuzioni il giudicato sull’illegittimità della cessione, questo dovrebbe riverberarsi anche sul periodo pregresso alla sentenza di merito favorevole al lavoratore, ripristinando l’obbligo datoriale di erogare le retribuzioni dal dì della costituzione in mora (da ritenersi implicita nella proposizione dell’azione volta a conseguire la pronuncia di illegittimità della cessione d’azienda o dell’interposizione di manodopera[22]).

Sia pure ex post, con la formazione del giudicato, le ragioni del datore di lavoro si riveleranno infondate, talché nella prospettiva ex tunc tipica delle sentenze dichiarative quei “motivi” ostativi addotti da parte datoriale non potrebbero più configurarsi come “legittimanti” ex art. 1206 c.c. il rifiuto della prestazione lavorativa ritualmente offerta dal lavoratore.

In definitiva, se è vero che il ripristino del sinallagma genetico si attua, secondo gli insegnamenti delle Sezioni Unite n. 2990/18, cit., con la sentenza dichiarativa dell’illegittimità della cessione d’azienda (o del ramo d’azienda), laddove intervenga, nel corso del giudizio per il pagamento delle retribuzioni, la res iudicata in punto di illegittimità della cessione d’azienda si potrebbe argomentare nel senso che il lavoratore possa pretendere il pagamento delle retribuzioni a far tempo dalla costituzione in mora. Opinare diversamente, e ritenere che il riferimento all’art. 32 comma 5, cit., miri essenzialmente a realizzare un equilibrato componimento dei contrapposti interessi[23], da un lato datoriali e dall’altro del prestatore di lavoro, al quale ultimo sarebbe assicurata la retribuzione solo per il posterius rispetto alla pronuncia di merito, sarebbe soluzione non conforme ai principi sulla cosa giudicata la cui efficacia retroagisce al dì del compimento dell’atto nullo.

A ben vedere, l’art. 32 comma 5 cit., come evocato a paradigma nella ricostruzione delle Sezioni Unite del 2018, consentirebbe di anticipare, seppure provvisoriamente e in deroga all’art. 2909 c.c., gli effetti della pronuncia accertativa sull’inefficacia della cessione d’azienda ex art. 2112 c.c.; e ciò in considerazione del fatto che, ove difettasse l’espressa regula iuris, l’art. 2909 c.c. non consentirebbe di attribuire effetto anticipato a una pronuncia di accertamento non ancora definitiva[24]. Il che non esclude, pur tuttavia, che il dictum di accertamento, divenuto res iudicata, dispieghi integralmente la sua efficacia connotando il rifiuto datoriale in termini di illegittimità fin dal dì dell’avvenuta costituzione in mora.



[1] Il principio era tuttavia esteso dalla giurisprudenza anche all’ipotesi dell’interposizione di manodopera ritenuta “fattispecie assimilabile” alla cessione di ramo d’azienda, v. Cass., 17 luglio 2008, n. 19740.

[2] Ex multis, Cass., Sez. Un., 27 luglio 1999, n. 508; Cass., 2 giugno 2000, n. 7382; Cass., 19 maggio 2001, n. 6879; Cass., 18 febbraio 2003, n. 2332; Cass., 17 luglio 2008 n. 19740; Cass., 9 settembre 2014 n. 18955; Cass., 10 maggio 2017, n. 11402; Cass., 25 giugno 2018, n. 16694.

[3] Cfr. App. Roma, ord. 2 ottobre 2017, in Riv. giur. lav., 2019, II, 330 ss., con nota di Bologna, e in Giur. it., 2018, 10, 2181, con nota di G. Lucchetti, Il “diritto vivente” sulla natura dei compensi da mancata ricostituzione del rapporto.

[4] Corte cost. n. 29/2019, cit., si può leggere in Riv. it. dir. lav., 3, 2019, pag. 406, con nota di M.G. Greco, Mora del creditore e rapporto di lavoro: la corte costituzionale avalla la svolta delle sezioni unite sulla natura retributiva delle pretese del lavoratore, e in Giur. cost., 1, 2019, pag. 375, con nota di R. Fabozzi, Ripristino del rapporto di lavoro e natura retributiva delle somme spettanti.

[5] In dottrina, cfr. G. Ghezzi, La mora del creditore nel rapporto di lavoro, Giuffrè, 1965, 120 ss.; L. Mengoni, In tema di “mora credendi” nel rapporto di lavoro, Temi, 1954, 580 ss..

[6] Cfr. Corte cost. sent. 11 novembre 2011 n. 303, in Riv. it. dir. lav., 2011, 4224.

[7] Cfr. ora l’art. 28, co. 2, d. lgs. 15 giungo 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell'articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”.

[8] Così testualmente Corte cost. sent. n. 303/2011, cit., al punto 3.3.1. del considerato in diritto.

[9] V. G. Sottile, Sulla natura retributiva delle somme spettanti al lavoratore riammesso in servizio al di fuori dell'ambito di applicazione dell’art. 18 l. n. 300/1970: il cambio di rotta delle sezioni unite in attesa della corte costituzionale, in Riv. it. dir. lav., 3, 2018, 606.

[10] Sul tema, da ultimo, L. La Battaglia, La compensatio lucri cum damno al vaglio delle Sezioni Unite (nota a Cassazione, Sez. Un., 22 maggio 2018, n. 12565), in Giur. comm., 2, 2020, 327, il quale osserva che, per l’operatività della fattispecie, “il vantaggio deve essere, dunque, “esterno” ed autonomo rispetto al danno, se pur a questo legato da una specifica relazione giuridica, idonea a giustificarne la “compensabilità”.

[11] Tale passaggio argomentativo è sviluppato da Cass. 7 agosto 2019, n. 21159, in motivazione.

[12] Cfr., a riguardo, Cass., 28 febbraio 2019, n. 5998.

[13] Cfr. Cass., 24 aprile 2020 n. 8162.

[14] V. Cass., 23 novembre 2006, n. 24886; Cass., 23 luglio 2008, n. 20316.

[15] Così Cass., 21159/2019, cit.; conf. Cass., 12 luglio 1968, n. 2474; in dottrina, V. Speziale, Mora del creditore e contratto di lavoro, Cacucci, 1992, 320; Id., La mora del creditore nelle interpretazione dei giuslavoristi, in QDLRI, 2014, 144, 693 ss.; contra, tuttavia, A. Falzea, L'offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Giuffrè, 1947, 110 ss., secondo cui il datore di lavoro in mora non conseguirebbe la prestazione dovuta, ma solo “la prontezza ad adempiere”, che non equivale all'adempimento costituendone piuttosto un surrogato, con la conseguenza che il prestatore di lavoro non avrebbe diritto alla retribuzione bensì al risarcimento del danno.

  1. [16] V. Cass., 11 aprile 1996, n. 3370; Cass., 19 maggio 2003, n. 7843; Cass., 9 agosto 2004, n. 15372; Cass., 11 aprile 2012, n, 5711.

[17] Cfr. Cass., Sez. Un. 18 marzo 2010, n. 6538; Cass., 7 marzo 2016, n. 4454; Cass., 6 ottobre 2017, n. 23439.

[18] V. ora l’art. 38, co. 3, d. lgs. n. 81/2015, cit..

[19] Così, quasi testualmente, Cass., n. 21158/2019, cit., in motivazione. Contra, tuttavia, Cass., ord. 31 maggio 2018 n. 14019; Cass., ord. 1 giugno 2018, n. 14136 che, con indirizzo minoritario, estendono la portata dell’art. 29, comma 3-bis, cit., anche ai pagamenti effettuati dal cessionario successivamente alla cessione del ramo d'azienda dichiarata inopponibile, inefficace o nulla, e ciò alla stregua del rilievo secondo cui “…una ed una sola essendo la prestazione lavorativa che il lavoratore svolge nel ramo (illegittimamente) ceduto, il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario costituisce un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo, cui consegue la liberazione del vero obbligato, in applicazione del medesimo principio generale previsto dall'art. 1180 c.c., comma 1, c.c.. Con la conseguenza che il lavoratore non potrà ottenere dal cedente la medesima retribuzione già corrispostagli dal cessionario, ma solo le differenze rispetto a quanto avrebbe percepito alle dipendenze del primo”.

[20] Cfr. Cass., 8 aprile 2019, n. 9747; Cass., 3 luglio 2019 n. 17784; Cass. n. 21158/2019, cit., a tenore della quale “…in caso di accertata illegittimità della cessione di ramo d’azienda, le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell'alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa, in quanto l'invalidità della cessione determina l'istaurazione di un diverso ed autonomo rapporto di lavoro, in via di mero fatto, con il cessionario”.

[21] La sentenza d’appello implica proprio il prodursi dell'effetto sostitutivo, in virtù del quale la nuova pronuncia, vertendo sul medesimo oggetto della precedente, comporta la rimozione di questa non soltanto "dalla scena del processo", ma altresì dal mondo giuridico: cfr. F. Damiani, Note sull’effetto sostitutivo dell’appello, in Riv. dir. proc., 2009, 6, 1466.

[22] Cfr. Cass., 9 maggio 2001, n. 6879; Cass., 18 maggio 2006, n. 11670.

[23] Affronta, sia pure in termini generali, il tema “dei delicati bilanciamenti tra valori tutti meritevoli di tutela che il costituzionalismo multilivello oggi impone” G. Fiandaca, in http://dirittodidifesa.eu/estremismo-dellantimafia-e-funzione-di-magistrato-di-giovanni-fiandaca/.

[24] V. Cass., Sez. 2, 26 marzo 2009, n. 7369; Cass., Sez. 3, sent. 15 novembre 2013, n. 25743; Cass., Sez. 6, ord. 18 gennaio 2018, n. 1211 le quali affermano, ribadendo un indirizzo consolidato, che la pronuncia dichiarativa non ha generalmente, salvo espresse deroghe, l’idoneità, con riferimento all'art. 282 c.p.c., all’efficacia anticipata rispetto al momento del passaggio in giudicato e pertanto fino al momento della definitività della sentenza di accertamento –che, in quanto tale, deve acquisire quel grado di stabilità che si identifica con il giudicato formale (art. 324 c.p.c.), in funzione di quello sostanziale (art. 2909 c.c.)- non dispiega la sua efficacia.

 

 
 
 
 
 
 

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RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

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