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Magistratura Indipendente

PENALE  

Il Sostituto Procuratore e le tentazioni del nuovo art. 407 comma 3 bis c.p.p.

  Penale 
 lunedì, 15 gennaio 2018

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Carlo INTROVIGNE, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Aosta

“Et ne nos inducas in tentationem, sed libera nos a malo..."
Così termina, nella traduzione italiana, la preghiera che Gesù ci ha insegnato – con un invito al Padre Nostro che è nei cieli a far sì che non cadiamo in tentazione, stando alla larga dal male.

E così si trova a dire il tipico Sostituto Procuratore della nostra amata Repubblica, di fronte alla novella che ha introdotto il comma 3 bis nel disposto dell’art. 407 c.p.p. .
Il titolo del pezzo, lungi dal voler essere blasfemo, desidera accendere una luce critica sulla diabolica “tentazione” cui d’ora innanzi sarà pericolosamente esposto ogni Pubblico Ministero: quella di richiedere l’archiviazione a fronte di notizie di reato pur fondate, all’unico fine di evitare guai che, indipendentemente da quanto impegni egli possa profondere, pendono sul suo capo sin dall’attimo in cui firma l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Breve introduzione a beneficio di chi comprensibilmente non è avvezzo alle dinamiche della procedura penale ed in particolare delle indagini preliminari.
Ricevuta la notizia di reato, il Pubblico Ministero la iscrive “immediatamente” nel registro delle indagini preliminari (art. 335 c.p.p.) e da quel momento inizia, avvalendosi della Polizia Giudiziaria, ad approfondirla in vista delle determinazioni circa l’esercizio dell’azione penale – obbligatorie in forza dell’art. 112 Costituzione.
In estrema sintesi, il P.M. dopo aver indagato – ed averlo fatto nei termini di cui all’art. 407 c.p.p. a pena di inutilizzabilità degli atti raccolti fuori tempo massimo – ha due semplici alternative: richiedere al G.I.P. l’archiviazione del procedimento oppure “esercitare l’azione penale”,  cioè sottoporre una o più imputazioni al vaglio di un Giudice.
Se esercita l’azione penale, salva l’adozione di riti alternativi su cui non mi dilungo non essendo questa la sede per un trattatello di procedura, il P.M. è tenuto previamente ad inviare all’indagato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari (art. 415 bis c.p.p.); dalla ricezione di questo atto, che contiene numerosi avvertimenti in funzione di garanzia, l’indagato ed il difensore nel termine di venti giorni potranno prendere visioni di quanto contenuto nel fascicolo del Pubblico Ministero, presentare memorie, produrre documenti, richiedere di essere sottoposti ad interrogatorio – incombente questo cui il magistrato inquirente deve obbligatoriamente procedere entro trenta giorni dalla richiesta.
Per essere assai poco tecnici, se in questo lasso di tempo indagato e difensore non riescono a convincere il P.M. a richiedere l’archiviazione, il magistrato inquirente “esercita l’azione penale” nei modi sopra descritti, cioè richiedendo al Giudice per l’udienza Preliminare (G.U.P.) l’emissione di un decreto che dispone il giudizio oppure – per le fattispecie di minor gravità, elencate dall’art. 550 c.p.p. – procedendo con citazione diretta a giudizio. 

Fin qui tutto bene ma la Riforma Orlando – legge n. 103 del 23 giugno 2017, entrata in vigore dal 3 agosto u.s. – ha introdotto nel corpo dell’art. 407 c.p.p. un nuovo comma 3 bis che recita “In ogni caso il Pubblico Ministero è tenuto ad esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e comunque alla scadenza dei termini di cui all’art. 415 bis… Ove non assuma le proprie determinazioni nel termine stabilito dal presente comma il Pubblico Ministero ne dà tempestiva comunicazione al Procuratore Generale presso la Corte d’appello”.
Ora è chiaro che la novella funge da severo monito al Pubblico Ministero a non far passare inutilmente i “tre mesi dalla scadenza.. dei termini di cui all’art. 415 bis” senza assumere le sue determinazioni in merito all’esercizio dell’azione penale, pena una sorta di obbligo di auto denuncia della propria inadempienza al Procuratore Generale.
La novella in teoria è stata introdotta nell’ottica di maggior tutela del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, comunemente inteso come ragionevole durata del procedimento – termine quest’ultimo che rimanendo nell’ambito della procedura penale copre tutto l’arco temporale che va dall’iscrizione della notizia di reato al passaggio in giudicato della sentenza. 
Si dirà giusto, giustissimo, bene bravi bis. Del resto sono ampiamente note e diffuse tra i cittadini le lagnanze a proposito della lunga durata dei procedimenti giudiziari, con tutto quanto ne consegue in termini di infauste ricadute per l’economia nazionale e la sicurezza pubblica.
Il legislatore ha buon gioco nel presentarsi al pubblico degli elettori con una norma che all’apparenza incentiva i vertici dirigenziali della magistratura inquirente a stare “con il fiato sul collo” dei Sostituti Procuratori affinché, una volta concluse le indagini – con l’emissione dell’avviso ex art. 415 bis – non si dimentichino del fascicolo. La ragionevole durata del processo (si legga procedimento) va in sofferenza se una volta concluse le indagini tutto si arena in qualche armadio polveroso di Segreteria, senza essere portato all’attenzione di un Giudice perché questi renda giustizia,  decidendo se applicare la pena ed eventualmente se disporre un risarcimento della persona offesa, se costituita parte civile. 
La novella pare rispondere ad un’esigenza reale ed essere meritevole di plauso, ma come dice il preverbio non tutto è oro quello che luccica.  C’è un particolare di non poco momento che ci sfugge! L’interpretazione che si è data del nuovo comma 3 bis ed in particolare della locuzione “scadenza dei termini.. di cui all’art. 415 bis” – in attesa di un qui invocato intervento chiarificatore della Procura Generale presso la Corte di Cassazione –  è stata nel senso di ritenere che il termine decorra non già dalla data della notifica all’indagato dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ma dalla firma dello stesso atto ad opera del Pubblico Ministero.
Non si vuole tediare nessuno con i tecnicismi, ma la conseguenza è dirompente.
Si noti che nessun Sostituto Procuratore della Repubblica ha desiderio ardente di auto-denunciare al superiore del suo superiore gerarchico – cioè al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello – quella che di fatto sembra una sua mancanza, per poi dovergli illustrare in un procedimento disciplinare dagli esiti incerti perché e per come di una sua mancanza non si tratti.
Ma se i “tre mesi dalla scadenza del termine.. di cui all’art. 415 bis” partono dalla firma del provvedimento anziché dalla notifica al destinatario – un vero e proprio assurdo giuridico a parere di chi scrive, trattandosi pacificamente di atto recettizio – il P.M. e la sua Segreteria già oberata di incombenze si trasformano in supervisori postali, per altro con limitatissimi poteri di intervento a fronte di carenze e lungaggini altrui.
Mi spiego meglio: la notifica all’indagato dell’avviso ex art. 415 bis avviene solitamente a mezzo UNEP – Ufficiali Giudiziari – per il circondario di competenza, e tramite Polizia Giudiziaria – spesso la Stazione CC competente per territorio – negli altri casi. Se le locali Poste e/o la Stazione dei Carabinieri non eseguono celermente il compito affidatogli, per i più disparati ed eventualmente anche validi motivi, P.M. e Segreteria non hanno grandi alternative a sollecitare, sollecitare e sollecitare ancora, con dispendio di energie e significativa produzione di carta spesso inutile.
Non parliamo poi del caso in cui l’indagato risulti irreperibile all’indirizzo di residenza o magari all’estero, con necessità di procedere nelle complesse forme di cui agli artt. 159-160 c.p.p., che prevedono in estrema sintesi (non si vuole tediare nessuno ma è d’obbligo dar conto della complessità del meccanismo):
- l’emissione da parte del Pubblico Ministero di un decreto con cui si dispongono le ricerche, con verifica presso l’ultimo luogo di residenza, l’ultimo domicilio se noto ed il D.A.P. – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria;
- la ricezione da parte di un verbale di vane ricerche redatto dalla P.G. – chi scrive è un P.M. di poca esperienza ma non ha mai avuto la fortuna di vedere ricerche andate a buon fine, salvo il caso che il ricercato si trovi in carcere ma non è certo l’accertamento al D.A.P., che ha un sistema informatizzato, a portare via molto tempo;
- l’emissione di un decreto di irreperibilità, con il quale si assegna all’indagato un difensore d’ufficio se ne è privo e si dispone che a questi siano effettuate le notifiche;
- la notifica al difensore, per l’indagato irreperibile, dell’avviso ex art. 415 bis.
Finalmente, dopo venti giorni da questo ultimo adempimento, si potrà esercitare l’azione penale nei modi sopra descritti ed il P.M. potrà dire di aver raggiunto il traguardo della corsa a ostacoli. 
Sorvolando per pura compiacenza sul fatto che molto spesso nel contesto di un procedimento penale gli indagati sono più di uno ed a volte sono anche piuttosto numerosi, con necessità di notificare l’avviso ex art. 415 bis a tutti singolarmente e facendo per ciascuno decorrere i termini di legge, si accettano scommesse sulla possibilità di svolgere tutti i passaggi della descritta procedura in novanta giorni dalla firma apposta sull’avviso di conclusione delle indagini.

Si possono a questo punto tirare le fila del breve discorso. Il Pubblico Ministero a fronte del nuovo comma 3 bis dell’art. 407 si va a cacciare in un potenziale guaio ogni qual volta firma un avviso di conclusione delle indagini preliminari; ciò che è peggio, si tratta di un impaccio dal quale non può sapere se sarà in grado di cavarsi sulla base delle sue sole forze ed a prescindere dalla dedizione e dall’impegno che profonderà.
Ecco qui apparire la potenziale tentazione: al di fuori dei rari casi in cui insieme alla notizia di reato pervenga l’elezione di domicilio dell’indagato presso il difensore – cui le notifiche si fanno via PEC – per il P.M. che non sia del tutto ripugnato dai fatti esposti nella notizia di reato sarà di gran lunga preferibile una “lungimirante” richiesta di archiviazione del procedimento, a tutto vantaggio del suo riposar tranquillo ma a grande detrimento della sicurezza dei cittadini e della legalità sostanziale.

In chiusura, poiché non v’è sana critica che non proponga soluzioni, si auspica un celere intervento chiarificatore della Procura Generale presso la Corte di Cassazione o ancor meglio del legislatore, che precisi in senso ragionevole – e con sano equilibrio fra garantismo e pragmatismo – l’interpretazione da dare al dettato del nuovo art. 407 co 3 bis c.p.p.. Sarà importante che ciò avvenga in via anticipata rispetto all’elaborazione dei “protocolli” – fra Procura Generale e Procure del Distretto per la trasmissione degli elenchi di cui all’art. 407 co 3 bis – cui fa riferimento la parte conclusiva dell’art. 21 della Circolare del C.S.M. del 16 novembre 2017 (Elaborazione di una risoluzione unitaria in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero).

Il presente contributo non è e non vuole apparire come l’ennesima lagnanza del magistrato fannullone di fronte alle iniziative del legislatore volte a garantire la ragionevole durata del processo (procedimento). È evidente che nessun P.M. di onesti intendimenti auspica che la sua indagine, una volta conclusa, marcisca in un armadio in attesa di una notifica-Godot che non arriva mai.
Tuttavia, la soluzione al problema non può essere individuata sic et simpliciter nell’interpretazione data al nuovo comma 3 bis dell’art. 407 c.p.p., per almeno due buoni motivi: non solo si introduce una forma di responsabilità oggettiva in capo al P.M. per fatto (notifica) altrui, ma soprattutto si spinge il sistema verso l’illegalità sostanziale nel momento in cui il magistrato inquirente è indotto alla malefica tentazione già descritta, cioè cercare un buon motivo per l’archiviazione.

Molto modestamente, si tratteggiano alcune soluzioni che appaiono ragionevoli per contemperare le esigenze di celerità con quelle di buon andamento del sistema giustizia:
- in primo luogo l’introduzione, necessaria da subito, di un termine differenziato per il caso di irreperibilità dell’indagato e necessaria attivazione della sopra descritta procedura ex artt. 159-160 c.p.p.;
- eventualmente, l’introduzione di un ulteriore differenziazione di termini per le notifiche da eseguirsi rispettivamente all’interno ed all’esterno del circondario di competenza;
- la fissazione di un termine anche molto breve, es. 5-10 giorni, per la trasmissione ad opera della Segreteria del P.M. dell’avviso ex art. 415 bis firmato dal magistrato a chi dovrà occuparsi della notifica (questo sì adempimento che può essere tenuto sotto controllo dall’organo inquirente, che come si vede non è pregiudizievolmente contrario a nuovi adempimenti di cui farsi carico, purché si tratti di lavoro esigibile);
- infine, un termine ordinatorio entro il quale l’ufficiale giudiziario o la P.G. delegata, ricevuto dalla Segreteria del P.M. l’avviso da notificare, debbano procedere all’incombenza o altrimenti comunicare di non aver reperito il destinatario – sul punto potrebbe introdursi un meccanismo simile a quello dell’art. 328 c.p., per cui il pubblico dipendente deve compiere l’atto richiesto per ragioni di giustizia entro un termine prestabilito, oppure esporre per iscritto le ragioni del ritardo;

Queste in sintesi, ed in prima lettura, le modifiche che si auspicano introdotte dal legislatore o – con normazione secondaria – dalla Procura Generale per mezzo di circolare interpretativa.
Nell’attesa, l’unica via per il buon Pubblico Ministero è quella di recitare un Padre Nostro  ogni qual volta si approccia ad un nuovo fascicolo… et ne nos inducas in tentationem!

 
 
 
 
 
 

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