Sommario:
1. Il quadro normativo.
2. Per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 25-bis.
3. Sull’illegittimità del requisito ultra legem introdotto dal Consiglio.
4. Riflessioni finali.
1. Il quadro normativo.
Il nuovo art. 25-bis del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 ha introdotto il tanto sospirato istituto della riabilitazione per le sanzioni disciplinari dell’ammonimento e della censura.
La disposizione in particolare statuisce “1. La condanna disciplinare che ha comportato l'applicazione della sanzione disciplinare dell'ammonimento perde ogni effetto dopo che siano trascorsi tre anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva. 2. La condanna disciplinare che ha comportato l'applicazione della sanzione disciplinare della censura perde ogni effetto dopo che siano trascorsi cinque anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva. 3. Per i magistrati che hanno conseguito la settima valutazione di professionalità, la riabilitazione di cui ai commi 1 e 2 è subordinata, oltre che al decorso del termine di cui ai medesimi commi 1 e 2, alla positiva valutazione del loro successivo percorso professionale nelle forme e nei modi stabiliti dal Consiglio superiore della magistratura 4. Il Consiglio superiore della magistratura stabilisce le forme e i modi per l'accertamento delle condizioni previste per la riabilitazione di cui al presente articolo, comunque assicurando che vi si provveda in occasione del primo procedimento in cui ciò sia rilevante”.
Con la Circolare n. P. 5162 del 15 marzo 2024 (Attuazione dell'art. 25-bis, comma 4 del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, introdotto dall'art. 11, comma 1, lettera f, della Legge 17 giugno 2022 n. 71) il C.S.M. ha dato pronta attuazione all’ultima parte del terzo comma ed al quarto comma dell’art.25-bis.
Restano tuttavia a mio avviso delle perplessità sia attuative che interpretative, che in questo breve scritto mi propongo di mettere in luce.
2. Per un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 25-bis.
La prima questione riguarda l’interpretazione fornita dalla Circolare all’espressione “a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva”, che si rintraccia nel primo come nel secondo comma dell’art. 25-bis.
Sul punto è doveroso richiamare il testo della relazione illustrativa che accompagna l’approvazione della Circolare:
“Come già evidenziato, del tutto diverso è il tenore della norma primaria per quanto attiene alla posizione degli aspiranti alla riabilitazione che hanno ancora in corso le loro valutazioni di professionalità “ordinarie”. Per queste situazioni è stato infatti previsto (ai primi due commi dell’art. 25-bis D. Lgs. n. 109/2006) che, in aggiunta alla condizione temporale di carattere oggettivo (decorso dei termini di 5 o 3 anni dalla data di irrevocabilità della condanna disciplinare), la riabilitazione potrà essere conseguita all’ulteriore condizione che il magistrato interessato abbia conseguito una “successiva valutazione di professionalità positiva”, senza ulteriori indicazioni o puntualizzazioni circa la decorrenza e, comunque, l’effettiva estensione del periodo in riferimento al quale debba intervenire tale valutazione positiva. È stato quindi chiarito, al primo comma dell’articolo 2 della Circolare, che tale valutazione di professionalità “ordinaria” rilevante ai fini della riabilitazione è quella deliberata dal Consiglio successivamente alla data di irrevocabilità della condanna disciplinare, in quanto, come già evidenziato, solo da tale momento la condanna produrre effetti definitivi nel percorso professionale del magistrato”.
La soluzione proposta dalla Circolare appare fedele al tenore letterale dell’art. 25-bis (perde ogni effetto dopo che siano trascorsi tre anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva), ma non alla ratio dell’istituto della riabilitazione in sede disciplinare.
Viene in rilievo a tal fine la lettera dell’art. 87 del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), rubricato “Riabilitazione”, il quale recita “Trascorsi due anni dalla data dell'atto con cui fu inflitta la sanzione disciplinare e sempre che l'impiegato abbia riportato nei due anni la qualifica di ‘ottimo’, possono essere resi nulli gli effetti di essa, esclusa ogni efficacia retroattiva; possono altresì essere modificati i giudizi complessivi riportati dall'impiegato dopo la sanzione ed in conseguenza di questa. Il provvedimento è adottato con decreto ministeriale, sentiti il Consiglio di amministrazione e la Commissione di disciplina”.
Così anche il d.lgs.16 aprile 1994, n. 297 (testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado), che all’art. 501 (rubricato “Riabilitazione”) stabilisce “Trascorsi due anni dalla data dell'atto con cui fu inflitta la sanzione disciplinare, il dipendente che, a giudizio del comitato per la valutazione del servizio, abbia mantenuto condotta meritevole, può chiedere che siano resi nulli gli effetti della sanzione”
Analoga disposizione è rinvenibile nel d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66, il cui articolo 1369 (rubricato “Cessazione degli effetti delle sanzioni disciplinari di corpo”) prevede “I militari possono chiedere la cessazione di ogni effetto delle sanzioni trascritte nella documentazione personale. L'istanza relativa può essere presentata, per via gerarchica, al Ministro della difesa dopo almeno due anni di servizio dalla data della comunicazione della punizione, se il militare non ha riportato, in tale periodo, sanzioni disciplinari diverse dal richiamo… In caso di accoglimento dell'istanza le annotazioni relative alla sanzione inflitta sono eliminate dalla documentazione personale, esclusa peraltro ogni efficacia retroattiva”.
Suggestivo in tal senso è anche l’art. 57 del d.lgs. 28 giugno 2005, n. 139, disposizione che, seppur non rivolta a dipendenti pubblici, prevede “II professionista radiato dall'Albo o dall'elenco può essere riammesso, purché siano trascorsi almeno sei anni dal provvedimento di radiazione. In ogni caso, deve risultare che il radiato ha tenuto, dopo la radiazione, condotta irreprensibile”.
La somiglianza strutturale e funzionale tra le disposizioni appena richiamate e l’art. 25-bis è evidente (nonostante quanto si dirà più avanti in ordine alla sentenza del 22 giugno 1992, n. 289 della Corte Costituzionale).
L’art. 87 tuttavia condiziona chiaramente la proponibilità dell’istanza di riabilitazione alla duplice condizione del decorso di due anni dalla data dell’atto di inflizione della sanzione ed al conseguimento in tali due anni di valutazioni positive. Similmente l’art. 501 prevede un identico lasso temporale, nel quale è sufficiente che si sia mantenuta una condotta meritevole. Di analogo tenore è il summenzionato articolo 1369 (che addirittura non postula ai fini dell’accoglimento successive valutazioni positive, ma solo la mancata irrogazione di ulteriori sanzioni disciplinari diverse dal richiamo).
Tutte le disposizioni richiamate, dunque, delineano l’orizzonte temporale rilevante ai fini dell’accertamento della “buona condotta” (e dunque ai fini della concessione della riabilitazione disciplinare) al periodo immediatamente successivo all’atto di inflizione della sanzione.
La Circolare del C.S.M. propone di individuare la valutazione di professionalità rilevante ai fini della riabilitazione in quella successiva non alla sentenza disciplinare di condanna (atto di inflizione della sanzione), ma al momento in cui essa è divenuta irrevocabile.
Sebbene, come si diceva, una simile interpretazione può apparire la più fedele alla lettera della legge, essa tuttavia rischia di essere foriera di effetti perniciosi e financo di dubbia costituzionalità.
Individuare la valutazione di professionalità rilevante ai fini della riabilitazione in quella successiva al momento in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile (e dunque all’esaurimento del giudizio innanzi alle Sezioni Unite ex art. 24 del Codice disciplinare) rischia infatti di tradursi in una concreta compressione del diritto dell’incolpato ad avvalersi dello strumento di gravame.
Sebbene infatti l’art. 24 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 stabilisca che la Suprema Corte “decide a sezioni unite civili, entro sei mesi dalla data di proposizione del ricorso”, i tempi di definizione dei processi da parte delle Sezioni Unite sono mediamente un po’ più lunghi (solitamente un anno).
Tuttavia, in caso di accoglimento del ricorso, alla fase rescindente segue quella rescissoria (nuovamente davanti alla Sezione Disciplinare del CSM).
Ne discende come i tempi di definizione dell’impugnazione possano dilatarsi notevolmente.
Pertanto per le sanzioni minori (le uniche oggetto di riabilitazione ) individuare la valutazione di professionalità rilevante ai fini della riabilitazione in quella successiva al momento in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile significa porre l’incolpato innanzi alla difficile scelta tra il far valere il proprio diritto costituzionale ad impugnare la decisione disciplinare innanzi all’organo giurisdizionale di legittimità o l’accelerare i tempi per il conseguimento dell’effetto demolitorio della sanzione comminatagli.
La compressione del diritto di difesa è evidente.
Si potrebbe obiettare che anche l’art. 179 del codice penale, subordinando l’accesso alla riabilitazione all’avvenuta esecuzione della pena principale (o alla sua estinzione per altra causa), pone le medesime problematiche e che della sua legittimità costituzionale, tuttavia, non si è mai dubitato.
In quest’ottica, tuttavia, appare doveroso rimarcare le differenze tra le ratio (pur contigue) che informano l’istituto della riabilitazione in sede penale ed in sede disciplinare, intuibili già dalla piana lettura delle rispettive discipline.
La riabilitazione penale, invero, “estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna” (art.178 c.p.). Cancella, quindi, le incapacità giuridiche del condannato, ma non elimina la condanna, che continua ad esistere, come confermato dalla persistenza di tutti quegli effetti giuridici che non sono rimossi dal beneficio estintivo e dalla possibilità di reviviscenza del titolo-sentenza in caso di revoca della riabilitazione ([i]).
Con l’espressione “ogni altro effetto penale”, poi, il legislatore si riferisce a tutti gli effetti che discendono direttamente dalla sentenza di condanna, comportando una diminuzione della capacità giuridica del condannato. Si ritiene concordemente che la riabilitazione non estingua, invece, gli effetti non penali della condanna, tra i quali si annoverano le incapacità giuridiche che non si producono ope legis, necessariamente e in modo completamente automatico, ma, ad esempio, in virtù di un provvedimento disciplinare o di un atto discrezionale della p.a. ([ii]).
La funzione primaria dell’istituto è dunque il reinserimento sociale del condannato, attraverso l’eliminazione degli ostacoli alla vita di relazione e allo svolgimento di attività lavorativa creati sia dalle pene accessorie, sia dagli altri effetti penali della condanna ([iii]).
La riabilitazione disciplinare, al contrario, ha effetti molto più radicali e connotazioni funzionali distinte.
Invero ai sensi del summenzionato art. 78 ad essere “resi nulli” (ex nunc) sono gli stessi effetti della sanzione disciplinare (dunque della “pena principale”). Tale riabilitazione inoltre determina l’insorgere della possibilità che siano “modificati i giudizi complessivi riportati dall'impiegato dopo la sanzione ed in conseguenza di questa”, operando dunque potenzialmente in senso retroattivo sulle valutazioni professionali.
In modo analogo il succitato art. 1369 determina “la cessazione di ogni effetto delle sanzioni trascritte nella documentazione personale”. Parimenti l’art. 501, già richiamato, prevede che “siano resi nulli gli effetti della sanzione”.
Non dissimile a ben vedere è il tenore letterale dell’art. 25-bis, il quale stabilisce “La condanna disciplinare che ha comportato l'applicazione della sanzione disciplinare dell'ammonimento perde ogni effetto”.
Ad essere nullificati in quest’ultimo caso sono dunque addirittura non i soli effetti della sanzione, ma la stessa condanna (cioè, la sentenza).
La diversità effettuale disegnata dalle disposizioni relative all’istituto della riabilitazione disciplinare rispetto a quella propria della riabilitazione penale svela la differente funzione perseguita dal primo istituto rispetto al secondo.
Se con la riabilitazione penale, come detto, il legislatore mira al reinserimento sociale del condannato (finalità perseguibile solo a seguito di avvenuta esecuzione della pena o estinzione della stessa), con la riabilitazione disciplinare il fine avuto di mira è quello di rimettere il condannato nello status quo ante, obliterando la stessa condanna (o sanzione che ad essa consegue) ed ogni effetto diretto o riflesso della stessa sulla carriera e sulle valutazioni professionali del reo.
Vista in questa prospettiva, ben si comprende perché una disposizione che individui il dies a quo per proporre l’istanza riabilitante nella data di definitività della pronunzia punitiva, se non presenta profili di illegittimità costituzionale in ambito penale, li presenta al contrario certamente in ambito disciplinare.
Meglio sarebbe pertanto un’interpretazione ortopedica della lettera dell’art. 25-bis, che individuasse la valutazione di professionalità legittimante in quella immediatamente successiva alla sentenza disciplinare (in modo non dissimile dal dettato dell’art. 87 e delle altre disposizioni summenzionate in materia di riabilitazione disciplinare).
Tale soluzione presenterebbe poi un ulteriore vantaggio equitativo.
Assumendo a parametro la valutazione di professionalità immediatamente successiva alla decisione che commina la sanzione (in luogo di quella più distante della valutazione di professionalità successiva all’irretrattabilità della decisione) assumerebbero rilevanza e valore tutte le condotte virtuose e conformi ai parametri valutativi poste in essere dall’incolpato subito dopo la reprimenda.
In effetti una simile opzione interpretativa non pare impraticabile.
In primo luogo, invero, essa assume i contorni di una soluzione ermeneutica conforme alla lettera dell’art. 24 e 111 della Costituzione e sistematicamente coerente con la lettera dell’art. 87 del Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, dell’art. 1369 del Codice penale militare e dell’art. 501 del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado.
In secondo luogo, come si è detto, tale soluzione appare più coerente con la ratio dell’istituto, che è intesa a valutare le condotte più prossime al rilievo disciplinare.
In terzo luogo, si deve osservare come la stessa lettera dell’art. 25-bis non precluda una tale soluzione neppure in chiave letterale.
Ed invero nello stabilire “La condanna disciplinare che ha comportato l'applicazione della sanzione disciplinare dell'ammonimento perde ogni effetto dopo che siano trascorsi tre anni dalla data in cui la sentenza disciplinare di condanna è divenuta irrevocabile, a condizione che il magistrato consegua una successiva valutazione di professionalità positiva” la disposizione non riferisce espressamente il termine “successiva” all’ultimo significante della preposizione che lo precede (“irrevocabile”), ben potendosi allora ritenere che il riferimento temporale sia inteso con riguardo al lessema ancora precedente “sentenza”.
In questa lente sarebbe ben possibile che la seconda condizione (valutazione positiva successiva alla sentenza disciplinare) si inveri in un momento anteriore al verificarsi della prima condizione (decorso dei 3 o 5 anni dall’irrevocabilità della decisione disciplinare).
Una simile soluzione interpretativa, è bene chiarirlo, non elide il problema di fondo, che è costituito dalla sostanziale illegittimità costituzionale dell’art. 25-bis nella parte in cui ancora il dies a quo per la formulazione dell’istanza all’irrevocabilità della sentenza di condanna in luogo che alla data della pronunzia della stessa.
La disposizione invero (come già illustrato) è e resta in violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione e forse anche dell’art.3, assumendosi come norma-parametro l’art. 87 del Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato, l’art.1369 del Codice dell'ordinamento militare e l’art. 501 del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado.
Con riferimento all’art. 87, è vero che la Corte Costituzionale con sentenza n. 289 del 1992 ha escluso l’applicabilità di tale ultima disposizione ai magistrati in ragione della seguente motivazione “Del resto, se si può ammettere che la riabilitazione, come istituto in sé considerato, sia espressione di un principio generale e di un'esigenza che, ancorché non rispondenti ad alcuna norma costituzionale, possono comunque trovar applicazione anche all'interno di un sistema disciplinare ispirato a paradigmi giurisdizionali, come quello previsto per i magistrati, ciò non può significare affatto che la raffigurazione di quell'istituto generale sia perfettamente rispecchiata nella particolare fattispecie regolata dall'impugnato art. 87. Infatti, se è ben vero che in ciascuna delle forme di riabilitazione previste nell’ordinamento vigente - segnatamente sia nella riabilitazione penale (art. 178 c.p.) e in quella civile (art. 466 c.c.), sia nella riabilitazione dei pubblici impiegati (art. 87, del d.P.R. n. 3 del 1957) e in quella del fallito (artt. 142-145 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267) - si riscontra un nucleo normativo comune, tanto con riferimento ai presupposti per l’applicazione (decorso del tempo e valutazione della buona condotta) quanto con riferimento agli effetti (estinzione di specifiche incapacità giuridiche e di effetti ulteriori rispetto alla sanzione principale della condanna), non è meno vero che ciascuna delle forme di riabilitazione indicate costituiscono un modello a sé, composto da una diversa combinazione e da una diversa determinazione degli elementi essenziali sopra ricordati. E non vi è dubbio che la scelta di un modello ovvero di un altro e, persino, la scelta di affidare alla riabilitazione ovvero a meccanismi diversi l’eliminazione degli effetti ulteriori della condanna disciplinare spettano al legislatore, il quale, nell'esercizio non irragionevole della sua discrezionalità politica, deve valutare quale istituto o quale modello sia più coerente con il sistema disciplinare considerato”.
Tuttavia, è altrettanto vero che da tale passaggio motivazionale non è lecito inferire che la Corte abbia ritenuto ammissibile che il Legislatore congegnasse in futuro la figura della riabilitazione disciplinare forgiata ad hoc per la Magistratura in chiave compressiva dei diritti di difesa costituzionalmente presidiati.
Pacifici invero la differenza di status e di natura dei procedimenti disciplinari tra impiegati di Stato, militari, insegnanti e magistrati, insormontabile resta la considerazione della disparità di trattamento laddove si ancori il dies a quo del termine utile per la riabilitazione per i primi a prescindere dalla definitività del provvedimento amministrativo-sanzionatorio e per i secondi solo al consolidarsi del giudicato disciplinare.
Tanto premesso, se è vero che la soluzione interpretativa qui proposta non vale a sanare quella che (a mio avviso) è un’incostituzionalità di fondo dell’art.25-bis; tuttavia, non vi è dubbio che essa ridurrebbe il margine di iniquità intrinseco nella normativa primaria, determinando una corretta contrazione dei termini per il conseguimento del beneficio.
3. Sull’illegittimità del requisito ultra legem introdotto dal Consiglio.
È ora possibile passare a vagliare un secondo elemento di criticità che a mio avviso è rinvenibile nella Circolare in esame.
Si riporta qui di seguito il passaggio della Relazione Illustrativa in discorso:
“È stata inoltre indicata l’ulteriore condizione che, in sede di valutazione di professionalità del magistrato, risulti comunque “valutato il fatto oggetto della condanna disciplinare. La puntualizzazione è apparsa indispensabile in coerenza con la ratio sottesa al nuovo istituto della riabilitazione disciplinare, e a fronte di alcune incertezze interpretative suscitate dal tenore strettamente letterale della norma primaria qui in attuazione operativa. Da un lato, per i magistrati che hanno già conseguito la settima valutazione di professionalità, il legislatore è chiaro nell’indicare il loro “successivo percorso professionale” quale oggetto di necessario scrutinio in sede di accertamento delle condizioni per accedere all’istituto riabilitativo. Il mero riferimento, invece, alla “successiva valutazione di professionalità positiva” previsto per gli altri casi non consente, in via interpretativa, l’indicazione di puntuali intervalli temporali che debbano costituire oggetto di tale valutazione, ma impone, però, di ritenere necessario che la stessa abbia almeno considerato e valutato, nell’ottica dello scrutinio di professionalità dell’interessato, il fatto o la condotta già oggetto di condanna disciplinare e ne abbia, quindi, apprezzato l’impatto nel profilo professionale del riabilitando. Del resto, diversamente argomentando, risulterebbe del tutto priva di logica giuridica, e comunque in chiaro contrasto con la ratio sottesa all’istituto, una eventuale pronuncia di riabilitazione fondata sul mero decorso del tempo indicato dalla legge (5 o 3 anni dalla data di irrevocabilità della condanna) e su una valutazione di professionalità positiva deliberata dopo il decorso dei predetti termini ma avente ad oggetto, per ipotesi, un quadriennio (o un biennio, o un anno, a seconda delle situazioni previste dalla circolare di riferimento) di attività temporalmente antecedente rispetto alla data di pronuncia della sentenza o alla stessa data di commissione dell’illecito disciplinare”.
Le motivazioni poste a fondamento delle conclusioni cui giunge la Circolare sono parzialmente condivisibili.
Lo sono in particolare nella misura in cui essa rimarca la necessità che le valutazioni di professionalità che legittimano l’istanza di riabilitazione debbano avere ad oggetto, almeno in parte, un arco di tempo posteriore alla data in cui fu comminata la sanzione.
Una simile considerazione, d’altronde, consente di armonizzare il sistema riabilitativo dei magistrati con quello di tutti gli altri dipendenti pubblici.
Invero il summenzionato art. 87, come già chiarito, richiede due valutazioni positive nei due anni successivi alla comminatoria della sanzione.
Orbene, poiché normalmente la performance organizzativa e individuale viene valutata annualmente, non vi è dubbio che l’art. 87 postuli ai fini della riabilitazione che le valutazioni positive abbiano ad oggetto i due anni immediatamente successivi all’inflizione della sanzione disciplinare.
Anche le altre disposizioni summenzionate parimenti relative a dipendenti pubblici rimarcano come l’orizzonte temporale da vagliare per apprezzare la buona condotta del reo debba essere necessariamente successivo all’adozione dell’atto afflittivo.
In questo quadro l’osservazione prospettata dalla Circolare consente di giungere ad un’interpretazione sistematicamente armonica dell’istituto della riabilitazione disciplinare in ambito pubblicistico.
Diversamente deve ritenersi per il passaggio che evidenzia la necessità che la valutazione di professionalità legittimante “risulti comunque aver valutato il fatto oggetto della condanna disciplinare”.
Mi pare francamente un requisito non necessario e snaturante, se assumiamo (com’è doveroso fare) da un lato che il giudizio disciplinare e la valutazione di professionalità assolvano a due funzioni ben distinte e dall’altro (e soprattutto) che l’istituto della riabilitazione (in ciascuna delle sue declinazioni, disciplinari e penali) è fenomeno giuridico che guarda al futuro, fondato su un sindacato improntato esclusivamente al post delictum e non già all’illecito commesso.
Quanto al primo punto, occorre richiamare sia il diritto scritto, costituito dalla Circolare del CSM in tema di valutazione di professionalità, sia l’orientamento consolidato del Giudice Amministrativo.
Giova allora rammentare come la Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 “Nuovi criteri per la valutazione di professionalità dei magistrati, con le modifiche apportate dall’Assemblea plenaria nelle sedute del 25 luglio 2012, 6 marzo 2014, 13 marzo 2014, 14 maggio 2014, 23 luglio 2014, 24 luglio 2014, 10 settembre 2014, 26 marzo 2015, 12 aprile 2017, 25 ottobre 2017 e 21 febbraio 2018” espressamente contempli un capo (il XII) dedicato ai rapporti tra valutazioni di professionalità e procedimenti disciplinari pendenti.
Per quel che qui interessa il comma secondo di tale capo prevede in caso di illeciti disciplinari di modesta rilevanza (quali sono quelli suscettibili di essere sanzionati con ammonimento o censura e dunque possibile oggetto di riabilitazione) una facoltà di sospensione del procedimento di valutazione di professionalità da parte del CSM, condizionata alla ricorrenza della seguente condizione “che l’accertamento dei fatti oggetto del procedimento penale e/o disciplinare incida sulla definizione della procedura di valutazione della professionalità”.
Tale disposizione è chiaramente ispirata al principio generale di autonomina tra processo giurisdizionale (qual è quello disciplinare che si svolge innanzi alla relativa sezione del CSM) e procedimento amministrativo (qual è quello avente ad oggetto la valutazione periodica di professionalità).
Già in base a tali rilievi, che evidenziano l’autonomia del piano valutativo rispetto a quello disciplinare, appare difficile ammettere che la ponderazione del fatto materiale sussumibile nel secondo all’interno del primo possa assurgere a condizione di ammissibilità del beneficio riabilitativo.
La radice funzionale di quest’ultimo, invero, matura in chiave essenzialmente premiale rispetto ad un quadro diverso da quello professionale.
La riabilitazione assume valenza nella lente della non reiterazione della violazione della lettera disciplinare (della buona condotta in termini disciplinari), non della conformità ai parametri valutativi di professionalità.
In quest’ottica il conseguimento di una successiva valutazione di professionalità positiva non ha pertanto valore in sé, ma in quanto sintomatica della buona condotta del reo, che diviene così meritevole del beneficio.
D’altronde la stessa lettera della norma primaria depone in tale senso.
La collocazione temporale della valutazione di professionalità e (alla luce di quanto detto) dell’arco temporale oggetto della stessa in un segmento storico successivo a quello della comminatoria della sanzione evoca la reale funzione della stessa: vagliare la condotta del Magistrato nella fase successiva non solo alla commissione dell’illecito, ma alla stessa irrogazione della sanzione.
Se tale è allora la funzione assolta dalla valutazione di professionalità nella lente dell’art.25-bis, alcuna ragione impone o suggerisce di richiedere che essa contempli una specifica ponderazione del fatto storico sussunto nella fattispecie disciplinare.
Né a diverse considerazioni induce la lettura del comma 3 del citato capo XII della Circolare summenzionata, laddove prevede “I fatti accertati in sede disciplinare sono oggetto di autonoma valutazione da parte del Consiglio superiore della magistratura ai fini della valutazione di professionalità, indipendentemente dall’esito, di condanna o di assoluzione, del procedimento disciplinare”.
In ordine al possibile significato da attribuire a tale precetto consiliare si è espresso anche il Consiglio di Stato (Cons. Stato, Sez. IV 26 febbraio 2019, n. 1339), osservando come “Il fatto, sebbene successivamente accertato nella sua rilevanza disciplinare, non perde la sua autonomia quale condotta materiale, come confermato dalla circostanza che - mentre in sede disciplinare la sanzione è stata applicata in conseguenza della accertata lesione del prestigio della magistratura - nella diversa sede del giudizio sulla progressione di carriera quella medesima condotta è stata autonomamente apprezzata - nella piena completezza informativa assicurata dal vaglio disciplinare - come sintomatica di una grave mancanza di equilibrio. Sussiste, cioè, una ipotesi di pluriqualificazione giuridica della fattispecie, a fini disciplinari ed a fini di progressione di carriera, fermo restando che, come correttamente osservato dal T.a.r., l'esistenza di precedenti disciplinari e penali rileva comunque, in sé, ai fini della progressione di carriera, in quanto concorre alla valutazione complessiva della personalità professionale del magistrato. Pertanto, deve escludersi che vi sia stata una duplicazione degli effetti sanzionatori, atteso che la sanzione disciplinare ha sì concorso alla valutazione globale delle competenze tecniche del magistrato e della sua personalità professionale, ma la condotta materiale sanzionata è stata autonomamente valutata rispetto ai parametri professionali, quale circostanza idonea a rivelare una grave mancanza di equilibrio”.
Ferma restando la specificità dell’attuale giudizio in relazione a ciascuno dei parametri indicati dalla legge, è tuttora la normativa vigente ad attribuire possibile rilievo alle risultanze disciplinari, purché esse incidano su uno degli elementi necessari a fondare il giudizio di professionalità. Le eventuali condotte che in precedenza abbiano formato oggetto di un provvedimento disciplinare possono rilevare non già in vista di un’inammissibile duplicazione di sanzione bensì ai fini di un accertamento proteso al pieno apprezzamento obiettivo della personalità professionale del magistrato. Il pregiudizio disciplinare nel quale sia incorso il magistrato, pertanto, non può automaticamente dar luogo a un esito negativo di professionalità, ma deve formare oggetto di apprezzamento in relazione al caso concreto ([iv]).
In tale senso il Tar Lazio n. 4924/2010 con riferimento a un precedente disciplinare cui il CSM aveva attribuito rilievo determinante in sede valutativa, ha stabilito che «la latitudine (pur riconoscibile) della valutazione discrezionale in argomento rimessa all’organo di autogoverno» non può «estrinsecarsi nella apodittica assolutizzazione di tale precedente, la cui concreta rilevanza va invece commisurata con riferimento: alla gravità degli addebiti e della sanzione inflitta; alla collocazione temporale dei fatti a fondamento delle contestazioni; alla durata delle relative condotte; alla persistenza di atteggiamenti, anche successivamente alle contestazioni e/o alla inflizione della condanna, omogeneamente stigmatizzabili; comunque dovendo dare conto il giudizio sull’idoneità, laddove gli elementi sopra indicati dimostrino attuale consistenza (e, quindi, il precedente disciplinare si riveli suscettibile di essere preso in considerazione), della prevalenza di essi sul complesso degli altri elementi rilevanti”.
Alla luce del quadro consiliare e di quello pretorio, pertanto, non vi è dubbio che valutazione di professionalità e giudizio disciplinare siano sindacati distinti, poiché improntati a diversi parametri e criteri, così come non è parimenti in discussione che il secondo possa influenzare il primo con la forza del giudicato che è propria delle sue sentenze (vincolando la Commissione in sede di valutazione in ordine alla sussistenza o insussistenza del fatto materiale o dell’elemento soggettivo. A tal riguardo va tuttavia segnalato che l’assemblea plenaria nella seduta del 10 settembre 2014 ha respinto, a maggioranza, una proposta di delibera di sesta commissione che tendeva a introdurre un certo automatismo tra esito disciplinare e valutazione di professionalità, definendo i contenuti del giudicato e del principio del “dedotto e deducibile” utilizzabili in sede di verifica della professionalità ([v]).
La considerazione della possibile vincolatività o valenza del giudicato disciplinare all’interno della momento valutativo di professionalità non deve tuttavia trarre in inganno, poiché nella lente dell’istituto riabilitativo, essa svanisce, appartenendo irrimediabilmente alla valutazione del passato, laddove invece,come già rimarcato, la funzione assolta dalla valutazione di professionalità in sede di riabilitazione si colloca tutta nell’arco temporale futuro (cioè successivo alla commissione dell’illecito).
Come già rimarcato, invero l’intima essenza del giudizio di riabilitazione (non importa se penale o disciplinare) è in proiezione futura rispetto all’illecito commesso ed alla sanzione comminata.
Tale è l’orizzonte temporale in cui va apprezzata la buona condotta del reo al fine di stabilire se riconoscergli o meno il premio rappresentato dalla riabilitazione.
Prendendo a prestito le parole di Cerquetti “L'istituto, incentrato sul requisito della "buona condotta" che si richiede che il condannato abbia posto in essere per la durata del tempo prescritto, ha funzione premiale e promozionale, in vista della risocializzazione del reo. Per un verso, infatti, la riabilitazione costituisce, per tutto il periodo del tempo di ‘prova’, un incentivo alla attuazione delle positive condotte richieste, producendo sul reo un effetto di educazione e di creazione di abitudine al rispetto della legge. In primo luogo, va individuato il periodo di tempo per il quale è richiesto che il condannato abbia tenuto una buona condotta. A tal proposito, si è rilevato che la formula normativa dell'art. 179, 1° co. lascia intendere che le due condizioni ivi previste - il decorso del tempo stabilito dalla esecuzione o dalla estinzione della pena principale e la buona condotta - si integrino reciprocamente, sì che la seconda non può che essere riferito al periodo di tempo la cui decorrenza costituisce la prima. Non dovrebbe attribuirsi rilevanza, pertanto, alle condotte antecedenti alla compiuta esecuzione o alla estinzione della pena principale”.
Traslando il ragionamento all’istituto della riabilitazione disciplinare, ove (come chiarito) l’orizzonte temporale di valutazione della buona condotta diparte non dall’esecuzione della pena, ma dal decisum disciplinare, pare evidente come tutto ciò che vi è prima non assuma alcuna rilevanza.
Ed allora assumere la ponderazione del fatto storico da cui il procedimento disciplinare ha avuto la propria scaturigine quale presupposto indefettibile di idoneità della valutazione di professionalità positiva ad assumere la qualifica di requisito legittimante l’istanza di riabilitazione vale a snaturare la funzione di tale ultimo istituto.
Esso invero non guarda più al futuro, al fine di premiare il reo che ha dimostrato di essersi redento, ma al passato, lì dove il peccato è già stato commesso.
Il requisito introdotto dalla Circolare n. P. 5162 del 15 marzo 2024 non determina tuttavia solo uno snaturamento dell’istituto della riabilitazione, ma comporta anche consistenti problemi applicativi, che possono giungere sino all’assurdo di imporre all’incolpato di “auto-denunziarsi” in sede valutativa e di sincerarsi che tale denuncia abbia un effettivo seguito in sede di valutazione di professionalità.
E’ vero infatti che la Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007 e il d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 a più riprese introducono strumenti volti ad agevolare il raccordo tra il giudizio disciplinare ed il procedimento valutativo.
Così si prevede che “Laddove lo ritenga necessario, il Consiglio giudiziario può assumere informazioni su fatti specifici segnalati dai suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati incidenti sulla professionalità del magistrato, ivi comprese situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica” e prima ancora che i dirigenti degli uffici nei loro rapporti menzionino “ l’indicazione di situazioni rappresentate da terzi, di cui i dirigenti degli uffici abbiano tenuto conto, trasmesse ai titolari dell’azione disciplinare e sempre che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità del magistrato, ivi compresi situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica - gli eventuali atti o segnalazioni di situazioni rappresentate da terzi, di cui i dirigenti degli uffici abbiano tenuto conto, trasmessi ai titolari dell’azione disciplinare o penale, sempre che si riferiscano a fatti specifici incidenti sulla professionalità del magistrato, ivi comprese situazioni concrete ed oggettive di esercizio non indipendente della funzione e comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica.”
Similmente l’art.14 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 al comma 4 recita “Il Consiglio superiore della magistratura, i consigli giudiziari e i dirigenti degli uffici hanno l'obbligo di comunicare al Ministro della giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di cassazione ogni fatto rilevante sotto il profilo disciplinare. I presidenti di sezione e i presidenti di collegio nonché i procuratori aggiunti debbono comunicare ai dirigenti degli uffici i fatti concernenti l'attività dei magistrati della sezione o del collegio o dell'ufficio che siano rilevanti sotto il profilo disciplinare.”
Infine, lo stesso art. 14 al comma 3 impone un onere di comunicazione dell’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore generale presso la Corte di cassazione al CSM “Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha l'obbligo di esercitare l'azione disciplinare, dandone comunicazione al Ministro della giustizia e al Consiglio superiore della magistratura, con indicazione sommaria dei fatti per i quali si procede”
Tuttavia tali cautele non garantiscono né che vi sia un’effettiva conoscenza da parte della Commissione del C.S.M. competente in sede valutativa della pendenza del procedimento disciplinare (laddove la notizia del fatto sia pervenuta alla Procura, ma l’azione disciplinare non sia stata ancora esercitata), né ancora meno che quest’ultima possa avere contezza del fatto già commesso e che sarà oggetto del procedimento disciplinare prima e della condanna disciplinare poi (laddove appunto un procedimento disciplinare non sia principiato, perché la notizia del fatto non è ancora pervenuta alla Procura).
Ciò significa che prevedere quale requisito di idoneità ai fini riabilitativi che la valutazione di professionalità “risulti comunque aver valutato il fatto oggetto della condanna disciplinare”, vale quasi ad imporre al colpevole un obbligo di autodenunciarsi in tale sede.
Se infatti egli omette di riferire la pendenza del procedimento disciplinare o (in difetto di esso) la commissione del fatto astrattamente rilevante sotto tale profilo, il rischio è quello di vedere postergato il momento in cui potrà accedere allo strumento premiale della riabilitazione.
E ciò senza tener conto dell’ipotesi in cui lo stesso interessato possa non aver percezione di aver commesso un tale illecito.
Infine, anche tale cautela, al pare degli strumenti di raccordo disegnati dalla Circolare n. 20691 dell’8 ottobre 2007, potrebbe non essere sufficiente.
Laddove invero la Commissione (in difetto di formale conoscenze della pendenza di un procedimento disciplinare) dovesse ritenere la notizia del fatto materiale infondata o irrilevante, ben potrebbe non ponderarla espressamente nella formulazione della valutazione, così arrecando di fatto un pregiudizio all’interessato, che vedrebbe compromessa la sua facoltà di avvalersi dell’istituto della riabilitazione.
4. Riflessioni finali.
In conclusione, fermo il valido impianto della Circolare n. P. 5162 del 15 marzo 2024, forse sarebbe in caso di ripensarne in parte il contenuto:
1) individuando la valutazione di professionalità legittimante in quella immediatamente successiva alla sentenza disciplinare;
2) eliminando la menzione della necessità che la valutazione di professionalità legittimante “risulti comunque aver valutato il fatto oggetto della condanna disciplinare”.
1 G. Grasso, T. Padovani e M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, vol. III, Milano, 2011, pag.296 e ss.; G. Cerquetti, voce Riabilitazione, in Enc. dir., vol. XL, Milano, 1989, p. 302 e ss.; V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. III, Torino, 1981, p. 775; M. Viaro, voce Riabilitazione, in Nuovissimo dig. it., vol. XV, 1968, p. 825 e ss.
2 G. Cerquetti, op.cit., p. 302 e ss.
3 G. Marinucci - E. Dolcini, Manuale di diritto penale: parte generale, 2009, Milano, p. 604 e ss.
4 G. Grasso, Procedimento disciplinare e valutazione di professionalità: differenze e interferenze, in La Magistratura, Gennaio-Luglio 2015 - Anno LXIV - Numero 1-2, 24 luglio 2015.
5 Amplius, G. Grasso, op.cit. e P. Serrao D'Aquino, Le valutazioni di professionalità dei magistrati. Parte seconda. I nodi problematici: le fonti di conoscenza, il rapporto con il disciplinare, gli sfasamenti temporali, le modalità espressive, in Giustizia Insieme, 23 settembre 2020.