SOMMARIO: 1. La natura contrattuale della responsabilità sanitaria. — 2. Onere della prova e nesso causale. — 3. Il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera. — 4. La cartella clinica. — 5. La questione del c.d. « consenso informato » quale presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico. — 6. Casistica del Tribunale di Roma sulla responsabilità sanitaria (progetto OR.ME).
1. La natura contrattuale della responsabilità sanitaria. — La giurisprudenza inquadra la responsabilità dell’ente ospedaliero nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto (1). A sua volta anche l’obbligazione del medico dipendente dall’ente ospedaliero, così come quella del medico privato nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto ma sul c.d. « contatto sociale », ha natura contrattuale (2), considerato che le obbligazioni possono sorgere anche da rapporti contrattuali di fatto nei casi in cui taluni soggetti entrano, appunto, tra loro in contatto, dai quali derivano obblighi di comportamento di varia natura, diretti a garantire che siano tutelati gli interessi che sono emersi o sono esposti a pericolo in occasione del contatto stesso.
La situazione descritta si riscontra, in particolare, nei confronti dell’operatore di una professione che ha per oggetto beni costituzionalmente garantiti, come avviene per la categoria medica, la quale incide sul bene della salute tutelato dall’art. 32 cost.La responsabilità sia del medico che dell’ente ospedaliero per inesatto adempimento della prestazione, dunque, è quella tipica del professionista, con la conseguenza che trovano applicazione sia il regime proprio di questo tipo di responsabilità quanto alla ripartizione dell’onere della prova, come vedremo infra, § 2, sia i principi delle obbligazioni da contratto d’opera intellettuale professionale relativamente alla diligenza, al grado della colpa ed alla prescrizione ordinaria.
Peraltro, in tema di obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, l’inadempimento del professionista non può essere desunto ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri relativi allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, a quello di diligenza.
Al riguardo trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, comma 2, c.c., il quale comporta il rispetto di tutte le regole e degli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica (3).
Pertanto, la diligenza va, a sua volta, individuata con riguardo alla natura dell’attività di medico chirurgo, la quale implica scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale.
Dunque è richiesta, in primo luogo, la conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione, vale a dire la c.d. « dili-gentia in abstracto », mentre, per il resto, il grado di diligenza deve essere apprezzato in relazione alle circostanze concrete e tra queste rientrano anche le dotazioni della struttura ospedaliera in cui il medico opera.
Sul punto occorre ulteriormente precisare che a norma dell’art. 2236 c.c., applicabile anche ai medici, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera, per quanto concerne la perizia, risponde dei danni solo in caso di dolo o colpa grave, ma non per l’imprudenza e la negligenza (4).
Per la giurisprudenza, peraltro, la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o colpa grave si applica unicamente a quelle ipotesi che trascendono la preparazione professionale media, ovvero quando la particolare complessità del caso discende dal fatto che non è stato ancora studiato a sufficienza o dibattuto con riferimento ai metodi da adottare (5).
2. Onere della prova e nesso causale. — In tema di onere della prova nelle controversie di responsabilità professionale del medico si è più volte enunciato il principio secondo cui, quando l’intervento da cui è derivato il danno non è di difficile esecuzione, la dimostrazione da parte del paziente dell’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie è idonea a fondare una presunzione semplice in ordine all’inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile (6).
Più specificamente, nel caso di intervento di difficile esecuzione, il medico ha l’onere di provare soltanto la natura complessa dell’operazione ed il paziente deve dimostrare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee, mentre, nel caso di intervento di facile o di semplice esecuzione, il paziente ha il solo onere di provare la natura routinaria dell’intervento, ed è il medico, se vuole andare esente da responsabilità, a dover dimostrare che l’esito negativo non è ascrivibile alla propria negligenza o imperizia.
I risultati sopra riassunti ai quali sono pervenuti i giudici di legittimità sono stati riletti alla luce del principio enunciato in termini generali da Cass., sez. un., 30 ottobre 2001 n. 13533 (7), in tema di onere della prova dell’inadempimento e dell’inesatto adempimento.
Le sezioni unite, come è noto, hanno infatti stabilito che il creditore quando agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento.
Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, atteso che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza o difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto ed esatto adempimento.
Quindi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’inter-vento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento a loro non imputabile.
La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e intervento implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, dunque, non rileva più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione della diligenza e del corrispondente grado di colpa (8), restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà, non potendo l’allocazione del rischio essere rimessa alla maggiore o minore complessità della prestazione.
In merito al nesso causale tra condotta del medico ed evento lesivo, la giurisprudenza penale è intervenuta con la celebre e fondamentale Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2002 n. 30328 (9), stabilendo il criterio di cui deve tenersi conto al fine di individuare tale nesso di causalità.
Per tale sentenza, in sintesi, il collegamento eziologico nel processo penale sussisterà tutte quelle volte in cui, in base alle circostanze di fatto ed esclusa l’interferenza di fattori alternativi, risulti processualmente certo che la condotta omissiva del medico sia stata condizione necessaria dell’evento « con alto o elevato grado di credibilità razionale » o « probabilità logica », ovvero « al di là di ogni ragionevole dubbio ».
Per l’accertamento del nesso causale in materia civile, invece, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi, vige la regola ispirata al principio della normalità causale della preponderanza dell’evidenza o del « più probabile che non », caratterizzata, dunque, dall’accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale (10), con la conseguenza che l’accertamento della responsabilità del sanitario in sede penale è molto più difficile rispetto al giudizio civile, dove, in sostanza e per semplificare, è sufficiente accertare che la condotta, commissiva od omissiva, del medico si pone come causa dell’evento secondo un criterio probabilistico del 51 per cento.
3. Il rapporto tra paziente e struttura ospedaliera. — Per diverso tempo il legame contrattuale tra il paziente e la struttura ospedaliera è stato interpretato e disciplinato sulla base dell’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, con il conseguente appiattimento della responsabilità della struttura su quella del medico.
Da ciò derivava che il presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura fosse l’accertamento di un comportamento colposo del medico in essa operante.
Oggi, invece, il suddetto rapporto è ormai inquadrato in termini autonomi da quello paziente-medico e considerato come un contratto atipico a prestazioni corrispettive, chiamato di spedalità o di assistenza sanitaria, nell’ambito del quale la struttura deve fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di « assistenza sanitaria », la quale ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.
In particolare la giurisprudenza ha valorizzato la complessità e l’atipicità del legame che si instaura tra struttura e paziente, il quale va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario e paramedico, nonché l’apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie, anche per eventuali complicazioni (11).
Dunque, sono ormai individuate forme di responsabilità autonome dell’ente per inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili alla struttura e si può avere una responsabilità verso il paziente danneggiato, non solo per il fatto del personale medico dipendente o del personale ausiliario che operano presso la struttura ex art. 1228 c.c., ma anche per fatto della struttura stessa, in particolare per insufficiente o inidonea organizzazione.
Il discorso è il medesimo sia che il paziente si rivolga presso una struttura del servizio sanitario nazionale, ovvero a una convenzionata o privata, in quanto sono da ritenere sostanzialmente equivalenti a livello normativo gli obblighi dei due tipi di struttura nei confronti del fruitore dei servizi, dato anche che si tratta di violazioni incidenti sul bene della salute tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione (12).
4. La cartella clinica. — Particolari problematiche investono la cartella clinica, la quale adempie la funzione di diario del decorso della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, i quali devono essere annotati contestualmente al loro verificarsi.
Le attestazioni in essa contenute sono riferibili a una certificazione amministrativa per quanto attiene alle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione di cui si compone non hanno alcun valore probatorio privilegiato rispetto ad altri elementi di prova (13).
La regolare tenuta della cartella clinica rientra nelle prestazioni a cui è tenuto il sanitario, tanto è vero che le omissioni imputabili al medico nella sua redazione rilevano sia come figura sintomatica di inesatto adempimento, per difetto di diligenza ex art. 1176, comma 2, c.c., sia come nesso eziologico presunto, posto che l’imperfetta compilazione della stessa non può, in via di principio, risolversi in danno di colui che vanti un diritto in relazione alla prestazione sanitaria (14).
Sotto altro profilo e per altro aspetto, poi, la difettosa tenuta della cartella clinica non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta del medico e le conseguenze dannose sofferte dal paziente, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocare il danno, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, assumendo rilievo, al riguardo, il criterio della c.d. « vicinanza alla prova », cioè della effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla (15).
Infatti, l’inottemperanza del medico all’obbligo di controllare la completezza ed esattezza del contenuto della cartella clinica configura difetto di diligenza nell’adempimento della prestazione lavorativa, da qualificarsi oggettivamente come di particolare gravità, avuto riguardo alla rilevante funzione che la cartella assume, sotto il profilo sanitario, nei confronti del paziente e, indirettamente, nei confronti della struttura sanitaria a cui il paziente stesso si è affidato (16).
Da ultimo è opportuno evidenziare come la struttura debba risarcire il danno sofferto dal paziente in conseguenza della diffusione di dati sensibili contenuti nella cartella clinica, a meno che non dimostri di avere adottato tutte le misure necessarie per garantire il diritto alla riservatezza ed evitare che i dati relativi ai test sanitari e alle condizioni di salute del paziente possano pervenire a conoscenza di terzi (17).
5. La questione del c.d. « consenso informato » quale presupposto di liceità del trattamento medico-chirurgico. — La obbligatorietà del c.d. « consenso informato » costituisce oggi problematica particolarmente rilevante in materia di colpa medica.
Si tratta del principio che rappresenta il diritto del paziente di scegliere, accettare o anche rifiutare i trattamenti (diagnostici, terapeutici ecc.) che gli vengono proposti, dopo essere stato pienamente informato, salvo sua esplicita rinuncia, sulla diagnosi e il decorso previsto della malattia e sulle alternative terapeutiche, incluso il loro rifiuto, e le loro conseguenze.
E invero, se da un lato non è lecito procurare una qualsiasi lesione a una persona, in molti casi risulterebbe oggettivamente impossibile curare un malato senza incidere sull’integrità psicofisica e l’unico modo per realizzare pienamente il rispetto dell’individuo bisognoso di cure è stato individuato, appunto, in quello di procurarsi preventivamente il suo consenso dopo averlo adeguatamente informato.
Nella concezione tradizionale l’opera del sanitario era improntata al principio paternalistico, in base al quale il medico poteva agire per il malato ove avesse ritenuto, secondo scienza e coscienza, l’intervento utile alla sua salute, mentre altro valore che faceva del medico l’unico interprete della salute e della malattia era il c.d. « privilegio terapeutico », il quale consentiva di omettere di dare alcune informazioni in circostanze particolari, purché ciò fosse a vantaggio del paziente.
Il consenso informato oggi, invece, costituisce uno degli elementi del contratto tra il paziente e il professionista sotto il profilo dell’obbligo di informazione, con la conseguenza che anche la violazione del dovere di informazione e dell’obbligo di acquisire il consenso integra un’ipotesi di inadempimento contrattuale.
Sotto l’aspetto giuridico, l’acquisizione del consenso si ricollega, in primo luogo, al fatto che la Costituzione garantisce all’art. 13 l’inviolabilità della libertà personale, intesa come libertà fisica e morale, e al successivo art. 32 tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, fissando il principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà, se tale trattamento non è previsto come obbligatorio per disposizione di legge.
La volontarietà degli accertamenti e dei trattamenti sanitari (non obbligatori), del resto, è ribadita dall’art. 1 l. 13 maggio 1978 n. 180 e dall’art. 33 l. 23 dicembre 1978 n. 833.
Anche il codice deontologico dei medici, chirurghi e odontoiatri, che è norma etica, ma giuridicamente rilevante nell’ambito dell’ordinamento professionale medico, prevede all’art. 30 l’obbligo per il medico di fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive, sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate, mentre all’art. 32 dispone che il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso informato del paziente.
In sostanza l’abilitazione all’esercizio della professione sanitaria conferisce al medico la facoltà o la potestà di curare, ma, per aderire ai principi dell’ordina-mento, è necessario il consenso della persona che deve sottoporsi al trattamento sanitario.
Il diritto all’autodeterminazione, il quale consente al malato di sottoporsi facoltativamente a trattamenti sanitari e di decidere, trova limite soltanto nel caso degli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori che, nel rispetto della dignità della persona, la legge può prevedere nell’interesse della collettività.
In particolare si osserva che il consenso informato, espressione del diritto personalissimo e di rilevanza costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, è un obbligo contrattuale del medico perché è funzionale al corretto adempimento della prestazione professionale, pur essendo autonomo da esso (18), e che lo stesso riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona, all’autode-terminazione ed alla salute (19).
In definitiva il consenso informato costituisce la legittimazione e il fondamento del trattamento sanitario e senza di esso l’intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente (20).
Per quanto riguarda la forma del consenso, in mancanza di una norma che imponga quella scritta per lo specifico intervento (21), considerato che nel nostro ordinamento vige il principio della libertà della forma del negozio giuridico, deve affermarsi la validità di qualsiasi forma, ivi compresa la forma orale e quella tacita, vale a dire il comportamento concludente.
L’art. 32 del codice deontologico, cit. prevede che il consenso debba essere espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui, per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica, si renda opportuna una manifestazione chiara della volontà della persona.
Tuttavia, anche quando la prestazione del consenso informato, per lo specifico intervento, non fosse soggetta ad alcuna condizione particolare, la forma scritta diventa inevitabile al fine di tutelarsi sotto l’aspetto della prova di tale adempimento gravante sul sanitario (22).
Infatti, la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità per il medico, e di riflesso della struttura per cui egli agisce, anche quando l’intervento abbia esito positivo, atteso che il paziente potrebbe sempre obiettare di non essere stato messo in condizione di effettuare le proprie scelte (23).
L’attività medica oggi è posta, dunque, a tutela di due beni fondamentali, la salute e il diritto all’informazione e all’autodeterminazione nella scelta del trattamento terapeutico, e la lesione anche di uno solo dei due beni è fonte di autonoma responsabilità per il sanitario.
La giurisprudenza evidenzia anche che, per un consenso valido, il paziente deve essere opportunamente e adeguatamente informato in modo esaustivo anche in ordine allo stato di efficienza e al livello di dotazioni della struttura sanitaria in cui il medico presta la sua attività (24) e che il sanitario è responsabile anche quando vengano fornite assicurazioni errate in ordine all’assenza di rischi o complicazioni derivanti da un intervento chirurgico necessariamente da eseguire (25), ovvero quando sottoponga al paziente per la sottoscrizione del consenso un modulo del tutto generico, dal quale non sia possibile desumere con certezza che il paziente abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni (26).
Peraltro, il rifiuto del paziente di sottoporsi ad un trattamento medico deve risultare, perché sia efficace, da una manifestazione espressa, inequivoca, informata ed attuale, la quale, dunque, deve seguire e non precedere l’informazione fornitagli dai medici sulla sua effettiva situazione di salute (27).
In caso di interventi chirurgici condotti in equipe, invece, se le singole fasi assumono un’autonomia gestionale e presentano varie soluzioni alternative, ognuna delle quali comporti rischi diversi, il dovere di informazione si estende anche alle singole fasi e ai rispettivi rischi (28).
Si è precisato inoltre che, se vi può essere un risarcimento per la semplice violazione del diritto di autodeterminazione, verificatasi per la mancata informazione da parte del medico sulle conseguenze dell’intervento terapeutico al paziente, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute ricollegabile a quella violazione per essere stato l’intervento predetto correttamente eseguito, la risarcibilità del danno da lesione della salute, il quale si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell’intervento medico, necessario ed eseguito correttamente, ma senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, dunque, in assenza di un consenso consapevolmente prestato, richiede in ogni caso l’accertamento che il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato (29), con conseguente aggravio della posizione dello stesso assistito sotto il profilo dell’onere probatorio.
Peraltro, a parte l’ipotesi di trattamento sanitario obbligatorio, è prevista una ulteriore deroga all’obbligo di acquisire il consenso informato, quando, a seguito di un intervento concordato e programmato e per il quale sia stato richiesto e ottenuto il consenso, sorgano improvvisi casi di urgenza che pongano in gravissimo pericolo la vita della persona (30).
Deve, però, trattarsi di urgenza imprevedibile, perché se prevedibile rientra dell’obbligo di informazione, con la conseguenza che del relativo e ulteriore intervento urgente il sanitario dovrà comunque rispondere per violazione del diritto all’informazione, fermo il già evidenziato onere per il paziente, che lamenti anche un conseguente danno alla salute, di dimostrare che avrebbe rifiutato quel determinato e ulteriore intervento urgente se fosse stato adeguatamente informato.
Esistono, poi, delle situazioni particolari in cui risulta impossibile, o particolarmente difficile, acquisire il consenso, vale a dire quando il paziente è affetto da malattia mentale, nelle situazioni di emergenza in pronto soccorso, quando il paziente è minore d’età, il caso della persona in stato permanente di incoscienza e l’ipotesi del nascituro.
Per la malattia mentale, a parte i casi nei quali implichi un trattamento sanitario obbligatorio, il medico dovrà svolgere iniziative rivolte ad assicurare la partecipazione da parte di chi è obbligato e, quindi, acquisire il consenso del tutore (ove ci sia), altrimenti, ritengo, possa attuare senz’altro la terapia.
Nella diversa fattispecie, invece, in cui si prospetti una situazione di emergenza tale per cui l’ammalato non sia in grado di esprimere il consenso, il medico può agire con una cura adeguata, indipendentemente dalla volontà di eventuali parenti, giustificato dallo stato di necessità ex art. 54 c.p., da ritenersi scriminante anche in sede civile, configurabile quando vi sia la concreta immanenza di una situazione di grave pericolo alle persone, caratterizzata dalla cogenza, vale a dire tale da non lasciare all’agente altra alternativa che quella di violare la legge.
La Cassazione penale, con una decisione che ha fatto molto discutere ma che può essere recepita dai giudici civili, ha anche stabilito come, in presenza di un effettivo « stato di necessità », non sia neppure necessario fare riferimento alle cause di giustificazione codificate, essendo la condotta del medico « strumentale alla garanzia del diritto alla salute previsto dall’art. 32 cost. e autorizzata dall’or-dinamento » e, quindi, « scriminata da uno stato di necessità ontologicamente intrinseco » (31).
Per i trattamenti sanitari sui minori la questione interferisce inevitabilmente con il dibattito relativo all’autodeterminazione ed all’autonomia del paziente minorenne nelle questioni biomediche.
In questi casi, in sintesi e in base ai principi generali, si può dire che il consenso va richiesto a entrambi i genitori in quanto esercenti la patria potestà e, se separati, al coniuge affidatario, mentre, qualora i genitori siano stati privati della patria potestà o siano già morti, il consenso dovrebbe, invece, esprimerlo il tutore.
Tuttavia, in coerenza con il principio secondo il quale il diritto alla salute è personalissimo e la sua tutela non può essere affidata ad altri, se, malgrado la minore età, il paziente dimostra di essere emancipato, vale a dire consapevole dell’atto che compie, è necessario anche il suo consenso e, se c’è un contrasto con quanto decidono i genitori, deve essere fatta prevalere la volontà del minore, previo parere del giudice tutelare.
Sul punto si richiama la Convenzione di Oviedo 4 aprile 1997 sui diritti dell’uomo e la biomedica (32), la quale contiene una specifica disposizione riguardante i trattamenti sanitari rivolti ai minorenni e all’art. 6 stabilisce che il parere del minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità.
Alla suddetta disposizione fa da corollario l’analoga previsione del codice deontologico dei medici, il quale prevede il consenso del legale rappresentante, ma anche l’obbligo di informare il minore e di tenere conto della sua volontà, compatibilmente con l’età e con la capacità di comprensione (art. 34) e soltanto nel caso di « trattamento necessario e indifferibile » l’opposizione del minore non viene considerata e, se il legale rappresentante si oppone, il medico è tenuto ad informare l’autorità giudiziaria (art. 33).
Per quanto concerne la persona in stato di totale e permanente incoscienza, il carattere personalissimo del diritto alla salute comporta che il riferimento all’isti-tuto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore o all’amministratore di sostegno un « potere incondizionato » di disporre della salute. Il rappresentante legale deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace e deve decidere non al posto dell’incapace o per l’incapace, ma con l’incapace stesso, tenendo conto della volontà presunta del paziente incosciente, ovvero « inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche » (33).
Infine il nascituro, il quale ha soggettività giuridica e ha il diritto a nascere sano, con il conseguente obbligo dei sanitari di risarcirlo, pur se il diritto al risarcimento è condizionato all’evento nascita e azionabile dagli esercenti la potestà, sia per violazione del dovere di una corretta informazione in ordine alla terapia prescritta alla madre, in quanto il rapporto instaurato dalla madre con i sanitari produce effetti protettivi nei confronti del nascituro, sia per inosservanza del dovere di somministrare farmaci non dannosi per il nascituro stesso (34).
Il nascituro, dunque, è individuato come titolare di alcuni interessi personali in via diretta, quali il diritto alla vita, alla salute o integrità psicofisica, all’onore o alla reputazione.
Tale affermazione trova conferma in numerose disposizioni normative che tutelano il concepito, tra le quali l’art. 1 l. 19 febbraio 2004 n. 40, il quale, nell’indicare la finalità della procreazione medicalmente assistita, prevede la tutela dei diritti di « tutti i soggetti coinvolti compreso il concepito », l’art. 1 l. 22 maggio 1978 n. 194, in base alla quale lo Stato deve garantire il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconoscere il valore sociale della maternità e tutelare la vita umana dal suo inizio, l’art. 254, comma 1, c.c. che prevede il riconoscimento del figlio naturale possa effettuarsi anche dopo il solo concepimento e l’art. 32 cost., il quale garantisce il diritto alla salute all’« individuo », quale è anche il nascituro.
Peraltro lo stesso non ha diritto al risarcimento qualora il consenso informato necessiti ai fini dell’interruzione di gravidanza, stante la non configurabilità del « diritto a non nascere » o « a non nascere se non sano » (35).
In definitiva l’esistenza di malformazioni o malattie del feto non comporta automaticamente la possibilità per la gestante di interrompere la gravidanza, così che, se non esiste un diritto a nascere se non sano, non può esistere un diritto al risarcimento del danno derivante da una nascita non sana qualora non sia ravvisabile alcuna responsabilità del medico, con la ulteriore conseguenza che il sanitario che non abbia informato i genitori sui rischi di malformazione del nascituro precludendo alla madre la scelta d’interrompere la gravidanza, risponde dei danni, conseguenti alla nascita del neonato malformato, nei confronti dei genitori, ma non nei confronti del minore, non essendo concepibile nel nostro ordinamento un diritto a non nascere del minore malformato (36).
Ne deriva che una pretesa di risarcimento potrà essere avanzata dal nascituro esclusivamente se le malformazioni sono state determinate dalla condotta negligente del medico, mentre, qualora non risulti provato tale nesso eziologico tra condotta del medico e la patologia del nascituro, il minore non potrà dolersi del fatto di essere nato.
6. Casistica del Tribunale di Roma sulla responsabilità sanitaria (progetto OR.ME). — I dati che seguono sono il risultato di uno studio realizzato dall’Osser-vatorio sulla responsabilità professionale medica (OR.ME), espressione di una convenzione sottoscritta dal Tribunale civile e penale di Roma, dall’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri di Roma e provincia e dall’Università degli studi di Roma « Tor Vergata », facoltà di giurisprudenza, avente lo scopo di monitorare i procedimenti giudiziari in tema di responsabilità professionale in ambito sanitario.
Sono state analizzate tutte le sentenze emesse dal Tribunale civile di Roma in materia di responsabilità professionale del medico e delle strutture sanitarie dal 2001 al 2007, con un dato finale di 1938 sentenze e 2244 posizioni mediche esaminate.
Il primo dato che emerge è che circa il 32 per cento delle domande di risarcimento sono rigettate, il 12 per cento trovano accoglimento parziale, con un aumento significativo nel 2006 e nel 2007, e il 56 per cento sono accolte.
Solo 19 di esse (1,49 per cento) si sono basate in via esclusiva, nel loro giudizio di colpevolezza, su un deficit di consenso informato, mentre per quanto riguarda il giudizio di responsabilità 456 sentenze (32,52 per cento) hanno basato la loro valutazione negativa sulla condotta omissiva del sanitario mentre 946 (67,48 per cento) sulla condotta commissiva. Occorre però considerare che in alcune di queste sentenze il giudizio di responsabilità si è basato su ambedue i profili di colpa.
Per i consulenti tecnici d’ufficio 1723 sono stati gli incarichi individuali, di cui 1244 medico-legali, mentre 135 sono stati gli incarichi congiuntamente assegnati al medico-legale e allo specialista, mentre in 406 casi è stata disposta una consulenza tecnica d’ufficio collegiale.
In 635 sentenze (34,72 per cento) la consulenza tecnica d’ufficio ha escluso la colpa mentre in 1194 (65,28 per cento) l’ha individuata.
Sono 1074 (86,96 per cento) le sentenze hanno condiviso la consulenza tecnica d’ufficio, mentre 56 (4,53 per cento) non hanno condiviso la consulenza tecnica d’ufficio e 105 (8,50 per cento) l’hanno parzialmente condivisa.
Relativamente ai soggetti citati e chiamati in causa, 1499 sono risultate le sentenze che hanno riguardato i singoli professionisti, 73 sentenze hanno riguardato l’équipe, 1257 le strutture pubbliche e private, 1080 hanno riguardato la chiamata in causa delle società assicuratrici e 198 altri soggetti che sono risultati parti in tali giudizi.
Per le condanne, 657 sentenze hanno riguardato medici e odontoiatri in attività libero professionale, 315 medici e odontoiatri in attività pubblica convenzionata, 264 sentenze hanno riguardato le strutture private, 480 le strutture pubbliche e 15 sentenze hanno riguardato il personale sanitario non medico.
Nel settore specialistico è risultato che 81 sentenze hanno riguardato il pronto soccorso, 265 l’ortopedia, 199 la ginecologia, 310 l’odontoiatria, 104 l’oculistica, 631 la chirurgia, 195 la chirurgia estetica, 10 l’anestesiologia e 256 altro.
Per quanto riguarda la tipologia di errore è emerso che 236 (17,33 per cento) sentenze hanno ravvisato un errore clinico-diagnostico, 1007 sentenze (73,94 per cento) un errore chirurgico-terapeutico e 119 sentenze (8,74 per cento) hanno ravvisato dell’altro.
In ordine all’entità delle invalidità permanenti residuate e delle somme risarcite, dalla ricerca si evince come i casi derivati da responsabilità professionale medica con invalidità permanente superiore al 50 per cento (molto gravi), sono stati ogni anno meno di dieci.
In questi pochi casi ovviamente i risarcimenti liquidati sono stati quelli più consistenti e la somma di essi, per ogni anno è sempre stata superiore a 1.200.000 euro con un massimo di 4.349.000 nel 2004.
Per quanto riguarda i casi in cui si sono verificate invalidità permanenti tra il 30 per cento e il 50 per cento (gravi), anche questi non risultano essere molti, con una media di poco superiore a quella riguardante i casi più gravi e con una somma di risarcimenti liquidati sempre superiore ai 200.000 euro, con un picco di 996.542 euro nel 2007.
Bisogna precisare come pochi casi con indennizzi consistenti possano far aumentare significativamente la media dei risarcimenti, ma resta il fatto del numero ridotto delle responsabilità con conseguenze assai gravi.
Invece nell’arco cronologico considerato dalla ricerca sono risultate in crescita costante le condanne per danni da lesione micropermanente (1-10 per cento di invalidità) e il totale dei risarcimenti in questi casi è ovviamente di non grande rilievo, intorno ai 200-300.000 euro per ogni anno con un picco superiore ai 400.000 euro nell’anno 2004.
Analogo aumento è emerso per i casi di media gravità (11-30 per cento di invalidità permanente) ed in questa fascia i risarcimenti sono più consistenti nel loro totale.
Da ultimo, in base ai dati forniti dall’Osservatorio sui conflitti e sulla conciliazione nel primo rapporto sullo stato dei conflitti nella città di Roma, c.d. « mappa dei conflitti », elaborato in occasione dell’entrata in vigore in data 21 marzo 2011 del d. lgs. 4 marzo 2010 n. 28, attuativo della delega contenuta nell’art. 60 l. 18 giugno 2009 n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione nelle controversie civili e commerciali, riguardante anche la materia della responsabilità medica, risulta che dal 2005 al 2010 nel Tribunale civile di Roma si è avuto, in notevole controtendenza con tutte le altre materie oggetto di conciliazione obbligatoria, un incremento delle cause per responsabilità medica del 6,1 per cento.
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(1) Cfr. Cass., sez. un., 11 novembre 2008 n. 577 (in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612, con nota di DE MATTEIS, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in Danno resp., 2008, 788, con note di VINCIGUERRA, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica, e di NICOLUSSI, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico, p. 871; in Giur. it., 2008, 2197, con note di CURSI e di CIATTI; in Rass. giur. sanità, 2008, 289 ss.; in Obbligazioni e contratti, 2008, 195, con nota di RUBINO; in Foro it., 2008, I, 455). Da ultimo, Cass. 19 maggio 2011 n. 1100 (in Rass. giur. sanità, 2011, 325 ss.; in Resp. civ., 2011, 547).
(2) Cfr. Cass. 4 gennaio 2010 n. 13 (in Danno resp., 2010, 697, con nota di FEOLA, La responsabilità del medico e della struttura sanitaria per il danno prenatale causato dall’inadempimento delle obbligazioni d’informazione (il “diritto a nascere sano”); in Contratti, 2010, 372 ss., con nota di DE FEO, Responsabilità contrattuale per omessa diagnosi di malformazioni nel concepito, p. 662; in Rass. giur. sanità, 2010, 309 ss.); Cass. 10 settembre 2010 n. 19277 (ivi, 2011, 323 ss.).
(3) Cfr. Cass. 1º febbraio 2011 n. 2334, in Danno resp., 2011, 835, con nota di BUGATTI, Responsabilità medica: norme di diligenza e riparto dell’onere probatorio.
(4) Il medico o la struttura sanitaria inadempiente dovrà risarcire non solo il danno biologico, ma anche l’eventuale danno morale o esistenziale. Cfr. Cass. 4 gennaio 2010 n. 13, cit., che ha regolato il caso dei genitori di una bambina nata affetta da agenesia totale di un arto inferiore e da focomelia dell’altro, i quali avevano chiesto e ottenuto la condanna nei confronti del medico e dell’ASL al risarcimento di tutti i danni subiti in dipendenza della tardiva diagnosi della menzionata malformazione fetale.
(5) Cass. 1º febbraio 2011 n. 2334, cit. Sul punto si segnala il d. m. Salute 13 settembre 2012 n. 158, il quale, operando riferimento agli art. 2236 e 1176 c.c., specifica che il giudice, ai fini dell’accertamento della colpa lieve, deve tener conto nel caso concreto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, in realtà nulla innovando su quanto già sostenuto da tempo dalla giurisprudenza.
(6) Cfr. Cass. 11 marzo 2002 n. 3492, in Danno resp., 2002, 791.
(7) In Giust. civ., 2002, I, 1934 ss.; in Foro it., 2002, I, 769, con nota di LAGHEZZA, Inadempimenti ed onere della prova: le sezioni unite e la difficile arte del rammendo; in Danno resp., 2002, 318; in Nuova giur. civ. comm., 2002, I, 349, con nota di MEOLI, Risoluzione per inadempimento ed onere della prova; in Corr. giur., 2001, 1565, con nota di MARICONDA, Inadempimento e onere della prova: le Sezioni Unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Contratti, 2002, 2, 113, con nota di CARNEVALI, Inadempimento e onere della prova.
(8) Cfr. Cass. 28 maggio 2004 n. 10297 (in Foro it., 2005, 1, 2479; in Giur. it., 2005, 1413, con nota di PERUGINI; in Danno resp., 2005, 26, con nota di DE MATTEIS, La responsabilità medica ad una svolta?).
(9) In Foro it., 2002, II, 601, con nota di DI GIOVINE.
(10) Cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008 n. 576, in Corr. merito, 2008, 694, con nota di TRAVAGLINO, Causalità civile e penale: modelli a confronto.
(11) Cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008 n. 577, cit.; Cass. 13 aprile 2007 n. 8826 (in Danno resp., 2007, 811); Cass. 14 luglio 2004 n. 13066 (ivi, 2005, 537; in Contratti, 2005, 145); Cass., sez. un., 1º luglio 2002 n. 955 (in Giust. civ., 2003, I, 2196; in Contratti, 2002, 1150; in Giur. it., 2003, 1359, con nota di ORTOLANI).
(12) Cfr. Cass., sez. un., 11 gennaio 2008 n. 577, cit.
(13) Cfr. Cass. 12 maggio 2003 n. 7201 (in Rass. giur. sanità, 2003, 358; in Arch. civ., 2004, 413).
(14) Cfr. Cass. 26 gennaio 2010 n. 1538 (in Giur. it., 2010, 1795; in Rass. giur. sanità, 2010, 151).
(15) Cfr. Cass. 27 aprile 2010 n. 10060.
(16) Cfr. Cass. 13 marzo 2009 n. 6218, in Lav. giur., 2009, 801, con nota di REGINA, La sezione lavoro “assolve” il medico negligente nella cura e compilazione delle cartelle cliniche. Il commento. Sul punto, v. anche Cass. 5 luglio 2004 n. 12273 (in Giur. it., 2005, 1409, con nota di PERUGINI; in Corr. giur., 2004, 128; in Danno resp., 2005, 99; in Rass. giur. sanità, 2005, 38; in Guida al diritto, 2004, n. 35, p. 54), per la quale « In tema di responsabilità professionale del medico chirurgo, la lacunosa formazione della cartella clinica redatta dai medici del pronto soccorso ospedaliero non vale ad escludere per mancanza di prova l’omissione colposa della diagnosi da parte degli stessi, poiché il medico ha l’obbligo di controllare la completezza e l’esattezza del contenuto della cartella, la cui violazione configura difetto di diligenza ai sensi del comma 2 dell’art. 1176 c.c. e inesatto adempimento della corrispondente prestazione medica ».
(17) Cfr. Cass. 30 gennaio 2009 n. 2468 (in Rass. giur. sanità, 2009, 210; in Danno resp., 2009, 446).
(18) Cfr. Cass. 29 settembre 2009 n. 20806, in Danno resp., 2010, 451, con nota di SILIQUINI CINELLI, L’art. 2236 c.c. tra onere probatorio e risarcimento del danno.
(19) Cfr. C. cost. 19 ottobre 2009 n. 259 (in Resp. civ., 2009, 855); C. cost. 30 luglio 2009 n. 253 (in Fam. dir., 2009, 1046; in Corr. giur., 2009, 1559; in Foro it., 2009, I, 2889).
(20) Cfr. Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748 (in Riv. dir. civ., 2008, II, 363, con nota di PALMERINI, Cura degli incapaci e tutela dell’identità nelle decisioni mediche; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83, con nota di VENCHIARUTTI, Stati vegetativi permanenti: scelte di cure e incapacità; in Danno resp., 2008, 421, con nota di BONACCORSI, Rifiuto delle cure mediche e incapacità del paziente: la Cassazione e il caso Englaro; in Foro it., 2008, I, 2609, con nota di CACACE; in Corr. giur., 2007, 1676, con nota di CALÒ, Caso Englaro: la decisione della Corte d’appello di Milano; in Fam. dir., 2008, 129, con nota di CAMPIONE, Stato vegetativo permanente e diritto all’identità personale in un’importante pronuncia della Suprema Corte).
(21) Il consenso scritto è obbligatorio quando si dona o riceve sangue, si partecipa alla sperimentazione di un farmaco, negli accertamenti di infezione da HIV, nel trapianto del rene tra vivi, nella interruzione volontaria della gravidanza, nella rettificazione in materia di attribuzione di sesso e nella procreazione medicalmente assistita
(22) Cass. 9 febbraio 2010 n. 2847 (in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 783, con note di CACACE, I danni da (mancato) consenso informato, e di SCACCHI, La responsabilità del medico per omessa informazione nel caso di corretta esecuzione dell’intervento “non autorizzato”, p. 794; in Danno resp., 2010, 685, con nota di SIMONE, Consenso informato e onere della prova; in Foro it., 2010, I, 2113; in Corr. giur., 2010, 1201, con nota di DI MAJO, La responsabilità da violazione del consenso informato; in Giur. it., 2011, 816, con nota di CHIARINI).
(23) V. sempre Cass. 9 febbraio 2010 n. 2847, cit., per la quale « La mancata acquisizione del consenso informato da parte del medico determina la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, da cui deriva, nella prevalenza dei casi, uno stato di turbamento di intensità correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili, purché, in caso di reclamato danno non patrimoniale, varchi la soglia della gravità dell’offesa », mentre Cass. 14 marzo 2006 n. 5444 (in Danno resp., 2006, 564; in Corr. giur., 2006, 1243, con nota di MEANI, Sul danno risarcibile in caso di mancato consenso all’intervento eseguito correttamente; in Guida al diritto, 2006, n. 22, p. 4; in Giur. it., 2007, 343, con nota di PETRI) ha stabilito che « In tema di responsabilità medico-chirurgica, la correttezza o meno del trattamento sanitario non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con volontà consapevole delle sue implicazioni ». Sul punto anche Cass. 29 luglio 2004 n. 14488 (in Fam. dir., 2004, 559, con nota di FACCI, Wrongful life: a chi spetta il risarcimento del danno?; in Guida al diritto, 2004, n. 32, p. 48; in Danno resp., 2005, 379, con nota di FEOLA, Essere o non essere: la Corte di Cassazione e il danno prenatale; in Corr. giur., 2004, 1431, con nota di LISERRE, Mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione; in Foro it., 2004, 1, 3327; in Giur. it., 2005, 1147, con note di GIOVANARDI, e di DI GREGORIO, p. 2068), per la quale « Nel caso di responsabilità del sanitario per omessa od errata informazione tale da incidere sul mancato esercizio del diritto all’interruzione della gravidanza, è risarcibile non solo il danno dovuto al pregiudizio psicofisico della madre, ma piú genericamente ogni danno patrimoniale e non che sia conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento ».
(24) Cfr. Cass. 17 febbraio 2011 n. 3847 (in Rass. giur. sanità, 2011, 243; in Guida al diritto, 2011, n. 14, p. 42). Per Cass. 26 giugno 2012 n. 10616 (ivi, 2012, n. 32, p. 73), il medico-chirurgo operatore ha un dovere specifico di controllo del buon funzionamento delle apparecchiature necessarie all’esecuzione dell’intervento.
(25) Cfr. Cass. 28 novembre 2007 n. 24742.
(26) Cfr. Cass. 8 ottobre 2008 n. 24791, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 540, con nota di KLESTA DOSI, La responsabilità della struttura sanitaria: una conferma della “oggettivazione” della relazione di assistenza a vantaggio della tutela della persona.
(27) Cfr. Cass. 15 settembre 2008 n. 23676 (in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 170, con nota di CRICENTI, Il cosiddetto dissenso informato; in Corr. giur., 2008, 1671, con nota di FORTE, Il dissenso preventivo alle trasfusioni e l’autodeterminazione del paziente nel trattamento sanitario: ancora la Cassazione precede il legislatore nel riconoscimento di atti che possono incidere sulla vita; in Danno resp., 2008, 1282; in Giur. it., 2009, 1124, con note di PELLEGRINO, Il rifiuto delle trasfusioni da parte dei Testimoni di Geova; tra diritto costituzionale all’autodeterminazione in materia sanitaria e attualità del dissenso, e di PETRI, Preventivo rifiuto alla emotrasfusione e carattere inequivoco della manifestazione, p. 1661; in Foro it., 2009, I, 36, con nota di CASABURI; in Rass. giur. sanità, 2008, 226), per la quale
« legittimamente possono effettuarsi trasfusioni di sangue ritenute indispensabili a un paziente in imminente pericolo di vita e non cosciente, pur se questi — testimone di Geova — portava un cartellino, redatto anteriormente al verificarsi della situazione di pericolo, con la scritta “niente sangue” ».
(28) Cfr. Cass. 30 luglio 2004 n. 14638, in Guida al diritto, 2004, n. 36, p. 51.
(29) Cass. 9 febbraio 2010 n. 2847, cit. osserva che « La riduzione del problema al rilievo che, essendo illecita l’attività medica espletata senza consenso, per ciò stesso il medico debba rispondere delle conseguenze negative subite dal paziente che il consenso informato non abbia prestato, costituirebbe una semplificazione priva del necessario riguardo all’unitarietà del rapporto ed al reale atteggiarsi della questione, la quale non attiene tanto alla liceità dell’intervento del medico (che è solo una qualificazione successiva), ma che nasce dalla violazione del diritto all’autodeterminazione del paziente, essendo al medico anzitutto imputabile di non averlo adeguatamente informato per acquisirne il preventivo, consapevole consenso. Che, se lo avesse fatto ed all’esecuzione dell’intervento (con le modalità rappresentategli) il paziente avesse in ipotesi acconsentito, sarebbe palese l’insussistenza di nesso di causalità materiale tra il comportamento omissivo del medico e la lesione della salute del paziente, perché quella lesione egli avrebbe in ogni caso subito. Rispetto alle conseguenze su tale piano pregiudizievoli occorre allora domandarsi, come in ogni valutazione controfattuale ipotetica, se la condotta omessa avrebbe evitato l’evento ove fosse stata tenuta: se, cioè, l’adempimento da parte del medico dei suoi doveri informativi avrebbe prodotto l’effetto della non esecuzione dell’intervento chirurgico dal quale, senza colpa di alcuno, lo stato patologico è poi derivato. E poiché l’intervento chirurgico non sarebbe stato eseguito solo se il paziente lo avesse rifiutato, per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l’omessa informazione da parte del medico) e lesione della salute per le, pure incolpevoli, conseguenze negative dell’intervento (tuttavia non anomale in relazione allo sviluppo del processo causale: Cass. n. 14638 del 2004), deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l’intervento ove fosse stato compiutamente informato, giacché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell’acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l’evento (lesione della salute). Tra le due sopra prospettate, la soluzione corretta in diritto è dunque la seconda ».
(30) Cfr. Cass. 28 luglio 2011 n. 16543.
(31) Cfr. Cass. pen., sez. I, 29 maggio 2002 n. 528, in Studium iuris, 2003, 511, con nota di VAGNOLI, Consenso dell’avente diritto.
(32) Resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001 n. 145.
(33) Cfr. Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748, cit.
(34) Cfr. Cass. 11 maggio 2009 n. 10741 (in Corr. giur., 2010, 365, con nota di LISERRE, In tema di responsabilità del medico peril danno al nascituro; in Danno resp., 2009, 1167, con nota di CACACE, Figli indesiderati nascono. Il medico in tribunale; in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1258, con nota di CRICENTI, Il concepito soggetto di diritto e i limiti dell’interpretazione; in Foro it., 2010, I 141, con note di BITETTO e di DI CIOMMO, p. 1142 ss.).
(35) Cfr. Cass. 11 maggio 2009 n. 10741, cit.
(36) Cfr. Cass. 14 luglio 2006 n. 16123 (in Danno resp., 2006, 1016; in Corr. giur., 2006, 1691, con nota di LISERRE, Ancora in tema di mancata interruzione della gravidanza e danno da procreazione; in Giur. it., 2007, 1921, con nota di LUBELLI).