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Magistratura Indipendente

PENALE  

Il dolo specifico di profitto nel delitto di furto alla luce della recente ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite

  Penale 
 domenica, 11 giugno 2023

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di Donatella DI SANTO, tirocinante presso la Corte di cassazione

 
 

Abstract: In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, il presente contributo affronta il dibattito giurisprudenziale e dottrinale formatosi in merito all’esatto significato da attribuire al “fine di profitto”, quale oggetto del dolo specifico del delitto di furto.  L’indirizzo interpretativo prevalente accoglie una lettura estensiva, ammettendo che il “profitto” possa consistere in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale. Al contrario, l’orientamento minoritario promuove una lettura restrittiva del dolo specifico di “profitto”, identificandolo esclusivamente nell’utilità economico/patrimoniale.

SOMMARIO: 1. Premessa. -2. L’interpretazione estensiva della nozione di profitto. -3. L’interpretazione restrittiva della nozione di profitto. -4. Profili problematici della teoria tradizionale. -5. Criticità della tesi restrittiva. -6. Conclusioni.

  1. Premessa.

 L’esatta definizione della portata esegetica della nozione di “profitto”, quale oggetto del dolo specifico nei delitti di furto, rappresenta uno degli argomenti maggiormente dibattuti in dottrina e giurisprudenza, tanto vero che con ordinanza del 18 novembre 2022, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha rimesso al vaglio delle Sezioni Unite il seguente quesito di diritto: “se il fine di profitto, in cui si concreta il dolo specifico del delitto di furto, debba essere inteso solo come finalità̀ dell'agente di incrementare la sfera patrimoniale, sia pure in funzione del perseguimento di ulteriori fini conseguibili, ovvero se possa anche consistere nella volontà̀ di trarre un'utilità non patrimoniale dal bene sottratto”.

Nel caso di specie, l’imputato, nel corso di un litigio con la compagna, le aveva strappato di mano il telefono, per poi allontanarsi e venire fermato a breve distanza di tempo dai carabinieri. A seguito delle condanne intervenute in primo e secondo grado per il delitto di furto con strappo di cui all’art. 624-bis c.p., l’imputato proponeva ricorso per cassazione lamentando l’assenza dell’elemento soggettivo del delitto contestato e denunciando, in particolare, l’errata ricostruzione da parte dei giudici di merito del dolo specifico di profitto. Invero, le differenti declinazioni del concetto di “profitto”, che negli anni hanno costellato il panorama giurisprudenziale, hanno avuto dirette ripercussioni sulla concreta operatività della disposizione, dilatando o comprimendo il campo di applicazione della stessa.  

Al fine di comprendere compiutamente i termini della questione, in attesa della pronuncia de qua, il presente contributo mira a passare in rassegna i differenti indirizzi giurisprudenziali che si sono formati sul punto analizzandone le rispettive criticità.

 

  1. L’interpretazione estensiva della nozione di profitto.

L’orientamento ad oggi maggioritario in dottrina e in giurisprudenza accoglie una lettura estensiva della nozione di “profitto”, di fatto disancorandola da connotazioni di segno patrimoniale. Infatti, ai fini dell’integrazione del dolo specifico del delitto di furto, «il profitto avuto di mira può consistere in qualsiasi utilità, anche di natura non patrimoniale, e soddisfare un bisogno di tipo psichico, rispondendo alle più svariate finalità di dispetto, ritorsione, vendetta, rappresaglia, emulazione»[1]. Il fine di profitto, quale oggetto del dolo specifico dei delitti di furto, non deve necessariamente identificarsi nell’animus lucrandi, e cioè nella volontà di trarre dal bene sottratto un’utilità patrimoniale, ben potendosi ravvisare anche nel mero soddisfacimento psichico derivante dall’azione criminosa. I fautori di tale orientamento, pertanto, accolgono una nozione onnicomprensiva di profitto, tale da ricomprendere qualsiasi finalità perseguita dal reo, non solo di natura economica ma anche morale[2]. In sostanza, ai fini dell’integrazione del reato, si ritiene sufficiente che il soggetto agente abbia tratto dalla sottrazione e dall’impossessamento della res una qualsiasi utilità, non essendo necessario il perseguimento di un vantaggio economico. Sulla scorta di tale tesi, la giurisprudenza ha ritenuto integrato il delitto di furto in un caso in cui l’imputato aveva sottratto alla vittima il telefono cellulare al fine di impedirle di inviare un sms[3]; in un caso in cui la sottrazione del telefono cellulare e delle chiavi di casa era finalizzata a verificare la presunta esistenza di una relazione extraconiugale[4]; nel fatto di un imputato che aveva sottratto la macchina fotografica al fine di impedire che venissero scattate altre fotografie[5].

  1. Un primo argomento a sostegno di tale indirizzo viene ravvisato nel tenore letterale della disposizione di cui all’art. 624 c.p., la quale si limita a richiamare genericamente, senza alcuna specificazione, la nozione di profitto. Proprio l’assenza di limitazioni espresse, rende compatibile il fine del profitto «con finalità diverse da quelle strettamente lucrative»[6]. Ne consegue che, l’eventuale limitazione alla sola «aspettativa di un vantaggio patrimoniale», apparirebbe del tutto arbitraria ed in aperto contrasto con «l’ampia portata letterale della disposizione»[7]. Peraltro, tale assunto trova ulteriore conferma nelle Relazioni ministeriali del codice del 1889 e del 1930, ove il legislatore ha preferito alla previgente locuzione “animo di lucro” quella di “profitto”, proprio in ragione della maggiore ampiezza del campo semantico di quest’ultima.

Ulteriore argomento a sostegno della tesi, viene ravvisato nella collocazione sistematica della norma incriminatrice, la quale è appunto annoverata tra i Delitti contro il patrimonio di cui al Titolo XIII del codice penale. Ebbene, proprio in ragione della collocazione sistematica dell’art. 624 c.p., si evince chiaramente che il delitto di furto sia un reato «contro il patrimonio» e non «a vantaggio del patrimonio dell’autore». Il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, pertanto, deve ravvisarsi nel patrimonio della vittima, il quale deve essere protetto da qualsiasi ingiustificata forma di aggressione che possa determinarne l’impoverimento, anche in assenza di un eventuale arricchimento del reo[8]. Infatti, l’indebito arricchimento del soggetto agente non risulta quale elemento costitutivo del delitto di furto. La giurisprudenza di legittimità ritiene che un’ accezione esclusivamente patrimoniale del profitto «priverebbe di tutela penale il possesso delle cose mobili in caso di lesioni dettate da motivazioni non economiche, laddove, invece, il possesso di tali cose, per via della sua agevole possibilità di aggressione determinata dalla natura mobile di tali beni, comporta la necessità di tutela completa e non circoscritta alle sole sottrazioni dettate da fini di locupletazione»[9].

Infine, la tesi della lettura lata del dolo specifico del furto sarebbe corroborata dall’esigenza di soddisfare istanze di tutela collettiva[10]. Infatti, l’adozione dell’opposta tesi, determinerebbe un’eccessiva perimetrazione della tutela penale. Al contrario, un’interpretazione espansiva della nozione di profitto, consente di riconoscere rilevanza penale a numerose ipotesi, tra cui: a) «la sottrazione di bene per poi successivamente distruggerlo», posto che «il danneggiamento conseguente all'amotio della res» sarebbe da considerarsi «fatto non punibile»; b) «il furto nell’interesse della vittima (sottrazione per impedire che il bene sia carpito o distrutto da terzi; sottrazione di cose allo scialacquatore per impedirgli di dissiparle; sottrazione di alcool all'alcolizzato)», ove l’eventuale non punibilità̀ dell’agente potrebbe essere riconosciuta soltanto in sede di valutazione dell’antigiuridicità̀ della condotta; c) «il furto determinato da motivazioni emulative o affettive»; d) «la sottrazione di beni non commerciabili»[11].

 

  1. L’interpretazione restrittiva della nozione di profitto.

 Un secondo indirizzo interpretativo, manifestatosi in tempi meno risalenti in seno alla giurisprudenza di legittimità, prendendo le mosse dall’impostazione più tradizionale, sposa una nozione di profitto “in senso economicistico”. All’interno di tale indirizzo è possibile distinguere tre diverse classi di sentenze, le quali, evidenziando i profili problematici della tesi rigorista, pervengono al suo stesso superamento.

  1.  Una prima classe di sentenze, tesa a temperare l’estremo rigorismo della tesi tradizionale, è rappresentata dalle sentenze Gobetti[12] e Nutu[13], ove pur ammettendosi che «il profitto possa consistere in una qualsiasi utilità o vantaggio, anche di natura non patrimoniale, essendo sufficiente che il soggetto attivo abbia operato per il soddisfacimento di un qualsiasi interesse, anche psichico»[14]o che « il fine di profitto non debba necessariamente essere una finalità di beneficio patrimoniale o economico», si esclude, tuttavia, la sussistenza del dolo specifico di profitto ove «non possa essere ricondotta allo scopo di “sfruttare” in qualsiasi maniera il bene» o «a percepire dalla cosa asportata un immediato e diretto profitto»[15] ovvero « in assenza di un significativo periodo di detenzione della cosa sottratta, rispetto al quale possa essere valutato il conseguimento di un’utilità autonomamente apprezzabile»[16]. Sulla base di tali considerazioni, la giurisprudenza di legittimità escludeva la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di furto nel caso di un fotografo che, al fine di preservare la propria attività commerciale, aveva sottratto e conservato nel proprio negozio alcuni cartelli posti all’ingresso da parte di un altro commerciante[17]; nel caso di un imputato che aveva sottratto un telefono cellulare al fine di impedire alla vittima di corteggiare la sua fidanzata[18]; nel caso di uno studente che si era impossessato di un lucchetto al fine di compiere un atto vandalico[19].
    1. Successivamente, il contrasto diviene manifesto con le sentenze Lettina ed El Sheshtawi, ove si rileva che il fine di profitto deve essere interpretato come «possibilità di fare uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell'utilità intesa in senso economico/patrimoniale»[20]. Secondo tale indirizzo ermeneutico, pertanto, la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice, che si concretizza nella sottrazione e nell’impossessamento della cosa mobile altrui, deve necessariamente tendere verso la finalità di incrementare la sfera patrimoniale del reo, o comunque di trarre dalla stessa un’utilità apprezzabile in termini economico-patrimoniali per sé o per altri. Così, la Suprema Corte nel primo caso ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato nell’ipotesi di un imputato che aveva sottratto la borsa della persona offesa, non al fine di trarre dalla stessa un’utilità economica, bensì per finalità di dispetto[21]. Allo stesso epilogo è pervenuta nel secondo caso, che vedeva protagonista un sindacalista il quale, per consentire ai colleghi di uscire dal luogo di lavoro, aveva asportato dei fusibili dalla scatola di derivazione della saracinesca di un magazzino[22].   
    2. Ultimo filone meritevole di nota è rappresentato dalle sentenze, particolarmente recenti, Stawicka ed E.A., ove i giudici di legittimità identificano il dolo specifico di profitto «nella finalità del soggetto agente di conseguire un incremento della propria sfera patrimoniale eventualmente anche per la capacità strumentale del bene di soddisfare un bisogno umano, materiale o spirituale, che si profila come fine ulteriore dell’azione»[23]. Sebbene il richiamo ai “bisogni spirituali” sembrerebbe suggerire una maggiore vicinanza alla tesi tradizionale, a ben vedere così non è, in quanto tali sentenze condividono e meglio sviluppano la nozione patrimoniale di profitto. Infatti, l’elemento soggettivo del delitto di furto viene escluso sia nel caso di un gruppo di animalisti che aveva sottratto cani di razza beagle al fine di liberarli[24], sia nel caso di un imputato che aveva sottratto il telefono cellulare della persona offesa al fine di impedirle di effettuare una telefonata[25]. Orbene, in tali casi, i giudici di legittimità hanno evidenziato come l’eccessiva dilatazione della nozione di profitto «finirebbe per svilire la ratio dell’incriminazione del furto, che si basa non soltanto sulla base oggettivistica dell’offesa patrimoniale arrecata alla vittima», ma anche su quella, «ad impronta soggettivistica, del profitto dell’agente», sottolineando come «il legislatore abbia non soltanto inteso evitare l’impoverimento altrui, ma anche scoraggiare l’arricchimento o, comunque, l’avvantaggiarsi dell’agente derivante dalla ruberia»[26].
  2. Secondo i fautori di tale tesi, una differente prospettiva esegetica, tesa ad ampliare il campo di applicazione della norma incriminatrice a condotte che «non sono dirette a perseguire una finalità dotata di un’immediata incidenza di natura economica»[27], risulterebbe inconciliabile con la collocazione sistematica dell’art. 624 c.p. Il delitto di furto, infatti, da un lato, mira ad impedire l’impoverimento della vittima, e dall’altro ad evitare l’ingiustificato arricchimento del soggetto agente. Esso, quale forma di aggressione unilaterale al patrimonio altrui, «provoca una rottura delle regole di mercato»[28]; infatti, l’azione criminosa è tesa ad evitare «l’esborso patrimoniale normalmente necessario per acquistare beni»[29]. Se la ratio sottesa è, dunque, la rottura della logica del mercato, ne deriva che, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa, è necessario che il reo abbia agito per procurare a sé o ad altri un vantaggio patrimoniale. L’offesa tipica descritta dall’art. 624 c.p. consiste nel pregiudizio arrecato al patrimonio della persona offesa, e nell’ambito di un’offesa patrimoniale, «è verosimile che il profitto assuma una veste patrimoniale, senza la quale verrebbe meno la coerenza sistematica»[30]. Ulteriore argomento a sostegno della tesi in commento, si desume dalla lettera dell’art. 626, n. 1, c.p., il quale prevede una mitigazione del trattamento sanzionatorio nel caso in cui la cosa sia sottratta allo scopo di farne un «uso momentaneo» e successivamente restituita. Dal combinato disposto degli artt. 624 e 626 c.p., si evince che la fattispecie non attenuata è connotata dallo scopo di un «uso non momentaneo» ovvero di un «uso momentaneo non seguito dalla restituzione». Ebbene, alla luce del principio della consunzione, se il fatto di maggiore gravità «consuma i requisiti di disvalore del fatto meno grave», il fine di profitto deve necessariamente contenere il fine di «far uso della cosa» e non può spingersi oltre, fino a contemplare il «non uso» della stessa. Se così fosse, si arriverebbe al paradosso di punire con una pena più afflittiva il «non uso» della cosa sottratta, rispetto all’«uso momentaneo».  Inoltre, l’art. 624, comma 2 c.p., nel richiamare le energie, anch’esse suscettibili di essere qualificate come cosa mobile, precisa che le stesse debbano avere un valore economico. Allo stesso modo, l’art. 626, comma 1, n. 2, c.p., prevede una mitigazione del trattamento sanzionatorio nel caso in cui oggetto materiale della condotta sia una «cosa di tenue valore», lasciando intendere, pertanto, come la stessa debba essere suscettibile di valutazione economica. Alla luce di quanto premesso, i fautori della tesi più garantista ritengono che dal combinato disposto degli artt. 624 e 626 c.p. possa desumersi che il fine di profitto «può essere correttamente inteso come il fine di fare uso della cosa sottratta che abbia valore economico»[31]. Peraltro, secondo tale opzione ermeneutica, la volontà del legislatore di circoscrivere il campo semantico della nozione di “profitto”, limitatamente allo scopo di lucro, risulterebbe anche dal tenore letterale di altre disposizioni, tra cui l’art. 416-bis c.p., ove nel rappresentare le finalità della societas sceleris, accanto alla nozione di “profitto ingiusto” si prevede espressamente quella di “vantaggio”. È innegabile, infatti, la profonda diversità che intercorre tra le locuzioni, entrambe richiamate nella medesima disposizione. In tal senso, l’uso della disgiunzione “o”, risulta indicativa della volontà del legislatore di differenziare le due nozioni, tanto da far ritenere impossibile l’eventuale sovrapposizione delle stesse. Da ciò consegue che, mentre il concetto di “vantaggio” ha una portata più ampia tale da ricomprendervi qualsiasi utilità, quello di “profitto” è strettamente legato all’incremento del patrimonio[32].  Infine, la lettura tradizionale del fine di “profitto”, tale da ricomprendere oltre al vantaggio patrimoniale, qualsiasi altra forma di soddisfazione anche meramente morale, si espone all’ulteriore critica di annullare completamente la funzione selettiva del dolo specifico «pervenendo, in definitiva, ad un'interpretatio abrogans del detto elemento essenziale, degradato ad un profitto in re ipsa, coincidente con il movente dell'azione [...] che sempre esiste, non potendo concepirsi che un uomo agisca se non sospinto da un motivo»[33]. Secondo i fautori di tale tesi, pertanto, una lettura ristretta della nozione di profitto, intesa in senso patrimoniale, sarebbe maggiormente rispettosa dei principi fondamentali su cui si impernia il diritto penale, tra cui il principio di offensività, di proporzionalità della sanzione penale, nonché della ratio che ispira la figura del dolo specifico.

 

  1. Profili problematici della teoria tradizionale.

La tesi tradizionale, sebbene accolta dalla prevalente giurisprudenza, si presta all’osservazione critica di neutralizzare la tipica funzione selettiva del dolo specifico. Quest’ultimo, nel delitto di furto, viene espressamente richiamato dalla littera legis, nella parte in cui si richiede che la sottrazione e l’impossessamento siano diretti «al fine di trarne profitto per sé o per altri». Il soggetto agente, pertanto, oltre a rappresentarsi e volere la sottrazione e l’impossessamento della cosa mobile altrui, deve perseguire un fine ulteriore. Esso è espressione di un quid pluris, ossia del perseguimento di una finalità ulteriore, estranea al fatto materiale, la quale non deve necessariamente essere conseguita affinché il reato si perfezioni. Si tratta di una tecnica normativa attraverso la quale il legislatore opera una delimitazione del campo di applicazione della norma incriminatrice, riconoscendo rilevanza penale alla condotta soltanto nei casi in cui l’azione del soggetto agente risulti orientata verso particolari finalità espressamente contemplate dal testo della norma. In tal senso, è stato chiarito che «proprio il fine di profitto assolve ad una funzione di limite dei fatti punibili a titolo di furto» e, nel contempo, «individua una linea di confine tra il furto ed altre figure di reato, non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte dell'agente»[34]. Dilatare a dismisura l’oggetto del dolo specifico di profitto significherebbe in buona sostanza confonderlo con il movente dell’azione, di modo che il «delitto di furto verrebbe a coincidere, in concreto, con una fattispecie a dolo generico»[35].  Invero, la nozione onnicomprensiva di profitto, tale da ricomprendervi qualsiasi utilità psichica o morale, implicherebbe un dolo specifico soltanto “apparente”, essendo in re ipsa. In sostanza, l’elemento finalistico, se ravvisato in un qualsiasi piacere, inevitabilmente verrebbe sempre integrato, in quanto è innegabile che qualsiasi comportamento umano sia teso al perseguimento di un vantaggio, almeno morale. Sulla base di tale premessa, particolarmente problematico risulta anche l’accertamento concreto del dolo specifico. Infatti, quest’ultimo deve costituire oggetto di un accertamento autonomo, non essendo possibile desumerlo dal fatto, in quanto estraneo a quest’ultimo[36].   Ma se il profitto del furto consiste in una qualsiasi soddisfazione o vantaggio, diventa illusorio pensare che «il giudice debba ricavare aliunde la prova della sua esistenza»[37] .                                                                                             Poco convincente, inoltre, appare l’ulteriore argomento speso dai fautori della tesi tradizionale, in ordine al presunto vuoto di tutela che deriverebbe dall’adozione di un’interpretazione restrittiva della nozione di profitto. In tal senso, infatti, è necessario rappresentare come nel caso di danneggiamento successivo alla sottrazione, non può condividersi l’assunto secondo il quale, al mancato riconoscimento dell’elemento soggettivo del delitto di furto, debba conseguire necessariamente l’esclusione della punibilità della condotta posta in essere, in ragione dell’assorbimento del delitto di danneggiamento in quello di furto.  La giurisprudenza di legittimità, infatti, ha evidenziato che tale condotta, sebbene non sussumibile nel delitto di furto, sarebbe comunque punita. Invero, il delitto di danneggiamento non verrebbe assorbito dal furto, in quanto l’istituto del concorso apparente di norme opera nel caso in cui la pluralità di norme incriminatrici che insistono sulla medesima condotta siano applicabili, non anche qualora il reato “assorbente” risulti insussistente.  Parimenti, con riferimento alle ipotesi di sottrazione di beni non commerciabili, non si comprende come l’adozione della lettura restrittiva di profitto possa essere ostativa alla punibilità di condotte illecite il cui oggetto materiale sia rappresentato da un bene di cui non è consentito il commercio. Infatti, il carattere della patrimonialità attiene all’utilità che il soggetto agente intenda trarre dalla cosa sottratta. In tal senso, nulla vieta che la sottrazione e l’impossessamento di un bene non commerciabile, comunque provvisto di valore economico, possa essere finalizzata al perseguimento di un vantaggio economico. Privo di pregio risulta anche l’argomento letterale alla luce del quale la nozione di profitto, in assenza di qualsiasi ulteriore specificazione, ben potrebbe essere a tal punto dilata da ricomprendervi qualsiasi utilità anche di tipo morale. In linea generale deve riconoscersi come nel linguaggio corrente il vocabolo profitto venga impiegato non solo in ambito economico, dovendosi, al contrario, segnalare un novero particolarmente ampio di significati letterali, tali da ricomprendervi anche le utilità spirituali. Tuttavia, sebbene l’esegesi rigorista non si ponga in aperto contrasto con il significato letterale della locuzione “profitto”, non può trascurarsi un importante argomento ostativo all’eccessiva dilatazione della locuzione stessa. Il legislatore, infatti, come precedentemente segnalato, nella sistematica del codice ha inteso differenziare i concetti di “vantaggio” e “profitto”, conferendo al primo maggiore ampiezza.

 

  1. Criticità della tesi restrittiva.

Sebbene la tesi prevalente presenti evidenti punti di criticità, tali da poter indurre gli interpreti a prediligere una lettura più restrittiva della nozione di profitto, merita di essere segnalato un importante profilo problematico che pure suscita la tesi più garantista. In particolare, parte della dottrina rileva che il dolo specifico di profitto, inteso quale «possibilità di far uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell’utilità intesa in senso economico/patrimoniale», potrebbe condurre a restringere eccessivamente l’area del penalmente rilevante, così da escludere la punibilità di ipotesi “classiche” di furto, in relazione alle quali, tuttavia, sarebbe difficile ravvisare l’elemento dell’utilità economica. In sostanza, la circoscrizione del profitto al solo vantaggio patrimoniale si presta ad una lettura troppo rigorosa, tale da creare effettivi vuoti di tutela.[38] Si pensi a tutti i casi in cui la sottrazione e l’impossessamento siano diretti a soddisfare un bisogno unicamente spirituale, rispetto al quale il valore economico della cosa sottratta diviene irrilevante. L’esigenza di ovviare ad evidenti deficit di tutela, ha indotto la prevalente dottrina a prediligere una tesi meno radicale, sposata dai giudici di legittimità nelle sentenze Stawicka ed E.A., ove si è ritenuto che il dolo specifico di profitto «sussiste soltanto nel caso in cui l’autore abbia agito per perseguire un ampiamento del proprio patrimonio, quale fine diretto ed immediato dell’azione», sia pure con l’intento di «ottenere per tale via il soddisfacimento di un bisogno ulteriore anche solo di ordine spirituale». Tale soluzione esegetica, peraltro, meglio si adatta alla lettura costituzionalmente orientata della nozione di “patrimonio”. Ad oggi, infatti, viene accolta la concezione giuridico-funzionale- personalistica che riferisce alla nozione di “patrimonio” «il complesso dei rapporti giuridici facenti capo ad una persona» e aventi ad oggetto «beni dotati di una funzione strumentale a soddisfare bisogni umani, materiali o spirituali»[39], la quale, tra tutte, sembra essere la più rispettosa del dettato costituzionale che riconosce la centralità della persona e della sua dignità.

  1. Inoltre, privo di pregio risulta l’argomento evocato in diverse pronunce della giurisprudenza di legittimità a sostegno della tesi minoritaria, secondo il quale la lettura espansiva della nozione di profitto sarebbe inconciliabile con la collocazione sistematica dell’art. 624 c.p. Sul punto, deve rilevarsi che la coerenza sistematica del Titolo XIII non viene affatto alterata in caso di accoglimento della tesi tradizionale. Infatti, nulla vieta che una condotta diretta al soddisfacimento di un bisogno psichico o morale possa concretamente arrecare un pregiudizio al patrimonio della vittima. Tale considerazione viene suffragata dalla previsione nel Titolo XIII di altre fattispecie delittuose, comunque poste a presidio del patrimonio, per le quali il dolo specifico richiesto non ha contenuto patrimoniale, come nel caso della rapina impropria[40].

 

 

  1. Conclusioni.

In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite, tesa a dirimere il contrasto giurisprudenziale formatosi in ordine all’esatto significato da attribuire al “fine di profitto”, le argomentazioni sin qui svolte dimostrano come entrambe le opzioni ermeneutiche analizzate presentino profili problematici. Se da un lato, la tesi tradizionale sembra tradire la struttura normativa della fattispecie degradando il dolo specifico a dolo generico; dall’altro, la tesi minoritaria rischia di paralizzare l’operatività della disposizione, escludendo la sussistenza dell’elemento soggettivo in casi in cui sarebbe innegabile la sussistenza di un furto. Sebbene elemento centrale del dibattito sia la definizione del concetto di “profitto”, parte della dottrina ha suggerito di spostare il focus della questione, allontanandosi dalla dicotomia tra “vantaggio economico” e “soddisfazione morale” e concentrando l’attenzione sul «legame tra “profitto” e “bene sottratto”»[41]. Invero, ponendo lo sguardo al tenore letterale della disposizione si evince chiaramente come il legislatore abbia inteso stabilire un rapporto di strumentalità tra la condotta sottrattiva ed il profitto: l’utilità, valutabile o meno in termini patrimoniali, deve derivare direttamente dal bene sottratto. In altri termini, i fautori di tale tesi ritengono sussistente il dolo specifico di profitto unicamente nel caso in cui il soggetto agente «è mosso dall’intenzione di trarre dal bene il suo tipico valore d’uso», escludendone la sussistenza in caso contrario. Sulla base di tale opzione ermeneutica si perverrebbe ad escludere la configurabilità del delitto di furto nel caso di sottrazione del cellulare al fine di scoprire un tradimento, ovvero nel caso di sottrazione di un bene finalizzata ad impedire l’utilizzo dello stesso, in quanto l’agente «non è animato dalla volontà di sfruttare tali beni per l’uso ad essi connaturato».



[1] Cass., Sez. IV, 6 ottobre 2021, n. 4144, Caltabiano; Cass., sez. V, 14 dicembre 2020, n. 4304, Cirmena; Cass., Sez. IV, 19 settembre 2012, Caleca.

[2] Cass., Sez. II, 6 marzo 1978, n. 9411, Sessa; Cass., Sez. II, 13 gennaio 1976, n. 7263, Erbaggi; In dottrina, accolgono la nozioni onnicomprensiva di “profitto”: F. ANTOLISEI, C.F. GROSSO, Manuale di diritto penale. Parte speciale. Milano, 2016, pag. 389 ss; G.,ARINUCCI, E. DOLCINI, Trattato di diritto penale- Parte speciale, Padova, 2013; G.LEONE, Per una revisione del concetto di profitto nel delitto di furto, in Riv. it. dir. pen., 1954.

[3] Cass., Sez. II, 9 ottobre 2012, n. 40631, Sesta.

[4] Cass., Sez. IV, 26 novembre 20189, n. 13842, Saraceno.

[5] Cass., Sez. V, 14 dicembre 2020, n. 4304, Cirmena.

[6] Cass., Sez. V, 13 dicembre 2018, n. 7559.

[7] Cass., Sez. IV, 19 settembre 2012, n. 30, Caleca.

[8] NICOLO’ GRANOCCHIA, Arch. Pen., 2022, pag. 3 ss.

[9] Cass., Sez. IV, 27 febbraio 2019, n. 13842.

[10] NICOLO’ GRANOCCHIA, Arch. Pen., 2022, pag. 6 ss.

[11] Cass., Sez. IV, 26 novembre 2019, n. 13842, Saraceno; in dottrina Sistema penale, 2/2023, Alberto Aimi.

[12] Cass., Sez. V, 13 dicembre 2006, n. 4975 Gobetti,

[13] Cass., Sez. IV, 18 settembre 2009, n. 47997, Nutu.

[14] Cass., Sez. V, 13 dicembre 2006, n. 4975, Gobetti,.

[15] Cass., Sez. IV, 18 settembre 2009, n. 47997, Nutu. Accolgono una nozione economico/patrimoniale di profitto in dottrina: G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2019, pag. 70 ss.; E. MEZZETTI, Reati contro il patrimonio, in C.F. GROSSOP, T. PADOVANI, A. PAGLIARO, Trattato di diritto penale, Milano, 2013, 111 ss.

[16] Cass., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 28549, Saraniti.

[17] Cass., Sez. V, 13 dicembre 2006, n. 4975, Gobetti.

[18] Cass., Sez. IV, 18 settembre 2009, n. 47997, Nutu.

[19] Cass., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 28549, Saraniti.

[20] Cass., sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073, Lettina,; Cass., sez. V, 5 aprile 2019, n. 25821, El Sheshtaw, nella dottrina: G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2019, 70 ss.;

[21] Cass., Sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073, Lettina.

[22] Cass., Sez. V, 5 aprile 2019, n. 25821, El Sheshtawi.

[23] Cass., Sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438, Stawicka; Cass., Sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421, E.A..

[24] Cass., Sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438, Stawicka.

[25] Cass., Sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421, E.A.

[26] Cass., Sez. V, 1 luglio 2019, Stawicka, cit.

[27] Cass., Sez. V, 5 aprile 2019, n. 25821, El Sheshtawi

[28] A.AIMI, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, Sist.pen., 2023.

[29] FIANDACA-MUSCO, Diritto penale parte speciale, vol. II, Torino, 2015.

[30] GROSSO-PADOVANI-PAGLIARO, Trattato di diritto penale. Parte speciale, Reati contro il patrimonio, Milano 2013, 110; A. FIORELLA, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2019, pag. 155 ss.

[31] LORENZO PICOTTI, Il dolo specifico: un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, 1993, pag. 179 ss.

[32] LORENZO PICOTTI, Il dolo specifico: un’indagine sugli elementi finalistici delle fattispecie penali, 1993, pag. 175 ss.

[33] Cass., sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438, Stawicka, cit. Negli stessi termini, Cass., sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421, E.A.

 

[34] Cass., Sez. V, 23 gennaio 2018, n. 30073, Lettina

[35] Cass., sez. V, 1 luglio 2019, n. 40438, Stawicka, cit. Negli stessi termini, Cass., sez. V, 17 maggio 2022, n. 26421, E.A.

[36] A. FIORELLA, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2019.

[37] A. FIORELLA, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2019.

[38] LEONE, Per una revisione del concetto di «profitto» nel delitto di furto, in Scritti giuridici in onore di V. Manzini, Padova, 1954, pag. 285 ss.; A.AIMI, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, Sist.pen., 2023.

[39] A.AIMI, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, Sist.pen., 2023.

[40] G.FIANDACA, E.MUSCO, Diritto penale. Parte speciale. I delitti contro il patrimonio, Bologna, 2019; G.PECORELLA, Furto comune, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969; A.AIMI, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, Sist.pen., 2023

[41] A.AIMI, La nozione di dolo specifico di profitto al vaglio delle Sezioni Unite, Sist.pen., 2023.

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RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

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