In questi giorni di forzata ed apprensiva permanenza domiciliare, dovuta all’infuriare della pandemia che la freddezza scientifica denomina “COVID19”, come già a Carl Schmitt nel segreto della cella (“Ex captivitate salus”), due grandi maestri del passato vengono a farmi visita e ad illuminare il senso di disorientamento che, ancor più da cittadino che da giurista, provo dinanzi agli effetti prodotti dalla normazione emergenziale che sta soffocando in modo rilevante taluni diritti fondamentali che fino ad oggi siamo stati abituati ad immaginare scontati: questi due maestri sono lo stesso Carl Schmitt ed Hans Kelsen.
Qualunque legislazione emergenziale, per l’indubbio “vulnus” che crea ai diritti fondamentali scolpiti nella nostra Costituzione e, sotto il profilo filosofico - politico, allo Stato di diritto nel suo complesso, ha sempre fatto discutere gli interpreti sulla sua compatibilità con i cennati principi.
Ma fino ad oggi, almeno nel corso del periodo dell’Italia repubblicana, si è trattato solo, per dirlo con una felice espressione concettuale che mutuo da Thomas Kuhn, di “scienza normale”, di un’ordinaria prova di tenuta del nostro sistema giuridico, periodicamente sottoposto a forti tensioni ed a trazioni derivanti da sconvolgimenti politico sociali (criminalità organizzata terroristica, mafiosa, etc.). Allo stato attuale, invece, la questione è radicalmente differente, ed assai più insidiosa, atteso che il nemico non proviene dalle trincee nascoste ed ipogee dell’antagonismo ideologico, ne’ dalla devianza criminale di matrice economico - sociale, ma pervade, indistintamente, le nostre esistenze, mettendo in serio e generalizzato pericolo l’incolumita’ personale di tutti, ed indirettamente, in prospettiva, forse addirittura con maggiore virulenza, i livelli di benessere acquisiti. La “scienza” del pregiudizio per l’integrita’ dell’ordinamento giuridico, da “normale” si fa dunque “straordinaria”, perché mutano sia il paradigma tipico del fattore di aggressione (non più fenomeni di natura antropologica), sia la percezione degli effetti di tale aggressione (un pericolo biologico “interclassista e democratico” che pervade l’intera comunità internazionale). E a determinare la metamorfosi del paradigma questa volta non è tanto l’evento straordinario in se’, checche’ se ne dica del tutto simile ad altri già sperimentati nel corso della storia anche recente, ma la reazione che a livello istituzionale e sociale ha suscitato, trasformando un’ordinaria emergenza sanitaria in quello che uno dei miei immaginari visitatori, Carl Schmitt, definiva uno “stato d’eccezione”, per fondare la sua teoria della sovranità. Lo “stato d’eccezione”, nella peculiare visione di questo grande intellettuale del ‘900, integrando il presupposto “politico - istituzionale” per stabilire a chi “competa” la decisione ultimativa, consente di stabilire chi sia il “sovrano”, indicandone nel contempo i caratteri ontocratici. Il sovrano e’ tale perché decide nello Stato d’eccezione e la sovranità, senza questo presupposto legittimante, resterebbe un attribuito vuoto ed astratto, difficilmente denotabile. A ben vedere, questo tempo che nella quasi generale inconsapevolezza stiamo vivendo, sospeso non solo nella sua dimensione esistenziale, ma anche in quella politico - istituzionale dell’integrita’ dell’ordinamento giuridico, e’ un tempo che costituisce paradigma e figura dei tanti drammatici spartiacque cui la storia ha destinato le fragili democrazie. Non si tratta di voler rappresentare un’interpretazione a tutti i costi pessimistica dei precedenti storici (Repubblica di Weimar “in primis”), ma di saper cogliere appieno le analogie strutturali e concettuali che quei precedenti evidenziano rispetto alla situazione presente. Volendo valorizzare il profilo fenomenologico della teoria della sovranità di Carl Schmitt, non certo quello strettamente politico - effettuale, non si può non constatare come, nel corso di questa emergenza, l’atteggiarsi concreto delle varie istituzioni implicate, la qualità della normazione prodotta, persino la forte valenza simbolica del linguaggio e della narrazione adottati dai pubblici poteri, evochino una situazione tipica dello “stato d’eccezione”. L’ordinamento giuridico costituzionale viene sospeso, decomposto e rimodulato in funzione di un nuovo ordine in cui il più classico e cogente “ircocervo” giuridico, un concetto per metà assiologico e per metà biologico, quello della salute, viene posto a fondamento, giustificazione, fine e misura di qualunque restrizione il “sovrano” intenda arbitrariamente introdurre.
Senza addentrarsi in un’analitica disamina dei profili strettamente tecnico - normativi del fenomeno, basti dire che quello che dovrebbe costituire il presidio formale affinché il principio costituzionale della riserva di legge in tema di limitazioni della libertà personale venga rispettato, consiste nel decreto - legge, successivamente convertito in legge, che contiene disposizioni assolutamente vaghe e generiche, sia sotto il profilo delle rispettive competenze a provvedere, sia con riguardo alla tassativa indicazione delle modalità di compressione di un diritto del calibro di quello della libertà personale. E il risultato di una copertura legislativa tanto vaga e’ la proliferazione di una serie di fonti secondarie attuative, spesso tra loro contrastanti, a disciplinare uno dei diritti cardine di un assetto democratico. Quanto tutto ciò sia compatibile con il nostro ordinamento costituzionale e’ questione che solo il passare del tempo potrà consentire di inquadrare con i giusti filtri ermeneutici, giacche’ oggi, sull’onda dell’emotivita’ e, talora, di una vera e propria psicosi, prevalgono pulsioni assiologicamente totalitarie ed eccessivamente semplificative. La pluralità e la contraddittorietà delle fonti attuative secondarie rappresenta, in realtà, la cifra differenziale di questo nostro sovrano odierno, che non si manifesta più come un organo monocratico, o comunque come un’istanza decisionale unitaria e coerente, alla stregua di quelli classici, ma si manifesta come un sovrano “diffuso”, disseminato in una pletora di istanze decisionali talora in aperto conflitto interpretativo tra loro, secondo la migliore e più avanzata espressione del “babelismo” postmoderno. Presidenza del Consiglio, singoli ministri, presidenti di Regione, sindaci, organi tecnocratici di ausilio governativo (Protezione Civile, I.S.S., prefetti, forze di Polizia), persino i protagonisti del circuito mediatico: tutti rappresentano, indistintamente, irrelati centri di potere decisionale i quali, chi con il proprio editto pretorio territoriale, chi con un suo “vademecum” comportamentale esplicativo/precettivo, inastando il vessillo valoriale del bene supremo della salute, esercitano a loro modo la sovranità nel presente stato d’eccezione, in una caleidoscopica danza di interpretazioni intorno al simulacro agonizzante del diritto di libertà. E in questa fiera delle decisioni sembra vacillare anche il più scomodo dei pilastri dello Stato di diritto: il principio di separazione dei poteri. Si afferma, sempre da più parti, l’idea che l’efficacia delle misure imposte dal “sovrano” non debba tollerare l’intralcio di un controllo giurisdizionale pervasivo ed effettivo, il quale, tuttavia, pur resistendo allo stato di mera possibilità formale, tende sempre più a trasformarsi, da verifica sulla legittimità dell’operato dei pubblici poteri, in supporto dell’azione repressiva per chi viola le disposizioni rigoriste.
Sia chiaro, non è certamente in discussione la bontà del movente che, nella presente contingenza, anima ogni singolo protagonista dell’attuale esercizio di sovranità diffusa, ma il prodotto istituzionale che ne deriva e’ qualcosa che, in proiezione futura, dovrebbe allarmare tutti per la sua portata eversiva del sistema ordinamentale e rispetto a cui non si assiste, invece, ad un’adeguata presa di coscienza. Quando questo particolare stato d’eccezione sarà solo un ricordo, la forma, il “pacchetto” giuridico teorico predisposto per farvi fronte rimarrà, tuttavia, assolutamente intatto, con tutte le sue perniciose potenzialità espansive, a disposizione del nuovo sovrano. Sarà sufficiente un’abile sostituzione del sostrato valoriale di riferimento, non più in quel caso la tutela della salute, ma, per esempio, quella dell’integrita’ culturale della nazione, o la volontà del popolo espressa dal suo capo carismatico, per legittimare la piena potestà decisionale dei futuri tutori del nuovo ordine.
Di fronte, pertanto, ai rischi di una tale prospettiva, mi conforta la presenza del secondo visitatore al quale sopra accennavo, quel Kelsen il cui pensiero, uscito politicamente sconfitto da analoga tragica disputa negli anni ‘30 del secolo scorso, rappresenta comunque il più valido argine spirituale alle avventure decisioniste. Ciò nella misura in cui questo straordinario pensatore relativizza - uso l’espressione in senso a sua volta relativo, e con grande cautela - la valenza tirannica dei valori, a beneficio di un assetto ordinamentale puro, ma pur sempre valido ed efficace anche nella temperie della situazione d’eccezione, in quanto privo di connotati personalistici. E’ vero, coglieva senz’altro nel segno Carl Schmitt quando, proprio a Kelsen, rimproverava la teorizzazione di un sistema astratto, in cui lo Stato coincide con un ordinamento giuridico strutturalmente vacuo e suscettibile di “abusivo riempimento” con qualunque istanza valoriale, anche, in ipotesi, con un’istanza di natura criminosa. Ma, sebbene il rischio che la purezza logico - normativa trasformi, per eterogenesi dei fini, il sistema giuridico nella sua negazione sia un rischio insito in qualunque prodotto logico dello spirito umano, tuttavia la peculiarità del sistema kelseniano e’ quella di affermare il primato del giuridico in se’, sempre e ad ogni costo, sia rispetto alla forza bruta dei condizionamenti sociali eccezionali sia, sotto altro significativo profilo, rispetto al rischio di contaminazione e di soggezione ad istanze valoriali imposte di volta in volta come assolute. Ciò in quanto l’operazione giusfilosofica piu’ pericolosa, per le sue tragiche conseguenze sul piano storico - politico, e’ sempre stata quella di innestare istanze valoriali totalitarie e presuntivamente oggettive su un impianto giuridico formalmente positivo; in altri termini, la pretesa di conciliare il formalismo morale kantiano, nella sua declinazione giuridica, con l’oggettivismo dell’etica materiale dei valori di Max Scheler. Tale operazione, ardita sul piano speculativo, si è sempre dimostrata esiziale su quello politico.
Non sono, dunque, mai ammissibili nell’“apollineo” sistema kelseniano, sospensioni e/o interruzioni dell’ordinamento giuridico, perché l’ordinamento giuridico non può essere sospeso per nessun motivo senza che, per il cennato principio di equivalenza, venga sospeso lo Stato stesso. Ma soprattutto perché, ammonisce Kelsen, ed e’ questa la principale lezione da trarre per il futuro, non si deve mai superare quella sottile linea di confine che trasforma il senso, ed il consenso, oggettivo che rende una norma valida e vincolante per tutti, nella sua degenerazione soggettiva, nell’arbitrio di un sovrano che, quasi sempre col pretesto di interpretare un’istanza valoriale preminente, emani ordini a suo insindacabile piacimento; esattamente cio’ che sta avvenendo in questo drammatico momento. Certo, per mitigare un po' i rigori del Kelsen giurista puro, neo - kantiano e quindi eccessivamente formalista, e’ necessario anche attingere al Kelsen filosofo della politica, ma, del resto, nessuna buona teoria giuridica ordinamentale potrebbe reggersi senza il sostegno di una buona riflessione filosofico - politica.
Purtroppo molti oggi, ritenendo, con metafora di fin troppo inquietante attualita’, che il nostro sistema giuridico sia comunque difeso da idonei anticorpi, tali da contenere le derive sovraniste di uno stato d’eccezione, nutrono l’illusione che, in fondo, si tratti di una piu’ che giustificata sospensione temporanea di diritti certamente fondamentali, ma comunque subordinati e cedevoli, e che al ripristino della normalità sanitaria anche la normalità giuridica si riespandera’ pienamente ed automaticamente. Sono fermamente convinto, per le ragioni che ho sopra esposto, che si tratti solo di una pia illusione, dato che, nella storia, ogni significativo arretramento, o compromesso, sul piano dei diritti fondamentali ha sempre richiesto tempi lunghi o fattori traumatici di ripristino, proprio per la scarsa capacità di adattamento degli ordinamenti democratici a tollerare sospensioni o, peggio, fratture.
Nei confronti di chi agita valori assoluti, e non accetta neppure il contraddittorio sul loro concreto atteggiarsi, sui loro possibili limiti, sulla ragionevolezza del loro bilanciamento e sulla loro corretta interpretazione, mi conforta ancora una volta la visita, ricevuta nel corso dei miei arresti domiciliari, di Hans Kelsen. In un saggio fondamentale per la comprensione dei meccanismi della democrazia e, più in generale, della stessa esistenza umana, Kelsen analizza la contrapposizione tra assolutismo e relativismo, in diritto come in filosofia. Rievocando il processo a Gesù, nella narrazione che ne fa il Vangelo di Matteo (Cap. XVIII), stigmatizza la domanda, “Quid est veritas”, che lo scettico Pilato pone ad un Gesù tanto sicuro della propria, assoluta, legittimazione trascendente. La procedura democratica plebiscitaria che successivamente attiva il relativista Pilato per stabilire la colpevolezza di Gesù cede credibilità alla considerazione che il prescelto dal popolo, Barabba, fosse un ladro. E questa, sottolinea Kelsen, sarebbe una formidabile obiezione contro i principi della democrazia; ma, anch’egli relativista, aggiunge che si tratta di un argomento che dev’essere accettato solo a condizione “di essere così sicuri della nostra verità politica da imporla, se necessario, col il sangue e con le lacrime, di essere così sicuri della nostra verità come lo era, della sua, il Figlio di Dio.”
Ed allora, mutuando questi forti principi, mi chiedo se chi oggi assolutizza un concetto - valore di per se’ molto ambiguo, come il concetto di salute, sia davvero così sicuro della sua verità come lo era il Figlio di Dio, e soprattutto se ritenga davvero che, per affermare questa verità, valga la pena di mettere anche solo in discussione, se non addirittura di sospendere, i principi dello Stato di diritto.
Ma non c’è solo lo Stato di diritto, tra le vittime di questa situazione “epocale”, proprio nel senso di sospensiva. Una delle tante vittime collaterali, ed invisibili, di questa tragica emergenza sanitaria, che è anche una grande emergenza libertaria, e’ la logica. Il concetto, apparentemente nitido, ma in realtà sfuggente e polivoco, e’ di quelli che impressionano per la carica di responsabilità filosofica, politica, e persino semantica, che si porta dietro da millenni, più o meno da quando i greci, con protervia umana pari solo a quella degli abitanti del paradiso terrestre, ci hanno inappellabilmente condannato a misurarci con le poliedriche sfaccettature di questo nome terribile.
Ed e’ un nome talmente ingombrante ed incommensurabile, che persino il discepolo che Gesù più amava, Giovanni, esordisce nel suo annuncio evangelico facendone un attributo di Dio: “In principio era il Verbo (logos, nella traduzione greca dei “Settanta”), ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio”.
Ma non spaventi tanta involontaria pedanteria, poiche’ la nozione di logica cui voglio fare riferimento non è certo quella delle vette trascendenti della teologia, ne’ quella delle soffocanti e meravigliose costruzioni tassonomiche della logica formale, ma quella molto più rozza, che si situa al livello del linguaggio ordinario e del ragionamento comune, dei giuristi.
Proprio dei giuristi, ovvero di coloro che di un limite oggettivo, dell’impossibilità di costruire un sistema razionale universalmente valido, hanno sempre fatto un punto di forza, pretendendo con la violenza dell’interpretazione e dell’argomentazione di governare persino l’epistemologia di fenomeni naturali complessi come il nesso causale. Ma questo innegabile punto di forza, imperniato su un’ipostatizzazione della ragione assoluta nella molto più accomodante e spendibile ragionevolezza, su Perelman più che su Cartesio per intenderci, e’ proprio quello che la terribile crisi sanitaria e libertaria di questo tempo d’esilio domestico sta depotenziando, sino ad annichilirlo a mero discorso, a logica appunto, della paura. Non che questa logica non abbia una sua logica, ma, nel momento in cui il dispositivo generalizzato della paura, da deterrente psicologico, si trasforma in filtro ermeneutico prioritario, in canone privilegiato di giudizio, il giurista abdica al suo ruolo di “medium” tra l’ordinamento astratto e la realtà, per farsi ottuso esecutore di una narrazione funzionale e precostituita. Sotto questo profilo, e’ proprio la logica della paura ad imporre la paura della logica, trattandosi del solo strumento che lo spirito umano ci mette a disposizione per una decodificazione attendibile e persuasiva dei fenomeni naturali. La narrazione della paura non può certo permettersi i dubbi, od anche solo gli interrogativi, che un discorso logico inevitabilmente solleva, e non può che costringere il dibattito nelle per lei molto più tranquille acque del principio d’autorita’ (i valori assoluti, la scienza etc.). Solo che, per ironia della sorte, questa volta il principio hobbesiano “Auctoritas, non veritas facit legem” sono proprio i dogmatici a scagliarlo contro i giuristi, e non viceversa.
Chiunque pretenda, anche nella presente situazione d’eccezione, un minimo di rispetto dei canoni della logica giuridica, o anche solo di quelli minimali della logica di senso comune, si vede solitamente contrapporre dei non - argomenti, come l’enunciazione di valori astratti o, peggio, suggestioni scorrette, come la conta dei morti o le drammatiche immagini di una povera umanita’ sofferente.
Questo “virus” dialettico, ormai anch’esso pandemico, non risparmia più neppure la giurisdizione, la cui sola funzione, a parte l’ossessione, un po' eticizzante ed un po' burocratica, per la straordinaria amministrazione degli affari ordinari, sembra essere diventata quella, di stampo neo - corporativo, di concorrere, all’unisono e con piena unità di intenti con gli altri pubblici poteri, alla soluzione del problema sanitario, attraverso la repressione di qualunque condotta contrasti col dogma della permanenza domiciliare, interpretato come se non dovesse patire eccezione alcuna. In questo senso, come avveniva nelle repubbliche democratiche satelliti dell’Unione Sovietica, o negli Stati autoritari di impronta fascista, il giudice, sia pure con sfumature istituzionali ed ordinamentali molto differenti, potrebbe non comportarsi più da organo davvero autonomo, in una cornice di reciproca indipendenza e di separazione dei poteri, equidistante sia dal cittadino sia da chi ricopre funzioni di governo, diventando e, soprattutto, auto - percependosi come un organo che contribuisce in modo sinergico alla realizzazione di un obiettivo sanitario comune, anche rinunciando ad una piena ed effettiva funzione di controllo di legalità. Per uscire dalle astrazioni, e’ molto illuminante come anche la giurisdizione stia talora acriticamente avallando il fenomeno dell’anarchia normativa, e quindi dell’esplosione delle fonti del diritto, che ormai pervade integralmente il nostro sistema in questo periodo di virtuale sospensione delle categorie giuridiche ordinarie. Assistiamo, pressoché quotidianamente, ad un profluvio parcellizzato di normazione “territoriale” liberticida che entra in aperto conflitto precettivo anche con le disposizioni nazionali che riguardano la concreta possibilità d’esercizio dei diritti fondamentali, e non solo non ce ne preoccupiamo, ma accettiamo, con sonnambulismo degno dei protagonisti di una meravigliosa opera di Hermann Broch, che questa normazione funga addirittura da presupposto di norme sanzionatorie che, a determinate condizioni, possono sfociare anche nel penale, senza che ci si ponga il minimo dubbio sulla compatibilità costituzionale di questo andazzo amministrativo. A farne le spese, tanto per citare alcuni esempi, innocue masse di podisti e di semplici passeggiatori solitari che, pur rivendicando il giusto diritto di attenersi ad espresse disposizioni nazionali, vengono invece criminalizzate dai nuovi “sovranotti” locali, sull’assurdo presupposto - si diceva a proposito della paura della logica - che proprio il rispetto di tali disposizioni nazionali sia l’oggetto del loro crimine e sia addirittura la causa dell’aumento dei contagi. E’ del tutto evidente, che questo perverso meccanismo dovrebbe indurre chi abbia, a qualunque titolo, la responsabilità del controllo di legalità ad esercitarlo col massimo rigore per arginare e scongiurare indebite compressioni dei diritti individuali fondamentali.
Se, appunto, la logica della paura non avesse preso il sopravvento, inducendo anche chi deve prendere decisioni giuridiche ad avere paura della logica, nel caso di un’emergenza generale come quella attuale non sarebbe stata neppure riconosciuta, ai responsabili degli enti territoriali, sulla base della normativa vigente, la competenza ad emanare disposizioni lesive di diritti fondamentali addirittura più restrittive ed in contrasto con quelle nazionali.
Agli esordi del contenimento totale, il T.A.R. Campania, invece, affrontando per primo la questione della legittimità di un’ordinanza emergenziale regionale, ha trattato molto superficialmente la questione della competenza, desumendone la sussistenza sulla base di un generico richiamo “per relationem”, nel testo del provvedimento impugnato, a “plurime disposizioni legislative che fondano la base legale del potere di adozione di misure correlate a situazioni regionalmente localizzate”.
Per chi non volesse arrestarsi sulla soglia dell’apparenza, e si volesse ostinare a coltivare gli ormai desueti vizi del dubbio e del rigore logico, varrebbe senz’altro la pena di analizzare puntualmente il reticolo normativo citato dal Presidente della Regione Campania, e supinamente ripreso dal T.A.R., per scoprire come quel potere e quella competenza regionale, nel caso di specie, fossero insussistenti.
Tralasciando, tra le disposizioni citate, quelle chiaramente inconferenti, in quanto nulla dicono in materia di competenza a provvedere, le disposizioni di rango normativo effettivamente rilevanti sono, in successione cronologica: l’art. 32 della Costituzione, l’art. 32 della Legge 23/12/78 n. 833 (Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale), l’art. 117 del D.l.vo 31/03/98 n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali etc.), l’art. 50 del D.l.vo 18/08/00 n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), gli artt. 1, 2 e 3, commi 1 e 2, del Decreto - Legge n. 6 del 23/02/20 (Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID 19), convertito dalla Legge 05/03/20 n. 13.
A dispetto del coacervo normativo indicato, il sistema che se ne ricava e’ tuttavia chiaro, univoco e coerente con i principi di uno Stato di diritto, in cui le competenze devono seguire una logica di razionalità, efficacia e trasparenza, anche per non disorientare il cittadino, sempre più avviluppato in un groviglio di fonti di diritto concorrenti, incoerenti e contraddittorie.
Per venirne a capo non sono necessarie le doti di grandi logici come Aristotele, Gottlob Frege o Kurt Gödel, sarebbe semplicemente bastato affrontare la questione con i canoni ermeneutici ed i principi logici ordinari, senza subordinare tutto alla litania interpretativa dei soliti valori astratti.
L’art. 1 del Decreto Legge n. 6 del 2020, norma “ad hoc” per questa emergenza nazionale, prevede genericamente che siano le “autorità competenti” a provvedere in relazione alle misure di contenimento; ma il successivo e fondamentale art. 3 specifica espressamente quale sia, in via esclusiva ed ordinaria, tale autorità competente: il Presidente del Consiglio, mediante d.p.c.m. adottati su proposta del Ministro della Salute e sentiti vari organi regionali a seconda che l’oggetto del decreto da adottare riguardi una, più regioni o tutto il territorio nazionale. Già tale previsione di sentire il presidente di una singola regione in relazione ad emergenze di carattere locale, implica logicamente la considerazione che, nel contesto dell’emergenza di rilevanza nazionale, anche la disciplina della particolare emergenza locale debba essere necessariamente fronteggiata a livello centrale, mediante d.p.c.m., e non con provvedimenti in ordine sparso degli enti locali, per l’evidente ragione che anch’essa debba essere valutata in un quadro complessivo ed olistico.
Solo in casi di estrema necessità ed urgenza, e comunque sempre nelle more dell’emanazione dei citati dpcm, lo stesso art. 3, richiamando soprattutto l’art.117 del D.l.vo n. 112 del 1998 e l’art. 50 T.U.E.L., prevede che siano le regioni e gli altri enti locali a provvedere per i territori di loro competenza. Ne deriva che, una volta emanati i dpcm governativi, questi abbiano valenza cogente ed esclusiva, e le singole regioni e gli altri enti locali perdano qualunque competenza a provvedere. Deve ritenersi, pertanto, radicalmente esclusa la possibilità per gli enti locali di intervenire, con propri provvedimenti urgenti, più o meno restrittivi, successivi all’emanazione dei d.p.c.m., anche qualora non condividano, in relazione al loro territorio, la disciplina sancita in via generale dal Presidente del Consiglio. Per mera completezza residuerebbe il caso, più che altro di scuola, secondo il quale, subito dopo emanato il d.p.c.m. nazionale, insorga in un determinato territorio una particolare emergenza localistica che imponga, sempre nelle more di un ulteriore d.p.c.m. “ad hoc”, una pronta reazione dell’amministrazione locale. Non è, tuttavia, questa, all’evidenza, la situazione attuale, in quanto diverse amministrazioni locali si sono invece affrettate ad emanare subito dopo, e proprio in conseguenza, dei d.p.c.m. dei provvedimenti più restrittivi per la precipua ragione che non ne condividevano l’asserito lassismo, talora facendo persino su ciò gran “battage” mediatico. E come nel caso del paradosso di Russell o, più poeticamente, del personaggio mitologico narrato da Ovidio, Erisittone, quello che più mangiava e più rinsecchiva, si è, in pratica, arrivati all’assurdo amministrativo, passato indenne anche al vaglio giurisdizionale, di citare come fonti della propria legittimazione, nelle premesse dei vari provvedimenti locali, proprio i d.p.c.m. nazionali, ovvero il presupposto che avrebbe fatto venire meno tale legittimazione.
Dall’analisi del quadro normativo varato specificamente per l’emergenza da COVID 19 consegue, dunque, con nettezza, trattandosi all’evidenza di “lex posterior specialis”, che non sussistano margini, per gli enti locali, con l’unica indicata eccezione “cautelare”, per rinvenire ulteriori appigli normativi legittimanti nella legislazione generale precedente a quella emergenziale da COVID 19, peraltro tutta richiamata e presa in considerazione dallo stesso Decreto Legge n. 6 del 2020. In ogni caso, anche andando a “spigolare” in tale legislazione, citata nell’ordinanza campana, non può che ritenersi confermata la tesi che esclude la possibilità per gli enti territoriali di provvedere in ordine sparso, con normazioni in contrasto con le disposizioni di rilievo nazionale varate dal Governo.
Sul punto non può certamente essere invocata, di per se’, la generalissima disposizione dell’art. 32 della Legge n. 833 del 1978, la quale prevede la facoltà, per gli amministratori locali, di emanare ordinanze di carattere contingibile ed urgente, in materia sanitaria, con efficacia estesa alla rispettiva porzione territoriale. A prescindere dalla non troppo felice formulazione della norma, che non chiarisce bene se tale facoltà residui agli amministratori locali anche in caso di emergenza a carattere nazionale, come nel caso di specie, tale disposizione deve ritenersi comunque superata ed integrata, sotto lo specifico profilo, dal contenuto degli artt. 117 del D.l.vo n. 112 del 1998 e dall’art. 50 del T.U.E.L., che ne disciplinano i poteri “in subiecta materia”. Ebbene, il combinato disposto dei citati articoli riconosce agli amministratori locali il potere di emanare ordinanze contingibili ed urgenti in materia di emergenze sanitarie o di igiene pubblica, ma soltanto nell’ipotesi in cui si tratti comunque di emergenze “esclusivamente a carattere locale”. E’, quindi, analogamente escluso, anche sulla scorta della legislazione generale precedente a quella specificamente emanata per l’attuale crisi, che quando l’emergenza sanitaria abbia carattere non esclusivamente locale residui un concorrente potere normativo degli amministratori locali.
Ho lasciato volutamente per ultima l’analisi dell’art. 32 della Costituzione, che ho indicato tra le fonti di rango normativo rilevanti, sebbene nulla dica in punto di competenza, limitandosi alla generale ed astratta enunciazione di un principio. In proposito non occorre dire altro se non che lascia davvero interdetto l’interprete, che abbia ancora un minimo a cuore, non tanto il rispetto, quanto la stessa esistenza di un barlume di regole, il fatto che si possa arrivare a teorizzare che tale norma legittimi chiunque abbia una qualche funzione rappresentativa di una comunità territoriale, in nome del diritto alla salute, ad emanare “ad libitum” disposizioni lesive del diritto di libertà, pur in presenza di un articolato ordinamento che disciplina le competenze in modo specifico e rigoroso, proprio per i casi emergenziali.
Fin qui lo stretto diritto, ma se la logica, occorre purtroppo insistentemente ribadirlo, avesse ancora un senso spiritualmente direttivo tutti comprenderebbero che l’anarchia delle fonti impositive di sempre maggiori restrizioni, sebbene al momento riscuota ancora ampio consenso in una popolazione sempre più spaurita e disorientata, oltre alle implicazioni politologiche in relazione alla frantumazione dell’integrita’ dell’ordinamento giuridico, e’ una logica comunque ottusa, anche sul piano logistico - operativo della strategia di contrasto all’emergenza.
Aristotele conclude il dodicesimo Libro della sua Metafisica, citando le parole di Agamennone nella narrazione omerica, con la seguente affermazione: “Ma le cose non vogliono essere governate male, “il governo di molti non è buono; uno solo sia il comandante.””
Se, per un verso, questo principio e’ opinabile in filosofia, giacche’ con esso Aristotele si opponeva alla visione duale platonica della realtà, ed e’ pericoloso in politica, per gli evidenti rischi di implicazioni autoritarie, per altro verso e’, tuttavia, fondamentale nella gestione politico - amministrativa e logistica di un’emergenza come quella che stiamo vivendo.
Questo dimostra quanto sia fuorviante affidare le proprie certezze al feticcio ermeneutico dei valori assoluti per stabilire unilateralmente ed acriticamente i limiti delle libertà individuali altrui, giacche’ e’ lampante come nel caso in questione, ad esempio, tale feticcio abbia condotto a giustificare una prassi irrazionale sotto il profilo logistico - operativo e pericolosissima, come precedente, per la tenuta dello Stato di diritto. E coloro che, per la logica della paura, sono impauriti dalla logica, cadono anche in un altro grossolano equivoco, ovvero nel classico paralogismo di chi scambia il concreto per l’astratto, non ponendosi il problema del contro - fattuale inverso. Si esprime, almeno per ora, vasto consenso alle misure anarchiche dei “sovrani” locali solo perché più restrittive di quelle nazionali; e ciò, sebbene in chiaro contrasto con l’ordinamento delle competenze in materia, viene accettato dall’opinione pubblica, nel convincimento un po' metafisico che il principio di tutela della salute giustifichi qualunque misura da parte di chiunque abbia una parvenza di competenza e che queste misure, in particolare, siano giuste.
D’altra parte, se pure vi fosse stato il dubbio, tutto retorico, che il principio logico del ragionamento non avrebbe tenuto se l’ipotesi concreta fosse stata opposta, ovvero se le amministrazioni locali avessero emanato disposizioni più blande di quelle nazionali, tale dubbio è stato prontamente fugato, nonostante ciò fosse largamente prevedibile dato il tenore che il dibattito ha assunto, soprattutto nelle posizioni fortemente manichee a suffragio della bontà delle restrizioni a prescindere; e ciò alimenta la convinzione che, in realtà, si stia giocando con i principi costituzionali senza basi logico - giuridiche, ma unicamente correndo dietro ad emozioni, paure ed idee preconcette.
E’, infatti, lo stesso sovrano centrale, il Governo, a fomentare questo andazzo anarchico normativo a senso unico restrittivo, evitando di rivendicare le proprie prerogative decisionali se non solo quando, come ad esempio nel recente caso della Regione Calabria, siano state emanate disposizioni più favorevoli alle libertà dei cittadini e non quando, invece, siano state emanate, “ad libitum”, disposizioni più restrittive rispetto a quelle nazionali. Sino al punto di tollerare, per quanto attiene specificamente ai Comuni, che questi continuassero liberamente a normare la materia, nonostante il fatto che la stessa legislazione emergenziale, trattandosi di emergenza nazionale, abbia espressamente previsto, peraltro ribadendo il succitato sistema delle fonti, l’inefficacia dei provvediementi comunali un contrasto con le disposizioni generali (art. 3 commi 2 e 3 D.L. 25/03/20). D’altra parte, le norme che sanciscono l’insussistenza - nei termini sopra indicati - della competenza degli enti territoriali ad emanare disposizioni contenitive in presenza di un’emergenza nazionale e di relativa normazione statale, non operano alcuna distinzione tra disposizioni più restrittive e disposizioni più liberali.
Individuare quali siano le motivazioni di questo lassismo da parte dello Stato centrale nel rivendicare le proprie prerogative decisionali implica un giudizio di ragion politica che, come tale, esula dalla natura e dagli obiettivi di questa trattazione. Si può solo ipotizzare - ma questo valga niente più che come suggestione - che quando le misure di contenimento e, più in generale, la strategia dell’emergenza presenterà il suo salatissimo conto umano, giuridico, economico e sociale, la suddivisione e la stratificazione delle responsabilità a più livelli tornerà molto utile ad una classe politico - amministrativa di decisori che, maneggiando con troppa disinvoltura concetti delicati ed ambigui come i valori, ha compresso con misure senza precedenti i diritti fondamentali dei cittadini.
A tal proposito, rileggendo in questi giorni l’opera fondamentale di Max Scheler, se non il più grande, quanto meno il più tenace assertore dell’oggettivita’ e della materialità dei valori, mi ha fortemente colpito una delle sue argomentazioni contro il formalismo assiologico Kantiano. Citando il detto di Gesù “Nessuno e’ buono, se non Dio stesso”, Scheler fa delle considerazioni molto importanti sui valori in se’ e sulla loro applicazione ai fenomeni umani. Gesù, spiega il filosofo tedesco, con questa frase non intendeva superficialmente dire che tutti gli uomini siano cattivi e che non esistano uomini buoni, ma, molto più acutamente, intendeva invece dire che il bene “non può mai consistere in una proprietà umana concettualmente determinabile” e che “per formulare un’adeguata definizione del valore non è mai sufficiente far astrazione dai tratti e dalle proprietà non pertinenti alla sfera dei fenomeni assiologici”. Indicare il bene ed il male facendo riferimento ad un “contrassegno extra - assiologico”, pensava lo stesso Scheler, oltre a rappresentare tipica manifestazione dello spirito farisaico, induce a confondere i valori in se’ con i loro portatori e costituisce “un errore di carattere gnoseologico” oltre che “un grave abbaglio morale”. La lezione di Scheler e’ fin troppo chiara, e può essere perfettamente mutuata nel contesto della nostra situazione giuridico - sociale. Stabilire cosa sia buono o cattivo, legittimo o illegittimo, lecito od illecito, sulla base della sola astrazione di un principio - valore che ha peculiarità proprie - fosse anche quello della salute - e’ un’operazione ideologicamente e moralmente scorretta, che con la natura materiale dei valori non ha alcun rapporto e che tutti dovrebbero astenersi dal fare, se non per intelligenza, quanto meno per umiltà.