Sommario: 1. Un quadro generale in tema di diritto all’oblio. – 2. Il diritto all’oblio nell’Ordinamento italiano – 3. Il caso Biancardi – 4. Post caso Biancardi: dalla giurisprudenza alla riforma Cartabia
Abstract. Il presente contributo, dopo un primo sommario inquadramento del diritto all’oblio, si concentra sull’approccio dell’ordinamento italiano alla materia e sui rimedi da questo apprestati. Particolare attenzione verrà posta sulla c.d. deindicizzazione e sul ruolo da essa ricoperta nel bilanciamento dei vari diritti che si contrappongono per poi concludere con l’esame della novella legislativa introdotta con la recente riforma Cartabia ed alcune osservazioni critiche in merito.
This essay, after a first summary framework of the right to be forgotten, focuses on the approach of the Italian legal system to the matter and the remedies it provides. Particular attention will be paid to the c.d. de-indexing and on the role it plays in balancing the various rights that oppose each other and then conclude with an examination of the new legislation introduced with the recent reform “Cartabia” and some critical observations on the matter.
1. Un quadro generale in tema di diritto all’oblio
Il presente articolo ha lo scopo di illustrare le principali questioni in tema di diritto all’oblio nel contesto italiano attese le recenti novità che lo hanno interessato in virtù della costante mutazione che lo caratterizza sia per gli sviluppi socio-culturali sia per la necessità di bilanciare i vari interessi costituzionali in gioco, quali il diritto di riservatezza da un lato e quello di cronaca dall’altro. Si tratta, quindi, di una questione ancora molto giovane e che, soprattutto negli ultimi anni con l’avvento incontrollato di internet, ha destato diverse problematiche nell’ambito del diritto alla riservatezza.
D’altra parte è noto che la pubblicazione di notizie online lascia una traccia sempre reperibile e causa di pregiudizio per il soggetto interessato dalle vicende riportate afferenti perlopiù a casi giudiziari che lo hanno visto coinvolto. È incontestabile che la notizia affidata alle pagine web abbia una durata indeterminata, a differenza di quanto riportato nella sola carta stampata, passibile di riletture e continui usi per scopi informativi.
Negli anni più recenti, i vari organi istituzionali, nazionali e non, si sono adoperati al fine di individuare un contemperamento tra il diritto di cronaca, posto al servizio dell'interesse pubblico all'informazione, ed il diritto della persona a che certe vicende della propria vita, che non presentino più i caratteri dell'attualità, ovverosia che non siano più suscettibili di soddisfare un interesse apprezzabile della collettività a conoscerle, non trovino più diffusione da parte dei media. Correlato a tale diritto, ad esso strumentale, poiché finalizzato ad assicurarne il soddisfacimento, è poi il diritto ad ottenere la rimozione da elenchi, archivi o registri, del proprio nominativo, in relazione a fatti o vicende passate. Ed è in tale prospettiva che nasce il diritto all’oblio quale espressione di una particolare forma di garanzia che prevede la non diffusione senza particolari motivi, di informazioni che possono costituire un precedente pregiudizievole dell’onore di una persona, intendendosi principalmente i precedenti giudiziari. Si tratta, in sostanza, di una protezione sociale dell’identità personale in virtù del lasso di tempo ormai trascorso e di conseguenza dell’inattualità all’interesse ad essere informati.
Tuttavia, sebbene il diritto all’oblio sia una questione nuova con cui gli interpreti si sono dovuti confrontare soprattutto negli anni più vicini, non si può dire fosse materia sconosciuta prima dell’avvento di internet. Vi è sempre stata un’attenzione verso i soggetti coinvolti in casi giudiziari sotto il profilo della tutela dell’identità personale ed infatti, tradizionalmente, con l’espressione “diritto all’oblio” si richiamava il diritto di un soggetto a non vedere ripubblicate notizie relative a vicende, già legittimamente pubblicate rispetto alle quali fosse trascorso un notevole lasso di tempo.
Era il 1931 quando, per la prima volta, la Corte d’appello della California, riconobbe l’esistenza del diritto all’oblio nel caso noto come Melvin v. Reid in cui un’ex prostituta, coinvolta in un processo di omicidio al cui esito fu scagionata, agì contro un produttore cinematografico che a distanza di alcuni anni aveva riprodotto in una pellicola la vicenda, utilizzando il nome reale della donna, e rivelando così il suo passato compromettendo quanto invece era riuscita a creare nel tempo. I giudici americani, nel dare ragione alla ricorrente, affermarono il diritto del singolo a non essere pregiudicato dalla rievocazione, a distanza di tanto tempo, di fatti passati.
Ciò che cambia con lo sviluppo della società digitale è la mancanza della necessità di ripubblicare un fatto poiché quanto viene messo in rete vi rimane ed è per questo che il diritto all’oblio muta, o forse è meglio dire ingloba nella sua sostanza, anche l’esigenza di tutelare la persona dalla permanenza delle notizie. Infatti, si è detto che, nella nuova concezione di diritto all’oblio, muta il ruolo che gioca il tempo poiché a venire in rilievo non sarà il lasso temporale trascorso tra i fatti e la loro ripubblicazione quanto piuttosto la permanenza dell’informazione sulle pagine online, si è quindi di fronte ad un continuum temporale e non più a due eventi puntuali.
L’innovazione digitale e il cambiamento delle questioni hanno permesso di sviluppare ulteriori rimedi per la tutela del diritto all’oblio: accanto alla tradizionale rettifica o risarcimento del danno cagionato, già esperibili nella passata concezione, si sono inseriti la contestualizzazione, l’aggiornamento progressivo nel tempo e, in taluni casi, addirittura la de-indicizzazione e la cancellazione dei propri dati personali dal web, al fine di assicurare una rappresentazione corretta e attuale della propria identità e di garantire il “diritto all’oblio”.
Nel presente elaborato interessa soffermarsi soprattutto sulla c.d. deindicizzazione di un articolo, interesse che trova la sua ragion d’essere nel lavoro svolto dagli interpreti e che ha portato alla conclusione per cui, nel bilanciamento tra gli interessi contrapposti, tale strumento è risultato essere il più adeguato a preservare da un lato la completezza delle fonti storiche e dall’altro il diritto all’oblio perché la notizie, sia pure mantenuta online, diviene più difficile da rinvenire per l’utente di rete. Infatti, deindicizzare un contenuto non significa eliminarlo definitivamente e permanentemente dalla rete ma nasconderlo dai risultati forniti dal motore di ricerca utilizzato per effettuare la ricerca di interesse.
Dirimente in tal senso è stata la sentenza della Corte di giustizia Google Spain in cui i Giudici, nell’interpretare la Direttiva 95/46/CE hanno ritenuto che l’attività di un motore di ricerca su internet dovesse essere classificata come “trattamento di dati personali” e che il trattamento dei dati da parte del gestore del motore di ricerca possa ledere i diritti fondamentali alla vita privata e alla protezione dei dati personali come garantiti dagli articoli 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, accogliendo la richiesta del ricorrente, hanno affermato l’obbligo alla deindicizzazione di determinati risultati a tutela del diritto all’oblio della persona interessata.
La tecnica della “deindicizzazione” è divenuta, dapprima nella prassi giurisprudenziale e poi nelle previsioni del Legislatore, lo strumento applicabile ogni qualvolta l’interesse all’indiscriminata reperibilità della notizia mediante motore di ricerca sia recessivo rispetto all’esigenza di tutela dell’identità personale. In tal modo viene evitato il rischio di quella che è stata definita in dottrina la “biografia ferita”, ossia il rischio della “cristallizzazione della complessità dell’Io in un dato che lo distorce o non lo rappresenta più”.
2. Il diritto all’oblio nell’Ordinamento italiano
Di formazione giurisprudenziale, il diritto all’oblio ottiene la codificazione solo nel 2018 quando all’art. 17 del Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) n. 2016/679, rubricato “Diritto alla cancellazione”, il Legislatore europeo ne individua le modalità di attuazione, la portata e i limiti. Prima di questo momento, le Corti ne avevano ricostruito i confini per colmare il vuoto lasciato dal legislatore.
Nell’ordinamento italiano, in particolare, il diritto all’oblio trova il suo fondamento nell’articolo 2 della Costituzione. Quest’ultimo infatti tutela il cd. “diritto all’identità personale” in cui confluisce, tramite il valore “persona” il “diritto alla riservatezza” la cui esistenza è stata riconosciuta dai giudici di legittimità già nel 1975 e che «consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze, che sia pure compiute con mezzi leciti non sono giustificate da interessi pubblici preminenti».
Per l’affermazione del diritto all’oblio bisognerà attendere ancora qualche anno quando, sempre i giudici di legittimità, ne parleranno in termini di «nuovo profilo del diritto alla riservatezza, recentemente definito anche come diritto all'oblio, inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata». Ad esempio, il diritto all’oblio è la facoltà che permette ad un individuo, gravato da condanna per un reato, di richiedere che la vicenda non venga nuovamente divulgata a mezzo stampa oppure che venga rimossa dal web.
Da questo punto in poi, i contributi forniti dagli interpreti sono, perlopiù, volti a stabilire una composizione degli interessi in gioco, poiché il diritto alla riservatezza e di conseguenza il diritto all’oblio, si devono confrontare con la previsione di cui all’art. 21 Costituzione che sancisce il principio della libera manifestazione del pensiero, della libertà di stampa e il diritto di cronaca. Nel conflitto in esame, nell’ambito del bilanciamento di opposti valori costituzionali, il riconoscimento della libera esplicabilità del diritto di cronaca e della sua prevalenza sul diritto alla riservatezza è stato subordinato alla ricorrenza di una triplice condizione: a) dell'utilità sociale della notizia (limite del pubblico interesse); b) della verità dei fatti divulgati (limite della verità); c) della forma civile dell'esposizione dei fatti e della loro valutazione, non eccedente rispetto allo scopo informativo ed improntata a serena obiettività, con esclusione di ogni preconcetto intento denigratorio (limite della continenza). Il bilanciamento tra contrapposti diritti di rango costituzionale, opera nelle singole fattispecie di lesione di uno dei detti diritti, come accertamento della sussistenza del legittimo esercizio dell'altro diritto antagonista, con conseguente eliminazione dell'antigiuridicità obiettiva del fatto. Tale opera di valutazione, in generale in ogni caso di contrapposizione di diritti garantiti dalla Corte costituzionale, non segue schemi rigidi e non necessariamente uno deve sempre soccombere all’altro, si parla al riguardo di gerarchia mobile da intendersi «non come rigida e fissa subordinazione di uno degli interessi all'altro - ma come concreta individuazione da parte del giudice dell'interesse da privilegiare tra quelli antagonistici a seguito di una ponderata valutazione della specifica situazione sostanziale dedotta in giudizio con conseguente bilanciamento tra gli stessi, capace di evitare che la piena tutela di un interesse possa tradursi nella limitazione di quello contrapposto tanto da vanificarne o ridurne il valore contenutistico. »
Nel 2012 la Corte di legittimità per la prima volta si è cimentata con il rapporto tra notizie già pubblicate in passato ed il permanere delle stesse su internet, scontrandosi quindi con la nuova concezione del diritto all’oblio, affermando che rispetto all'interesse del soggetto «a non vedere ulteriormente divulgate notizie di cronaca che lo riguardano, si pone peraltro l'ipotesi che sussista o subentri l'interesse pubblico alla relativa conoscenza o divulgazione per particolari esigenze di carattere storico, didattico, culturale»; ciò in quanto un fatto di cronaca può «assumere rilevanza come fatto storico», giustificando in tal modo il permanere dell'interesse della collettività alla fruizione di quel fatto. Il trascorrere del tempo, però, impone che la notizia sia anche aggiornata, posto che la sua diffusione negli stessi termini in cui aveva avuto luogo in origine potrebbe fare sì che essa risulti «sostanzialmente non vera».
La giurisprudenza di legittimità italiana, nel rappresentare nuovamente i termini del problema anche alla luce dell’intervenuto Regolamento 2016/679, seppur fuori dal contesto della pubblicazione di informazioni online, con l’ordinanza n. 6919/2018 ha rilevato che la messa in onda a distanza di diversi anni di un servizio televisivo, fatta eccezione per una persona che rivesta un ruolo pubblico o la permanenza dell’interesse all’informazione, il trascorrere del tempo inverte il rapporto tra i due diritti con la successiva prevalenza del diritto all’oblio sul diritto di cronaca.
Nel 2019 il Supremo Consesso nomofilattico, è tornato nuovamente sul regolamento dei rapporti tra diritto all'oblio e diritto all'informazione, nell’ambito di un caso che riguardava la rievocazione della notizia di un omicidio avvenuto oltre 25 anni prima, commesso da un individuo che nel frattempo aveva scontato la pena in carcere e si era reinserito positivamente nel contesto sociale. La Corte, ribadita la rilevanza costituzionale di entrambi i diritti, ha affermato, però, che quando una notizia del passato, a suo tempo diffusa nel legittimo esercizio del diritto di cronaca, venga ad essere nuovamente diffusa a distanza di un lasso di tempo significativo, sulla base di una libera scelta editoriale, l'attività svolta dal giornalista riveste un carattere storiografico; per cui il diritto dell'interessato al mantenimento dell'anonimato sulla sua identità personale è prevalente, a meno che non sussista un rinnovato interesse pubblico ai fatti oppure il protagonista abbia ricoperto o ricopra una funzione che lo renda pubblicamente noto.
La rievocazione di questi elementi è lecita solo se si riferisce a personaggi che suscitino nel presente l'interesse della collettività, sia per ragioni di notorietà sia per il ruolo pubblico rivestito; in caso contrario, prevale il diritto degli interessati alla riservatezza rispetto ad avvenimenti del passato che li feriscano nella dignità e nell'onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva.
I riferimenti normativi sono, invece, rappresentati dal Codice della privacy (d.lgs n. 196 del 2003) e in particolare dagli articoli 7 (che prevede la possibilità di ottenere la cancellazione dei dati trattati in violazione di legge), 11 (secondo il quale il trattamento dei dati non può avvenire per un periodo di tempo superiore a quello necessario allo scopo per cui i dati sono stati raccolti e trattati), 15 (a norma del quale chi cagiona ad altri un danno in conseguenza dell'illecito trattamento dei dati personali è tenuto a corrispondergli un congruo risarcimento), 25 (che prevede il divieto di diffondere i dati dopo il decorso del lasso temporale indicato dall'art. 11). Completano il quadro, le previsioni europee ed in particolare gli artt. 8 e 10 CEDU (che sanciscono rispettivamente il diritto al rispetto della vita privata e familiare); l'art. 16 TFUE (che prevede il diritto del singolo alla tutela dei dati personali che lo riguardano) e la direttiva 95/46/CE.
Una particolare menzione merita, come detto, il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati Personali (RGPD, Regolamento UE 2016/679) perché cristallizza il diritto all’oblio in senso stretto. All’art. 17 è previsto infatti il diritto dell’interessato ad ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l'obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali, se ricorre uno dei motivi seguenti:
- i dati personali non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o altrimenti trattati;
- l'interessato revoca il consenso su cui si basa il trattamento conformemente all'articolo 6, paragrafo 1, lettera a), o all'articolo 9, paragrafo 2, lettera a), e se non sussiste altro fondamento giuridico per il trattamento;
- l'interessato si oppone al trattamento ai sensi dell'articolo 21, paragrafo 1, e non sussiste alcun motivo legittimo prevalente per procedere al trattamento, oppure si oppone al trattamento ai sensi dell'articolo 21, paragrafo 2;
- i dati personali sono stati trattati illecitamente;
- i dati personali devono essere cancellati per adempiere un obbligo giuridico previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento;
- i dati personali sono stati raccolti relativamente all'offerta di servizi della società dell'informazione di cui all'articolo 8, paragrafo 1.
2. Il titolare del trattamento, se ha reso pubblici dati personali ed è obbligato, ai sensi del paragrafo 1, a cancellarli, adotta le misure ragionevoli, anche tecniche, tenendo conto della tecnologia disponibile e dei costi di attuazione, per informare tutti i titolari del trattamento che stanno trattando i dati personali della richiesta dell'interessato di cancellare qualsiasi link, copia o riproduzione dei suoi dati personali.
3. I paragrafi 1 e 2 non si applicano nella misura in cui il trattamento sia necessario:
- per l'esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione;
- per l'adempimento di un obbligo giuridico che richieda il trattamento previsto dal diritto dell'Unione o dello Stato membro cui è soggetto il titolare del trattamento o per l'esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell'esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento;
- per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica in conformità dell'articolo 9, paragrafo 2, lettere h) e i), e del paragrafo 3;
- a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici conformemente all'articolo 89, paragrafo 1, nella misura in cui il diritto di cui al paragrafo 1 rischi di rendere impossibile o di pregiudicare gravemente il conseguimento degli obiettivi di tale trattamento;
- per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria.
3. Il caso Biancardi
Notevole rilievo ha riscontrato nell’ambito della materia in esame il caso italiano, noto come caso Biancardi, portato all’attenzione della Corte europea per i diritti dell’uomo nel 2021.
I fatti risalgono al 2008 quando il Biancardi, cittadino italiano residente a Pescara, in qualità di caporedattore di un quotidiano online, pubblicò un articolo riguardante una rissa con accoltellamento in un ristorante.
In particolare, secondo quanto riportato nell’articolo, i soggetti coinvolti facevano parte dello stesso nucleo familiare, titolari di due ristoranti (W e Z), e la causa della discussione sarebbe stata da rinvenire in una probabile lite finanziaria sulla proprietà dell’edifico in cui il fatto si era svolto.
Nell’articolo venivano altresì resi noti i nomi sia del locale che dei soggetti coinvolti (due fratelli -VX e UX-e i rispettivi figli -AX e BX-).
Altri dettagli riportati riguardavano le decisioni delle autorità competenti concernenti la chiusura per venti giorni dei ristoranti, gli arresti domiciliati per alcuni e la detenzione per altri.
Il 6 settembre 2010, uno dei fratelli (VX) e il suo ristorante (W) avevano inviato una diffida stragiudiziale chiedendo la rimozione dell’articolo da Internet ritenendo che fosse stata lesa la loro reputazione a causa della permanenza della notizia sul web per un considerevole lasso di tempo non essendo stata fatta la deindicizzazione tempestiva.
A fronte dell’inerzia del caporedattore, entrambi hanno proposto ricorso al Tribunale di Chieti nei confronti di Google Italy S.r.l. e del Biancardi ai sensi dell’art. 152 del decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003 (Codice in materia di protezione dei dati personale) e dell’art. 702-bis del codice civile.
Nel marzo 2012, il Tribunale ha escluso la Google Italy Srl dal procedimento a seguito della rinuncia della pretesa attorea nei confronti di tale parte.
Sulla base delle dichiarazioni rese dal caporedattore, circa la deindicizzazione dell’articolo in questione nel corso dell’udienza svoltasi il 23 maggio 2011, il Tribunale, con decisione del 16 gennaio 2013, ha ritenuto che non fosse necessario esaminare la richiesta di rimozione dell’articolo da Internet. Tuttavia, ha ritenuto sussistere il diritto al risarcimento del danno morale per il mancato rispetto della reputazione dei ricorrenti nella misura di 5.000 euro ciascuno e 2.310 euro per costi e spese. Infatti, secondo il giudice di primo grado, sia l’esteso arco temporale (dal 29 marzo 2008 al 23 maggio 2011), in cui le notizie erano rimaste accessibili su internet nonostante la diffida del ristoratore, sia la mancata deindicizzazione violavano, almeno a partire dall’invio della predetta diffida, gli artt. 11 e 15 del Codice in materia di protezione dei dati personali.
Avverso la decisione del Tribunale di Chieti, il soccombente ha proposto ricorso per cassazione.
La Suprema Corte, con sentenza del 24 giugno 2016, ha condiviso l’impianto motivazionale del giudice di prime cure respingendo le censure del ricorrente poiché la facilità di accesso alle informazioni, non quindi la sola pubblicazione e la diffusione online, e soprattutto il mantenimento delle stesse nonostante la diffida, ledeva il trattamento dei dati personali dei soggetti coinvolti.
Per la Corte di Cassazione, nel bilanciamento di interessi a cui era stata chiamata, il diritto di cronaca vantato dall'editore del quotidiano online è stato sufficientemente tutelato dalla pubblicazione dell'articolo fino al ricevimento della diffida, ma era diventato recessivo rispetto al diritto alla riservatezza vantato dai ricorrenti per il lasso temporale successivo a quest'ultima. Da ciò è conseguita la condanna al risarcimento del danno subito dai ricorrenti, liquidato in via equitativa.
Il 7 dicembre 2016 il caporedattore ha presentato ricorso dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo deducendo la violazione dell’art 10 CEDU inerente alla libertà di espressione.
In particolare il ricorrente non ravvisava l’eccessività del periodo di tempo durante il quale le informazioni erano state rimaste pubblicate visto che il procedimento penale era ancora pendente alla data in emissione della sentenza della Corte di cassazione, motivo per cui non era mai esistito il diritto all’oblio.
Sosteneva poi che egli non avrebbe potuto cancellare l’articolo, in quanto attività appannaggio del provider del motore di ricerca (Google Italia) e che la somma di 5.000 euro, al cui pagamento a titolo di risarcimento danni era stato condannato, era da ritenersi eccessiva.
Il Governo ha sostenuto che nel caso di specie era stato raggiunto un equilibrio adeguato tra la libertà di espressione del ricorrente e il diritto del ristoratore (VX) e del suo ristorante al rispetto della sua vita privata. Infatti, ha ritenuto che nonostante l’articolo fosse rimasto accessibile per un periodo di tempo considerevole, non riportava elementi circa l’andamento del procedimento penale, motivo per cui l’arco temporale poteva non essere ritenuto eccessivo. Il Governo ha anche addotto la responsabilità del ricorrente nella mancata deindicizzazione, pur non sussistendo alcun obbligo a suo carico in tal senso, ed ha affermato l’imposizione dell’obbligo di deindicizzare non solo ai fornitori di motori di ricerca su Internet ma anche agli amministratori di giornali o archivi giornalistici accessibili tramite internet.
La Prima Sezione, dapprima ha operato una breve ricognizione della normativa che si applica al caso di specie. In particolare a livello nazionale la regolamentazione della materia è rinvenibile nel d. lgs n. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali). A livello internazionale, rilevano poi la Raccomandazione CM/Rec (2012) del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri sulla protezione dei diritti umani per quanto riguarda i motori di ricerca, adottata il 4 aprile 2012 e la Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione delle persone in merito al trattamento dei dati personali del 18 maggio 2018. Infine per quanto riguarda il Diritto dell’Unione, vanno altresì analizzate la Direttiva 95/46/CE del 24 ottobre 1995 sulla tutela delle persone fisiche nei confronti del trattamento dei dati personali e sulla libera circolazione di tali dati, concepita per proteggere i diritti e le libertà fondamentali delle persone (incluso il loro diritto alla privacy) nel trattamento dei dati personali, rimuovendo nel contempo gli ostacoli alla libera circolazione di tali dati; il Regolamento generale sulla protezione dei dati entrato in vigore il 24 maggio 2016 e che ha abrogato la direttiva 95/46/CE con effetto dal 25 maggio 2018, che all’art. 17 sancisce espressamente il “diritto all’oblio”; l’orientamento delle autorità nazionali per la protezione dei dati dell’UE del 26 novembre 2014 e le linee guida del Comitato europeo per la protezione dei dati sui criteri del diritto all’oblio nei casi di motori di ricerca ai sensi GDPR del 7 luglio 2020.
Ha poi rilevato che, sebbene avesse già trattato cause relative all’articolo 10 (libertà d’espressione e all’articolo 8 (Rispetto della vita privata e familiare, del domicilio e della corrispondenza), quella in questione presentava profili di particolarità in quanto il punto cruciale non era la pubblicazione su internet di un contenuto o l’anonimizzazione dell’articolo, ma piuttosto la mancata deindicizzazione da parte del ricorrente delle informazioni relative a VX e al suo ristorante. Da quest’ultima era infatti discesa la facilità di accesso alle informazioni poi protrattasi per un periodo di tempo esteso.
Sebbene il ricorrente avesse escluso la possibilità di deindicizzare l’articolo agli amministratori di giornali o archivi giornalistici accessibili tramite internet, il 23 maggio 2011 fu lui stesso a deindicizzarlo. Sulla base di questo fatto la Corte ha condiviso la posizione del Governo per cui l’obbligo non può essere imposto solo ai provider di motori di ricerca Internet, ma anche agli amministratori di giornali o archivi giornalistici accessibili tramite Internet e che l’accertamento della responsabilità del ricorrente era stata una conseguenza della mancata de-indicizzazione dal motore di ricerca Internet dei “tag.”
La sentenza Biancardi, inoltre, ribadisce gli elementi che l'interprete deve considerare nel bilanciamento tra la libertà di espressione e il diritto alla reputazione, già individuati dalla Corte EDU nella pronuncia del 19 ottobre 2017 resa in merito al caso Fuchsmann c. Germania. Tra questi si annoverano:
- il contributo fornito dalla notizia al dibattito di interesse pubblico;
- il grado di notorietà del soggetto coinvolto e l'oggetto dell'articolo in questione;
- il comportamento assunto dal soggetto coinvolto nei confronti dei mass media;
- le modalità utilizzate per ottenere le informazioni in questione e la veridicità di queste ultime;
- il contenuto, la forma e le conseguenze della pubblicazione in questione;
- la severità della sanzione imposta al ricorrente.
Se in assenza di tali presupposti viene ugualmente pubblicata una notizia riguardante un determinato soggetto a distanza di tempo da quando i fatti si sono verificati, si considera leso il diritto all'oblio.
La causa in questione, come anticipato, presenta profili di singolarità che rendono la questione nuova. Infatti, l’attenzione deve essere posta sul periodo di tempo per il quale l’articolo è stato mantenuto online, la sensibilità delle informazioni e la gravità della sanzione inflitta al ricorrente.
In merito al primo aspetto, la Corte ha rilevato che, sebbene il procedimento penale fosse ancora pendente al momento della pronuncia della Suprema Corte, l’articolo non riportava aggiornamenti in merito e a tal riguardo la normativa interna applicabile (l’art. 11 d.lgs. n. 196/2003) sostiene l’idea che la rilevanza del diritto del richiedente a diffondere le informazioni diminuisce con il passare del tempo ed è prevalente il diritto del rispetto della propria reputazione.
Sul secondo profilo, la Corte EDU ha rilevato che le circostanze in cui sono pubblicate le informazioni relative a dati sensibili costituiscono un fattore di cui tenere conto nel bilanciare il diritto alla diffusione delle informazioni e il diritto dell'interessato al rispetto della propria vita privata.
In particolare ha sostenuto che l'esercizio di equilibrio tra, da un lato, la libertà di espressione tutelata dall'articolo 10, e, dall'altro, il diritto al rispetto della propria vita privata, sancito dall'articolo 8 della Convenzione, è stato intrapreso dalle autorità nazionali, conformemente ai criteri stabiliti dalla giurisprudenza della Corte per cui per sostituire il proprio punto di vista a quello dei tribunali nazionali sarebbero necessari dei validi motivi, in questo caso mancanti. Alla luce di tali considerazioni, la Prima Sezione, ha concluso che non sussiste alcuna violazione dell’art. 10 CEDU.
4. Post caso Biancardi: dalla giurisprudenza alla riforma Cartabia
Dall’analisi della pronuncia in esame non può non notarsi come la stessa Corte di Strasburgo abbia fatto applicazione in sostanza del cd. criterio della gerarchia mobile formulato nel sistema italiano dalla Sezione Lavoro nel 2010 (vedi supra par. 2), al fine di individuare l’equilibrio tra la libertà di informazione e il diritto all’oblio.
In casi simili, alcuni dei quali è possibile individuare anche nell’Ordinamento italiano, la questione non verte sulla rimozione dell’articolo dagli archivi online, bensì sulla sua deindicizzazione (vedi supra par. 2). Pertanto, qualora l’interprete dovesse ritenere prevalente il diritto del singolo alla protezione della sua identità personale, quindi il suo diritto all’oblio, e non l’interesse all’informazione, lo strumento poc’anzi richiamato rappresenta, secondo le Corti, il mezzo migliore per assicurare un equilibrio tra gli aspetti in gioco atteso che ne consente il mantenimento online, ma ne rende difficile il reperimento giacché sarà raggiungibile solo a chi già conosce l’indirizzo della pagine in questione (URL) e non anche tramite il mero inserimento di parole chiave.
Recentemente, questa soluzione è stata ribadita dalla giurisprudenza di legittimità nella sentenza n. 15160/2021: una pronuncia in cui i giudici hanno fornito un quadro quanto mai chiaro e puntuale del diritto all’oblio. Chiamati ad esaminare una richiesta di deindicizzazione di pagine web contenenti notizie diffamatorie del ricorrente, ripercorsa sia la normativa, nazionale e non, che i differenti orientamenti nel tempo formulati in relazione al rapporto tra diritto all’informazione in virtù del pubblico interesse e diritto al riserbo e all’oblio di episodi passati, applicando gli strumenti interpretativi forniti dalla Corte di Giustizia europea (in particolare il caso Google c. Spain), hanno affermato «Nelle ipotesi in cui sussiste, invece, un interesse pubblico alla notizia, l’interessato, i cui dati non siano indispensabili – non rivestendo il medesimo la qualità di un personaggio pubblico, noto a livello nazionale – ai fini della attingibilità della notizia sul database, può richiedere ed ottenere la “deindicizzazione”, in tal modo bilanciandosi il diritto ex art. 21 Cost., della collettività ad essere informata e a conservare memoria del fatto storico, con quello del titolare dei dati personali archiviati a non subire una indebita compressione della propria immagine sociale».
È questa la linea seguita negli ultimi anni e accolta, da ultimo, dallo stesso Legislatore che nel più ampio progetto di riforma, noto come riforma Cartabia ha inserito nelle disposizioni attuative del codice di procedura l’art. 64-ter.
Il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in attuazione della legge delega 27 settembre 2021, n. 134, ha introdotto, l’art. 64-ter delle disp. att. c.p.p. rubricato “Diritto all’oblio degli imputati e delle persone sottoposte ad indagini”.
La neo-norma prevede ora che la persona nei cui confronti siano stati pronunciati una sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, ovvero un provvedimento di archiviazione, può richiedere che sia preclusa l’indicizzazione o che sia disposta la deindicizzazione sul web dei dati personali riportati nella sentenza o nel provvedimento.
Sono due rimedi differenti, esperibili in tempi diversi: mentre la indicizzazione è applicabile prima della divulgazione, la deindicizzazione interviene in un momento successivo quando la notizia è già stata pubblicata. Proprio per tale differenza, i pochi commenti della dottrina reperibili sul punto, hanno escluso che quanto previsto dal comma 2 dell’art. 64-ter rientri nel campo del diritto all’oblio atteso che, quest’ultimo, presuppone la dimenticanza di qualcosa che si conosce.
Nel caso, invece, della deindicizzazione, competente è la cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento la quale dovrà apporre e sottoscrivere l’annotazione, senza alcun vaglio discrezionale apprezzabile, espressamente richiamata dalla norma, secondo cui «il presente provvedimento costituisce titolo per ottenere, ai sensi e nei limiti dell’art. 17 del regolamento(UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, un provvedimento di sottrazione dell’indicizzazione, da parte dei motori di ricerca generalisti, di contenuti relativi al procedimento penale, rispetto a ricerche condotte a partire dal nominativo dell’istante» (art. 64-ter disp. att. c.p.p., c. 3).
Per la presentazione dell’istanza non sono previsti termini. Con l’annotazione della cancelleria, l’interessato potrà poi rivolgersi al motore di ricerca che si attiverà per la deindicizzazione dei contenuti al suo nominativo riconducibili.
Apprezzabile senza dubbio è l’attenzione finalmente posta verso la materia con un intervento volto ad attuare sia i princìpi sanciti dall’art. 25 Cost, se si pensa alla tutela preventiva che l’interessato può attuare, sia dall’art. 27 per cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato e favorirne il reinserimento nella comunità, profili non perseguibili solo attraverso le procedure che regolano il processo inteso in senso stretto ma anche con un sguardo anche alle vicende sociali che inevitabilmente interessano i casi di cronaca.
La soluzione adottata da ultimo dal Legislatore si allinea a quanto già era stato anticipato dalle Corti di merito, contribuendo a fornire coerenza e stabilità nell’ambito della tutela del diritto all’oblio e al rispetto del diritto all’informazione.
Un passo avanti indiscutibile che contribuirà ad accelerare la tutela della persona e ad evitare speculazioni inutili sull’interessato.
Tuttavia, la norma non ha soddisfatto tutti gli attori del mondo del diritto. Sul punto, la criticità fin qui maggiormente riscontrata coinvolge la possibilità di applicare retroattivamente o meno la norma che, trattandosi di previsione a carattere processuale, non è soggetta al principio dell’applicazione della legge successiva più favorevole al reo.
Permangono dei vuoti a livello procedurale, come la mancata previsione di un termine per presentare l’istanza di deindicizzazione oppure gli adempimenti successivi una volta ottenuta l’annotazione.
Ad ogni modo, in una società sempre più protesa al digitale, considerata la rapidità di cambiamento connaturato al mondo del web, non può questa novità normativa ritenersi esaustiva anche se proiettata al futuro. Si tratta però di un primo passo avanti in materia che avalla il lavoro finora svolto dagli interpreti del diritto.
CIVILE
Il diritto all’oblio: l’evoluzione nel sistema italiano dal Caso Biancardi alla riforma Cartabia
Civile
mercoledì, 7 giugno 2023
di Linda PURI, tirocinante presso la Corte di cassazione
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