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Magistratura Indipendente

PENALE  

Il controllo sull’inerzia del p.m.

  Penale 
 sabato, 4 settembre 2021

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la riforma Cartabia tra affermazione di principi e realtà operativa

di Cesare PARODI, Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Torino.

 
 

Sommario: 1- PREMESSA - 2- I TERMINI PER LE INDAGINI 3- IL CONTROLLO SULL’INERZIA DEL P.M.

1-PREMESSA

La precisa volontà di segnare un punto di svolta in relazione alla “gestione” della giustizia in Italia, sulla base non sole delle esigenze di recupero di efficienza chiaramente indicate dall’Unione europea, quanto per tentare un recupero globale di credibilità nei confronti dei cittadini, dopo anni difficili, è già chiaramente percepibile dall’oggetto del disegno di legge della cd riforma Cartabia: c’è tutto, o quasi.

Recita l’art. 1 “ Delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale”.

Un progetto ambizioso, ampio, che si dispiega non solo sugli aspetti sostanziali e strettamente processuali del sistema penale, ma che affronta – in termini innovativi- anche i profili organizzativi di quest’ultimo, nonché le ricadute e l’impatto delle nuove disposizioni sul corpo sociale.

Entro un anno dalla pubblicazione della legge delega, il  Governo sarà tenuto ad adottare “ uno o più decreti legislativi per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale, con finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, nel rispetto delle garanzie difensive”…. secondo i princìpi e criteri direttivi previsti dal prima articolo della legge in oggetto.

Anche troppo evidenti le ragioni delle scelte, che costituiscono la risposta a dati statistici allarmanti, con riferimento alle pendenze e ai tempi medi di durata dei procedimenti, in particolare nei giudizi di secondo grado. Scelte che, nondimeno, sono state in qualche modo conciliate con la disciplina della prescrizione, modificata dalla L. 9 gennaio 2019, n.3, per evitare (o tentare di evitare, quantomeno) un prolungamento dei tempi del processo tale da incidere non solo sull’interesse delle parti ad una definizione rapida del giudizio, quanto sulla complessiva efficienza del sistema giudiziario.

Ci sarà molto da dire, sulla delega e sull’attuazione della stessa. Se partiamo oggi dal tema indicato nel titolo è perché, per molte ragioni, è tra quelli più controversi, delicati e rilevanti. Altri ne seguiranno.

 

2- I TERMINI PER LE INDAGINI

La doverosa premessa riguarda la disciplina dei termini per le indagini, rispetto ai quali l’intervento previsto dalla delega risulta essere fortemente innovativo. E’ sufficiente un rapido confronto tra la disciplina attuale e quella prevista dalla delega. E’ stata prevista la modifica dei termini di durata delle indagini preliminari, di cui all’articolo 405 c.p.p., in relazione alla natura dei reati. La prima versione della norma prevedeva il termine “gravità” al posto di “natura”.

Allo stato, per l’art. 405 c.p.p. il termine di durata delle indagini per la generalità di reati, a decorrere dall’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato  è di:

- sei mesi, in via ordinaria

- un anno se si procede per i reati di cui all’art. 407, comma 2 c.p.p.

La delega estende il termine annuale alla generalità dei reati, per garantire la segretezza delle stesse per un lasso di tempo adeguato alle esigenze di accertamento.

A fianco del termine “ordinario” annuale, è poi previsto:

- un termine “breve” – sei mesi per i reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena non superiore nel massimo a tre anni

- un termine di un anno e sei mesi per i reati di criminalità organizzata o terroristica e, in generale, per i procedimenti relativi ai delitti contemplati dall’articolo 407, co. 2, c.p.p.

Rispetto al primo testo della riforma deve essere accolta con  favore l’esclusione dal termine “breve“  semestrale dei reati “i puniti con la sola pena pecuniaria o con pena detentiva non superiore nel massimo a tre anni, sola o congiunta alla pena pecuniaria”, in quanto  per molti degli stessi - sia in ragione del carico di lavoro degli uffici sia dell’ oggettiva complessità  - tale termine avrebbe potuto essere considerato inadeguato; si pensi ad alcune tipologie di truffe o comunque a reati il cui accertamento sia tale da implicare approfondimenti tecnici); nondimeno, anche rispetto alla categoria “contravvenzioni” – per le quali in sostanza sarà applicabile il termini di sei mesi- potranno porsi analoghi criticità, laddove si consideri che alla minore gravità del reato non sempre corrisponde una minore complessità delle indagini da porre in essere per l’accertamento del fatto e l’individuazione del responsabile.  Si pensi- come ha rilevato il parere del CSM “ad alcune fattispecie di abusi edilizi di cui al D.P.R. 380/2001 o scarichi acque reflue industriali anche contenenti sostanze pericolose di cui al D.lgs. 152/2006. In tutti questi casi, è spesso determinante, oltre che l’acquisizione di documentazione presso enti pubblici, avvalersi di consulenti specializzati e svolgere indagini tecniche finalizzate ad accertare la sussistenza dell’ipotesi di reato, accertamenti che quasi mai riescono ad essere completati nell’arco del breve termine anzidetto.

Con riguardo alla proroga, la delega prevede che il pubblico ministero potrà chiedere al giudice la proroga dei termini di cui all’articolo 405 c.p.p. una sola volta, prima della scadenza di tale termine, per un tempo non superiore a sei mesi “quando la proroga sia giustificata dalla complessità delle indagini”; formula, quest’ultima che non compariva nella prima versione della norma.

Una modifica diretta a limitare le ipotesi nelle quali può essere richiesta la proroga delle indagini, non essendo considerati i casi in cui, per le ragioni più  diverse e indipendenti dalla volontà del pubblico ministero procedente, può rilevare una oggettiva  impossibilità di concluderle nei termini di legge. E’ stata così utilizzata – con scelta che non pare in concreto condivisibile - un’indicazione differente da quella dell’art. 406 comma 2 c.p.p., calibrata sul rilievo dell’oggettiva impossibilità di concluderle nei termini, prevista dall’attuale art. 406, comma 2 c.p.p.., atteso che se la complessità è un dato oggettivo e prevedibile, la impossibilità a concludere le indagini può essere non solo “incolpevole” ma anche non ipotizzabile aprioristicamente.

Il problema, per altro, non riguarda specificamente la nuova disciplina sui termini – che, per quanto perfettibile non parrebbe globalmente tale da determinare insormontabili problemi- quanto la “ricaduta” su tali termini della disciplina del controllo dell’inerzia del p.m.  Un problema che non emerge dalle norme in sé, ma quel doveroso coordinamento sulle conseguenze delle stesse che il legislatore può anche (forse) trascurare, ma che gli operatori del diritto devono prevedere e quindi affrontare.

 

3- IL CONTROLLO SULL’INERZIA DEL P.M.

Potrebbe essere- verosimilmente sarà, insieme al regime della procedibilità- uno dei punti più controversi della riforma. Occorre partire dalla Relazione illustrativa al D.d.l. nella sua versione originaria, ove si specifica che “Il disegno di legge di delega prevede, altresì, una procedura di deposito degli atti di indagine, nel caso in cui il pubblico ministero non abbia notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari o non abbia avanzato richiesta di archiviazione entro stringenti termini decorrenti dalla scadenza della durata massima delle indagini preliminari. Tale previsione consente agli interessati di prendere visione degli atti dell’indagine preliminare dopo la scadenza dei relativi termini, anche prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale.  Con la nuova disciplina della durata delle indagini preliminari si raggiungerà quindi, un punto di equilibrio tra le esigenze di segretezza, speditezza e adeguatezza delle indagini preliminari e le garanzie dovute alla persona sottoposta alle indagini in ordine all’effettivo rispetto della durata delle indagini preliminari e del diritto di difesa in relazione ai risultati acquisiti all’esito delle indagini”.

La rilevanza e la centralità di tale nuovi profili nelle intenzioni del legislatore può essere dedotta anche dalle previsioni di sanzioni disciplinari che erano state indicate (anche se opportunamente non confermate nella versione finale della delega):  “prevedere che la violazione delle prescrizioni di cui alla lettera e) da parte del pubblico ministero costituisca illecito disciplinare quando il fatto è dovuto a negligenza inescusabile; prevedere che, dopo la notifica dell’avviso di deposito di cui alla lettera e), l’omesso deposito della richiesta di archiviazione o il mancato l’esercizio dell’azione soppressa penale da parte del pubblico ministero entro il termine di trenta giorni dalla presentazione della richiesta del difensore della persona sottoposta alle indagini o della parte offesa costituisca illecito disciplinare quando il fatto è dovuto a negligenza inescusabile”.  La “rimozione” delle sanzioni pare opportuna non tanto per esigenza di tutela dell’organo inquirente, quanto per evitare lunghe e inutili accertamenti destinati- in moltissimi casi, quantomeno- a concludersi con l’accertamento di situazione tali da giustificare la presunta inerzia (carico di lavoro dei singoli p.m., dell’ufficio, sopravvenienza delicate e improvvise, carenze organizzative, solo per citarne alcune).

Come chiarito dalla Relazione menzionata con la modifica  il legislatore ha inteso “sbloccare una situazione di stallo mediante il deposito coatto delle investigazioni, il quale permetterebbe al prevenuto e all'offeso di attivarsi, sia per compiere indagini difensive, sia (soprattutto) per pungolare l'accusa a prendere rapidamente le iniziative di loro interesse” e di rimediare all’inerzia del pubblico ministero che, anche dopo il decorso di un lasso di tempo piuttosto lungo (tre mesi, sei mesi o un anno a seconda del reato per il quale si procede), non abbia assunto alcuna determinazione in ordine all’esercizio dell’azione penale, all’archiviazione e alla discovery delle investigazioni espletate.

Un intervento che si pone in linea di continuità con le previsioni introdotte nel sistema dal L. 23 giugno 2017, n. 103, attraverso la disposizione di cui all’art. 407, co. 3-bis, c.p.p., secondo la quale il pubblico ministero è tenuto ad esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro il termine di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini e, comunque, dalla scadenza dei termini previsto nell’art. 415 bis c.p.p.

Un meccanismo di controllo del tutto nuovo, il cui presupposto- per il quale la versione finale della delega- a differenza di quella precedente – non contiene specifiche indicazioni temporali, rimette, pertanto, al legislatore delegato; in questo senso è previsto che decorsi i termini di durata delle indagini, il pubblico ministero sarà “ tenuto a esercitare l’azione penale o a richiedere l’archiviazione entro un termine fissato in misura diversa, in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari”.

Il punto che suscita le maggiori perplessità riguarda la previsione di “idonei meccanismi procedurali volti a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa, la quale nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volerne essere informata, di prendere cognizione degli atti di indagine quando, scaduto il termine di cui alla lettera e), il pubblico ministero non assuma le proprie determinazioni in ordine all’azione penale”;  previsione mitigata dalla necessità comunque di tenere conto “ delle esigenze di tutela del segreto investigativo nelle indagini relative ai reati di cui all’articolo 407 c.p.p. e di eventuali ulteriori esigenze di cui all’articolo 7, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012” ; un richiamo, quest’ultimo, alle necessità di coniugare l’obbligo di discovery  con le esigenze di protezione dei soggetti potenzialmente coinvolti come “vittime” dei reati.

Quello che è chiaro è che la “stasi” dei procedimenti non appare più accettabile nelle intenzioni del legislatore. Principio del tutto condivisibile in astratto, anche se i dubbi possono sorgere con riguardo alla tipologia di risposta che la delega ha ipotizzato. La relazione illustrativa evidenzia che “il termine di conclusione delle indagini preliminari si arricchisce di momenti di interazione tra i soggetti del procedimento, al fine di ovviare al vuoto normativo relativo alla possibile stasi, intollerabile, del procedimento, a seguito della conclusione di tale fase. Tale momento rappresenta un esempio, tra i più problematici, di “tempi morti” che determinano un ingiustificato allungamento della durata complessiva del procedimento penale, sui quali il presente intervento riformatore intende agire, in tutte le fasi” e specifica che “Il pubblico ministero si vede confermato lo spazio di valutazione sulle risultanze delle indagini, susseguente al termine delle stesse. Affinché tale periodo non rischi di diventare un viatico all’ingiustificata inerzia del pubblico ministero, si prevede una nuova forma di controllo da parte della difesa e della persona offesa.”

Al proposito è stata prevista:

- una disciplina che, in ogni caso, rimedi alla stasi del procedimento, mediante un intervento del giudice per le indagini preliminari;

- analoghi rimedi alla stasi del procedimento nelle ipotesi in cui, dopo la notificazione dell’avviso di cui all’articolo 415-bis c.p.p., il pubblico ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all’azione penale.

Il legislatore ha previsto in questi casi una discovery obbligatoria degli atti di indagine, in modo che l’indagato, il suo difensore e la persona offesa prendano visione del materiale acquisito nel corso delle indagini preliminari «dopo la scadenza dei termini relativi anche prima che il pubblico ministero abbia assunto le proprie determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale».

La versione finale della delega ha indubbiamente semplificato (rispetto all’originario disegno di legge) l’individuazione dei “tempi” della predetta discovery, ancorandoli in termini estremamente lineari alla scadenza delle indagini preliminari (ferme restando le eccezioni già sopra ricordate) anche se pone un problema- ermeneutico e organizzativo - di non poca rilevanza.

Come si porrà l’avviso che le segreterie del p.m. - come evidenziato dal parere del CSM,” già in sofferenza in relazione alla nota carenza di personale amministrativo” - rispetto all’avviso di chiusura indagini di cui all’art 415 bis c.p.p.?. Atto che, tra l’altro, presuppone un vaglio critico da parte del p.m. (indubbiamente “rivedibile”, ma indicativo della volontà, allo stato di procedere  all’esercizio dell’azione penale) con l’avviso previsto della riforma, che ha per presupposto la mera decorrenza del termine massimo delle indagini ?

E’ sin troppo facile sottolineare la profonda differenza tra i due atti, considerato che l’avviso ex art 415 bis c.p.p. è espressivo di una sintesi critica dell’esito delle indagini e consente una valutazione dell’indagato, con il difensore, sulla strategia da seguire e sulla scelta di richiedere l’interrogatorio (o altri atti di indagine) a fronte di una contestazione che dovrebbe esser sufficientemente precisa.

Al contrario, l’avviso di “scadenza” del termine delle indagini dovrà avvenire al  solo indagato e alla persona offesa e determinerà il mero deposito della documentazione relativa alle indagini espletate presso la segreteria del pubblico ministero, e la facoltà , oltre che per l’indagato e per la persona offesa, anche per il difensore del primo, di prenderne visione ed estrarne copia, senza alcune organizzazione “critica” del pensiero da parte del p.m.. Come chiarisce la Relazione illustrativa “vi è l’introduzione di una garanzia di assoluta novità e sostanziale portata per la tutela dei diritti della persona sottoposta a indagini e delle persone offese: la previsione di un meccanismo che impone al pubblico ministero la messa a disposizione degli atti, a meno che non sia stato notificato l’avviso della conclusione delle indagini previsto dall’articolo 415-bis c.p.p. ovvero non sia stata richiesta l’archiviazione. Fermo restando l’istituto dell’avocazione di cui all’articolo 412 del codice di rito, si rimedia a eventuali ritardi o stasi nelle indagini assicurando l’effettiva conoscenza di tutti gli atti alle persone interessate (siano persone soggette ad indagini, siano parti offese); queste saranno così in grado di attivarsi per eventuali indagini difensive e per sollecitare le iniziative nel loro interesse (archiviazione o esercizio dell’azione penale), fornendo di fatto un contributo utile alla dinamica procedimentale.”

Nella intenzioni del legislatore, pertanto, l’avviso in oggetto parrebbe  alternativo a quello di chiusura delle indagini, che, a sua volta, imporrebbe una sollecita definizione del procedimento da parte del p.m.

Una “massa” di atti la cui interpretazione e valutazione è rimessa alla “fantasia” e alla intraprendenza dei destinatari dell’avviso. Al di là di ciò, è doveroso segnalare in questa fase- anche solo a livello di “principi” quali potranno essere le oggettive criticità del sistema.

Indubbiamente condivisibile l’intenzione di disciplinare dei meccanismi di accelerazione della procedura, che- correttamente, nell’ultima versione delle delega – non parrebbero correlare la “lentezza” della stessa solo alla  capacità/buona volontà del p.m. (indicativa in tal senso l’esclusione di responsabilità disciplinari),  quanto anche da fattori  (carico di lavoro dell’ufficio, carenze di organico del personale amministrativo e di p.g. difficoltà nella notificazione degli atti, tempi di “reazione” dell’ufficio G.I.P. alle richieste della procura) che esulano in parte o totalmente dalla sfera di responsabilità di quest’ultimo ufficio.

Nondimeno, pure auspicando che la richiesta “ accelerazione “ delle procedure possa dipendere dall’intervento complessivo sul sistema-a vari livelli- più che dal “pungolo” al p.m. , sul tema non è possibile non evidenziare alcuni concreti rischi.

Il primo- il più subdolo ma anche quello maggiormente verosimile - riguarda la possibilità che la duplice scadenza prevista dalla delega possa indurre – come segnalato dal parere del CSM – “un approccio di frettolosa definizione dei procedimenti, a scapito della qualità e della necessaria approfondita ponderazione delle decisioni che dovrebbe sempre presidiare il delicato esercizio delle funzioni requirenti.”  Su quanto tale possibilità sia concreta e su quali danni possa apportare al “sistema” giustizia pare quasi inutile trattenersi, atteso che nel momento in cui si richiede in generale al P.M. efficienza e attenzione alle esigenze difensive, il termine introdotto rischia di costituire, almeno sul piano psicologico, un incentivo alla “evasione” – in ogni modo- del procedimento.  

Una seconda criticità riguarda il fatto che l’obbligo di discovery alla scadenza del termine delle indagini di fatto (ma non per questo in termini meno concreto) abbrevia significativamente il tempo a disposizione della p.g. e del p.m. per le indagini vere e proprie, ossia per la “raccolta” delle prove.

Se alla scadenza del termine delle indagini la discovery è inevitabile, va da sé che per tale data tutte le richieste di misura cautelari (personali, e, perché noi, reali) dovranno non solo essere state predisposte, ma anche decise dal G.I.P.  Il giudice non è vincolato dai tempi delle indagini, ma è facile- di nuovo -  considerare quale potrebbero essere le conseguenze di una richiesta non ancora evasa per la quale l’indagato avrà a disposizione integralmente gli atti. E non si pensi solo alle indagini di criminalità organizzata o terrorismo; è sufficiente, per completare il quadro, un reato quale la corruzione per rendersi conto delle conseguenze della scelta del legislatore. E allora, con quanto anticipo rispetto alla scadenza naturale del termine delle indagini il P.M. dovrà  cessare le stesse per predisporre una revisione ragionata degli atti in funzione di una richiesta di misura cautelare e per essere certo che il G.I.P. provvederà sulla sua richiesta prima che quegli stessi atti dovranno essere depositati ?

Ancora, considerando il secondo meccanismo di “accelerazione” – ossia quello conseguente all’avviso ex art. 415 bis c.p.p.- si deve considerare la possibilità che il termine di trenta giorni previsto  per l’assunzione della decisione circa l’esercizio dell’azione penale o l’archiviazione, possa non essere sempre  conciliabile con “ la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e soprattutto con gli adempimenti conseguenti, essendo possibile che il pubblico ministero debba procedere dopo la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari all’interrogatorio dell’indagato e all’esito di questo, ovvero dopo il deposito di memorie e documenti, ad effettuare ulteriori attività investigative, che non consentono certamente l’osservanza del termine di trenta giorni” come evidenziato dal parere del CSM sulla delega.

Difficoltà che potrebbero porsi anche nei casi nei quali “l’omessa assunzione di una formale determinazione conclusiva delle  indagini dipenda dalla necessità di coordinare le indagini del procedimento con  quelle, connesse, in atto presso altri uffici giudiziari nazionali o esteri.”

Ancora, discutibile può apparire la scelta di considerare rilevanti le esigenze di tutela del segreto investigativo solo in relazione all’elenco di reati previsti dall’art. 407 c.p.p. e a quelle della direttiva 2012/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012”; troppe le ipotesi di assoluta gravità che potrebbero essere escluse da tale possibilità, di modo che deve ritenersi condivisibile l’auspicio formulato dal CSM  nel suo parere per il quale nell’attuazione della delega sia inclusa una “clausola che consenta di limitare o ritardare la discovery per qualsiasi fattispecie di reato, e non solo per quelli di cui all’art. 407 c.p.p., quando ricorrano particolari condizioni, quali ad esempio: la pendenza di una richiesta al GIP di misura cautelare su cui quest’ultimo non si sia ancora espresso; la ricorrenza di indagini particolarmente complesse, per la pluralità dei fatti illeciti emersi, la pluralità di indagati e/o la  commissione di fatti sul territorio nazionale e all’estero, che comporti l’esame di un imponente compendio probatorio non esauribile in breve tempo; l’esistenza di un collegamento investigativo con fatti oggetto d’indagine presso altre Procure nazionali o estere che importi un coordinamento con le attività di detti uffici.” 

Infine, un (si fa per dire) dettaglio. Si parla molto e giustamente della tutela della riservatezza, ma pare verosimile che in tutti i casi di deposito previsti dalla delega (non solo quindi in esito all’avviso ex art. 415 bis c.p.p., quanto anche alla scadenza del termine delle indagini) gli atti depositati saranno globalmente “ostensibili” e quindi pubblicabili. Ostensibili senza neppure che gli stessi possano essere corredati da una – giusta o sbagliata – prospettazione critica dell’ufficio di Procura. Dobbiamo attenderci tempi duri, durissimi anche sotto questo profilo.

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