La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza nr. 27766-17 resa dalla prima sezione penale il 22-3-2017 ha annullato con rinvio l’ordinanza nr. 299/2016 emessa dal Tribunale di sorveglianza di Bologna il 20-5-2016, con cui sono state rigettate le richieste - presentate nell’interesse di RIINA Salvatore - di differimento dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 c.p. e, in subordine, di esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter c. 1 ter delle legge 26 luglio 1975 nr. 354.
Appare utile richiamare, per esteso, il testo dell’articolo 147 del codice penale, invocato a sostegno delle prerogative del condannato, che – sotto la rubrica Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena - così recita:
c. 1 - L'esecuzione di una pena può essere differita:
1) se è presentata domanda di grazia, e l'esecuzione della pena non deve essere differita a norma dell'articolo precedente (art. 146 c.p.);
2) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica;
3) se una pena restrittiva della libertà personale deve essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni.
c. 2 - Nel caso indicato nel numero 1, l'esecuzione della pena non può essere differita per un periodo superiore complessivamente a sei mesi, a decorrere dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile, anche se la domanda di grazia è successivamente rinnovata.
c. 3 - Nel caso indicato nel numero 3) del primo comma il provvedimento è revocato, qualora la madre sia dichiarata decaduta dalla responsabilità genitoriale sul figlio ai sensi dell'articolo 330 del codice civile, il figlio muoia, venga abbandonato ovvero affidato ad altri che alla madre.
c. 4 - Il provvedimento di cui al primo comma non può essere adottato o, se adottato, è revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.
In definitiva, ad eccezione della prima ipotesi che riguarda il differimento della pena in caso di presentazione della domanda di grazia, gli altri due soddisfano, sia pure in base a differenti presupposti e limiti di applicazione, le medesime esigenze di tutela prese in considerazione dall’articolo 146 del codice penale: da un lato la tutela della madre e del bambino e, dall’altro lato, la salvaguardia della salute e della dignità del malato.
Le pronunzie, cui si faceva cenno in premessa, sono connotate - e non potrebbe essere diversamente - da una elevatissima componente di discrezionalità nel giudizio, atteso che, nell’ipotesi considerata dalla norma di cui la Suprema Corte ha fatto applicazione nel censurare l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, il legislatore ha lasciato al giudice il compito di valutare, nel caso concreto e per l’appunto discrezionalmente, quando le ragioni umanitarie ivi sottese assumano connotazioni tali da giustificare il differimento (o la sospensione) dell’esecuzione della pena. Pertanto, mentre nei casi indicati nell’art. 146 c.p. il legislatore ha effettuato una valutazione astratta di incompatibilità di determinate situazioni soggettive con la detenzione – senza operare nessun contemperamento degli interessi contrapposti, risultando in tali casi la pretesa punitiva dello Stato, a tutta evidenza, assolutamente pretermessa - nei casi individuati nell’art. 147 c.p. è stato lasciato al giudice il difficile compito di contemperare interessi di sicura rilevanza e di evidente contrapposizione.
A questo riguardo, si impone una doverosa premessa funzionale a dipanare il dubbio – insorto tra i tecnici del diritto – sul se la Corte di Cassazione, nel ravvisare un vizio di motivazione nel provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Bologna, abbia deciso sul ricorso avverso l’ordinanza in questione nel legittimo esercizio delle sue prerogative di legge.
Orbene, prima dell’entrata in vigore, nell’ottobre 1989, dell’attuale codice di procedura penale, al procedimento di sorveglianza si applicava l’art. 71 ter dell’ordinamento penitenziario, introdotto dalla legge 12 gennaio 1977, n. 1, il quale stabiliva – riproducendone l’originario testo – che nei confronti dei provvedimenti della sezione di sorveglianza del tribunale il ricorso per cassazione fosse esperibile solo per violazione di legge, e non per vizi riguardanti la motivazione del provvedimento.
Con l’entrata in vigore del codice Vassalli, per il procedimento davanti ai tribunali di sorveglianza (che con la Legge Gozzini del 1986 hanno sostituito le sezioni di sorveglianza) sono state introdotte nuove regole processuali; e, con riferimento unicamente al procedimento applicabile davanti a quell’organo collegiale, l’art. 71 ter fu ritenuto abrogato dall’art. 236, comma secondo, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del vigente codice di procedura penale, secondo cui, in dette materie, <<continuano ad osservarsi le disposizioni della L. 26 luglio 1975 n. 354 diverse da quelle contenute nel capo II bis del titolo II della stessa legge>>, capo nel quale è per l’appunto compreso l'art. 71 ter ord. pen. Al procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, dunque, si ritennero applicabili le sole disposizioni di cui agli articoli 677 e seguenti del codice di procedura penale.
L’approdo interpretativo in questione deve ritenersi ormai consolidato, sia in seno alla giurisprudenza di legittimità, che sul punto si è pronunziata anche a sezioni unite [si ci riferisce alla sentenza nr. 31461 del 27/06/2006 (dep. 22/09/2006) Rv.234147], sia in seno alla più autorevole dottrina. Di conseguenza, la limitazione posta dall’art. 71 ter ord. pen., con riguardo ai motivi di ricorso azionabili mediante il ricorso per cassazione, è rimasta in vigore nei confronti dei soli provvedimenti del magistrato di sorveglianza, ovvero dell’organo monocratico, ma non già nei confronti di quelli emessi dal tribunale di sorveglianza; sebbene, nell’esperienza pratica sperimentata nelle aule di giustizia negli anni successivi, si sia per lungo di tempo continuato a ritenere che i provvedimenti del tribunale di sorveglianza fossero, comunque, ricorribili soltanto per violazione di legge e non anche per vizio di motivazione. Ciò almeno fino al 2006, quando con la sentenza a sezioni unite da ultimo citata, la Corte – a seguito di una modifica della norma sul ricorso per cassazione [l’art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p.] - ha riconosciuto espressamente che i provvedimenti del tribunale di sorveglianza dovevano ritenersi ricorribili per cassazione anche per vizio di motivazione ed ha affermato che il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti dei tribunali di sorveglianza, ivi compreso quello militare, non è soggetto alla limitazione della sola violazione di legge prevista dall'art. 71 ter L. 26 luglio 1975 n. 354, atteso che tale disposizione normativa è da ritenere non più operante, per le materie di competenza del tribunale di sorveglianza, per effetto dell'art. 236, comma secondo, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del vigente codice di procedura penale, secondo cui, in dette materie, <<continuano ad osservarsi le disposizioni della L. 26 luglio 1975 n. 354 diverse da quelle contenute nel capo II bis del titolo II della stessa legge>>, capo nel quale è, per l’appunto, compreso l'art. 71 ter ord. pen.
Vero è che con la legge 15 luglio 2009 n. 94, a seguito di una delle tante novità normative che hanno riguardato il procedimento di sorveglianza, si è prevista (vds. l’art. 2) la ricorribilità per cassazione soltanto per violazione di legge. Ma la modifica normativa ha interessato unicamente le decisioni del tribunale di sorveglianza in sede di reclamo avverso il provvedimento di applicazione o di proroga del regime speciale dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario; mentre è rimasto fermo il principio secondo cui, rispetto alle altre decisioni del tribunale di sorveglianza, il ricorso per cassazione può essere presentato anche per vizio di motivazione.[1]
Conclusivamente, la Corte di Cassazione è stata correttamente investita della cognizione su un vizio di motivazione in relazione all’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna, trattandosi di una decisione in materia di rinvio dell’esecuzione della pena; solo laddove avesse dovuto occuparsi, nei confronti dello stesso condannato, di una questione relativa all’applicazione o alla proroga del regime speciale dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, il relativo ricorso sarebbe stato esperibile unicamente per violazione di legge.
Va da sé che la componente di discrezionalità, nella valutazione del caso <RIINA> da parte della Suprema Corte, ha assunto, nella specie, una valenza assai preponderante e di conseguente significativo impatto, atteso che – diversamente dalle altre ipotesi ivi contemplate nell’art. 147 c. 1 c.p. – la situazione considerata al punto 2) del medesimo comma (vale a dire il differimento facoltativo della pena nei confronti del condannato in condizioni di grave infermità fisica) è stata descritta dal legislatore attraverso il richiamo ad un concetto estremamente generico, che va interpretato in modo teleologico ed il cui corretto inquadramento non può, quindi, prescindere dalla ratio della norma, a cui deve farsi doveroso richiamo.
È pacifico, nell’interpretazione che della norma in questione è stata proposta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, come il carattere tendenzialmente vincolato della sequenza reato-pena, dal quale discende l’obbligatoria esecuzione di quest’ultima, incontri nei casi considerati per l’appunto nell’art. 147 c.p. un’eccezione di rango costituzionale: al pari di quanto previsto dall’art. 146 c.p., il rinvio facoltativo per grave infermità fisica trova un solido fondamento sia nel divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 c. 3 Cost.), che nel diritto alla salute del condannato (art. 32 Cost.). Lo scopo della norma in questione è, dunque, quello sia di contemperare il principio dell’obbligatorietà della esecuzione della pena con quello del divieto di trattamenti disumani (che potrebbero verificarsi nel caso in cui per le particolari condizioni fisiche del soggetto la pena venisse ad incidere anche sulla integrità fisica del condannato), che di evitare che l’esecuzione della pena si risolva, conseguentemente, in un aggravio di sofferenza del condannato che, oltre a una limitazione della libertà, verrebbe così a subire un trattamento lesivo della sua dignità e della sua integrità fisica. La ragione ispiratrice dell’art. 147 comma 1 c.p. – e, segnatamente, dell’ipotesi ivi considerata al nr. 2 - è stata, dunque, quella di evitare al condannato trattamenti inumani e la sua sottoposizione ad una pena di fatto più grave di quella irrogatagli, in quanto espiata in uno stato di menomazione fisica di tale rilevanza da implicare necessariamente il profondo disagio morale prodotto dal particolare tipo di vita imposto dal carcere a chi, non solo non può approfittare delle opportunità offertegli per la sua rieducazione, ma vede amplificarsi, senza rimedio, gli aspetti negativi. Ed è proprio alla luce di questa ratio di tutela che al concetto di grave infermità fisica non può essere attribuito un carattere assoluto, bensì relativo.[2]
Così interpretato il concetto di <infermità fisica>, il giudizio di <gravità> dovrà essere effettuato caso per caso, a seconda del diverso contemperamento tra condizioni di salute del condannato e ambiente carcerario [C. cost. 114/1979, GCost 1979, I, 803; Dolcini, Della Bella, CB, art. 147, 499]; sicché la condizione di grave infermità fisica pretesa dalla norma, ed idonea a determinare l’eventuale rinvio dell’esecuzione della pena, dovrà necessariamente essere valutata dal giudice di merito, di volta in volta, in relazione ai seguenti parametri:
1) le condizioni di salute del condannato, che, per dar luogo al rinvio dell’esecuzione della pena, dovranno essere connotate da cotanta oggettiva gravità da determinare un trattamento contrario e collidente con il senso di umanità che sempre deve connotare la pena;
2) le condizioni dell’ambiente carcerario in cui il condannato si trova, e, segnatamente, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà di fare ricorso, all’interno delle strutture dell’amministrazione penitenziaria, ai trattamenti sanitari necessari per fronteggiare adeguatamente i danni o i pericoli che la malattia stessa produce;
3) la sussistenza del concreto pericolo della commissione di ulteriori delitti.
La necessità che quest’ultimo requisito sia posto tra gli elementi in valutazione (anzi in preponderante valutazione) discende dalla modifica che, sull’art. 147 c.p., è intervenuta per effetto dell’art. 1 comma 4 della L. 8 marzo 2001, nr. 40, che ha introdotto, nella norma in questione, l’ultimo comma riportato in premessa.
Tanto debitamente premesso circa la portata della norma, appare utile fare richiamo, sia pure molto brevemente, ai due principali indirizzi interpretativi che, sul punto, si sono formati nell’esperienza giurisprudenziale di legittimità, atteso che – pur partendo dalle medesime premesse in relazione alla ratio della norma - la Suprema Corte non ha sempre mantenuto un atteggiamento uniforme nel valutare quale tra gli opposti principi, dell’indefettibilità dell’esecuzione della pena e della tutela della salute del condannato, dovesse avere più incidenza nel caso di volta in volta esaminato.
In alcune massime, infatti, è stato valorizzato l’aspetto retributivo-sanzionatorio della pena, facendo prevalere la necessità, per quanto possibile, di eseguire le pene inflitte, mentre in altre sentenze sono state sottolineate maggiormente le esigenze di tutela della salute del condannato.
Così, secondo l’orientamento più rigorista, diverse pronunzie [C. 17-10-1994, Duchini, CED 199956, FiR 1995, 980; C. 30-3-1994, Vassallo, CED 197449, FiR 1994, 885; C. 19-1-1994, Mangiavillano, CED 197127, CP 1995, 940; C. 21-12-1993, Graziano, CED 196546, CP 1995, 1527; C. 16-12-1993, Veneziano CED 196254, GP 1994, 1237; C. 19-6-1991, Scarpetti; C. 14.4.1993, Tornetta, CED 194285; C. 31.1.2000, Carriero, CED 215498; C. 22.11.2000, Piromalli, CED 218229; C. 26.9.2007, Bifone, CED 237507; C. 24.6.2008, Commisso, CED 240877; C. 8.1.2013, Rossodivita, CED 254509; C. 5.3.2014, Carfora, CED 260780][3] hanno ritenuto l’esistenza della grave infermità fisica solo in presenza di due casi limite, e segnatamente:
- nel caso in cui la gravità della malattia fosse tale da evidenziare una prognosi infausta per la vita del condannato;
- ovvero nel caso di patologia in sé grave, non curabile nelle strutture dell’amministrazione penitenziaria o in altri luoghi esterni di cura, neppure con il ricorso al ricovero ex art. 11 ord. pen.
Naturalmente, così interpretata la norma, finisce con il risultare residuale la funzione di evitare un supplemento di afflizione. Se si circoscrive il rinvio facoltativo alle ipotesi in cui vi è pericolo per la vita del condannato oppure è impossibile fronteggiare, in ambiente carcerario, la malattia del detenuto, il bilanciamento tra gli interessi in gioco lascerà fatalmente prevalere, nella maggior parte dei casi, le esigenze punitive sui diritti fondamentali.[4]
Secondo un opposto orientamento, invece, la prosecuzione della detenzione deve ritenersi incompatibile anche con infermità fisiche di rilevanza tale da fare apparire l’espiazione della pena un trattamento in contrasto con il senso di umanità e privo di ogni finalità rieducativa «secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata della previsione codicistica»; sicché, dovrà ritenersi integrato lo stato di grave infermità fisica ogniqualvolta la «situazione di infermità accertata, ancorché tecnicamente dominabile anche in regime di detenzione, sottoponga il paziente-detenuto ad un supplemento di afflizione che, cumulato alla ordinaria afflittività delle pene restrittive della libertà, sia tale da trasformare la detenzione in un “trattamento contrario al senso di umanità” ed in una sostanziale elusione del diritto individuale alla tutela della salute da parte dell’ordinamento» [C. 5-4-1995, De Vincenzo, CED 200789; C. 27-1-1995, Sinagra, CP 1996, 817; C. 6-5-1994, Conti, CED 198417, FiR 1995, 980; C. 8-3-1994, Tana, CED 197204, GP 1994, II, 559; C. 17.5.1997, Martini, in RP, 1997, 723; nello stesso senso C. 27.1.1992, Viola, CED 189235; C. 16.12.1993, Veneziano, CED 196254; C. 30.3.1994, Vassallo, CED 197449; C. 27.11.1996, Calzolaio, CED 206753; C. 28.10.1999, Ira, CED 214590; C. 22.9.2003, CED 225797; C. 8.5.2009, Aquino, CED 244132].[5]
Orbene, a sommesso avviso di chi scrive, una sintesi tra i due orientamenti non è del tutto impossibile nella teoria e inattuabile nella pratica, purché non si perda di vista un dato che, a scanso di ipocrisie, dovrebbe costituire un’irrinunziabile premessa del ragionamento giuridico: né il tenore testuale della norma di cui all’art. 147 c.p., né i principi costituzionali ivi sottesi, impongono che si debba riconoscere assoluta prevalenza al diritto alla salute del condannato, dovendosi - invece - ritenere prioritario, nel bilanciamento degli interessi in gioco, quel valore supremo costituito, non già (semplicisticamente) dalla pretesa punitiva dello Stato, bensì dalla tutela della collettività e dei diritti inviolabili del singolo che la Repubblica riconosce e garantisce (art. 2 Cost.), e rispetto alla quale la pretesa punitiva dello Stato è un mero strumento di azione. Detto in altri termini: affinché si possa soggiungere ad una sintesi soddisfacente degli interessi in gioco, la contrapposizione non va posta tra la pretesa punitiva dello Stato e il diritto alla salute del condannato, bensì tra le esigenze di tutela della collettività e i diritti fondamentali che devono essere riconosciuti alla popolazione carceraria. Ma l’indiscussa prevalenza che – a giudizio di chi scrive - deve essere accordata alla tutela della collettività, non può e non deve condurre alla automatica subvalenza del diritto alla salute del condannato, la cui tutela deve avvenire con pari dignità, non già all’esterno bensì all’interno della struttura carceraria. Da ciò conseguendone l’impegno per uno Stato - che correttamente, e senza ipocrisie, ponga la sua pretesa punitiva a fondamento della sua azione di tutela del singolo e della collettività – ad attrezzare adeguatamente le strutture dell’amministrazione penitenziaria anche a costo del dispiegamento di mezzi eccezionali.
Qualsivoglia legittimo esercizio esegetico teso a confutare il tentativo di sintesi esposto nel punto che precede, impone – ad avviso di chi scrive – che venga posta come premessa ineludibile del ragionamento la negazione totale di ogni possibilità di bilanciare il diritto alla salute del condannato con la pretesa punitiva dello Stato, con la conseguente pretermissione assoluta di quest’ultima. Si vuol dire altrimenti, che negare validità alla prospettiva sopra proposta, significa affermare che la pretesa punitiva dello Stato non può mai essere posta in bilanciamento con il diritto alla salute del condannato, atteso che, afferendo quest’ultimo alla dignità dell’uomo, è esso stesso l’ago della bilancia, e, come tale, non può essere posto tra gli interessi oggetto di bilanciamento.
In definitiva, va in qualche modo squarciata l’ipocrisia sottesa all’interpretazione della norma, nel senso che o si sostiene che il bilanciamento è possibile (e dovuto), nel qual caso l’obiettivo di tutela ultimo da conseguire deve essere la difesa della collettività conformemente al dettato dell’art. 2 della Costituzione, perché non è un caso che l’art. 2 sia stato posto tra i principi fondamentali, con la conseguenza che il diritto alla salute del condannato dovrà essere salvaguardato, per quanto possibile, all’interno della struttura carceraria; ovvero va apertamente negata ogni possibilità di bilanciamento in nome della tutela della dignità del detenuto (art. 32 Cost.) e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità (art. 27 c. 3 Cost.), che, quali principi che si assume supremi, non possono mai essere né posti in bilanciamento né dichiarati subvalenti. Questa è d’altra parte la prospettiva (condivisibile o meno) che il legislatore ha coraggiosamente assunto nella redazione dell’art. 146 c.p. Ma siffatta interpretazione dell’art. 147 c.p., sulla falsariga della prospettiva seguita dal legislatore con l’art. 146 c.p., non può avere ricadute esenti o dalla necessaria modifica della norma (quantomeno nella parte in cui allo stato rende discrezionale il sindacato e nella parte in cui richiama concetti altamente generici), o da un suo sindacato di legittimità costituzionale, non potendosi ammettere, a tutta evidenza, un’interpretazione costituzionalmente orientata, in tutti i casi in cui si sia in presenza di norme di univoco tenore, le quali - cosi come affermato dalla Corte Costituzionale - segnano il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (così Sentenza n. 78 del 2012).
La prospettiva sopra esposta dalla scrivente, conduce ad una riflessione sulla portata delle pronunzie di cui si discute, nei termini e nella prospettiva che segue.
Le due pronunzie afferenti al c.d. caso <RIINA>, cui si faceva cenno in premessa, hanno manifestato, sia pure diversamente, le due anime che si sono formate nell’interpretazione della norma in questione, ma – a giudizio di chi scrive - l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna ha anche tentato di esprimere (parzialmente centrando l’obiettivo) una sintesi tra i due orientamenti sopra richiamati, perché dopo aver dato dettagliatamente atto delle condizioni di salute del RIINA (affetto da duplice neoplasia al rene destro, da una situazione neurologica e fisiatrica compromessa, da sindrome parkinsoniana in vasculopatia celebrale cronica, e da patologia cardiaca) e della loro evoluzione nel tempo, ma al tempo stesso della (parziale) adeguatezza dell’ambiente carcerario a garantire al condannato, soggetto di elevatissima caratura criminale, i trattamenti sanitari necessari per fronteggiare adeguatamente i danni o i pericoli che la sua malattia gli ha prodotto, ha proposto – nella parte conclusiva e motiva - una convincente lettura dell’art. 27 Cost., che - per lo stesso diritto vivente che attorno ad esso si è formato - esclude che l’interpretazione del senso di umanità della pena possa condurre a <postulare l’esistenza di un vero e proprio diritto di spegnersi al di fuori del carcere>, affermando, piuttosto, che l’eventuale infausto evento è un rischio connaturato alle patologie ed alla età avanzata del condannato; circostanza - quest’ultima - che non può essere pregiudizialmente ritenuta, di per sé, idonea a qualificare lo stato detentivo come privo del senso di umanità costituzionalmente richiesto, trattandosi - al contrario - di una mera condizione di natura comune a tutti gli appartenenti al consesso umano e, in quanto tale, neutra ai fini della validità del trattamento e della detenzione.
Detto in altri termini, ed in estrema sintesi, il Tribunale di sorveglianza di Bologna:
- ha riassunto dettagliatamente le condizioni di salute del condannato ed ha evidenziato come lo stato di infermità del medesimo – pur connotato da oggettiva gravità – non fosse tale da dar luogo ad un trattamento contrario e collidente con il senso di umanità che sempre deve connotare la pena, trattandosi di patologie trattabili in modo idoneo in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio delle patologie medesime e dell'adeguatezza degli interventi, anche d'urgenza, operati ex art. 11 legge n. 354 del 1975, al fine di prevenire danni maggiori, a mezzo di tempestivi ricoveri del detenuto presso l'Azienda ospedaliera Universitaria di Parma;
- ha valutato le condizioni dell’ambiente carcerario in cui il condannato si trovava, e segnatamente la possibilità concreta di fare ricorso ai trattamenti sanitari necessari per fronteggiare adeguatamente i danni o i pericoli che la malattia stessa gli ha prodotto, compulsando la Direzione dell’Istituto Penitenziario ospitante a rimuovere, tempestivamente, ogni ostacolo che avrebbe impedito al condannato di avere a disposizione un particolare letto rialzabile;
- ha valutato, infine, altrettanto adeguatamente, la sussistenza della pericolosità sociale del condannato, perché ha dato compiutamente atto, con motivazione – a giudizio di chi scrive - esente da censura, del fatto che RIINA Salvatore ha ricoperto e ricopre tutt’ora una posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale siciliana denominata Cosa Nostra.
La Suprema Corte, con la sentenza menzionata in premessa, ha invece censurato tutti i tre i profili oggetto di valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza di Bologna.
In via preliminare, ha sostenuto che la prospettiva di valutazione affrontata dal Tribunale di merito fosse parziale, atteso che il provvedimento impugnato avrebbe sostenuto l’assenza dell’incompatibilità dell’infermità fisica del condannato ricorrente con la detenzione in carcere esclusivamente in ragione della trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, senza considerare - invece – che secondo la giurisprudenza della Corte di legittimità, affinché la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario idoneo a giustificare il differimento dell'esecuzione della pena per infermità fisica non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un'esistenza al di sotto della soglia di dignità, la quale deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria [la Corte ha fatto richiamo ai seguenti precedenti: Sez. 1, n. 16681 del 24/01/2011, Buonanno, Rv. 249966; Sez. 1, n. 22373 del 08/05/2009, Aquino Rv. 244132]. In presenza di patologie implicanti un significativo scadimento delle condizioni generali e di salute del detenuto, a giudizio della Suprema Corte, il giudice di merito avrebbe dovuto verificare - adeguatamente motivando in proposito - se lo stato di detenzione carceraria fosse tale da comportare una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena e se, al di là della trattabilità delle singole patologie, lo stato di logoramento fisico in cui versava il soggetto potesse ritenersi aggravato da altre cause non patologiche come, nella specie, la vecchiaia; non potendosi neppure condividere l’ulteriore prospettiva evidenziata dal Tribunale – circa l’inesistenza di un vero e proprio diritto di spegnersi al di fuori del carcere – e dovendosi, al contrario, affermare l'esistenza di un diritto di morire dignitosamente che, invece, dovrebbe essere sempre assicurato al condannato.
La censura – con il dovuto rispetto – desta significativi elementi di perplessità.
Come si accennava in premessa, sull’interpretazione della norma in questione - e, segnatamente, sui criteri di bilanciamento tra gli opposti principi dell’indefettibilità dell’esecuzione della pena e della tutela della salute del condannato - si sono formati, negli anni, due indirizzi interpretativi. Così mentre in ossequio all’orientamento più rigorista, diverse pronunzie hanno affermato l’esistenza della grave infermità fisica solo nel caso di patologia in sé grave, non curabile nelle strutture dell’amministrazione penitenziaria o in altri luoghi esterni di cura con il ricorso al ricovero ex art. 11 ord. pen., in tal modo valorizzando l’aspetto retributivo-sanzionatorio della pena e facendo prevalere la necessità, per quanto possibile, di eseguire le pene inflitte,[6] invece secondo l’opposto orientamento la prosecuzione della detenzione è stata ritenuta incompatibile con infermità fisiche di rilevanza tale da fare apparire l’espiazione della pena un trattamento in contrasto con il senso di umanità e privo di ogni finalità rieducativa, così da sottolineare maggiormente le esigenze di tutela della salute del condannato.
Il Tribunale di sorveglianza di Bologna ha certamente prestato adesione al primo degli orientamenti in questione, atteso che – dopo avere dato dettagliatamente atto delle condizioni di salute del condannato - ha altrettanto adeguatamente evidenziato come lo stato di infermità di RIINA Salvatore, pur connotato da oggettiva gravità, non fosse tale da dar luogo ad un trattamento contrario e collidente con il senso di umanità che sempre deve connotare la pena, trattandosi di patologie trattabili in modo idoneo in ambiente carcerario. Ma a giudizio di chi scrive, ha anche (meritoriamente) tentato una sintesi tra i due orientamenti sopra richiamati, perché – senza ipocrisia alcuna – ha ritenuto chiaramente prioritario, nel bilanciamento degli interessi in gioco, quel valore supremo costituito dalla tutela della collettività e dei diritti inviolabili del singolo che la Repubblica riconosce e garantisce (art. 2 Cost.), senza tuttavia ritenere subvalente il diritto alla salute del condannato, ma propugnandone la tutela all’interno della struttura carceraria ospitante, che ha compulsato affinché si attrezzasse adeguatamente anche a costo del dispiegamento di mezzi eccezionali. Ma nel proporre questa meritoria sintesi tra gli interessi in gioco, è incorso in un vizio di motivazione che – come si vedrà più avanti - è quello denunziato nella seconda parte della sentenza oggetto di commento.
La ragione per la quale la censura al provvedimento impugnato si presta a significative perplessità è la seguente: l’adesione, adeguatamente motivata, ad uno degli orientamenti comunque formatisi in sede di legittimità è situazione ben diversa dal denunziato difetto di motivazione da cui il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Bologna, a giudizio della Suprema Corte, sarebbe stato viziato, atteso che solo laddove RIINA Salvatore fosse stato affetto da patologie ad andamento cronico progressivo tali da determinarne un progressivo deterioramento cognitivo e, quindi, da impedirgli di percepire il senso stesso della detenzione, sia sotto il profilo retributivo che sotto il profilo risocializzante,[7] il provvedimento – pur adesivo all’orientamento di una parte della giurisprudenza di legittimità - avrebbe potuto ritenersi realmente contrario allo spirito e alla ratio della norma.
Così come desta perplessità la censura che la Suprema Corte ha fatto anche alla lettura che dell’art. 27 Cost. il Tribunale di sorveglianza ha proposto, nella parte in cui ha ritenuto che l’interpretazione del senso di umanità della pena non possa portare a <postulare l’esistenza di un vero e proprio diritto di spegnersi al di fuori del carcere>, dovendosi al contrario - a giudizio della Corte di legittimità – rivendicare l'esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere, invece, assicurato al detenuto, ancorché condannato alla pena dell’ergastolo. La critica al provvedimento impugnato neppure sotto tale profilo appare molto convincente, perché non si può teorizzare il diritto di morire dignitosamente come legato di per sé al diritto di non morire in carcere – salvo a volere aprioristicamente postulare che nessun ergastolano gode ed ha mai goduto del diritto ad una morte dignitosa - e perché, invece, il postulato da cui muove la pronunzia del giudice di merito è correttamente la funzione retributiva della pena, che – proprio perché posta a salvaguardia del bene supremo della tutela della collettività - non può e non deve essere mai essere dichiarata subvalente per la aprioristica salvaguardia del diritto alla salute di un soggetto condannato al carcere a vita per effetto di sentenze, pronunziate in nome del popolo italiano, in ossequio a norme di legge che prevedono la pena dell’ergastolo. Se da un lato occorre rifuggire dall’idea di uno Stato vendicativo che si accanisce contro il reo incurante della dignità della sua persona, d’altra parte occorre, senza ipocrisia alcuna, rivendicare la funzione rieducativa della pena, proprio perché posta a presidio della tutela del singolo sia come individuo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità, così come vuole la Carta Costituzionale (art. 2 Cost.), la quale troppo spesso si ignora in favore di una ideologica funzione di risocializzazione.
In definitiva, a sommesso avviso di chi scrive, deve ritenersi che – sotto questo profilo - il Tribunale di sorveglianza di Bologna abbia significativamente centrato, adeguatamente motivandolo, il primo profilo di valutazione, vieppiù perché in linea anche con l’orientamento che si è formato, a livello europeo, in seno alla giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’uomo.
A questo riguardo, appare degno di nota rammentare le coordinate che, a livello europeo, sono state seguite per la valutazione di casi analoghi.
Va debitamente premesso che non esiste alcuna disposizione della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo che tuteli espressamente il diritto alla salute, né nei confronti dei soggetti liberi che nei confronti della popolazione carceraria, ma l’interpretazione che ne ha dato la Corte di Strasburgo ne ha permesso il suo riconoscimento sia in forza di un’interpretazione evolutiva dell’art. 3 CEDU che tramite la sua riconduzione nell’alveo dei diritti garantiti, quale corollario, di volta in volta, del diritto alla vita,[8] della tutela della dignità umana,[9] del diritto al rispetto della vita privata e familiare[10] e del domicilio.[11]
A giudizio di alcuni autori,[12] le pronunce della Corte in materia si possono idealmente suddividere in tre gruppi:
ü insufficienza o precarietà delle condizioni igieniche: vale a dire violazioni macroscopiche delle basilari regole della cura dell’igiene personale del detenuto, che – a giudizio della Corte – in alcune situazioni hanno integrato a tutti gli effetti ipotesi di trattamento inumano e degradante;
ü mancanza o inadeguatezza della somministrazione di cure mediche necessarie e tempestive: la qualificazione di trattamento inumano e degradante a seguito del mancato tempestivo intervento delle autorità competenti sulla diagnosi, sulla assistenza e sulla cura dello stato di salute del detenuto è intervenuta – nei pronunciamenti della Corte - grazie ad un’interpretazione evolutiva dell’art. 3 CEDU a partire dalla sentenza pilota Kudla c. Polonia,[13] atteso che prima di tale momento la Corte non era mai giunta a segnalare una violazione dell’art. 3 CEDU;
ü incompatibilità delle condizioni di detenzione con lo stato di salute del detenuto: l’attenzione della Corte rispetto ad ipotesi di incompatibilità della detenzione rispetto a un quadro clinico del detenuto fortemente compromesso si è sviluppata a partire dalla sentenza Scoppola c. Italia (n. 1) del 10 giugno 2008[14] per affinarsi nel corso degli ultimi anni con importanti pronunce di condanna[15] ed assestarsi definitivamente nella sentenza Contrada c. Italia (n. 2) dell’11 febbraio 2014.[16]
Tanto premesso, ciò che in tale contesto interessa è l’interpretazione che la Corte di Strasburgo ha dato con riguardo alla più generale questione della qualificazione di trattamento inumano e degradante a seguito del mancato tempestivo intervento delle autorità competenti sulla diagnosi, sulla assistenza e sulla cura dello stato di salute del detenuto.
Orbene, l’analisi evolutiva della giurisprudenza della Corte di Strasburgo conduce a risultati confortanti sotto il profilo dell’adesione – da parte del Tribunale di sorveglianza di Bologna – ai principi da essa elaborati, atteso che, in definitiva, la Corte di Strasburgo – dopo avere preso atto che l’art. 3 CEDU, norma cardine della tutela dell’integrità psico-fisica della persona umana, non pone alla tutela limite alcuno – ha modulato la sua interpretazione con riguardo alla tutela dell’integrità psico-fisica dei detenuti, richiedendo, come necessario presupposto per integrarne la violazione, il superamento di una soglia minima di gravità, che ha individuato, caso per caso, in relazione ai seguenti criteri:
- le modalità di esecuzione della pena detentiva, che non devono sottoporre la persona a disagi o prove la cui intensità superi l’inevitabile livello di sofferenza inerente alla detenzione;
- la salute ed il benessere del detenuto, che devono essere assicurati in modo adeguato, in particolare tramite la somministrazione di cure mediche necessitate.[17]
In definitiva, secondo l’interpretazione evolutiva che la Corte ha dato dell’art. 3 CEDU, la norma cardine della tutela dell’integrità psico-fisica della persona umana comporta a carico degli Stati membri e nei confronti della popolazione carceraria i seguenti obblighi:
- un obbligo negativo di astensione dal porre in essere dei trattamenti contrari al senso di umanità;
- un obbligo positivo di tutelare la salute ed il benessere dei detenuti attraverso la predisposizione delle cure mediche necessarie.
Partendo da questi due postulati, la Corte nell’evoluzione giurisprudenziale successiva[18] ha enunciato in modo analitico gli obblighi che incombono sugli Stati in materia di assistenza e cura medica dei detenuti:
- dovere di verificare che lo stato di salute del detenuto sia compatibile con la detenzione, che discende dal più ampio principio per cui in uno Stato di diritto l’idoneità e la capacità del soggetto di scontare una pena detentiva è condizione imprescindibile per l’esecuzione della pena stessa; sicché - se non può certamente dedursi dalla Convenzione un generico dovere di rimettere in libertà ovvero di garantire un ricovero in una struttura ospedaliera esterna ad ogni detenuto che necessiti di particolari cure mediche – tuttavia, a giudizio della Corte, l’art. 3 CEDU impone in ogni caso allo Stato di tutelare l’integrità fisica delle persone private della libertà e può comportare, in condizioni di incompatibilità con la detenzione, persino l’obbligo di scarcerazione;
- dovere di provvedere a somministrare cure mediche necessarie, ciò che impone un controllo della Corte sull’effettiva assistenza e cura dello stato di salute della persona detenuta da parte delle autorità competenti, che devono provvedere a garantire il benessere e l’integrità psico-fisica del detenuto sia in fase di diagnosi sia in fase di trattamento della patologia, garantendo la somministrazione della terapia prescritta dai medici;
- dovere di adattare, in caso di bisogno, le condizioni di detenzione alle esigenze specifiche legate allo stato di salute del detenuto.
La Corte, in definitiva, attraverso una copiosa elaborazione giurisprudenziale,[19] ha individuato un nucleo di tutela del diritto alla salute del detenuto in riferimento all’art. 3 CEDU, ed è soggiunta a qualificare come trattamento inumano e degradante solamente quelle ipotesi in cui, di fronte ad un preciso quadro clinico del detenuto affetto da una grave patologia, le autorità competenti avessero omesso di apprestare le cure mediche adeguate e necessarie compromettendo in tal modo la salute del detenuto.
Orbene, anche alla luce della sopra esposta evoluzione giurisprudenziale, va confermato il giudizio espresso in premessa: il Tribunale di sorveglianza, non ha solamente centrato, adeguatamente motivandolo, il primo profilo di valutazione della ricorrenza dei presupposti di legge per l’eventuale rinvio della pena, ma ha elaborato una decisione in linea anche con l’orientamento che si è formato, a livello europeo, in seno alla giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’uomo.
Va detto però che, laddove, invece, il Tribunale di Sorveglianza non ha centrato l’obiettivo è stato nella parte in cui – dopo avere meritoriamente tentato una sintesi tra gli interessi in gioco – ha affidato la tutela del diritto alla salute del condannato alle concrete dotazioni di mezzi da parte della struttura carceraria ospitante, a tutta evidenza carenti al momento della adozione del provvedimento. La Suprema Corte ha conseguentemente censurato il secondo profilo oggetto di valutazione da parte del Tribunale di sorveglianza di Bologna, denunziandone un’intrinseca contraddittorietà della motivazione, laddove, da un lato, si sarebbe affermata la compatibilità dello stato di detenzione dell'istante con le sue condizioni di salute in ragione della loro trattabilità in modo idoneo in ambiente carcerario e, dall'altro, avrebbe evidenziato le deficienze strutturali della Casa di reclusione ove il medesimo era ristretto, sotto il profilo dell’impossibilità per il condannato – ricoverato, all’epoca del giudizio, in un presidio sanitario esterno alla struttura carceraria - di avere a disposizione un particolare letto rialzabile, stante le ristrette dimensioni della camera di detenzione.
Sotto questo profilo, il vizio di motivazione ravvisato dalla Corte è – quantomeno astrattamente - presente, atteso che il Tribunale di sorveglianza ha, nel legittimo esercizio delle sue prerogative, espressamente compulsato la Direzione dell'Istituto Penitenziario ospitante affinché eventuali deficienze della struttura fossero rimosse nel più breve tempo possibile, non potendosi ammettere che <la mera assenza delle condizioni di cura possa assurgere a possibile causa di scarcerazione di un soggetto di tale risaputo spessore criminale>. Quindi, sotto questo profilo, non ha centrato l’obiettivo che si era meritoriamente proposta di perseguire, atteso che – in definitiva - ha affidato la tutela del diritto alla salute del condannato alle dotazioni di mezzi da parte della struttura carceraria ospitante, dichiaratamente carenti al momento della adozione del provvedimento.
Residua, tuttavia, il ragionevole dubbio su se la Corte - piuttosto che denunziare una contraddizione nella motivazione (con tutte le conseguenti ricadute in termini di clamore evocato dalla decisione) - avrebbe potuto censurare la decisione unicamente nella parte in cui non ha fissato un termine entro il quale la struttura penitenziaria ospitante avrebbe dovuto ottemperare all’ordine: dal momento che il RIINA si trovava (e si trova tutt’ora) ricoverato in una struttura sanitaria esterna alla Direzione della Casa Circondariale, il <dovuto> rinvio della decisione in attesa degli eventuali accertamenti (così come richiesto dalla Suprema Corte di Cassazione) non appare di cotanta necessità da integrare una contraddittorietà della motivazione, atteso che lo stesso obiettivo avrebbe potuto conseguirsi mediante l’apposizione di un termine per adempiere al comando.
La Suprema Corte, infine, ha censurato il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Bologna sotto l’ultimo profilo oggetto di valutazione, affermando che sarebbe stato carente di motivazione sotto il profilo dell’attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto, tale da configurare quelle eccezionali esigenze che devono imporre l'inderogabilità della esecuzione della pena, atteso che - ferma restando l'altissima pericolosità del condannato detenuto e il suo indiscusso spessore criminale (di cui la stessa Corte ha dato atto) - il provvedimento censurato avrebbe dovuto fondare il giudizio di eccezionale pericolosità su precisi argomenti di fatto, rapportati alla attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza e avrebbe dovuto altresì chiarire, con motivazione adeguata, come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato di decadimento fisico dello stesso.
Ma proprio sotto tale profilo, a sommesso avviso di chi scrive, la sentenza della Suprema Corte desta maggiori profili perplessità.
Come si diceva in premessa, l’art. 147 c.p. è stato modificato dell’art. 1 comma 4 della L. 8 marzo 2001, nr. 40, che ne ha integrato il testo introducendone un ultimo comma, che nell’attuale formulazione prevede che il provvedimento di rinvio dell’esecuzione non possa essere adottato o, se adottato, debba essere revocato se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti.
L’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Bologna appare significativamente motivata anche sotto il terzo (assorbente) profilo che deve governare la decisione, vale a dire quello della sussistenza del concreto pericolo della commissione di ulteriori delitti, perché ha dato atto del fatto che RIINA Salvatore ha ricoperto e ricopre tutt’ora una posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale siciliana denominata Cosa Nostra, adeguatamente fondando la valutazione - non già sulla base di un giudizio di mera presunzione di pericolosità fondata sulla gravità dei crimini commessi o sull’assenza di qualsivoglia indice di dissociazione dal sodalizio criminale - bensì sulla base dell’attualità del suo tasso di pericolosità desumibile dalla circostanza che, nonostante il lunghissimo periodo di detenzione, egli, per il tramite di figli e nipoti, ha continuato a impartire direttive ad una organizzazione criminale, la quale – per la tipologia dei delitti alla medesima riferibili – non necessità notoriamente della presenza fisica quantomeno dei suoi capi e dei suoi promotori, potendosi un mandato omicidiario disporre anche attraverso meri cenni del capo e, in punto di morte, finanche con un battito di ciglia; ciò che, come risaputo, è costato a RIINA Salvatore l’imputazione in procedimenti penali ancora pendenti e il rinnovo in tempi recentissimi del decreto di applicazione del regime del 41 bis O.P.
Salvatore RIINA è tutt’ora riconosciuto come il capo indiscusso di Cosa Nostra ed è parimenti tutt’ora capace e di intendere e di comunicare, di fare da mandante per la consumazione di nuovi delitti, e, in definitiva - per ciò che precipuamente interessa ai fini del giudizio sul rinvio dell’esecuzione della pena detentiva - di percepire la finalità retributiva e risocializzante della pena; profilo su cui l’ordinanza impugnata ha motivato adeguatamente.
Salvatore RIINA – nonostante le trentatré condanne già riportate - ha una carriera criminale ancora in corso di compiuto accertamento, solo che si consideri che l’ultima sentenza passata in giudicato è quella recentemente emessa dalla Corte d’assise di Milano il 26-1-2012 e irrevocabile il 5-6-2015, la cui esecuzione è attualmente curata dalla Procura della Repubblica di MILANO, con cui il RIINA è stato condannato per i plurimi omicidi commessi a Milano il 2-5-1992 e che, tutt’ora, è imputato in rilevanti procedimenti ancora pendenti, rispetto ai quali è ragionevole ritenere, e comunque non è in alcun modo possibile escludere, un suo intervento sui testimoni, sugli altri coimputati e sulle medesime autorità giudiziarie competenti; profilo su cui l’ordinanza impugnata ha altrettanto adeguatamente motivato.
Certo è vero che il Tribunale di sorveglianza – nell’affermare che RIINA Salvatore è tutt’ora capace di impartire direttive a Cosa Nostra nonostante il regime detentivo a cui risulta sottoposto – ha innegabilmente squarciato l’ipocrisia istituzionale sul regime del 41 bis ord. pen., perché in definitiva ha dichiarato che lo strumento con cui lo Stato ha tentato di reagire contro la minaccia eversiva ripetutamente attuata dalle organizzazione criminali, sotto questo profilo, non ha centrato pienamente l’obbiettivo.
Nondimeno, desta significativa perplessità quel passaggio della motivazione della Suprema Corte in cui si sostiene che il Tribunale di sorveglianza non avrebbe adeguatamente motivato sull’idoneità della malattia a far ritenere scemata la pericolosità, atteso che il Tribunale – ben consapevole che la pericolosità deve restare, a norma di legge, il profilo assorbente della valutazione – ha significativamente argomentato in ordine alla persistente pericolosità del condannato – non già attraverso il richiamo ad una mera presunzione desumibile dalla sua caratura criminale o dall’assenza di indici di dissociazione – quanto piuttosto facendo puntuale richiamo a tutti gli elementi che confermano l’attualità della sua pericolosità, che la malattia in corso, adeguatamente trattabile all’interno della struttura carceraria ospitante, non è stata al momento in alcun modo idonea a far scemare. E desta significativa perplessità, anche alla luce della rispondenza di siffatto ulteriore elemento di valutazione, con l’orientamento che si è formato, a livello europeo, in seno alla giurisprudenza della Corte dei Diritti dell’uomo.
A questo riguardo, appare degno di nota rammentare che, a far data dal caso esaminato nella sentenza Enea c. Italia del 17 settembre 2009, la Corte di Strasburgo ha preso posizione anche con riguardo al requisito della pericolosità e non ha ritenuto, in quel caso, di riscontrare una violazione dell’art. 3 CEDU – e segnatamente l’incompatibilità delle condizioni di salute del detenuto affetto da tetraplegia rispetto al regime detentivo ex art. 41 bis ord. pen. – considerando preponderante, ai fini della valutazione, l’appartenenza del soggetto ad un’organizzazione criminale e, al contempo, la circostanza che le autorità competenti avevano correttamente adempiuto ai loro doveri di assistenza e di cura del detenuto, sia in fase di diagnosi sia in fase di trattamento delle gravi patologie di cui era affetto. [20]
Orbene, se è pur vero che - a far data dal caso Contrada[21] - la Corte sembra (il condizionale è d’obbligo) aver dato un nuovo assessment di principi fino a quel momento di consolidata applicazione - affermando che il requisito della pericolosità sociale del detenuto, in relazione della sua appartenenza ad organizzazioni criminali, non può rappresentare più un argomento ostativo e che costituisce trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art. 3 CEDU l’ipotesi di incompatibilità delle condizioni di salute del detenuto rispetto ad uno stato di detenzione in carcere prolungato nel tempo – tuttavia non può ragionevolmente sostenersi, in assenza di prese di posizioni più evidenti, che, a far data dal caso c.d. Contrada, la Corte abbia ritenuto residuale il requisito della pericolosità, apparendo invece ragionevole ritenere che lo abbia solo ridimensionato, imponendo al giudice di merito la valutazione – unitamente a quello della pericolosità - dei seguenti presupposti:
- la sussistenza di uno stato di salute del soggetto fortemente deficitario e compromesso da gravi patologie;
- la produzione di documentazione medico-sanitaria del quadro clinico del detenuto quale fonte di prova dell’incompatibilità oggettiva e soggettiva del detenuto rispetto alla sua permanenza in carcere;
- l’assenza di motivi ostativi alla concessione di misure alternative alla detenzione in carcere quali – appunto - la pericolosità sociale del soggetto.[22]
Alla luce di quanto precede, il ragionevole dubbio, che è insorto all’indomani della pubblicazione della sentenza, sul se - nella specie - si potesse decidere diversamente e se l’operazione ermeneutica ivi effettuata potesse portare a risultati diametralmente opposti, può sciogliersi alla luce delle considerazioni sopra effettuate.
Residua, invece, il più generale interrogativo, insorto di certo non tra i tecnici del diritto, ma sicuramente nella collettività nel suo complesso all’indomani del clamore suscitato dalla vicenda <RIINA> - e che non spetta certamente alla scrivente dipanare, esulando dal presente commento tecnico sulla sentenza in questione - sul se il predominio assoluto della tutela della dignità del detenuto in relazione a situazioni che vanno oltre ogni forma di rivoltante aberrazione e il pregiudiziale richiamo alla categoria astratta della dignità, al senso di umanità ed conseguente diritto del condannato ad una morte dignitosa – ove avulso dalla concreta valutazione della oggettiva pericolosità del condannato – possa essere effettivamente funzionale alle finalità di armonizzazione dell’ordinamento giuridico con quello sociale o realizzi, piuttosto, la mera enunciazione di petizioni di principio che, se esasperati, possono porsi in ontologico contrasto con i principi di diritto sostanziale posti a presidio della legalità e della collettività nel suo insieme.
Bibliografia:
Canepa-Merlo, Manuale di diritto penitenziario, 2006; Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2011, pp. 239 ss.; ID., La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di schiavitù e del lavoro forzato (art. 4 CEDU), in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2011, pp. 248 ss.; Corbi, Esecuzione penale, Dpen, IV, 1990, 286; Crespi-Stella-Zuccalà, Commentario Breve al Codice Penale, CEDAM, 2001; Della Casa, Il monito della consulta circa il «rimedio estremo» della scarcerazione per il condannato vittima di un grave e diffuso sovraffollamento, GCOST 2013, 4533; Di Ronza, Manuale di diritto dell’esecuzione penale, 2000; Dova, Torreggiani c. Italia: un barlume di speranza nella cronaca del collasso annunciato del sistema sanzionatorio, RIDPP 2013, 948; E. Dolcini – G. Marinucci, Codice penale commentato, IPSOA, 1999; Rivello, Domanda di grazia e differimento dell’esecuzione della pena dopo un recente intervento della Corte costituzionale, LPen 1990, 455; V. Manca, La Corte dei Diritti dell’uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l’inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell’art. 3 cedu, Nota a C. eur. dir. uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2), ric. n. 7509/08, in Dir. pen. cont.;
[1] Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione in una delle ultime decisioni pronunziate, sul punto, qualche mese addietro (sentenza n. 13577 del 2017): “la limitazione dei motivi di ricorso alla sola violazione di legge è da intendere nel senso che il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che alla inosservanza di disposizioni di legge sostanziale e processuale, alla mancanza di motivazione, dovendo in tale vizio essere ricondotti tutti i casi nei quali la motivazione stessa risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità, al punto da risultare meramente apparente o assolutamente inidonea a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito per ritenere giustificato il provvedimento adottato, ovvero quando le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far rimanere oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione (tra le altre, Sez. U, n. 25080 del 28/05/2003, Pellegrino S., Rv. 224611; Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246; e, con riferimento specifico al ricorso per cassazione avverso il provvedimento del tribunale di sorveglianza in tema di regime carcerario differenziato, tra le altre, Sez. 1, n. 449 del 14/11/2003, dep. 2004, Ganci, Rv. 226628; Sez. 1, n. 48494 del 09/11/2004, Santapaola, Rv. 230303; Sez. 1, n. 19093 del 09/05/2006, Strisciuglio, Rv. 234179; Sez. 1, n. 37351 del 06/05/2014, Trigila, Rv. 260805).”
[2] Vds. Crespi-Stella-Zuccalà, Commentario Breve al Codice Penale, CEDAM, 2001, sub art. 147 c.p.; E. Dolcini – G. Marinucci, Codice penale commentato, IPSOA, 1999, sub art. 147 c.p.
[3] Seguono il primo, più restrittivo orientamento giurisprudenziale che richiede l’esistenza di un pericolo per la vita del detenuto o l’impossibilità di fronteggiare in ambito carcerario le condizioni di infermità fisica: C 5.3.2014, Carfora, CED 260780, che riguarda un caso in cui la Cassazione ha negato il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena per infermità fisica a un detenuto affetto da broncopneumopatia cronica ostruttiva in tabagismo, necessità di terapia antiepilettica per trauma cranico in età infantile, difficoltà della deambulazione, sindrome ansiosa depressiva con pregressi gesti di autolesionismo e pregresso intervento cardiochirurgico. E ciò in ragione del fatto che il grave stato di salute va inteso come patologia implicante un serio pericolo per la vita o la probabilità di altre rilevanti conseguenze dannose, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti tali da non poter essere praticati in regime di detenzione inframuraria, neppure mediante ricovero in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura ai sensi dell’art. 11 della l. 26.7.1975 n. 354. C 26.9.2007, Bifone, CED 237507, nella quale si è ritenuto che fosse legittimo il rigetto dell’istanza di differimento nel caso in cui il condannato fosse stato sottoposto a un intervento di nefrectomia parziale resa necessaria per la rimozione di carcinoma del rene. C 24.6.2008, Commisso, CED 240877, secondo la quale non può concedersi il rinvio dell’esecuzione della pena per ragioni di salute, sia pure in presenza di una patologia, ritenuta sicuramente grave, di un condannato affetto da esiti di interventi per adenocarcinoma, senza verificare se la situazione patologica sia congruamente fronteggiabile in ambiente carcerario. C 5.3.2001, Piromalli, CED 218229: è stato ritenuto corretto il diniego del rinvio dell’esecuzione nei confronti di un condannato affetto da ipertensione arteriosa, estasia aortica, cardiopatia ipertensiva in aortomiocardiosclerosi senile, pregresso adenocarcinoma prostatico e cisti renali in reni di tipo senile, patologie ritenute di non particolare gravità ed ormai stabilizzate; C 31.1.2000, Carriero, CED 215498: la Corte di cassazione ha ritenuto irrilevante ai fini della concessione del differimento della pena che il detenuto, sottoposto ad un intervento chirurgico di rivascolizzazione in un centro clinico extracarcerario, dopo quindici giorni di ricovero abbia visto migliorare sensibilmente le sue condizioni di salute, in quanto rileva unicamente che tali condizioni di salute non siano fronteggiabili in ambito intramurario; C 28.10.1992, Brambilla, CED 192693, CP 1994, 65: una patologia cronica che obblighi a portare il pacemaker non costituisce una grave infermità fisica, C 4.12.1992, Rancadore, CED 192698, CP 1994, 66: è stata giudicata compatibile con la detenzione la coesistenza di infermità cronicizzate dell’apparato respiratorio con ipertrofia prostatica, ernia inguinale e algie al rachide lombosacrale, C 14.4.1993, Tornetta, CED 194285, Gpen 1994, II, 83: esclusa la incompatibilità con la detenzione in caso di insufficienza cardiaca postinfartuale, ipertensione arteriosa e bronchite cronica.
[4] [4]Vds. E. Dolcini – G. Marinucci, Codice penale commentato, IPSOA, sub art. 147 c.p.
[5] Seguono invece il secondo orientamento giurisprudenziale che, conformemente alla ratio della norma, ritiene che il rinvio facoltativo possa essere disposto per evitare un supplemento di afflizione: C 24.11.2010, Giorgi, CED 249058, secondo la quale è contraria al senso di umanità la detenzione di un soggetto prossimo a compiere 78 anni affetto da patologie ad andamento cronico progressivo (encefalopatia multifattoriale, cardiopatia fibrillante e diabete mellito). C 8.5.2009, Aquino, CED 244132: è stato affermato che, dinanzi ad un detenuto affetto da depressione maggiore ricorrente con rischio di suicidio, incapacità a reggere la posizione eretta e condizioni generali scadute, il rinvio facoltativo dell’esecuzione non dovesse essere limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita. Al contrario, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario si estende, infatti, ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di una soglia di dignità; in tal senso anche C 24.1.2011, Buonanno, CED 249966 in relazione ad un detenuto affetto da un’importante obesità, con indicazione all’intervento chirurgico e patologie cardiocircolatorie di rilevante entità. C 14.1.1999, Nirta, CED 212736: in un caso di grave patologia della vista dovuta a glaucoma bilaterale la Corte ha ritenuto censurabile l’ordinanza impugnata che si era limitata a constatare che il detenuto fruiva in carcere della necessaria assistenza sanitaria, senza valutare la gravità delle patologie alla luce del fatto che le stesse, unite alla normale afflittività della detenzione, potessero originare un trattamento contrario al senso di umanità. C 15.6.1992, Piromalli, CP 1994, 65: in presenza di condannato ultrasettantenne con accertata stenosi di vari tronchi coronarici (che in alcuni casi raggiungeva il 75 per cento), cardiopatia ischemica, diabete, insufficienza renale e altre malattie, la Corte di cassazione ha sottolineato che il principio generale della intangibilità della condanna non può essere prevalente quando l’esecuzione della pena per le condizioni di salute del condannato diventerebbe contrastante con il senso di umanità in modo tale da perdere ogni valenza rieducativa. C 10.8.2010, Radulovic, CED, 248252: le turbe psicologiche che non si traducano in grave infermità fisica non sono idonee a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena. C 10.11.2010, Giordano, CED 248470: il differimento dell’esecuzione della pena per malattia psichiatrica è consentito unicamente allorché quest’ultima si risolva anche in malattia fisica. C 8.3.1994, Tana, CED 197204, Gpen 1994, II, 559: incompatibile invece lo stato di detenzione con una encefalopatia ischemica cronica multinfartuale, in quanto patologia richiedente la necessità di costanti contatti con presidi sanitari specializzati in grado di fornire in tempi reali accertamenti diagnostici e terapie specialistiche, C 21.12.1993, Gaziano, CED 994102, CP 1995, 1527: la silicosi polmonare non costituisce infermità tale da giustificare il differimento della pena, C 5.4.1995, De Vincenzo, CED 200789: il differimento della pena può essere concesso anche a chi si trova in regime di detenzione domiciliare quando le condizioni di salute siano talmente gravi da essere incompatibili con le prescrizioni della misura alternativa alla detenzione. La Cassazione ha ritenuto infatti non compatibile con la detenzione domiciliare le condizioni di un soggetto affetto da neoplasia recidivante che il tribunale di sorveglianza aveva invece ritenuto compatibili per il solo fatto che lo stesso era stato autorizzato ad allontanarsi dal domicilio per cure, in quanto il giudice di merito aveva erroneamente.
[6] Più di recente Cassazione 5 agosto 2008, n. 35096: <Il differimento dell’esecuzione della pena per motivi di salute è legittimo solo quando le condizioni del detenuto sono così gravi da rendere concretamente incompatibile il regime carcerario ovvero lo stesso risulti contrario ai più elementari principi di umanità, ovvero le condizioni di salute impongano cure non praticabili in ambiente carcerario, neppure facendo ricorso al ricovero esterno ex art. 11 ord. pen.>; Cassazione nr. 789/2014: <in tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell'art. 147 cod. pen., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l'interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto corretta la decisione impugnata che aveva negato il differimento ad un detenuto che aveva rifiutato un ciclo di fisiokinesiterapia e che non necessitava di costanti contatti con presidi sanitari esterni)>; Cassazione nr. 972/2012: <In tema di differimento facoltativo della pena detentiva, ai sensi dell'art. 147 c.p., comma primo, n. 2), è necessario che la malattia da cui è affetto il condannato sia grave, cioè tale da porre in pericolo la vita o da provocare rilevanti conseguenze dannose e, comunque, da esigere un trattamento che non si possa facilmente attuare nello stato di detenzione, operando un bilanciamento tra l'interesse del condannato ad essere adeguatamente curato e le esigenze di sicurezza della collettività>; Cassazione nr. 1371/2011: <La detenzione domiciliare non va concessa quando le patologie, pur gravi e plurime, possono essere adeguatamente trattate in regime di detenzione carceraria>
[7] Cass. n. 43488/2010: <In tema di differimento facoltativo dell'esecuzione della pena, è contraria al senso di umanità la detenzione di un soggetto prossimo a compiere 78 anni affetto da patologie ad andamento cronico progressivo, quali l'encefalopatia multinfartuale con progressivo deterioramento cognitivo, la cardiopatia fibrillante ed il diabete mellito, che gli impediscano di percepire il senso stesso della detenzione, sia nel suo profilo retributivo che in quello risocializzante>.
[8] C. eur. dir. uomo, 27 luglio 2004, Slimani c. Francia, ric. n. 57671/00, § 27.
[9] C. eur. dir. uomo, 27 maggio 2008, N. c. Regno Unito, ric. n. 26565/05.
[10] C. eur. dir. uomo, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, ric. n. 2346/02.
[11] C. eur. dir. uomo, 16 novembre 2004, Moreno Gomez c. Spagna, ric. n. 4143/02
[12] V. Manca, La Corte dei Diritti dell’uomo torna a pronunciarsi sul divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti: l’inadeguatezza degli standard di tutela delle condizioni di salute del detenuto integrano una violazione dell’art. 3 cedu, Nota a C. eur. dir. uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2), ric. n. 7509/08, in Dir. pen. cont.
[13] C. eur. dir. uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96.
[14] C. eur. dir. uomo, 10 giugno 2008, Scoppola c. Italia (n. 1), ric. n. 50550/06. Per un approfondimento cfr. BEDUSCHI-COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il diritto a libere elezioni (art. 3 Prot. 1), Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2011, 281; COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di schiavitù e del lavoro forzato (art. 4 CEDU), cit., pp. 248 ss.;
[15] C. eur. dir. uomo, 17 settembre 2009, Enea c. Italia, ric. n. 74912/01; C. eur. dir. uomo, 27 febbraio 2012, Cara-Damiani c. Italia, ric. n. 2447/05; C. eur. dir. uomo, 17 luglio 2012, Scoppola c. Italia (n. 4), ric. n. 65050/09; C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2013, Cirillo c. Italia, ric. n. 36274/2010. Di segno parzialmente contrario, invece, cfr.: C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2013, Prestieri c. Italia, ric. n. 66640/10; C. eur. dir. uomo, 5 marzo 2013, Telissi c. Italia, ric. n. 5097/08. Per un approfondimento cfr. RANALLI, Nuovi interventi della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di trattamento carcerario, in Rassegna penitenziaria e criminologica, 2/2013, pp. 158-172.
[16] C. eur. dir. uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2), ric. n. 7509/08, 13, § 85. Per un approfondimento, è da segnalare il lavoro di COLELLA, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti (art. 3 CEDU), cit., nel quale l’autrice prende in esame i vari profili di violazione dell’art. 3 CEDU in relazione alle condizioni della detenzione. Alle ipotesi qui elencate si devono aggiungere le pronunce legate al sovraffollamento carcerario ovvero a particolari regimi di detenzione (ad es. ex art. 41 bis ord. pen. e c.d. E.I.V.), o ancora in relazione alla pena dell’ergastolo, in regime di isolamento ovvero al trattenimento degli stranieri in appositi centri in attesa dell’esecuzione di un provvedimento di espulsione.
[17] C. eur. dir. uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96, 19, § 94. Per un approfondimento cfr. RANALLI, op. cit., pp. 158-172.
[18] Cfr. sentenza Xiros c. Grecia del 9 settembre 2010, in cui la Corte ha sviluppando i principi già espressi dalla Commissione nel suo parere sul caso Hurtado c. Svizzera del luglio del 1993
[19] Tra le più significative pronunce della Corte sul punto, sono da segnalare la sentenza Wenerski c. Polonia del 20 gennaio 2009 e la sentenza Dermanovic c. Serbia del 23 febbraio 2010: nel primo caso il ricorrente aveva subìto un intervento di estrazione parziale dell’occhio destro e si era procurato una ferita nella parte rimanente dell’occhio a causa di uno scontro con un compagno di cella e, pertanto, necessitava di un’urgente operazione, a cui l’amministrazione penitenziaria aveva ripetutamente negato l’autorizzazione con conseguente peggioramento delle sue condizioni di salute; nel secondo caso il ricorrente affetto da epatite C lamentava di non aver ricevuto cure mediche necessarie durante la sua permanenza in carcere38. Se nel caso Wenerski c. Polonia, la Corte riscontra una violazione dell’art. 3 CEDU imputabile alla condotta negligente delle autorità competenti; nel caso Dermanovic c. Serbia, invece, non rileva una violazione della Convenzione a causa della mancata collaborazione dello stesso ricorrente a sottoporsi a trattamenti medici tempestivi.
[20] C. eur. dir. uomo, 17 settembre 2009, Enea c. Italia, ric. n. 74912/01, 22-23. RANALLI, op. cit., 158-172.
[21] C. eur. dir. uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2), ric. n. 7509/08, 13, § 85. La sentenza, qui in commento, rappresenta un generale assessment della precedente giurisprudenza della stessa Corte EDU: C. eur. dir. uomo, 27 luglio 2004, Slimani c. Francia, ric. n. 57671/00, § 27; C. eur. dir. uomo, 27 maggio 2008, N. c. Regno Unito, ric. n. 26565/05; C. eur. dir. uomo, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, ric. n. 2346/02; C. eur. dir. uomo, 16 novembre 2004, Moreno Gomez c. Spagna, ric. n. 4143/02; C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2009, Antropov c. Russia, ric. n. 22107/03; C. eur. dir. uomo, 30 settembre 2010, Pakhomov c. Russia, ric. n. 44917/08; C. eur. dir. uomo, 7 dicembre 2010, Porumb c. Romania, ric. n. 19832/04; C. eur. dir. uomo, 16 dicembre 2010, Kozhoar c. Russia, ric. n. 33099/08; C. eur. dir. uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96; C. eur
[22] C. eur. dir. uomo, 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2), ric. n. 7509/08, 13, § 85. La sentenza, qui in commento, rappresenta un generale assessment della precedente giurisprudenza della stessa Corte EDU: C. eur. dir. uomo, 27 luglio 2004, Slimani c. Francia, ric. n. 57671/00, § 27; C. eur. dir. uomo, 27 maggio 2008, N. c. Regno Unito, ric. n. 26565/05; C. eur. dir. uomo, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito, ric. n. 2346/02; C. eur. dir. uomo, 16 novembre 2004, Moreno Gomez c. Spagna, ric. n. 4143/02; C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2009, Antropov c. Russia, ric. n. 22107/03; C. eur. dir. uomo, 30 settembre 2010, Pakhomov c. Russia, ric. n. 44917/08; C. eur. dir. uomo, 7 dicembre 2010, Porumb c. Romania, ric. n. 19832/04; C. eur. dir. uomo, 16 dicembre 2010, Kozhoar c. Russia, ric. n. 33099/08; C. eur. dir. uomo, 26 ottobre 2000, Kudla c. Polonia, ric. n. 30210/96;: dir. uomo, 10 giugno 2008, Scoppola c. Italia (n. 1), ric. n. 50550/06, 10-12, §§ 45-51; C. eur. dir. uomo, 17 settembre 2009, Enea c. Italia, ric. n. 74912/01, 22-23; C. eur. dir. uomo, 27 febbraio 2012, Cara-Damiani c. Italia, ric. n. 2447/05; C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2013, Cirillo c. Italia, ric. n. 36274/2010; C. eur. dir. uomo, 29 gennaio 2013, Prestieri c. Italia, ric. n. 66640/10; C. eur. dir. uomo, 5 marzo 2013, Telissi c. Italia, ric. n. 5097/08.