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Magistratura Indipendente

CIVILE  

Gli illeciti endofamiliari con particolare riguardo alla disciplina in materia di Unioni Civili

  Civile 
 lunedì, 13 marzo 2017

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di Alberto Barbazza
Giudice del Tribunale di Treviso

 
 

 

Sommario: 1. La natura dei doveri nascenti dal matrimonio ed il progressivo riconoscimento della tutela risarcitoria ai membri della famiglia. – 2. L’illecito endofamiliare nel rapporto fra i coniugi. – 3. L’illecito endofamiliare nei rapporti fra genitori e figli. – 4. L’illecito endofamiliare nella famiglia di fatto e nelle Unioni Civili. – 5. Danno da morte nella famiglia di fatto nelle Unioni Civili.

 


1. La natura dei doveri nascenti dal matrimonio ed il progressivo riconoscimento della tutela risarcitoria ai membri della famiglia.

 

Con la locuzione “illecito endofamiliare” ci si riferisce ai comportamenti illeciti tenuti da un componente della famiglia nei confronti di un altro soggetto dello stesso nucleo, che possono interessare sia i rapporti fra i coniugi che i rapporti fra i genitori e figli.

Per lungo tempo la violazione dei doveri derivanti dal matrimonio (artt. 143 e 147 cod. civ.) non ha trovato una precisa collocazione all’interno della responsabilità civile e ciò per un triplice ordine di ragioni.

Il valore assegnato all’unità della famiglia, anzitutto, faceva sì che la stabilità della stessa dovesse essere garantita contro le spinte disgregatrici dei suoi componenti, anche se ciò poteva comportare una lesione della libertà e dei diritti fondamentali della persona[1].

In secondo luogo una parte della dottrina, muovendo dall’art. 143 cod. civ., il quale prevede che “con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri”, riteneva che l’uso del termine “doveri” e non di “obblighi” escludesse la giuridicità dei primi e, di conseguenza, la loro coercibilità[2].

Infine, sia la dottrina che la giurisprudenza maggioritaria ritenevano che la sanzioni previste e tipizzate all’interno del diritto di famiglia esaurissero di per sé gli strumenti offerti dall’ordinamento contro ogni forma di illecito familiare[3].

La pronuncia di addebito della separazione, ex art. 151, comma secondo, cod. civ., così come (solo per citarne alcuni) la sospensione del diritto all’assistenza morale e materiale di cui all’art. 146, comma primo, cod. civ. e gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, ai sensi degli artt. 342 bis e ter cod. civ., costituendo la disciplina specificamente dettata dal legislatore a difesa dei membri della famiglia, avrebbero delineato le sanzioni tipiche del diritto di famiglia, escludendo quindi una possibile applicazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ.

La crescente importanza attribuita ai diritti dell’individuo, in adesione a quanto previsto dall’art. 2 Cost. e l’assegnazione di un ruolo prevalente alle esigenze del singolo rispetto ai bisogni della comunità familiare, che ha assunto una dimensione sempre meno pubblicistica e più attenta, invece, ai profili privatistici delle relazioni fra i suoi membri, hanno, però, riaperto i termini della questione.

In relazione alla natura dei doveri nascenti dal matrimonio, l’orientamento dottrinale che ne sosteneva il carattere non giuridico, bensì esclusivamente morale, può dirsi ormai definitivamente superato, anche se, stante la natura personalissima dei comportamenti richiesti, si deve comunque escludere la possibilità di un’esecuzione in forma specifica degli stessi[4].

Le sanzioni tipizzate dal legislatore nella disciplina giuridica della famiglia, inoltre, si sono rivelate, nelle valutazioni di molti Autori, adeguate a soddisfare la richiesta di giustizia proveniente dal familiare che abbia subito un grave pregiudizio a causa della violazione dei doveri nascenti dal matrimonio.

 

2. L’illecito endofamiliare nel rapporto fra i coniugi.

 

 Sulla scorta di tali nuovi argomenti, la giurisprudenza ha così riconosciuto, nell’ambito dei rapporti fra i coniugi, che la violazione dell’obbligo di fedeltà, che si sia tradotta in comportamenti che abbiano leso un diritto costituzionalmente garantito del partner, quale la dignità, la reputazione o addirittura la salute, fa sorgere in capo al soggetto leso il diritto al risarcimento del danno ex artt. 2043 e 2059 cod. civ.

Più precisamente, affinché possa invocarsi la tutela risarcitoria, non è sufficiente la mera violazione del dovere di fedeltà di cui all’art. 143 cod. civ. (già sanzionata con l’addebito della separazione), ma è necessario che tale violazione abbia leso un diritto costituzionalmente garantito del coniuge.

L’accertamento dell’illecito endofamiliare per violazione del dovere di fedeltà, che si sia realizzato con modalità lesive della dignità e della reputazione del coniuge, ha portato la giurisprudenza a riconoscere, nella maggior parte dei casi, il risarcimento del danno non patrimoniale, sub specie di danno morale, a ristoro della sofferenza patita e, qualora l’illecito abbia inciso nella vita di relazione del congiunto, anche il danno esistenziale.

Non si può neppure escludere che in talune ipotesi sussistano i presupposti per il risarcimento del danno biologico, qualora dalla violazione dell’obbligo di fedeltà sia derivata un pregiudizio all’integrità psico-fisica del soggetto danneggiato.

Trattandosi, in ogni caso, di danni - conseguenza, colui che agisce in giudizio per ottenerne il ristoro dovrà fornire la prova che la lesione subita sia conseguenza del comportamento tenuto dal coniuge, ex art. 1223 cod. civ., interpretato dalla giurisprudenza secondo il noto criterio della regolarità causale, che estende la risarcibilità anche ai danni mediati e indiretti, sempre che costituiscano effetti normali del fatto illecito.

Anche la violazione dell’obbligo di lealtà prematrimoniale, che sia sfociata nella violazione del dovere di realizzare una comunione di vita sotto il profilo sessuale, è stata ritenuta dalla Cassazione fonte di responsabilità aquiliana, in quanto il diritto della moglie a realizzarsi pienamente nella famiglia e nella società come donna, moglie ed eventualmente madre, appartiene al novero dei diritti fondamentali della persona[5].

3. L’illecito endofamiliare nel rapporto fra genitori e figli.

Anche nel rapporto fra genitori e figli si segnala una recente pronuncia giurisprudenziale che ha qualificato come illecito endofamiliare il disinteresse mostrato da un genitore nei confronti della figlia naturale, integrando tale condotta la violazione degli obblighi di mantenimento, istruzione ed educazione della prole: la Suprema Corte ha quindi  posto l’accento sulla lesione dei diritti di filiazione, che trovano negli artt. 2 e 30 della Costituzione un elevato grado di riconoscimento e tutela[6].

L’obbligo dei genitori di educare e mantenere i figli, secondo quanto previsto dagli artt. 147 e 148 cod. civ., è considerato, dalla giurisprudenza di legittimità, come eziologicamente connesso alla procreazione, venendosi quindi a creare un automatismo tra responsabilità genitoriale e procreazione, qualora a quest’ultima non segua il riconoscimento e l’assolvimento degli obblighi conseguenti alla condizione di genitore[7].

Con l’introduzione, inoltre, dell’art. 709 ter cod. proc. civ., il Giudice, in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, può disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore e può altresì disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro, nell’ambito del giudizio di separazione personale dei coniugi.

Quanto all’entità e all’estensione dei danni risarcibili, tuttavia, non è ancora risolto il dibattito fra gli interpreti, volto a determinare se tale misura risarcitoria sia diretta alla riparazione del pregiudizio subito dal figlio o dal coniuge o se abbia, invece, natura prevalentemente punitiva, volta dapprima a dissuadere il coniuge-genitore dal tenere una condotta inadempiente e non collaborativa e, successivamente, a sanzionare il comportamento illecito dello stesso.

Fino a questo punto si è trattato dell’illecito endofamiliare nella famiglia fondata sul matrimonio.

 

4. L’illecito endofamiliare nella famiglia di fatto e nelle Unioni Civili.

 

Con riguardo alla famiglia di fatto, è opportuno ricordare che la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale hanno a più riprese sottolineato la rilevanza giuridica e la dignità del rapporto di convivenza, ai sensi dell’art. 2 Cost., riconoscendo che esso da vita ad un “autentico consorzio familiare, investito di funzioni promozionali” e che per formazione sociale deve intendersi “ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e a favorire il libero sviluppo della vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico”.

Con specifico riferimento alle coppie omosessuali, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 138 del 2010, chiamata ad esaminare la questione della legittimità costituzionale della mancata previsione, nel codice civile, della possibilità per le coppie omosessuali di accedere al matrimonio, pur concludendo per l’inammissibilità della questione, ha affermato che l’unione tra persone dello stesso sesso è una formazione sociale tutelata dall’art. 2 Cost., intesa quale “stabile convivenza tra persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri”.

L’ingresso del rimedio risarcitorio nella famiglia di fatto è segnato da una sentenza della Suprema Corte, pronunciatasi in relazione al caso di un uomo che, dopo anni di convivenza, decideva di venir meno alla promessa di matrimonio fatta alla sua compagna, lasciando la casa familiare e anche il figlio, nato da poco, per intraprendere una nuova relazione.

Tra i motivi di censura formulati dalla donna, vi era anche la richiesta si stabilire se il diritto all’assistenza morale e materiale, il diritto alla fedeltà e alla sessualità e i doveri derivanti dal matrimonio, quali diritti fondamentali della persona, si riflettessero anche nella fase precedente al matrimonio.

La Cassazione, nel rispondere positivamente a tale quesito, sottolinea l’attenzione crescente del legislatore ai nuovi modelli “familiari”, nei quali le parti decidono volontariamente di escludere le conseguenze legali nascenti dal matrimonio, dando atto altresì dell’interpretazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo fornita dalla Corte di Strasburgo, che estende la tutela del diritto alla vita familiare anche alla famiglia di fatto[8].          

Con l’entrata in vigore della legge n. 76 del 2016, il legislatore ha regolato, per la prima volta, alcuni aspetti dei rapporti fra conviventi di fatto, definiti questi ultimi come “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile”, sancendo espressamente anche la risarcibilità del danno causato dal fatto illecito da cui sia derivata la morte di una delle parti del contratto di convivenza (Parte II, art. 1, comma 49).

La riforma apportata al sistema di diritto di famiglia, pur senza disciplinare organicamente il tema della famiglia di fatto, ha però sancito positivamente la rilevanza giuridica della stessa, senza alcuna preclusione rivolta alle coppie omosessuali, che hanno lo stesso diritto delle coppie eterosessuali di poter esprimere la loro personalità nell’ambito di una convivenza more uxorio, con l’unico limite costituito dall’impossibilità di unirsi in matrimonio.

L’unione civile tra persone maggiorenni dello stesso sesso, definita quale “specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2 e 3 della Costituzione” dall’art.1, comma 1, Parte I, della legge n. 76 del 2016, comporta che le parti di tale consorzio familiare siano obbligate reciprocamente all’assistenza morale e materiale, alla coabitazione e alla contribuzione ai bisogni comuni, in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo (art. 1, comma 11, Parte I).

Nell’elenco dei doveri nascenti dall’unione civile si nota la mancanza del dovere di fedeltà, la cui violazione, pertanto, non può costituire il presupposto di una domanda risarcitoria ex artt. 2043 e 2059 cod. civ. da parte del partner danneggiato, come invece accade nell’ipotesi di vincolo coniugale.

I primi commenti alla nuova disciplina hanno messo in evidenza la contraddittorietà di una disposizione che, da una parte impone l’obbligo di assistenza morale, dall’altra esclude il dovere di fedeltà, inteso quale reciproca lealtà, condivisione, rispetto e dedizione personale fra i membri della coppia, non limitandosi più, come un tempo, alla sola sfera sessuale.

L’assenza di effetti giuridici connessi all’infedeltà, peraltro, appare foriera di un trattamento discriminatorio rispetto ai membri della famiglia fondata sul matrimonio, per i quali la violazione del dovere di fedeltà può rilevare sotto un duplice aspetto, legato all’addebito della separazione e al risarcimento del danno derivante da illecito endofamiliare.

A tal proposito, deve essere inoltre considerato che le norme in tema di unioni civili si presentano in più punti coincidenti con la disciplina del matrimonio, come è confermato dalle disposizioni sull’indirizzo della vita familiare (art. 1, comma 12), sul regime patrimoniale (art. 1, comma 13), sugli ordini di protezione (art. 1, comma 14), nonché dalla clausola di salvaguardia di cui all’art.1, comma 20, la quale prevede che le parole “coniuge” o “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrenti, si applichino anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso.

In disparte il dovere di fedeltà, la violazione dei doveri di assistenza morale e materiale, di coabitazione e di contribuzione, ove cagionino un pregiudizio ad un diritto inviolabile della persona, costituzionalmente garantito, fa sorgere il diritto al risarcimento dei danni da illecito “endofamiliare”, dovendosi ritenere che l’unione civile configuri oggi una nuova forma di comunità familiare, alternativa rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio e alla convivenza more uxorio.

La tesi dell’applicabilità degli articoli 2043 e 2059 cod. civ. anche alle Unioni Civili, d’altra parte, si pone in linea di continuità con la crescente attenzione della dottrina e della giurisprudenza alla salvaguardia del diritto dell’individuo alla libera esplicazione della propria personalità, senza preclusioni in ordine al modello di relazione “familiare” che lo stesso ha la facoltà di scegliere, ma con il limite segnato, come già in precedenza accennato, dall’impossibilità di ritenere le unioni omosessuali omogenee al matrimonio.

 

5. Danno da morte nella famiglia di fatto nelle Unioni Civili.

 

Il danno da morte nella famiglia (intesa inizialmente quale famiglia fondata sul matrimonio), è stato più volte affrontato dalla giurisprudenza, chiamata a dirimere in primo luogo la questione riguardante gli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria.

In un primo tempo il fatto illecito di un terzo che avesse provocato la morte di un congiunto era stato qualificato alla stregua di un “danno da rimbalzo”, intendendosi con tale espressione che la lesione sofferta dai familiari non era direttamente riconducibile all’evento dannoso, bensì mediata dalla vittima “primaria” dell’illecito: al riguardo, paradigmatica appare la sentenza n. 372 pronunciata dalla Corte Costituzionale in data 27 ottobre 1994, la quale affronta sia il tema delle pretese degli eredi per il pregiudizio patito dal de cuius, sia quello delle istanze dei congiunti per i pregiudizi sofferti iure proprio a causa della morte del loro familiare.

Discorrendo del danno alla salute subito a seguito dell’uccisione di un congiunto, la Corte Costituzionale, nella pronuncia di cui sopra, ha evidenziato che in questo caso vi sarebbe una “disgiunzione” fra il soggetto che pretende il risarcimento ed il soggetto titolare del bene primariamente leso dal fatto illecito, con la conseguenza che il danno biologico patito dal familiare non sarebbe identificabile come danno evento, bensì solo come pregiudizio subito per effetto della lesione di un diritto altrui.

Discorrendo del danno alla salute subito a seguito dell’uccisione di un congiunto, la Corte Costituzionale, nella pronuncia di cui sopra, ha evidenziato che in questo caso vi sarebbe una “disgiunzione” fra il soggetto che pretende il risarcimento ed il soggetto titolare del bene primariamente leso dal fatto illecito, con la conseguenza che il danno biologico patito dal familiare non sarebbe identificabile come danno evento, bensì solo come pregiudizio subito per effetto della lesione di un diritto altrui.

Sulla base di tale prospettiva, pertanto, il danno biologico sofferto dal familiare non sarebbe stato risarcibile, mancando il requisito dell’ingiustizia del danno secondo quanto previsto dall’art. 2043 cod. civ., mentre veniva garantita la risarcibilità del danno patrimoniale patito dai congiunti che fossero stati legati alla vittima da un rapporto di dipendenza economica giuridicamente tutelato.

Successivamente la Suprema Corte ha mutato orientamento, sancendo per la prima volta la natura plurioffensiva dell’illecito aquiliano, in grado di ledere sia la vita di un individuo che l’integrità delle relazioni familiari[9].

Si tratterebbe, secondo la giurisprudenza di legittimità, di un fenomeno di “propagazione intersoggettiva” delle conseguenze di uno stesso fatto illecito, tale da generare dei pregiudizi che possono rivestire carattere patrimoniale e/o non patrimoniale.

Focalizzando ora l’attenzione sui danni non patrimoniali, atteso che la struttura della fattispecie risarcitoria di cui all’art. 2059 cod. civ. postula la verifica dell’esistenza dei presupposti di cui all’art. 2043 cod. civ., sarà compito del giudice, al fine di individuare il responsabile dell’evento lesivo, quello di accertare il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta dell’uccisore e la morte della vittima primaria, alla stregua dei criteri dettati dagli articoli 40 e 41 cod. pen. per la causalità di fatto.

In un secondo tempo, una volta risolto il problema dell’imputazione dell’evento, si dovrà procedere alla selezione delle conseguenze risarcibili rispetto a quelle non risarcibili, secondo quanto previsto dall’art. 1223 cod. civ. (richiamato dall’art. 2056 cod. civ.), applicando il criterio della regolarità causale.

La morte del familiare lede un diritto inviolabile costituzionalmente garantito, ovvero l’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e alla reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, nonché l’inviolabilità della piena e libera esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana all’interno della stessa, la cui tutela è ricollegabile agli articoli 2, 29 e 30 della Costituzione.

Venendo ora alle conseguenze non patrimoniali risarcibili, la posizione iniziale della Cassazione, a partire dalla già citata sentenza n. 8828 del 2003, era quella di ritenere che il familiare che chiedesse iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza dell’uccisione del congiunto lamentasse la lesione di un interesse giuridico diverso sia dal bene salute, che dal bene dell’integrità morale, rappresentato dalla irreversibile perdita del godimento delle reciproche relazioni interpersonali che normalmente si esprimono nell’ambito del nucleo familiare.

Sul punto, però, le Sezioni Unite San Martino avevano riconosciuto che, nell’ipotesi di sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di un congiunto, sarebbero venuti in considerazione pregiudizi che solo per comodità di sintesi potevano essere descritti e definiti come “esistenziali”, senza che tuttavia potesse configurarsi un’autonoma categoria di danno.

Il danno non patrimoniale, infatti, doveva essere configurato come categoria generale non suscettibile di suddivisione in sottocategorie variamente indicate, con la conseguenza che non poteva farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, in quanto attraverso quest’ultima si sarebbe condotto anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure a mezzo dell’apparente categoria del danno esistenziale.

Il danno da perdita del rapporto parentale, in quest’ottica, doveva pertanto essere qualificato come danno non patrimoniale attinente alla sfera degli affetti familiari, all’interno del quale potevano trovare ristoro sia la voce del c.d. danno biologico che quella del c.d. danno morale.

Per danno biologico, in particolare, si intende una lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla capacità di produrre reddito.

La scienza medica ha, infatti, osservato che la morte di un parente, cui si era particolarmente legati sul piano affettivo, può non esaurirsi in un mero turbamento emotivo transitorio, ma determinare altresì una stabile compromissione dell’equilibrio psichico attraverso un processo di somatizzazione, accertabile mediante consulenza tecnica.

Si pensi al dolore di una madre per la perdita del figlio, che può comportare un peggioramento definitivo della qualità della vita, nonché una significativa degenerazione dello stato di salute psico-fisico della stessa, documentabile tramite perizia medica.

Oltre al danno biologico, la morte di un congiunto può causare uno stato di prostrazione e un turbamento emotivo (con i correlati sintomi, quali profondo abbattimento, disinteresse per il lavoro, tendenza all’isolamento) che possono essere fatti rientrare nel danno morale, la cui prova può essere fornita dal danneggiato anche tramite presunzioni.

Sulla scia dei principi espressi dalle sentenze “San Martino” in merito al danno non patrimoniale, le Sezioni Unite hanno ritenuto corretta la sentenza che aveva ricompreso il danno da perdita del rapporto parentale nel danno morale, ponendo in evidenza che la liquidazione congiunta del danno morale e del “danno da perdita del rapporto parentale” comportasse una duplicazione risarcitoria[10].

La sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita, infatti, devono intendersi quali componenti di un complesso pregiudizio che va integralmente e unitariamente ristorato, da ricomprendersi nella voce del danno morale.

Qualora, viceversa, lo stato sofferenza del congiunto sia degenerato in una patologia di natura psichica, medicalmente accertabile, il danneggiato potrà chiedere anche il risarcimento del danno biologico, oltre al danno morale legato al dolore per l’irreversibile perdita del godimento del congiunto e alla definitiva interruzione delle reciproche relazioni interpersonali.

L’evoluzione giurisprudenziale così delineata conduce quindi l’interprete a non riconoscere un’autonoma risarcibilità del danno “da perdita del rapporto parentale”, inteso quale voce di danno distinta dal danno morale, in omaggio al carattere unitario ed onnicomprensivo del danno non patrimoniale, al fine di evitare una sovrapposizione fra le varie categorie di danno e quindi duplicazioni risarcitorie.

Fin qui i danni risarcibili iure proprio al congiunto, a seguito della perdita del rapporto parentale.

Si parla, invece, di danno tanatologico in caso di decesso avvenuto senza apprezzabile lasso di tempo fra le lesioni e la morte e ci si è chiesti se esso sia risarcibile iure hereditatis nei riguardi dei congiunti: in un recente arresto, le Sezioni Unite, dirimendo la questione, hanno stabilito che il danno da morte immediata non è risarcibile iure hereditatis, in quanto il sistema di responsabilità civile, incentrato sul danno quale perdita cagionata dalla lesione di una situazione giuridica soggettiva, è volto alla riparazione delle conseguenze dannose in capo al danneggiato; ne consegue che, venuto meno il soggetto al quale la perdita è ascrivibile, il credito risarcitorio non entra nel patrimonio del defunto e non può essere trasmesso agli eredi.

Tanto chiarito in ordine alla struttura della fattispecie risarcitoria del c.d. “danno da morte”, occorre ora esaminare la questione dell’ambito di applicazione della stessa alla famiglia di fatto.

La crescente valorizzazione della convivenza more uxorio, che presenti i caratteri della stabilità e della durevolezza del rapporto, ha condotto la giurisprudenza a ritenere risarcibile anche il danno da fatto illecito che abbia provocato la morte del convivente, sulla base della rilevanza che l’art. 2 Cost. assegna alla sfera relazionale della persona in quanto tale[11].

Nel dirimere la questione della possibilità di ottenere il risarcimento dei danni per la morte del proprio partner, la posizione del convivente è stata posta sullo stesso piano di quella del coniuge, a patto che il danneggiato dimostri che la relazione fosse caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale, equiparabile al rapporto coniugale.

La legge n. 76 del 2006, facendo proprio l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha infine espressamente stabilito che “in caso di decesso del convivente di fatto, derivante da fatto illecito di un terzo, nell’individuazione del danno risarcibile alla parte superstite si applicano i medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite”.

L’interprete dovrà, quindi, fare riferimento, nell’individuazione dei criteri risarcitori, alle conclusioni cui è giunta l’elaborazione giurisprudenziale in tema di danno da perdita del rapporto parentale, tenendo conto, in particolare, della necessità di evitare duplicazioni risarcitorie, che si determinerebbero, in particolare, qualora venisse liquidato congiuntamente sia il danno morale che il danno da perdita del rapporto parentale.

Nella disciplina delle unioni tra persone dello stesso sesso, contenuta nella parte I della legge n. 76 del 2016, non è dato rinvenire la medesima disposizione di cui all’art. 1, comma 49, contenuta nella parte II, che equipara il convivente superstite eterosessuale o omosessuale al coniuge superstite, ai fini dell’individuazione dei criteri applicabili per il risarcimento del danno derivante dal fatto illecito di un terzo, che abbia provocato il decesso del partner convivente.

Quid iuris, nel caso di un’unione civile?

Dalla disamina del testo normativo è possibile ricavare la volontà legislativa di assicurare, almeno tendenzialmente, l’equiparazione tra lo statuto coniugale e quello dell’unione civile.

In tal senso militano, solo per citarne alcune, la norma di cui all’art.1, comma 11, secondo la quale “le parti acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri; dall’unione civile deriva l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione. Entrambe le parti sono tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni”, nonché l’art. 1, comma 12, “Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune; a ciascuna delle parti spetta il potere di attuare l’indirizzo” l’art. 1, comma 13 “Il regime patrimoniale dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, in mancanza di diversa convenzione patrimoniale, è costituito dalla comunione dei beni”.

La clausola di salvaguardia ex art. 1, comma 20, inoltre, al fine di assicurare l’effettività della tutela dei diritti ed il pieno adempimento degli obblighi derivanti dall’unione civile tra persone dello stesso sesso, stabilisce che le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e quelle contenenti il riferimento al “coniuge” o termine equivalente, ovunque ricorrano “nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti, nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi” debbano applicarsi anche nel caso dell’unione civile.

Se, dunque, la ratio legis del nuovo testo normativo appare ispirata all’esigenza di garantire una parità di trattamento fra le coppie omosessuali legate dal vincolo dell’unione civile e le coppie eterosessuali fondate sul matrimonio, una lettura degli articoli 2043 e 2059 cod. civ. che escludesse dalla cerchia dei soggetti legittimati alla domanda di risarcimento dei danni i soggetti legati dall’unione civile, si porrebbe in antitesi con i criteri di fondo che hanno ispirato la riforma da poco entrata in vigore.

Verrebbe inoltre a determinarsi un’aporia nel sistema civilistico, nel caso in cui, da una parte si riconoscesse la tutela aquiliana al convivente (omosessuale o eterosessuale) superstite e dall’altra la si negasse al componente omosessuale dell’unione civile, senza contare che tale interpretazione presterebbe il fianco a censure di costituzionalità per violazione del principio di uguaglianza, sancito dall’art. 3 Cost.

La mancata previsione di una norma che riconosca espressamente il diritto ai componenti dell’unione civile di chiedere il risarcimento dei danni nel caso di morte cagionata dalla condotta illecita del terzo può quindi essere colmata valorizzando la tesi, ormai consolidata in giurisprudenza, secondo cui l’integrità delle relazioni personali afferenti lo sviluppo della personalità di ciascun individuo costituisce una posizione giuridica meritevole di protezione per l’ordinamento, dunque suscettibile di tutela risarcitoria ex art. 2043 cod. civ., nonché un diritto fondamentale costituzionalmente garantito, idoneo a fondare il presupposto per il ristoro dei danni anche non patrimoniali, ex art. 2059 cod. civ.

Tale interpretazione è oggi suffragata, a fortiori, dall’entrata in vigore di una legge che, per la prima volta, dà un volto giuridico alle unioni fra persone dello stesso sesso e alle convivenze more uxorio.


 

 

 

 

 



[1] In proposito, si rinvia a quanto osservato in PETTA, Alcune considerazioni sulla natura giuridica della responsabilità da illecito endofamiliare e sulla sua estensibilità all’interno della famiglia di fatto, in Diritto di famiglia e delle persone, 2015, 1 ss.

[2] In tal senso, de filippis, L’obbligo di fedeltà coniugale in costanza di matrimonio, nella separazione e nel divorzio, Cedam, 2003, 25.

[3] Significativamente, la Suprema Corte statuiva che dalla separazione personale dei coniugi può nascere, sul piano economico, (a prescindere dai provvedimenti sull’affido dei figli e della casa coniugale), solo il diritto ad un assegno di mantenimento dell'uno nei confronti dell'altro, quando ne ricorrano le circostanze specificamente previste dalla legge. Tale diritto esclude la possibilità di chiedere, ancorché la separazione sia addebitabile all'altro, anche il risarcimento dei danni, a qualsiasi titolo risentiti a causa della separazione stessa: e ciò non tanto perché l'addebito del fallimento del matrimonio soltanto ad uno dei coniugi non possa mai acquistare – neppure in teoria – i caratteri della colpa, quanto perché, costituendo la separazione personale un diritto inquadrabile tra quelli che garantiscono la libertà della persona (cioè un bene di altissima rilevanza costituzionale) ed avendone il legislatore specificato analiticamente le conseguenze nella disciplina del diritto di famiglia (cioè nella sede sua propria), deve escludersi, proprio in omaggio al principio secondo cui "inclusio unius, esclusio alterius", che a tali conseguenze si possano aggiungere anche quelle proprie della responsabilità aquilana ex art. 2043 C.C. che pur senza citare espressamente, la ricorrente sembra chiaramente voler porre a fondamento della sua pretesa risarcitoria per la perdita dei vantaggi insiti in qualsiasi convivenza coniugale. (Cass., 6.04.1993, n. 4108, in www.italgiure.giustizia.it).

[4] Al riguardo, si veda roppo, Voce coniugi, in Enc. Giur., 1988, 2 ss.

[5] E siccome l’intensità dei doveri derivanti dal matrimonio, segnati da inderogabilità ed indisponibilità, non può non riflettersi sui rapporti tra le parti nella fase precedente il matrimonio, imponendo loro - pur in mancanza, allo stato, di un vincolo coniugale, ma nella prospettiva di tale vincolo – un obbligo di lealtà, di correttezza e di solidarietà, che si sostanzia anche in un obbligo di informazione di ogni circostanza inerente alle proprie condizioni psicofisiche e di ogni situazione idonea a compromettere la comunione materiale e spirituale alla quale il matrimonio è rivolto, è configurabile un danno ingiusto risarcibile allorché l’omessa informazione, in violazione dell’obbligo di lealtà, da parte del marito, prima delle nozze, della propria incapacità “coeundi” a causa di una malformazione, da lui pienamente conosciuta, induca la donna a contrarre un matrimonio che, ove informata, ella avrebbe rifiutato, così ledendo quest’ultima nel suo diritto alla sessualità, in sé e nella sua proiezione verso la procreazione, che costituisce una dimensione fondamentale della persona e una delle finalità del matrimonio. (Cass.,10.05.2005, n. 9801, in Il Diritto di Famiglia e delle Persone, 2005, I, 1164).       

[6] Si veda, Cass., 16.02.2015, n. 3079, in Giur. it., 2015, 2333.

[7] Si veda, cass., 22.11.2013, n. 26205, in Giur.it. 2014, 1594.

[8] La violazione dei diritti fondamentali della persona è altresì configurabile all’interno di un’unione di fatto, che abbia, beninteso, le caratteristiche di serietà e stabilità, avuto riguardo alla irrinunciabilità del nucleo essenziale di tali diritti, riconosciuti, ai sensi dell’art. 2 Cost., in tutte le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo. Del resto, ferma restando l’ovvia diversità dei rapporti personali e patrimoniali nascenti dalla convivenza di fatti rispetto a quelli originati dal matrimonio, è noto che la legislazione si è andata progressivamente evolvendo verso un sempre più ampio riconoscimento, in specifici settori, della rilevanza della famiglia di fatto. (Cass. civ., 20.06.2013, n. 15481, in La nuova giurisprudenza civile commentata, 2013, 999).

 

[9] Si veda, cass., 31.05.2003, n. 8828, in Dir. e Giust., 2003, 26.

[10] In tal senso, cass. sez. un., 14.01.2009, n. 557, in www.italgiure.giustizia.it.

[11] In particolare, il riferimento ai “prossimi congiunti” della vittima c.d. primaria quali soggetti danneggiati iure proprio a cagione del carattere plurioffensivo dell’illecito, di cui alle decisioni meno recenti, deve oggi essere inteso nel senso che, in presenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra questi ultimi e la vittima, è proprio la lesione che colpisce tale peculiare situazione affettiva a connotare l’ingiustizia del danno e a rendere risarcibili le conseguenze pregiudizievoli che ne siano derivate (se e in quanto queste siano allegate e dimostrate quale danno-conseguenza), a prescindere dall’esistenza di rapporti di parentela o affinità giuridicamente rilevanti come tali. (Cass., 31.03.13, n. 7128, in www.italgiure.giustizia.it).

 

 
 
 
 
 
 

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RIVISTA ISSN 2532 - 4853 Il Diritto Vivente [on line]

 

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