1. La separazione delle carriere: cultura, metodo e merito.
Come un fiume carsico, il tema delle carriere dei magistrati e della loro separazione appare e riappare periodicamente [1]. In questo 2025, è di nuovo in auge, anche per un progetto di riforma costituzionale[2] in corso di esame da parte del Parlamento.
La posizione di questo lavoro è una posizione non separatista[3].
Le ragioni contrarie alla separazione delle carriere, con riforma costituzionale, possono raggrupparsi in obiezioni: a) culturali, di b) metodo e di c) merito. Lo scopo di questo lavoro non è di affrontare funditus gli argomenti di metodo[4] e di merito[5] contrari alla scelta separatista, nel contesto italiano[6].
Gli argomenti di merito[7], contrari alla scelta separatista, sono corposi e largamente diffusi; anche se in misura minore, si leggono rilievi sul metodo di questa divisiva scelta (separatista).
Meno esplorati – ma non di minore interesse – sono gli sfondi culturali che sorreggono le varie opzioni sul punto. Come spesso avviene, i riferimenti culturali rimangono inespressi, annidati sotto le argomentazioni razionali, se si vuole inconsci. Non per ciò, tuttavia, gli sfondi culturali sono meno potenti e rilevanti; anzi, proprio perché stanno sì sullo sfondo ma in profondità, influenzano in modo spesso più penetrante, rispetto agli argomenti espressi a favore o contro la separazione[8].
Proprio perché questi sfondi sono così potenti, pur se spesso inespressi, conviene scandagliarli. Lasciare per un attimo da parte le ragioni di metodo che rendono la separazione quanto mai divisiva; nonché gli argomenti di merito, ormai ripetuti mille volte; per entrare, appunto, negli sfondi storici e culturali che si agitano – un agitarsi che non appare in superficie – sotto questo dibattito.
La dimensione di questo lavoro non consente una analisi completa, né tanto meno un approfondimento comparatistico. Può allora essere una chiave breve – non proprio un divertissement ma un andare per punti – affrontare questo tema, individuando un fil rouge del ragionamento, attraverso quattro soggetti: Fukuyama, Perry Mason, Grisham e Zanardelli. Poco importa che si tratti di soggetti molto diversi: un rinomato studioso (Fukuyama), un personaggio di fantasia (Perry Mason), uno scrittore (John Grisham) ed un politico liberale. Per quello che rappresentano – infatti – sono l’ideale fil rouge per scandagliare le idee, le mentalità, i giudizi ed i pregiudizi che stanno dietro la questione della separazione delle carriere.
2. Fukuyama e l’apogeo del secolo americano.
Francis Fukuyama non immaginava che il suo lavoro[9] finisse per diventare il simbolo dell’apogeo del secolo americano.
Una lettura non superficiale degli scritti di questo studioso fa emergere un quadro meno semplicistico della posizione dell’autore[10]. Non vi è però dubbio che la lettura che è stata data di questo saggio è stata quella della punta più alta del secolo americano. Una sorta di manifesto della fine della Guerra Fredda e la vetta del secolo americano.
La lettura comune di questo saggio – val la pena di ribadire, qui nella sua lettura semplicistica e non del tutto corretta – è stata quella per cui, dopo la dissoluzione dell’URSS, i valori dell’ecumene occidentale fossero destinati a prevalere naturalmente, come stadio ottimale se non francamente ultimo, della avventura umana contemporanea. La fine di ideologie contrapposte fa emergere il modello liberaldemocratico come il “naturale” destino della storia umana. I valori della ecumene occidentale sono destinati a diventare centrali nel secolo XXI. I valori dell’Occidente, poi, vedono al centro gli Stati Uniti, guida e modello della cultura liberaldemocratica.
Non solo: anche fuori dalla analisi scientifica, nel senso comune si è diffusa una ammirazione per il paese leader dell’Occidente: gli Stati Uniti. Proprio a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo. Dunque, in sintesi: vittoria dell’Occidente e dei valori liberaldemocratici; Stati Uniti come cuore e modello per tutto l’Occidente.
Beninteso, la ammirazione è in larga misura giustificata e ben condivisibile; per quello che gli Stati Uniti rappresentano, come esperimento in gran parte riuscito del pensiero politico dell’Occidente; per la loro capacità di integrare e fare diventare americane le genti più diverse; per l’amore per la libertà e la cultura dei diritti; non ultimo, per avere tenuto testa a potenze ispirate dalle peggiori ideologie del Novecento.
Il punto è che questa ammirazione è diventata, spesso, una provinciale e servile imitazione di tutto quello che viene da quel paese.
Così, negli anni Novanta, due raggruppamenti politici italiani hanno assunto come simbolo, rispettivamente, un Elefantino ed un Asinello, ad imitazione degli animali legati ai partiti americani; una imitazione, per così dire pop, di tipo politico-zoologico. Si sente spesso chiamare i presidenti delle Regioni italiane “governatori”, come i capi degli esecutivi degli Stati federati; nel diritto romano il capo delle province era appunto un governatore, mantenendo tradizionalmente tale nome anche dopo la riforma augustea[11]. Gli Stati Uniti hanno adottato, per i capi degli esecutivi degli Stati, questo nome, denso di memoria e di suggestioni, come è tipico di un paese giovane che non dimentica le proprie radici; i governatori sono poi “tornati a casa”, sulla scia dell’americanismo post-guerra fredda.
Anche nel campo del diritto processuale – il che già ci avvicina al tema che qui si tratta – è evidente la fortissima influenza del modello americano. La dottrina dei commentatori ha da qualche secolo evidenziato i passi giustinianei che impongono la assoluzione in caso di dubbio (in dubio pro reo); dalla riflessione di Egidio Bossi, il principio è entrato nella cultura giuridica già nel XVI secolo; anche se non nella pratica, ancora intrisa di retaggi barbari come la tortura; per poi ricevere una luminosa trattazione negli autori dell’Illuminismo italiano ed in particolare in Beccaria[12].
Nonostante questa tradizione nazionale, la cui riflessione scientifica è stata modello per l’Occidente, la regola di giudizio è stata introdotta non con la menzione della tradizione nazionale ma importando la BARD rule, anche in questo con una acritica trasposizione di nozioni d’Oltreoceano; ignorando gli equivalenti, di pari portata garantistica, provenienti dalla nostra tradizione. Si fa riferimento alla modifica dell’articolo 533 c.p.p. ad opera della legge 20 febbraio 2006, numero 46, per cui “Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il dubbio come esito probatorio che impone la assoluzione era già acquisito saldamente dalla dottrina italiana; senza bisogno di importare la formula del Beyond A(ny) Reasonable Doubt.
Dimenticato Egidio Bossi, dimenticato Beccaria, si è dunque importato il criterio del modello anglo-sassone, nella specifica declinazione statunitense[13].
3. Perry Mason e l’accusatorio da telefilm.
Questa imitazione del modello americano, come processo che funziona e che serve a far trionfare la giustizia, assolvendo gli innocenti, può trovare un nome in Perry Mason[14], il famoso personaggio letterario e poi televisivo.
Il personaggio di Erle Stanley Gardner, come è noto, è un avvocato che, avvalendosi anche della facoltà di indagini difensive, riesce ad ottenere giustizia per i propri clienti. E’ qui assunto, nel campo giudiziario, come l’epitome del “fare come in America”; imitare il mondo giudiziario americano. Il processo americano, visto come un modello da imitare, è appunto un processo “alla Perry Mason”, come viene definito appunto dai commentatori[15].
In concreto, come nel successivo paragrafo, il processo americano non funziona così bene; Perry Mason rimane nei telefilm. La realtà, come oltre, è ben diversa. Anche la separazione delle carriere non funziona nel senso auspicato, se si guarda la concreta realtà del processo americano.
Un po’ di anni fa – non tanti – altre erano le mode ed un felice libro di cinquanta e più anni fa – quando altre erano le fascinazioni – lanciava un avviso: Figlioli miei, marxisti immaginari[16]. Oggi, si potrebbe dire: Figlioli miei, Perry Mason immaginari.
La critica alla visione integralistica del processo americano, che comporta con sé la separazione delle carriere, merita però due precisazioni. Ciò per non buttare il bambino con l’acqua sporca.
La prima precisazione è che, pur se non senza difetti come tutte le cose umane, il processo americano ha al suo interno importanti cancelli garantistici, fra i quali ovviamente il Bill of Rights oltre ad una diffusa adesione alla rule of law. Come oltre, è caso mai proprio la presenza di un pubblico ministero non indipendente (funzione politica) e troppo adversary che crea inconvenienti. Dunque, non “tutto come in America” ma, nemmeno, “niente come in America”.
La seconda precisazione è ancor più importante.
La fascinazione per Perry Mason è confusa con l’adesione al principio accusatorio ed al contraddittorio fra le parti. In altri termini, l’equivoco è proprio quello per cui: Perry Mason e America = processo accusatorio. Dunque, se si aderisce al paradigma accusatorio, bisogna “essere americani”, bisogna “essere Perry Mason”; dunque, bisogna separare le carriere.
E’ un equivoco.
Per chiunque si ponga in un’ottica moderna e saldamente garantistica, il sistema accusatorio è una conquista non rinunciabile[17]. La tensione verso un processo accusatorio è stata una costante della migliore dottrina del processo[18], dagli spunti (purtroppo prematuri per i tempi) di Lucchini[19], al geniale progetto carneluttiano del 1963[20], al pensiero di Franco Cordero[21], tutta tesa a valorizzare il principio accusatorio; fino, appunto, al codice Vassalli ed alla novella dell’articolo 111 Cost.
Occorre dunque mantenere ferma, se così si può dire, la “tensione accusatoria”; occorre però evitare di identificare l’«accusatorio» con l’«americano»[22]; o, nella metafora che ci si è dati, l’accusatorio con Perry Mason.
Né le carriere separate assicurano, per ciò solo, la accusatorietà.
4. Grisham ed il risveglio alla realtà.
Ed infatti.
Il processo americano opera con carriere separate; tuttavia, nel suo concreto funzionamento mostra esiti molto diversi da quelli idilliaci, che emergono dai telefilm.
La separazione delle carriere è pienamente operante in quel sistema; eppure, non sembra soddisfare né la funzione politica che la separazione delle carriere vorrebbe soddisfare; né la funzione di garanzia, che sarebbe assicurata dal fatto che pubblico ministero e giudice non appartengono alla stessa carriera; si ricorda infatti che[23], nella riflessione giuridica e politologica, la separazione delle carriere può essere modellata o con una funzione politica, di raccordo con gli organi eletti; ovvero di maggiore libertà e forza del giudice, rispetto alla accusa, dunque con presunte maggiori garanzie per l’imputato.
La realtà concreta del processo americano mostra che proprio questi due obiettivi non sono punto assicurati dalla separazione delle carriere.
In relazione alla funzione politica della separazione delle carriere, non vi è dubbio che un pubblico ministero di nomina presidenziale meglio risponde alle istanze che vengono dall’esecutivo. Tuttavia, ben è chiaro in quel sistema che la nomina presidenziale dei Prosecutors – si fa qui riferimento all’ordinamento federale – può dare luogo a pressioni partigiane, che possono persino essere rivendicate come indispensabili per il raggiungimento di un obiettivo politico[24].
Oppure, se la amministrazione intende invece contenere questo rischio di partigianeria, si rende necessaria la nomina di uno Special Prosecutor. La presenza di questa figura, da un canto, evidenzia la serietà ed il rigore della mentalità anglo-sassone, che intende assicurare una accusa “indipendente”; d’altro canto, evidenzia come un pubblico ministero maggiormente legato al sistema elettivo non sia percepito come soggetto in grado di svolgere le funzioni requirenti in maniera soddisfacente; al punto che si ritiene necessario nominare uno Special Prosecutor.
E’ soprattutto sul piano delle garanzie che si mostra fallace l’opinione che il pubblico ministero, staccato dalla giurisdizione, porti a ricadute garantistiche.
Nel fil rouge che si è individuato, John Grisham[25] è l’autore che si è scelto per demitizzare il “processo alla Perry Mason”.
Dopo una fortunata carriera di scrittore di romanzi “gialli legali”, Grisham si è dedicato anche alla non fiction. Avendo alle spalle esperienze come avvocato e come politico, si è occupato di un caso celebre di una condanna ingiusta[26]; più recentemente, insieme a Jim McCloskey, ha presentato una rassegna di casi di condanna, nelle quali proprio la estraneità del pubblico ministero alla cultura della giurisdizione ha portato a condanne manifestamente ingiuste[27].
La lettura di questa rassegna mostra l’esito di un pubblico ministero “separato”, non cresciuto nella cultura della giurisdizione, che non abbia la consapevolezza di essere il felice ossimoro carneluttiano (una parte sì ma imparziale); il libro fa emergere i danni che può fare un accusatore tutto sbilenco verso il perseguimento della condanna e che perda di vista la fondamentale funzione di organo di giustizia.
In alcuni di questi casi è proprio il pubblico ministero che – nell’agonismo accusatorio cui viene a trovarsi se separato dalla estrazione culturale e tecnica della giurisdizione – compie errori, forzature. In altri di questi casi, si appalesa un difetto ulteriore di una struttura integralmente separatista: il procuratore, infatti, si comporta come un vero e proprio “avvocato della polizia”, infelicissima formula cui ricorrono alcuni dei sostenitori nostrani della separazione delle carriere; ed è proprio questo mancato controllo, in senso garantistico, dell’operato della polizia che causa alcuni degli errori che si leggono nel libro di Grisham-McCloskey.
I casi di questo libro[28] sono veramente impressionanti, a volte sconvolgenti. Un pubblico ministero della tradizione italiana – cresciuto con la cultura della giurisdizione; mirante alla verità e non alla accusa; coordinato ma vigile rispetto alla attività di polizia – non avrebbe permesso nessuno di questi casi.
In breve: se ci si aspetta Perry Mason, arriverà invece uno dei casi di Grisham.
Il che impone di riguardare da dove venga la tradizione italiana; passando all’ultimo dei soggetti del nostro fil rouge: il bresciano Giuseppe Zanardelli, patriota del Risorgimento italiano, deputato della Sinistra liberale, varie volte Ministro (e, significativamente, della Giustizia) e, infine, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia.
5. Zanardelli, la Sinistra liberale e le garanzie della tradizione nazionale.
L’Italia è il primo paese occidentale di grandi dimensioni ad avere abolito la pena di morte.
E’ una cosa di cui andare orgogliosi, che noi Italiani non rivendichiamo abbastanza e cui non diamo la dovuta importanza. La abolizione della pena di morte – nel codice penale del 1889 – è merito di Giuseppe Zanardelli. Se non ci fossero stati i quindici anni di codice Rocco, dovuti alla tragica esperienza fascistica, si potrebbe dire che l’Italia ha anticipato di un secolo la Francia, la Spagna, la Gran Bretagna; nella civile scelta abolizionistica.
La Sinistra storica ha sicuramente fatto germogliare questa scelta[29]; tuttavia, non “ce l’avrebbe fatta”, senza il pragmatismo di Giuseppe Zanardelli, Ministro della Giustizia ed autore/promotore del codice liberale del 1989. E’ dunque a questi che si deve, in concreto, la abolizione della pena di morte.
E’ celebre il discorso di Calamandrei agli studenti milanesi del 1955; nel quale gli articoli della Costituzione venivano ricondotti ai grandi Italiani da cui traggono linfa[30]. Se è possibile seguire Calamandrei, occorre dire che, quando si legge l’articolo 27 della Costituzione che non ammette la pena di morte, certo lì c’è Beccaria ma, anche, c’è, con il suo pragmatismo, un po’ di Zanardelli.
Oltre alla abolizione della pena di morte, la esperienza ministeriale di Zanardelli ha visto due ulteriori riforme.
Innanzi tutto, la decisione di selezionare i magistrati per concorso. Di fronte alla confusione legislativa sulla nomina dei magistrati dell’epoca, Zanardelli, con la riforma del 1890, decise di scartare con decisione il meccanismo della elezione dei magistrati. Si preoccupò di assicurare, con la legge, un concorso affidabile, con materie predeterminate dalla legge[31]. Rimanevano escluse le nomine alle Corti supreme, allora più di una. La decisione di Zanardelli di prevedere in via generale il concorso – migliorando al contempo la condizione economica dei magistrati, allora precaria; nonché assicurando la trasparenza del concorso, con prove predeterminate – aveva ed ha una evidente scopo garantistico. Che può essere così riassunto: assicurare che i magistrati siano selezionati solo per merito; così sottraendoli alla selezione politica; assicurando che siano sottratti a pressioni partigiane, che siano giudici selezionati per il loro “sapere” e non per il loro “potere”[32]. I magistrati sono scelti per concorso, proprio perché si intende indirizzare la loro funzione verso una magistratura che “sa”, che ri-conosce norme date altrove.
Dunque, “quando si legge nell’articolo 106 che «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso», questo è Zanardelli”, lì c’è appunto Zanardelli.
Oltre alla fondamentale riforma della abolizione della pena di morte; nonché alla decisione di assumere i magistrati per concorso, regolandone in modo rigoroso lo svolgimento del concorso; Zanardelli ha promosso una terza riforma, in quegli stessi anni. Si ricava un “trittico garantistico”, nel quale il vertice superiore è ovviamente la abolizione della pena di morte.
La terza riforma di quegli anni è la unificazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Da allora[33], pubblici ministeri e giudici sono sempre stati nella stessa carriera; così che tale assetto può dirsi oggi uno dei portati della tradizione italiana.
Volendo, ancora, usare le immagini di Calamandrei, nel titolo V della Costituzione, che prevede la unità delle carriere di giudici e pubblici ministeri, lì c’è Zanardelli.
Anche nella scelta di unificare le carriere, così come nella selezione dei magistrati per concorso, vi è evidentemente una scelta di fondo, legata alle idee del liberalismo italiano[34], nella specifica declinazione della Sinistra liberale; da un canto, sottrarre il pubblico ministero ad una funzione politica e, sul piano del processo, farne un organo di giustizia; che, ferma la natura di parte, abbia la stessa tensione verso la verità e la giustizia che ha il giudice.
Il che ha consentito – anche in ordinamenti giudiziari in cui l’avvicinamento del p.m. all’esecutivo era espresso, in particolare nella esperienza del Ventennio – di mantenere comunque in capo al pubblico ministero una attitudine alla imparzialità; quella attitudine che – a volte ingiustamente irrisa come concetto fumoso – ben può definirsi cultura della giurisdizione.
Forse non c’è bisogno, allora, di cercare riferimenti culturali altrove.
Non c’è bisogno di importazioni posticce.
Non ha fondamento credere che allontanare il pubblico ministero dal giudice renda questo più libero.
Occorre invece chiedersi se i modelli culturali non sia meglio trovarli nella nostra tradizione nazionale, di cui dovremmo andare maggiormente fieri: un giudice nominato per concorso, dunque sottratto alle pressioni politiche e che giudica su regole ricevute massimizzando il “sapere” sul “potere”; un pubblico ministero a sua volta sottratto alle mutevoli esigenze di politica criminale (quando non a scelte partigiane) e che vive non già per la vittoria ma per la giustizia.
Occorre, insomma, chiedersi se la tenace fedeltà alla nostra storia non sia, ancora oggi, la scelta migliore.
[1] Già ventisei anni fa, avevo modo di occuparmi del tema, nella rivista Critica penale, allora diretta da De Mattia, Cicala, Maddalena e Ricciotti (nel comitato di redazione d Roma della rivista, si legge il nome di Margherita Cassano, oggi alla Prima Presidenza, e di Giovanni Mammone, già alla Prima Presidenza). I lavori sono citati alla nota 5. Rimane, da parte mia, un legame con i direttori di allora; sopra tutti, il legame indelebile con G.C. Romano Ricciotti, un non dimenticato collega ed una delle persone migliori che io abbia conosciuto.
Il primo di quei saggi – citato appunto alla nota 5 – era dedicato a mio figlio Matteo, che accompagnò la stesura estiva di quel lavoro del 1999-2000, giocando sotto il mio tavolo con i suoi piccoli autobus; per quanto conti, quella dedica è ancora la cosa migliore del saggio ed è ancor oggi validissima; anche se ora Matteo studia ingegneria e gli autobus si accinge a progettarli.
[2] Disegno di legge costituzionale approvato in prima lettura dalla Camera il 16 gennaio 2025. Poi, trasmesso al Senato e qui con il numero S.1353, per la seconda lettura.
[3] L’assetto del potere giudiziario nel sistema costituzionale, come tutte le cose umane, non è immutabile e dato per sempre. E’ dunque possibile che in contesti diversi – anche in Italia, in futuro – meccanismi separatisti possano essere la migliore soluzione. Hic et nunc, la separazione delle carriere, con modifica costituzionale, non è un bene; se si vuole, è semplicemente un errore. Come non va fatto un feticcio della separazione delle carriere, così non è immutabile l’attuale assetto; semplicemente, oggi ragioni di metodo e di merito ne rendono la adozione un errore. Quando nel testo si afferma dunque che questo lavoro sostiene il mantenimento dell’attuale assetto costituzionale, sostiene dunque una posizione non ideologica, quanto piuttosto pragmatica e concretamente legata a considerazioni empiriche.
[4] In occasione di precedenti modifiche costituzionali o di abortiti tentativi, non sempre felici, è emersa una communis opinio, che le riforme costituzionali, proprio perché destinate a porre le “regole del gioco”, debbano essere, nei limiti del possibile, condivise. Communis opinio diffusa nel ceto politico – anche se poi tradita nelle condotte concrete – e diffusa nella riflessione politologica e costituzionale. Non è opportuno che le regole costituzionali siano modificate nell’ambito di un “programma di maggioranza”; perché la loro non generale condivisione finisce per renderle meno efficaci ed inserire nel sistema politico elementi di tensione e divisione. Serve da monito la infelice, per esser moderati nella aggettivazione, riforma del Titolo V, approvata appunto a colpi di maggioranza (del centro-sinistra).
Ora, nel caso della separazione delle carriere, si è in presenza di una riforma quanto mai divisiva e contestata: che tutta la magistratura oppone con vigore come una vera e propria minaccia esistenziale, mentre parti importanti della avvocatura (fra cui associazioni di penalisti), invece, sostengono; in un contesto parlamentare che vede i favorevoli ed i contrari divisi a mezzo (con riferimento ai consensi elettorali) e con maggioranza di seggi in Parlamento che non raggiunge i due terzi dei favorevoli.
Una situazione, dunque, che sconsiglia nel metodo una riforma così divisiva.
[5] Per le obiezioni di merito, le dimensioni di questo lavoro non consentono analisi approfondita; si rinvia dunque a: D’ORAZI, Un referendum inammissibile, Critica dei modelli di separazione delle carriere dei magistrati, volume pubblicato come quaderno della rivista Critica penale, Milano, Minchella, 1999; Cinque sistemi di separazione delle funzioni e dei ruoli del giudice e pubblico ministero, volume pubblicato come quaderno della rivista Critica penale, supplemento al numero 3-4. Milano, 2001; Sul progetto governativo di separazione delle funzioni di giudice e pubblico ministero, in Critica penale, 2002, fascicolo II, p. 131.
Nel merito, le obiezioni possono essere riassunte, innanzi tutto, in una certa confusione e sovrapposizione di idee sulle funzioni che la separazione delle carriere dovrebbe avere. Vi è chi la imposta come una riconduzione del pubblico ministero alla autorità politica – in guise ed intensità diverse – basandosi sulla necessità che tale segmento della politica criminale sia richiamato ad autorità a legittimazione democratica; dunque, una separazione delle carriere a fini politici; il pensiero, nella dottrina processualpenalistica, corre ai lavori di DOMINIONI, in vari interventi e lavori; salvo errori per la prima volta in: Per un collegamento fra ministro della giustizia e pubblico ministero-Problemi e prospettive di riforma, in AA.VV (a cura di CONSO), Pubblico ministero e accusa penale, Bologna, Zanichelli, 1979. Questa prima prospettiva politica, appunto nelle sue varie declinazioni, può accompagnarsi ad una rimodulazione della obbligatorietà della azione penale.
Vi è altra prospettiva, che sembra essere quella che emerge dalla proposta attualmente in parlamento; la separazione delle carriere avrebbe fini di garanzia: renderebbe maggiormente libero il giudice dalla influenza del pubblico ministero, appartenente ad altra carriera.
Gli argomenti di merito contro entrambi questi modelli separatisti sono molti e, come detto, non possono trovare qui spazio. In sintesi, il modello politico sicuramente raggiungerebbe gli esiti auspicati dai promotori, tuttavia non utili nel contesto italiano; il modello pseudo-garantistico è invece del tutto inutile ai fini proposti ed anzi con rischi di diventare controproducente; il primo è dunque efficace (per i fini proposti) ma sconsigliabile; il secondo del tutto inefficace.
[6] Appunto, nell’assetto italiano contemporaneo. Come sopra alla nota 3, giungendo a questa conclusione con un approccio laico e non ideologico al tema.
[7] Si veda sopra la nota 5. Da ultimo, una sintesi in SPATARO, AA.VV, Loro dicono noi diciamo; su premierato, giustizia e regioni, Bari, Laterza, 2024.
[8] Le idee degli economisti e dei filosofi politici, tanto quelle giuste quanto quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo delle idee è governato anche da questi sfondi. Gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche vecchia ideologia. O, per parafrasare KEYNES, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Novara, UTET, 2013, p. 510; traduzione di Alberto Campolongo di J. M. KEYNES, The General Theory of Employment, Interest and Money, London, 1936, forse anche questo dibattito sulla separazione delle carriere è influenzato, se non da economisti defunti, da idee dello scorso secolo.
[9] FUKUYAMA, The End of history and the Last Man, New York, NY, The Free Press, 1992, nella traduzione italiana di CENI, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano. Rizzoli, 1992. Il saggio è la espansione e lo sviluppo di un precedente lavoro, pubblicato su The National Interest, su sollecitazione del redattore Owen Harries, a sua volta una rielaborazione di una lezione tenuta in un dipartimento della Università di Chicago (John M. Olin Center for Inquiry into the Theory and Practice of Democracy).
[10] La posizione di FUKUYAMA è qui assunta, dunque, non nella sua complessità, non facilmente riducibile; quanto, piuttosto, nel senso in cui la posizione di questo autore è stata intesa; appunto, come espressione dell’“apogeo occidentale” e del liberalismo; quanto meno dalla prevalente cultura politologica degli anni Novanta del secolo scorso e dell’inizio di questo secolo. Recentemente, proprio sulla parabola del secolo americano, MARONTA, Da Ronald a Donald. La parabola del secolo americano, su Limes (rivista italiana di geopolitica), 12/2024, pg. 51.
[11] E’ infatti ancora chiamato indifferentemente procuratore o governatore (pur dopo la riforma augustea) uno dei governatori dell’epoca di Augusto; si tratta di un funzionario che, da subito e poi nei secoli successivi, ha goduto di pessima fama: Mt, 27, 11 ss.; Mc., 15, 9 ss.; Lc, 23, 1 ss.
[12] BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Milano, 1764, qui nella edizione a cura di VENTURI, Dei delitti e delle pene, Torino, Einaudi, 2018. In particolare, nella ricostruzione degli “indizi”, è netta la distinzione fra la prova perfetta, che non consente dubbio (pp. 33 ss. nella edizione qui citata) e quella non perfetta. E’ sorprendente, poi, come BECCARIA colga la diversa forza delle prove a seconda della dipendenza di una dall’altra; così intuendo, due secoli e mezzo fa, la natura della prova come insieme di reti bayesiane.
[13] La procedura penale francese mantiene un più solido contatto con la tradizione continentale. Infatti, ai giurati d’assise si rammenta il principio tradizionale che il dubbio va a favore dell’accusato (appunto: in dubio pro reo): si veda articolo 304 del codice di procedura penale, per cui il presidente della assise si cura de vous rappeler que l'accusé est présumé innocent et que le doute doit lui profiter. Anche la riflessione dottrinale tedesca continua ad utilizzare il sintagma di Egidio Bossi; ad esempio e recentemente, BERGER, In dubio pro reo und Wahrscheinlichkeitsurteile, Tubinga, Mohr Siebeck, 2023. Anche in Spagna, si continua ad utilizzare la tradizionale espressione in dubio pro reo; ad esempio, nel volume sul sistema spagnolo, dedicato agli studiosi stranieri, di DE LUCCHI LOPEZ-TAPIA e JIMENEZ LOPEZ, The Criminal Justice System in Spain, Barcellona, ed. Atelier-Libros Jurìdicos, 2022, il principio in dubio pro reo si legge a pg. 115.
[14] Come premesso all’inizio di questo lavoro, i quattro soggetti utilizzati come fil rouge sono un piccolo artificio, per condurre la riflessione. Insomma, Perry Mason come modello delle virtù del sistema americano. La rappresentazione narrativa del processo, in senso ideale, è anche nella filmografia, come ad esempio nel film di LUMET, 12Angry Man, La parola ai giurati, 1957.
[15] Ad esempio: BATTISTA, La serie Sky che ricorda le speranze tradite in Italia su processo “alla Perry Mason, su Huffington Post, 18 maggio 2023: https://www.huffingtonpost.it/rubriche/uscita-di-sicurezza/2023/05/18/news/la_serie_sky_che_ricorda_le_speranze_tradite_in_italia_sul_processo_alla_perry_mason-12148999/ . Dunque, negli opinionisti, il processo americano è “il processo alla Perry Mason”. Nell’ambito di questa fascinazione irrealistica per quel sistema processuale, ci si duole che il processo italiano non sia “abbastanza americano”, almeno “abbastanza alla Perry Mason”.
La identificazione fra questo personaggio iconico ed il processo statunitense si trova – sempre individuando il personaggio come sintesi di quel processo – anche fra i giuristi. Ad esempio: NORDIO, Una vera giustizia per l’Italia democratica, in Lettera 150, bimestrale, anno I, fascicolo 1, 2020, pg. 17: “Il nostro processo alla Perry Mason, come generalmente viene chiamato, ha in realtà poco a vedere con quello accusatorio anglosassone, che si regge su alcuni solidi principi, come la distinzione delle carriere, la distinzione fra giudice del fatto e del diritto e, più importante di tutti, la discrezionalità dell’azione penale”. Il seguito dell’articolo Una vera giustizia, cit., mostra il favore di questo ultimo autore sia per il modello politico della separazione delle carriere sia per quello di garanzia a fini di terzietà del giudice.
[16] Vittoria RONCHEY, Figlioli miei marxisti immaginari, Milano, Rizzoli, 1975.
[17] Beninteso, sistemi accusatori puri non esistono; essendo il modello accusatorio un tipo ideale. Si intende, ovviamente, la presenza di contraddittorio pieno, contraddittorio nella formazione della prova, presunzione di innocenza, parità delle armi in sede di formazione della prova.
[18] Gli autori citati nel testo ed alle note precedenti sono assunti a campioni di quella spinta culturale verso la adozione di un modello processuale accusatorio. In realtà – ciò anche per giustificare le inevitabili omissioni – quella tensione è stata di tutta la dottrina italiana.
[19] LUCCHINI, Elementi di procedura penale, Firenze, Barbera, qui nella quinta edizione, 1921, pg. 44: “Se adunque indarno si cercherebbe tra le vicende dei tempi e tra le legislazioni positive un organismo processuale nelle sue parti perfetto, gli è però certo che il sistema più razionale, governato dalla logica di sani principi giuridici e civili e che intende efficacemente al fine veramente proprio del processo penale, è l’accusatorio, che anche storicamente, e appunto perché venuto fuori dagli ordinamenti politici più rispondenti ai bisogni e alle finalità dell’umana convivenza, nella sua universalità, è il tipo scientificamente più plausibile. Esso impera o almeno prevale nei paesi più liberi e civili e al medesimo si vanno ispirando i legislatori del continente europeo.”
[20] Per una analisi del percorso che ha portato al progetto: MAZZA, L’illusione accusatoria: Carnelutti e il modello dell’inchiesta preliminare di parte, in AA.VV., L’inconscio inquisitorio. L’eredità del codice Rocco nella cultura processualpenalistica italiana, a cura di GARLATI, Milano, Giuffré, 2010, 153 ss.
[21] ZILLETTI, Franco Cordero e i datteri di Carnelutti, Il dibattito sull’introduzione del modello accusatorio nel sistema italiano, in AA.VV., Corderiana, sulle orme di un maestro del rito penale, Torino, Giappichelli, 2023.
[22] E’ proprio questa sovrapposizione fra “americano” e “accusatorio” che conduce alla idea di una imitazione di tutte le caratteristiche strutturali del processo americano. A prescindere dalla impossibilità a Costituzione vigente di adottare integralmente quel modello – si pensi solo alla incompatibilità dello stesso con l’articolo 27, comma secondo, Cost., non operando nel sistema statunitense quella garanzia per noi fondamentale, né essendovi appello in merito – è proprio la sovrapposizione concettuale, di cui al testo, che è errata. Essa si sovrappone alla fascinazione per quanto viene dagli Stati Uniti; Fukuyama diventa dunque Perry Mason quando si parla di processo. Volendo, per una precedente messa in guardia da questa (per nulla necessaria) corrispondenza biunivoca fra “accusatorio” e “americano”, D’ORAZI, Un referendum inammissibile, Critica dei modelli di separazione delle carriere dei magistrati, pg. 67 nt. 1: “separazione delle carriere, discrezionalità della azione penale (…) In sostanza, assumendosi a modello il sistema statunitense, se ne deriva che tutti questi elementi sarebbero coessenziali al processo accusatorio.”
[23] Si veda sopra la nota 5.
[24] Ad esempio, notizie di stampa segnalano come il presidente degli Stati Uniti Trump intenda non confermare i pubblici accusatori che abbiano svolto indagini nei fatti del gennaio 2021 (assalto al Campidoglio). Per la stampa estera: https://www.nytimes.com/2025/01/31/us/politics/trump-fbi-agents.html . Nella stampa italiana: GAGGI, La Casa Bianca inizia la vendetta. FBI e procuratori. Ecco le purghe. Cacciati detective e magistrati: Non adatti ad applicare la agenda del presidente, Corriere della Sera, 2 febbraio 2025. Si tratta naturalmente di notizie di stampa e di decisioni da confermare. Proprio il legame del pubblico ministero con il potere politico evidenzia comunque i rischi di un uso partigiano della stessa funzione di accusa.
[25] Si tratta di un autore assai noto, come autore di “gialli legali”, con molti milioni di copie vendute; la bibliografia in jgrisham.com. Oltre che come scrittore di successo, ha un côté di impegno civile, cui appartengono i volumi di cui alle due note che seguono. Infine, è bello segnalare il suo rapporto di amicizia con l’Italia ed in particolare con la città di Bologna, dove è ambientato uno dei suoi romanzi.
[26] John GRISHAM, The Innocent Man, nella traduzione italiana: Innocente, Milano, Mondadori, 2006.
[27] John GRISHAM (con Jim MCCLOSKEY), Framed, Astonishing True Stories of Wrongful Convictions, New York, Penguim Random House, 2024; nella tradizione italiana di FUSARI e PRENCIPE, Incastrati. Storie vere e incredibili di condanne ingiuste, Milano, Mondadori, 2024.
[28] Si tratta della punta di un iceberg, poiché i casi del volume sono evidentemente alcuni fra i più clamorosi.
[29] Tutta la classe dirigente post-unitaria, emersa dalla epopea risorgimentale, al netto di limiti ed errori, è degna di ammirazione. La Sinistra storica ha potuto portare aventi queste scelte di civiltà; dopo che la Destra storica aveva affrontato gli enormi problemi della unificazione; sulla Destra storica, sono sempre attuali le parole di CROCE, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza, qui nella quinta edizione del 1934, pg. 5: “il Ricasoli, il Lamarmora, il Lanza, il Sella, il Minghetti, lo Spaventa e gli altri di loro minori ma da loro non discordi, componenti di un’aristocrazia spirituale, gentiluomini di piena lealtà. Gli atti loro, le parole che ci hanno lasciate scritte, sono fonti perenni di educazione morale e civile, e ci ammoniscono e ci confortano e ci fanno a volte arrossire”.
[30] “E quando io leggo nell'art. 2: «l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell'art. 11: «L'Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie... ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!
O quando io leggo nell'art. 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour! O quando io leggo nell'art. 5: «La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo! O quando nell'art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell'art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani...”
[31] CASSI, Il Guardiasigilli Giuseppe Zanardelli e l’accesso alla magistratura nella riforma dell’ordinamento giudiziario, Historia et Ius, paper 14 del 2018. Anche in: https://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/14_14_cassi_.pdf ; oltre ad altri lavori di questo autore, fra i quali, in relazione al tema che qui interessa, il lavoro al seguente link: https://riviste.unimi.it/index.php/irlh/article/download/12808/12030/38098. Si riguardi, per il concorso, l’articolo 2, primo comma, numero 3, legge 6878 del 1890; agli articoli da 3 a 8 della medesima legge, le regole sul concorso, in ottica meritocratica.
[32] E’ appena il caso di rilevare come questa scelta – anche questa, di profumo garantistico – abbia proprio la funzione di indirizzare il giudice verso una funzione del giudicare in cui campeggia il “sapere”, rispetto al “potere”. Si tratta, come è noto, di uno dei portati di maggiore interesse del pensiero di FERRAJOLI. Per questo filosofo del diritto contemporaneo, proprio il principio di giurisdizionalità impone che la decisione del giudice – nell’inevitabile presenza di un dato volitivo/potestativo ed uno cognitivo – comprima quanto più possibile il primo, in favore del secondo. Non è qui concretamente nemmen riassumibile il pensiero di questo autore; si può condensare nella massima veritas non auctoritas facit iudicium; ogni deviazione potestativa del giudizio è dunque da arginare e da ridurre, nel limite, a zero: “una giustizia penale non arbitraria dev’essere in qualche misura <<con verità>>, cioè basata su giudizi penali prevalentemente cognitivi (in fatto) e ricognitivi (in diritto) siccome tali soggetti a verificazione empirica”, come letteralmente in FERRAJOLI, Il paradigma garantista, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, seconda edizione; volume utile come silloge dell’imponente produzione scientifica dell’autore.
[33] Articolo 18 legge 6878 cit.; oltre alle restanti disposizioni della medesima legge, nella parte in cui prevedono le promozioni, congiuntamente, a giudice e sostituto. La situazione degli Stati preunitari era composita.
[34] Il riferimento più immediato è ovviamente a CARRARA, Programma del corso di diritto criminale, Del giudizio criminale, qui citato nella edizione a cura di NOBILI, Bologna, Il Mulino, 2004, pg. 129 di quella edizione al paragrafo 867: il pubblico ministero “ha potuto assumere più nitida la divisa della imparzialità, considerandosi come rappresentante della legge”. In nota: “Tutta la purificazione e la nobilitazione di questo ufficio consistette nella rettificazione di una idea: vale a dire che il sostenitore dell’accusa non fosse più un rappresentante del governo ma un organo della Magistratura. Ciò pose indosso a lui la divisa della imparzialità e lo autorizzò a chiamarsi rappresentante della legge.”
