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Magistratura Indipendente

CIVILE  

Formalismo eccessivo e adeguata diligenza dell’avvocato cassazionista

  Civile 
 lunedì, 29 novembre 2021

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considerazioni sull’accesso in Cassazione a seguito della sentenza della Corte Edu Socci c. Italia del 28 ottobre 2021

di Lorenzo Delli Priscoli, consigliere della Corte di Cassazione

 
 

Sommario: 1. L’accesso incondizionato in Cassazione e i problemi che ne derivano. – 2. L’onere dell’avvocato cassazionista di prestare una diligenza particolarmente qualificata. - 3. La decisione della Corte EDU Succi c. Italia del 28 ottobre 2021. - 4. Ipotesi di filtri alternativi rispetto ad una rigida applicazione del principio di autosufficienza per impedire un accesso incondizionato in Cassazione. – 5. L’introduzione di una soglia di valore per accedere in Cassazione e l’aumento del contributo unificato. - 6. Conclusioni: il bilanciamento tra il diritto fondamentale del singolo ad un effettivo accesso alla Giustizia e quello della collettività ad una ragionevole durata dei processi.

 

   1. L’accesso incondizionato in Cassazione e i problemi che ne derivano. – Mentre per accedere al giudizio davanti alla Corte costituzionale occorre che la questione sia sollevata da un giudice che si trovi a trattare una questione per la quale sia rilevante la norma di cui si dubiti in merito alla legittimità, chiunque invece, con il solo tramite di un avvocato cassazionista, può presentare un ricorso in Cassazione, quand’anche non siano in gioco diritti fondamentali ma una semplice somma di denaro e pure nell’ipotesi in cui tale somma controversa sia davvero esigua (è tutt’altro che infrequente che si affrontino ricorsi, specie in materia tributaria, ove la somma oggetto di controversia sia inferiore ai 1000 euro[1]). Questa possibilità, oltre a rappresentare una grandissima conquista, costituisce altresì una notevole garanzia per il cittadino, perché si è giudicati da un unico e unitario ufficio giudiziario, la Cassazione (onde è legitti­mo aspettarsi una uniformità di giudizio, a garanzia della funzione nomofilattica svolta dalla Corte), formata da magistrati particolarmente qualificati e di esperienza.

     Il diritto di accesso alla Corte di cassazione  è conforme al dettato costituzionale, in quanto l’art. 111, 7° comma, Cost., stabilisce che contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Non può non evidenziarsi, inoltre, che tale previsione è coerente con il dettato di cui all’art. 24 Cost. (che non si riferisce all’accesso in Cassazione in particolare ma più in generale al diritto di avere un giudizio), secondo cui da un lato “tutti” (quindi non solo il cittadino ma anche lo straniero) “possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” (quindi senza alcuna distinzione relativa all’ammontare della somma controversa) e dall’altro “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”. Occorre altresì evidenziare che il diritto di difesa (da intendersi pacificamente secondo la Consulta anche nella diversa accezione del diritto ad agire in giudizio) costituisce, secondo la Corte costituzionale, un diritto “inviolabile e quindi fondamentale”[2]. Il più generale diritto di agire in giudizio dunque, nella gerarchia dei valori tracciata negli anni dalla Consulta, occupa il vertice e costituisce quindi un limite anche per eventuali disposizioni in senso contrario dell’Unione Europea[3]

    Tuttavia, non può nascondersi che questa garanzia di accesso indiscriminato in Cassazione, questo diritto fondamentale del singolo di poter sempre e incondizionatamente agire in giudizio, ha dei costi, non solo economici, assai notevoli, che oggi l’Italia non sembra purtroppo potersi permettere, costi rappresentati dall’enorme arretrato pendente in Cassazione (al contrario la Corte costituzionale non ha arretrato); tale diritto di accesso si scontra inoltre con i diritti della collettività, altrettanto fondamentali, al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), all’efficienza della Giustizia in genere e più specificamente alla ragionevole durata dei processi (artt. 111 Cost. e 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), alla certezza del diritto (art. 3 Cost.), alla ragionevolezza (art. 3 Cost.)[4], alla solidarietà (art. 2 Cost.)[5].

    I ritardi della Giustizia, ai quali contribuisce in maniera rilevante la necessità di trattare finanche in Cassazione pure le cause di modesto valore (anche per esse infatti la Cassazione decide con un Collegio formato da cinque magistrati e anche per esse non è esclusa la possibilità che la decisione della Corte sia oggetto di revocazione o che “cassi con rinvio” la pronuncia impugnata, ossia che non sia messa la parola fine al processo, che può invece durare, attraverso il meccanismo della cassazione con rinvio e della revocazione, potenzialmente all’infinito), si ripercuotono inevitabilmente e indistintamente: su tutti i cittadini (che spesso, scoraggiati dall’idea di dover attendere lungamente per ottenere Giustizia, rinunciano a far valere in sede giudiziale i propri diritti), sugli altri processi (i cui tempi inevitabilmente si allungano) e in particolare sul rischio di prescrizione dei reati (per trattare i procedimenti civili per importi di modesta entità occorre infatti sottrarre risorse dai giudizi penali, con il conseguente crearsi di un circolo vizioso per cui l’allungarsi dei tempi della giustizia penale incoraggia le strategie basate sul tentativo di arrivare alla prescrizione percorrendo tutti i gradi di giudizio e rinunciando ai più snelli riti alternativi), sui conti pubblici (perché l’allungarsi della durata dei processi determina un aumento sia delle cause per ottenere l’equo indennizzo di cui alla legge Pinto n. 89 del 2001 sia delle condanne della Corte di Strasburgo per violazione del citato art. 6 della CEDU) e infine sull’affidabilità e sull’immagine del sistema Italia e quindi sulla sua competitività e appetibilità per i potenziali investitori esteri.

    Non può inoltre trascurarsi che il giudice di Cassazione è oggi sollecitato a scrivere un gran numero di pronunce (si pensi, ad esempio, che alla sesta sezione civile, nel settore che si occupa di controversie tributarie, ogni consigliere redige mediamente 12 pronunce a settimana, quasi mai di tipo “seriale”) che, anche se spesso hanno la forma di ordinanza e recano la dizione “motivazione semplificata”, devono comunque: dare conto dell’iter logico-giuridico seguito dal Collegio per pervenire alla decisione, ricostruire la fattispecie concreta, individuare la regola iuris astratta e spiegare per quale ragione la fattispecie concreta possa essere ricondotta a quella regola iuris, rispondendo ad ogni singolo motivo di impugnazione, per i quali non è previsto dalla legge nessun limite, a prescindere dal valore economico della controversia. Deve altresì rilevarsi che la modestia della somma contesa è una variabile tendenzialmente indipendente rispetto sia alla difficoltà del problema giuridico sotteso sia alla ricostruzione del fatto (che rileva anche in Cassazione perché costituisce presupposto fondamentale per poter ragionare in diritto, fatto che spesso dalla lettura della sentenza impugnata non si riesce a ricostruire pienamente in tutti i suoi aspetti rilevanti ai fini della decisione di legittimità), cosicché ben può essere che il pervenire ad una decisione e la redazione del relativo provvedimento determinino un notevole dispendio di energie da parte dei giudici, inevitabilmente sottratte ad altre attività. Last but not least, oggi il consigliere di Cassazione è sostanzialmente “solo” nel suo lavoro: non dispone di una scrivania (si badi bene non di una stanza, ma di una scrivania), di una stampante e di un telefono tutti suoi in Cassazione, cosicché quando si reca in Ufficio non sempre ha la sicurezza di trovare un posto dove potersi accomodare (e quando lo trova si tratta comunque di una postazione con un computer condiviso con altri colleghi in una stanza con altre persone, magistrati e tirocinanti; può anche accadere che le poche stanze adibite ad ufficio vengano adibite ad aula di udienza così riducendosi ulteriormente gli spazi disponibili) e inoltre, con l’introduzione del processo telematico, è tenuto a stampare da solo (quindi di fatto a casa, ove ha quindi la necessità di allestire uno studio efficiente e sufficientemente grande per contenere la grande mole di carte)  le memorie relative all’udienza (che si “estraggono” da un sistema informatico estremamente lento, macchinoso e farraginoso), non svolgendo la cancelleria – costantemente sotto organico - questo servizio; senza considerare che il fascicolo relativo alla causa a sua disposizione è ridotto all’osso (non contenendo ad esempio la sentenza di primo grado, il che talvolta impedisce, oltre che di acquisire una piena conoscenza della vicenda, di rilevare eventuali giudicati interni senza la necessità di recarsi in Cassazione a consultare il fascicolo d’ufficio, il cui reperimento è impresa tutt’altro che semplice e rapida); al contrario ciascun giudice costituzionale ha a disposizione, oltre ad ampi ed efficienti uffici, tre magistrati che lo aiutano nel suo servizio e un intero staff di segreteria.

    E’ giocoforza poi che il maggior numero di provvedimenti redatti dai Consiglieri porti con sé uno scadimento della qualità dei provvedimenti stessi (con conseguente maggiore difficoltà per l’interprete di individuare il principio di diritto e la ratio della decisione, tanto che sempre più spesso la Cassazione è chiamata a pronunciarsi una seconda volta sullo stesso procedimento perché il giudice del rinvio non ha saputo dare una corretta applicazione al principio di diritto al quale era tenuto a conformarsi); inoltre, l’enorme numero di pronunce della Cassazione (unitamente ad una non sempre efficiente – proprio in ragione della gran numero di liti pendenti - assegnazione dei fascicoli: tanto che può ad esempio capitare che una stessa questione, riguardante soltanto annualità diverse di uno stesso tributo – venga assegnata a consiglieri diversi e trattata da collegi diversi) rende di fatto impossibile anche agli stessi giudici la conoscenza completa delle sentenze del loro specifico settore di competenza, con il conseguente rischio concreto di inconsapevoli contrasti tra pronunce e l’indebolimento della funzione nomofilattica della Corte, il che incide altresì su un valore cardine del nostro ordinamento, che è quello della certezza del diritto, che costituisce espressione del principio fondamentale di cui all’art. 3 Cost.[6].

     L’indebolimento della funzione nomofilattica della Cassazione rappresenta oltretutto un altro motivo dell’incremento dei ricorsi in Cassazione, perché l’incertezza del diritto incoraggia i potenziali ricorrenti in Cassazione ad adire la Corte, nella consapevolezza di avere delle chances di successo: in questo senso va letto il monito della Cassazione[7] secondo cui ai fini della condanna per responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3, cod. proc. civ., l'infondatezza in iure delle tesi prospettate in sede di legittimità, in quanto contrastanti con il diritto vivente e con la giurisprudenza consolidata, costituisce indizio di colpa grave così valutabile in coerenza con il ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonché con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), di illiceità dell'abuso del processo e di necessità di una interpretazione delle norme processuali che non comporti spreco di energie giurisdizionali.

     Non può altresì trascurarsi che l’enorme mole di provvedimenti da redigere – unitamente alla non sempre efficiente assistenza della cancelleria - limita inevitabilmente la possibilità per i consiglieri di studiare, di approfondire le questioni, di aggiornarsi, di recarsi ai convegni, di confrontarsi, di discutere in camera di consiglio.

     A questi gravi problemi si aggiungono le difficoltà (non certo per loro colpa ma in ragione della estrema complessità e peculiarità del giudizio di Cassazione e della circostanza che non hanno la possibilità di trattare tali processi quotidianamente) che gli avvocati spesso incontrano per redigere i ricorsi in Cassazione, il cui processo (fondato sul principio della possibilità di impugnare solo per alcuni motivi specifici, fondamentalmente legati a vizi di violazione di legge) invece richiederebbe una elevata specializzazione di tutte le parti, mentre il cd. avvocato cassazionista non è tenuto (come invece lo è il consigliere di Cassazione) a seguire solo processi della Corte di legittimità, con la conseguenza che non di rado i suoi atti: difettano dei requisiti di specificità e di autosufficienza; non colgono il punto della questione, tendendo a dimenticare che le loro doglianze si dovrebbero appuntare sulla sentenza impugnata e sul ragionamento giuridico da questa seguita; confondono i problemi di diritto con quelli di fatto scambiando la Cassazione per un terzo giudizio di merito; sono dispersivi e prolissi non cogliendo bene i punti focali della questione aggravando dunque ulteriormente il lavoro del magistrato.

     Infine non deve dimenticarsi il nostro Legislatore, sempre più schizofrenico, che non solo redige un enorme numero di leggi - che spesso si richiamano vicendevolmente a catena in maniera oscura e sono modificate equivocamente - in maniera spesso maldestra e caotica ma che spesso si contraddice, si esprime in maniera inutilmente complessa e sibillina, rendendo faticoso e opinabile il lavoro di interpretazione, creando seri problemi di diritto intertemporale e incidendo quindi notevolmente sulla certezza del diritto.

     2. L’onere dell’avvocato cassazionista di prestare una diligenza particolarmente qualificata. - In questa situazione di grave difficoltà, con cause che solo per la fase della Cassazione possono attendere anche oltre dieci anni, i giudici di legittimità hanno elaborato un diritto vivente in tema di cause inammissibilità apparentemente “severo” e indubbiamente “formalistico”, ma che ben può essere compreso e accettato alla luce da un lato di quanto esposto nel paragrafo precedente (cui dunque si rinvia) - che fa comprendere quanto poco tempo abbiano i giudici di Cassazione per poter dedicare a ciascun procedimento - e dall’altro dei doveri di diligenza “particolarmente qualificata” dell’avvocato cassazionista. Quanto a quest’ultimo punto, la Cassazione ha infatti affermato che sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell'art. 366 c.p.c., ove l’avvocato agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell'avvocato cassazionista. In effetti, i criteri elaborati dalla Cassazione in merito all’ammissibilità dei ricorsi, oltre ad essere fondati su chiare e precise norme del codice di procedura civile, rispondono innanzitutto a criteri di ragionevolezza che imporrebbero all’avvocato di redigere un ricorso per Cassazione improntato a canoni di scientificità e chiarezza, in relazione agli interessi del proprio cliente[8], all’importanza di tale giudizio e al rispetto delle limitate risorse di cui dispone la Corte Cassazione, in ossequio al principio di leale collaborazione[9].

       L’importanza di un impegno diligente da parte dell’avvocato nella redazione del ricorso è stato sottolineato anche in un’altra prospettiva dalla Corte cassazione, la quale ha affermato che si ritiene che nel caso di specie ricorrano i presupposti per la condanna del ricorrente ex art. 96, comma 3, c.p.c., rinvenendosi nella condotta della parte ricorrente un abuso dello strumento processuale consistente nella inconsistenza dell'interesse ad agire in capo alla parte in relazione alla esiguità del valore economico della causa e ai doveri di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. che impongono ai difensori di riflettere circa le conseguenze del ricorso sul diritto fondamentale della collettività ad una ragionevole durata dei processi di cui all'art. 111 Cost., tanto più in relazione all'omesso adempimento dell'onere di completezza del ricorso, carente quanto al principio di autosufficienza”[10].

     E’ evidente dunque che, se l’avvocato cassazionista prestasse sempre la dovuta diligenza qualificata nello svolgere il suo tutt’altro che facile compito di redigere il ricorso per Cassazione, difficilmente si porrebbero problemi di ammissibilità dello stesso, perché le regole elaborate dal diritto vivente in merito ai requisiti di ammissibilità del ricorso coincidono sostanzialmente con criteri logici e ragionevoli di scientificità e chiarezza nella redazione degli atti giuridici, conformi ai canoni di diligenza professionale e necessariamente improntati a perizia, cura e attenzione nella redazione dei ricorsi, che dovrebbero essere naturalmente diretti a far comprendere ai giudici nella maniera più semplice, chiara e immediata le ragioni del proprio cliente.

      Ed è proprio in quest’ottica di leale collaborazione e di diligenza che deve inquadrarsi e valutarsi favorevolmente il protocollo siglato dalla Corte di cassazione con il Consiglio Nazionale Forense il 17 dicembre 2015, volto a dettare "Regole redazioniali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria"[11], nato dall’esigenza di definire uno schema astratto di ricorso e di dare un contenuto certo al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione “sviluppato dalla giurisprudenza”: in particolare tale protocollo impone all’avvocato di redigere una sintesi dei motivi di ricorso, che aiuta indubbiamente da subito i giudici a ricostruire al meglio il pensiero del ricorrente, ma al contempo aiuta lo stesso avvocato perché lo porta a effettuare uno sforzo di sintesi che lo costringe ad interrogarsi su quale sia effettivamente il cuore del suo reale motivo di doglianza.

      Deve ancora sottolinearsi che l’amministrazione della Giustizia non è tenuta a farsi carico dell’eventuale imperizia dell’avvocato, “rimediando” alle eventuali carenze del ricorso. Le regole processuali infatti non sono un mero orpello oppure un inutile aggravio burocratico per le parti, ma costituiscono uno strumentario necessario diretto a garantire regole certe per tutti, nel rispetto di principi di uguaglianza, ragionevolezza e buon andamento della Giustizia. Non può però sottacersi che esiste allo stato un’ampia gamma di situazioni in cui al momento – in ragione del principio secondo cui quella dell’avvocato è tendenzialmente un’obbligazione di mezzi e non di risultato[12] - il ricorso può essere dichiarato inammissibile pur non portando questa inammissibilità a responsabilità professionale dell’avvocato nei confronti del cliente, anche se tuttavia è più che consolidato il principio secondo cui la responsabilità professionale dell'avvocato presuppone la violazione del dovere di diligenza richiesto dalla natura dell'attività esercitata (art. 1176, comma 2, c.c.): il punto quindi è se la giurisprudenza arriverà mai ad affermare che una dichiarazione di inammissibilità del ricorso in cassazione, di per sé, possa costituire un inadempimento oggettivo che rientra fra gli obblighi di prestazione professionale e quindi nella diligenza media esigibile dal difensore[13]. Non è così scontato che si giunga mai ad affermazioni giurisprudenziali del genere, proprio perché l’estrema complessità e – per certi versi – l’opinabilità dei criteri di redazione del ricorso[14], non permettono di formulare un immediato giudizio di rimproverabilità dell’avvocato a prescindere da una analisi del suo livello di diligenza dimostrato nel caso concreto: in questo senso il mancato rispetto del citato protocollo siglato dalla Corte di cassazione con il Consiglio Nazionale Forense il 17 dicembre 2015, volto a dettare "Regole redazioniali dei motivi di ricorso in materia civile e tributaria" potrebbe costituire un inadempimento oggettivo tale da configurare un obbligo di risultato in capo all’avvocato.

     Deve dunque evidenziarsi che allo stato il cliente – in un ipotetico giudizio di responsabilità a carico dell’avvocato nel caso di dichiarazione di inammissibilità di un ricorso da lui redatto - dovrebbe dimostrare non solo l’imperizia di quest’ultimo, ma anche - circostanza praticamente quasi impossibile a meno che non vi sia una giurisprudenza consolidata chiaramente favorevole al soggetto il cui ricorso sia stato dichiarato inammissibile - che se il cliente avesse superato lo scoglio dell’ammissibilità la domanda sarebbe stata accolta, a meno di non voler fondare il risarcimento del danno su una perdita di chance che costringerebbe però inevitabilmente il giudice del giudizio di risarcimento ad entrare nel merito della fondatezza della pretesa originaria del soggetto.

    E’ innegabile dunque che, allo stato, l’imperizia dell’avvocato, o comunque la sua incapacità di superare lo scoglio dell’ammissibilità, si riverbera il più delle volte sul cliente che avrebbe avuto ragione nel caso in cui la Cassazione avesse avuto la possibilità di entrare nel merito della lite.

 

      3. La decisione della Corte EDU Succi c. Italia del 28 ottobre 2021. - Nella pronuncia della Corte EDU Succi c. Italia il signor Succi lamentava che la Corte di Cassazione, nel 2011[15], avesse dichiarato inammissibile il suo ricorso in virtù di una valutazione eccessivamente formalistica dei criteri di redazione del suo ricorso, in contrasto l'art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in virtù del quale "Ogni persona ha diritto a un processo equo ... da parte di un tribunale ...". Vengono evidentemente in considerazione in questa questione principi fondamentali di grande rilievo, come il diritto all’effettività del rimedio giurisdizionale[16].

     Il fatto che aveva originato la controversia in Cassazione è il seguente: una signora aveva chiesto la risoluzione di due contratti di locazione commerciale per morosità del conduttore, il signor Succi. La Corte d'Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale, che aveva accolto la domanda della signora e rigettato quella riconvenzionale del Succi, che aveva chiesto il pagamento dell'indennità di avviamento.

     La sentenza della Cassazione del 2011 ha dichiarato inammissibile il ricorso del Succi per difetto di autosufficienza del ricorso[17] in quanto l'art. 366 c.p.c., n. 4, prescrive, a pena d'inammissibilità, che il ricorso contenga i motivi per i quali si chiede la cassazione, con l'indicazione delle norme di diritto su cui si fondono e il successivo n. 6 prescrive, sempre a pena d'inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui il ricorso si fonda.

      Con riferimento all'art. 366 c.p.c., n. 4, ribadiva la Cassazione che il giudizio di cassazione, a differenza del giudizio di appello, è a critica vincolata, cioè limitata alle ipotesi specificamente previste dal precedente art. 360, per cui esso richiede, da un lato, per ogni motivo di ricorso, la rubrica del motivo, con la puntuale indicazione delle ragioni per cui il motivo medesimo - tra quelli espressamente previsti dall'art. 360 c.p.c. - è proposto; dall'altro esige l'illustrazione del singolo motivo, contenente l'esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata, e l'analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza[18]. Con riferimento al n. 6 dell'art. 366 c.p.c. ribadiva la Cassazione che è suo orientamento costante che tale norma, oltre a richiedere la "specifica" indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto. Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito, e, in ragione dell'art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche che esso sia prodotto in sede di legittimità.

     Pertanto – sempre secondo la citata pronuncia del 2011 - il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell'omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - imposto dall'art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 - da un lato di indicare esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione e dall’altro di trascrivere o riassumere nel ricorso il contenuto del documento e il ricorso non rispetta i principi suesposti, in quanto i cinque motivi in cui è articolato sono privi della rubrica indicativa dei vizi lamentati e dei riferimenti alle ipotesi regolate dall'art. 366 c.p.c. e mancano il riferimento e l'indicazione relativi alla documentazione su cui sono basate le argomentazioni a sostegno.

      La Corte EDU ha affermato che il suo compito in questi casi è di accertare se la dichiarazione di inammissibilità della Corte del singolo Paese abbia intaccato la sostanza e l’essenza stessa del diritto del ricorrente ad avere un Giudice e a tal fine la Corte di Strasburgo assume il compito di valutare se le condizioni imposte dal principio di autosufficienza alla redazione del ricorso in Cassazione perseguissero uno scopo legittimo nel caso di specie, verificando la proporzionalità delle restrizioni imposte rispetto al legittimo scopo di facilitare la comprensione del caso e delle questioni sollevate nel ricorso per permettere alla Corte di Cassazione di pronunciarsi senza doversi basare su altri documenti, in modo da preservare il suo ruolo e la sua funzione di garantire in ultima istanza l'applicazione uniforme e l'interpretazione corretta del diritto interno (nomofilachia). Alla luce di questi elementi, la Corte EDU ha ritenuto che il principio di autosufficienza permetta di semplificare l'attività della Corte di Cassazione e allo stesso tempo di garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia.

     La Corte EDU svolge una motivazione sul punto molto sintetica e non spiega perché dal rispetto del principio di autosufficienza e dalla facilitazione della comprensione del caso e delle questioni sollevate nel ricorso discenda la possibilità di assicurare una applicazione uniforme  e la certezza del diritto: deve ritenersi però che la Corte di Strasburgo abbia voluto affermare che l’esatta comprensione della fattispecie concreta e delle questioni poste permette alla Corte di Cassazione di pronunciarsi su delle questioni giuridiche che altrimenti, se poste in maniera scorretta o comunque non comprensibile, porterebbero probabilmente, se non comunque ad una inammissibilità per ragioni diverse dal difetto di autosufficienza, a delle pronunce di (manifesta) infondatezza del ricorso: a sua volta tale possibilità di esprimersi e quindi di elaborare dei principi giuridici consente alla Corte di sviluppare e perfezionare il diritto vivente e quindi la sua opera nomofilattica. In altre parole ogni questione mal posta alla Corte di Cassazione rappresenta un’occasione persa per una potenziale nuova massima di diritto (si potrebbe infatti al più soltanto dire che un ricorso inammissibile può comunque portare all’elaborazione di un principio di diritto riguardante l’inammissibilità, ma si tratterebbe per lo più di specificazioni ed esemplificazioni del preesistente principio di autosufficienza, il che dunque non farebbe evolvere più di tanto il diritto vivente). Quanto poi al collegamento tra rispetto del principio di autosufficienza e certezza del diritto può analogamente supporsi che la Corte EDU abbia voluto dire che quanto più il diritto vivente sia sviluppato e perfezionato tanto più saranno coperte e assistite da una regola iuris tutte le possibili fattispecie concrete che la realtà umana può offrire, in tal modo offrendo maggiore certezza ai consociati circa le eventuali conseguenze di loro comportamenti che possano avere delle conseguenze sul piano giuridico.

    Infine, quanto alla corretta amministrazione della giustizia che discenderebbe dal rispetto del principio di autosufficienza, si ritiene che la Corte EDU faccia riferimento alla circostanza che la dichiarazione di inammissibilità rischia di far perdere la causa ad un soggetto che potenzialmente avrebbe potuto, nel merito, avere ragione: si ritiene dunque che in questo caso per “corretta amministrazione della giustizia” i Giudici di Strasburgo abbiano voluto intendere il rispetto della giustizia sostanziale, perché da un punto di vista formale una pronuncia di inammissibilità della Cassazione rende pur sempre giustizia e risolve una lite pendente.

     Non può però non osservarsi che, sottotraccia, possa leggersi anche un altro collegamento tra facilitazione della comprensione del caso e funzione nomofilattica della Corte: la facilitazione della comprensione della questione permette alla Corte non solo di esprimersi nel merito del problema giuridico della lite ma anche di non perdere inutilmente del tempo e dunque di utilizzarlo per affrontare altre questioni che altrimenti dovrebbero essere rimandate, così ulteriormente incrementando e potenziando il diritto vivente.

     Il rispetto del principio di autosufficienza è dunque considerato dalla Corte EDU pienamente legittimo e funzionale al perseguimento di interessi ritenuti dalla stessa (e non solo quindi dalla Corte di Cassazione) meritevoli di tutela quali l’adempimento della funzione nomofilattica, la certezza del diritto, la corretta amministrazione della giustizia.

     Inoltre, l’analisi della Corte di Strasburgo sembra perfettamente coerente anche con l’insegnamento della Corte costituzionale in virtù del quale il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, limite che, con riferimento specifico all’art. 24 Cost., viene superato solo qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire, mentre tale norma non esige che il cittadino sia messo in grado di conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale[19]: nella prospettiva della Consulta infatti non sembra certo che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione possa definirsi un onere tale da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale, principi sostanzialmente sovrapponibili con il quello di effettività della tutela giurisdizionale della cui tutela si preoccupa la Corte di Strasburgo.

     Non può poi non evidenziarsi che, se è vero che secondo l’art. 111, 7° comma, Cost. contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, è altrettanto vero che quasi sempre, come anche nel caso di specie, il giudizio per Cassazione arrivi dopo due pieni giudizi di merito e che già il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non ha valenza costituzionale[20], cosicché ben può ritenersi che il giudizio di Cassazione abbia la funzione non solo di “appello dell’appello” o comunque di assicurare una terza autorevole riconsiderazione delle questioni giuridiche sottese alla lite, ma anche e soprattutto di permettere ad un unico organo giurisdizionale centrale di svolgere la sua funzione nomofilattica al fine di assicurare l’unitarietà e quindi la certezza del diritto. Pertanto, colui il quale si veda dichiarare il proprio ricorso inammissibile non potrebbe lamentare di aver subito un’ingiustizia ma – al limite – potrebbe essere semmai indicato quale “responsabile” di aver fatto “perdere tempo” alla Corte e quindi di aver conseguentemente provocato un danno alla collettività consistente da un lato nell’aver subito un ritardo nella trattazione di tutte le altre cause pendenti e dall’altro di avere appunto perso un’occasione di vedere integrato e perfezionato il diritto vivente.

     Deve ancora evidenziarsi che la Corte EDU, nel riconoscere la violazione da parte dell’Italia  dell'art. 6 § 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, individua tale responsabilità solo in ragione di un esame in concreto del ricorso, in virtù di una ritenuta difformità tra le affermazioni in astratto della Cassazione relative al principio di autosufficienza (ritenute come si è visto condivisibili e meritevoli di tutela) e le risultanze concrete, avendo la Corte EDU ritenuto che in realtà il ricorso del Succi aveva rispettato il suddetto principio della Cassazione: pertanto il pensiero della Corte EDU non si pone in contrasto con quello della Cassazione, rimproverando la prima

Corte alla seconda solo un errore di valutazione nel caso di specie non anche una diversità di vedute circa l’effettiva necessità del principio di autosufficienza.

     Inoltre deve osservarsi che la Corte EDU non riconosce l’esistenza di un nesso causale tra la violazione riscontrata (l’errata applicazione in concreto del principio di autosufficienza) e il danno patrimoniale denunciato dal Succi, in quanto non spetta alla stessa Corte una valutazione relativa a quale sarebbe stato l'esito del procedimento in assenza della violazione riscontrata. La Corte di Strasburgo ha conseguentemente respinto la domanda, presentata dal Succi, relativa al danno patrimoniale consistente in quanto avrebbe ottenuto se avesse vinto la causa, riconoscendo al ricorrente soltanto una somma a titolo di risarcimento per il danno morale.

    La Corte di Strasburgo dunque per un verso si ritiene legittimata a sindacare nel caso concreto il rispetto del principio di autosufficienza ma per un altro verso non ritiene di poter anche di entrare nel merito giuridico della lite così da poter riconoscere al ricorrente un risarcimento nel caso in cui avesse ritenuto fondata la sua pretesa sostanziale. Tale impostazione risponde ad una sua logica: la valutazione circa l’ammissibilità del ricorso è effettuata in base ad un parametro tipicamente “convenzionale”, quale è quello della effettività del rimedio giurisdizionale alla luce del principio di proporzionalità, mentre l’affrontare il merito della lite significherebbe entrare nei confini delle singole legislazioni nazionali, il che esula naturalmente dai compiti della Corte EDU.

      E’ evidente però che già la decisione di valutare in concreto la rispondenza fra l’astratto principio processuale di autosufficienza – ritenuto corretto – e quanto effettivamente deciso dalla Corte di Cassazione in merito alla ammissibilità o meno del ricorso – costituisce indubbiamente una forte e significativa intromissione della Corte EDU nelle decisioni della Cassazione, che oltretutto rischia di condurre ad un notevole aggravio del lavoro della Corte EDU (la quale si trasformerebbe in un “quarto grado di giudizio” in grado peraltro di pronunciarsi – come nel caso di specie – solo a distanza di dieci anni dalla sentenza di Cassazione), in relazione da un lato all’elevato numero di dichiarazioni di inammissibilità da parte della nostra Cassazione e dall’altro alla probabilmente avvertita esigenza dell’avvocato di dimostrare a sé stesso e al cliente – anche per impedire in partenza eventuali azioni di responsabilità da parte di quest’ultimo – che la sua condotta è stata improntata a perizia ed è dunque immune da colpe.

     Deve infine sottolinearsi il passaggio della Corte Edu (par. 82) laddove si afferma che l'applicazione da parte della Corte di cassazione del principio di autosufficienza rivela una tendenza della Cassazione stessa a concentrarsi su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo in precedenza individuato e descritto dalla stessa Corte di Strasburgo, in particolare per quanto riguarda l'obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso[21]. Si tratta di una affermazione che avrebbe meritato un maggiore approfondimento – anche perché non sembra che la Corte abbia mai affermato un obbligo del genere, essendo sufficiente che il ricorrente alleghi al ricorso gli atti integrali e invece trascriva nel corpo del ricorso solo i punti rilevanti (“salienti” per usare la terminologia della Cassazione) degli allegati stessi, principio che lungi dall’essere eccessivamente formalistico risponde, come affermato in precedenza, a criteri logici di chiarezza e precisione propri di un qualsiasi lavoro scientifico - ma che indubbiamente suona come un chiaro e forte monito nei confronti della Cassazione a non deviare in futuro nell’applicazione del principio di autosufficienza secondo il canone della proporzionalità.

     Non è chiaro però – perché la Corte EDU non si pone il problema - se il principio di proporzionalità debba essere applicato anche in ragione del valore della causa, ossia se una applicazione “rigorosa” del principio di autosufficienza potrebbe maggiormente giustificarsi in relazione a casi di modesto valore mentre per cause di maggiori importanza economica o che coinvolgano diritti fondamentali della persona occorrerebbe avere una maggiore “tolleranza”. A mio giudizio una interpretazione del genere sarebbe tutto sommato ragionevole, tenendo conto per un verso del fatto che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso permette indubbiamente alla Corte di Cassazione di risparmiare tempo e dall’altro che le risorse della stessa Corte sono indubbiamente purtroppo limitate e dunque, dovendosi necessariamente fare una scelta tra il trattare in maniera effettiva tutti i procedimenti – anche a costo di dover “perdere” più tempo del necessario per sopperire a quello che spesso costituisce un difetto di perizia dell’avvocato – creando però dei ritardi nella trattazione dei procedimenti stessi o applicare in maniera rigida e rigorosa (si potrebbe dire eccessivamente formalistica, a meno di voler affermare di essere in grado di saper rintracciare un sicuro confine tra applicazione rigida e rigorosa delle regole processuali e applicazione eccessivamente formalistica delle stesse) pur di poter ridurre “i tempi di attesa” di accesso alla giustizia, tenendo conto che anche lunghi ritardi nella trattazione dei ricorsi costituiscono una violazione del principio dell’effettività della tutela giurisdizionale e in particolare del principio della ragionevole durata del processo, di sicuro fondamento costituzionale (art. 117 Cost.) e convenzionale (art. 6 della CEDU). In effetti, mentre il rispetto del principio di autosufficienza costituisce un quid che è nella sfera di controllo della parte – sia pure attraverso la mediazione del suo avvocato, il che implica la capacità della parte stessa di saper scegliere un professionista adeguato all’indubbiamente arduo compito di rispettare le complesse regole del processo di Cassazione – a nulla può la parte per incidere sui ritardi della decisione, cosicché sembrerebbe ragionevole, in tale scelta, tendere a sacrificare l’effettivo accesso al giudizio di Cassazione mediante un ricorso carente dal punto di vista dell’autosufficienza, potendosi comunque individuare un profilo di rimproverabilità in capo alla parte che lo ha proposto.

     Apparentemente di tutt’altra storia rispetto alla corretta portata in astratto del principio di autosufficienza si tratterebbe invece nelle ipotesi, come quella oggetto della sentenza della Corte EDU Succi c. Italia, in cui si contesti che tale principio sia addirittura applicato in maniera errata. Tuttavia è evidente che  la Corte EDU – nell’accostare – sia pure in maniera non eccessivamente scientifica, limpida e chiara – il mettere in guardia da una applicazione eccessivamente formalistica del principio di autosufficienza da un lato ed una vera e propria erronea applicazione in concreto del principio stesso dall’altro, ha evidentemente voluto richiamare l’attenzione – in maniera fedele rispetto ad una lettura pragmatica e diretta a valutare la reale sostanza dei problemi, più tipica del mondo giuridico europeo che non di quello italiano[22] – della nostra Cassazione quanto alla labile linea di confine tra una applicazione rigida ma pur sempre rispettosa del principio di autosufficienza ed una vera e propria erronea applicazione del principio stesso e quindi ai rischi di sconfinamento in un abuso che si corrono quando ci si muove “troppo sui bordi” nell’applicazione di un principio giuridico di per sé perfettamente legittimo[23].

     Da parte sua la Corte di Cassazione non può certo dire di essere stata colta “alla sprovvista”, perché era già ben consapevole del problema sollevato dalla Corte EDU, avendo in precedenza affermato che non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale, sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede - all'art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. - requisiti di ammissibilità di contenuto-forma, giacché essi sono individuati in modo chiaro (tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il principio della idoneità dell'atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicché risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo sostanzialmente privo di momenti di istruzione[24].

     Non può poi non evidenziarsi un orientamento giurisprudenziale in materia processuale apparentemente in contrasto con l’accusa di eccessivo formalismo che viene rivolta alla Corte di Cassazione, consistente nel criterio della prevalenza della sostanza degli atti sulla loro forma[25], che permette alla Cassazione di reinterpretare il contenuto del ricorso tutte le volte in cui la volontà del ricorrente sia chiara e una determinata affermazione o indicazione normativa sia in maniera evidente frutto di un errore: il contrasto tuttavia è appunto solo apparente proprio perché la Cassazione non ammette di peccare di eccessivo formalismo quanto alla applicazione del principio di autosufficienza, ma ritiene di esigerne una applicazione ragionevole, cosicché la stessa si dichiara poi disponibile a “salvare” il ricorso tutte le volte in cui l’errore del ricorrente sia facilmente riconoscibile ed emendabile.

      In definitiva, l’oggettiva complessità di un ricorso in Cassazione e (il sospetto che la Cassazione abbia) la “tentazione di approfittare” del principio di autosufficienza per creare un filtro ad un incondizionato accesso alla Corte stessa creano indubbiamente dei problemi nell’attuazione pratica del principio di autosufficienza.

     4.  Ipotesi di filtri alternativi rispetto ad una rigida applicazione del principio di autosufficienza per impedire un accesso incondizionato in Cassazione. – Alla luce delle difficoltà di una applicazione sempre coerente del principio di autosufficienza può prendersi in considerazione l’idea, nell’ottica dell’attuale irragionevole durata dei procedimenti, di introdurre il rimedio di una soglia di valore per le controversie non aventi rilievo nomofilattico e aventi ad oggetto beni di natura meramente patrimoniale e per le quali siano stati già percorsi già due gradi di giudizio, soglia sotto la quale non sia possibile accedere in Cassazione[26].

    Tale rimedio, pur incidendo sul citato diritto previsto dall’art. 111, 7° comma, Cost., secondo cui contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, troverebbe però un supporto nell’art. 2 Cost. (principio di solidarietà), 3 Cost. (ragionevolezza) e 111 Cost. (ragionevole durata dei processi complessivamente considerati), finendo in definitiva per portare benefici all’effettività dello stesso diritto della collettività di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost.

      Occorre altresì notare che il principio di cui all’art. 24 Cost. ha una consistenza diversa a seconda del diritto che si intende far valere: ha affermato infatti la Corte costituzionale, con la sentenza n. 239 del 2014, che «fra i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale vi è il diritto di agire e di resistere in giudizio a difesa dei propri diritti riconosciuto dall’art. 24 Cost., in breve il diritto al giudice. A maggior ragione, poi, ciò vale quando il diritto in questione è fatto valere a tutela dei diritti fondamentali della persona»: nella specie la Consulta ha riconosciuto la giurisdizione del giudice italiano, e quindi la possibilità di agire in giudizio, nei confronti della Germania – che pure invocava il principio di diritto internazionale dell’immunità degli Stati - responsabile di crimini di guerra durante la seconda guerra mondiale. A contrario dunque, dalla motivazione della sentenza della Corte costituzionale può ben ricavarsi che, quando si tratti di far valere il diritto di agire non per far valere un diritto fondamentale della persona ma un diritto patrimoniale, questo diritto sia suscettibile di essere bilanciato con altri valori di dignità costituzionale; in altre parole il “nocciolo duro” del diritto di difesa è costituito dal diritto di agire a tutela dei diritti fondamentali, non anche di agire tout court.

Pertanto, anche considerando che nel periodo in cui è maturata la Costituzione da un lato non si ponevano se non in minima misura gli attuali problemi dei ritardi della Giustizia in virtù dell’enorme mole dei procedimenti pendenti e dall’altro che quello che più premeva ai Costituenti era affermare la centralità e la dignità della persona umana in contrapposizione ai regimi totalitari che ne avevano soppresso e calpestato i più elementari diritti fondamentali, l’avverbio “sempre” di cui all’art. 111, 7° comma, Cost., andrebbe oggi ragionevolmente interpretato nel senso che il ricorso in Cassazione è sempre ammesso purché la controversia non sia di valore così modesto che la sua trattazione determinerebbe un danno per la collettività eccessivamente sproporzionato rispetto all’ipotetico vantaggio del singolo ad usufruire del giudizio di Cassazione[27].

     Inoltre, secondo la Corte costituzionale[28] è riconosciuta un’ampia discrezionalità del Legislatore nella conformazione della disciplina dei singoli istituti processuali[29], fermo restando, naturalmente, il limite della manifesta irragionevolezza di una disciplina che comporti un’ingiustificabile compressione del diritto di agire[30], ipotesi che non ricorrerebbe certo nell’ipotesi di controversia di scarso valore economico ove il soggetto abbia già potuto percorrere due gradi di giudizio.

Con particolare riferimento al principio espresso dall’art. 24 Cost., la Consulta ha costantemente ritenuto che esso non impone l’assoluta uniformità dei modi e dei mezzi della tutela giurisdizionale: ciò che conta è che non vengano imposti oneri tali o non vengano prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale[31].

Si ritiene inoltre che non sussista una violazione dell’art. 24 Cost. per la perdita di un grado di giudizio: è infatti giurisprudenza pacifica della Corte che la garanzia del doppio grado di giudizio non gode, di per sé, di copertura costituzionale[32]: nel caso delle controversie di modico valore invece sarebbe addirittura garantito un doppio grado di giudizio e sarebbe soltanto precluso l’accesso alla Corte di cassazione.

     Tale soglia potrebbe essere stabilita dal legislatore oppure potrebbe essere già oggi modellata dalla giurisprudenza senza un preciso riferimento ad una cifra determinata, ma avendo riguardo non solo al valore della controversia ma all’interesse per le parti in gioco ad ottenere una pronuncia da parte della Cassazione.

    In effetti, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale, anche i diritti fondamentali, compreso quello ad agire in giudizio, sono suscettibili di essere bilanciati con altri diritti e da essi compressi[33], purché sia salvaguardato il loro nucleo essenziale: ora è evidente che il diritto di difesa non potrebbe dirsi compromesso nel suo nocciolo duro qualora si impedisse, per piccoli importi, non di agire in giudizio ma soltanto di accedere alla Cassazione.

     Del resto, a conclusioni analoghe si è già arrivati in tema di danno non patrimoniale di lieve entità alla persona; anzi, con la rilevante differenza che per tali danni è del tutto precluso l’accesso alla Giustizia. Le sentenze della Cassazione a sezioni unite n. 26972 del 2008[34] e n. 3727 del 2016[35] affermano infatti che, alla luce del principio costituzionale di solidarietà (che le sezioni unite accostano anche ad un dovere di tolleranza dell’agire altrui invasivo della propria sfera giuridica, e che – secondo quanto affermato da Cass. 16133 del 2014 – costituisce il punto di mediazione che permette all'ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell'ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva), il danno non patrimoniale di lieve entità, di cui pure si ammette l’esistenza, non possa però essere risarcito, in quanto non v'è diritto per cui non operi la regola del bilanciamento, in forza della quale, perché si abbia una lesione ingiustificabile e risarcibile dello stesso, non basta la mera violazione delle disposizioni che lo riconoscono, ma è necessaria una violazione che ne offenda in modo sensibile la portata effettiva. Continuare a riconoscere una indiscriminata accessibilità in Cassazione alle controversie aventi un oggetto meramente patrimoniale significherebbe violare il principio di uguaglianza, in quanto i danni non patrimoniali derivanti da offese alla persona verrebbero considerati come danni “di serie B”, ossia “meno meritevoli di risarcimento”, rispetto a quelli patrimoniali.

        Proprio perché l’impegno per il sistema Giustizia dato da una nuova controversia prescinde dal suo valore ma è semmai determinato, per quanto riguarda specificamente la Cassazione, dal numero dei motivi di ricorso proposti, l’introduzione di una soglia minima di valore per accedere in Cassazione dovrebbe essere altresì accompagnata, per le cause che superino quella soglia di valore, da un aumento dell’importo dei contributi unificati per le controversie di valore fino a 26.000 euro (attualmente di 474 euro per le controversie di valore compreso tra i 5.200 euro e i 26.000), adeguandole a quelle di valore fino a 52.000 euro (attualmente di 1.036 euro) o comunque ispirandole non a criteri di proporzionalità rispetto al valore della causa ma semmai – partendo da una quota fissa che a nostro giudizio non dovrebbe essere mai inferiore alla suddetta cifra di 1.036 euro)  a criteri di proporzionalità rispetto al numero dei motivi proposti, tenendo altresì presente che il difetto di specificità del motivo è causa di inammissibilità del ricorso e dunque tale disposizione non potrebbe essere aggirata mediante la proposizione di un unico motivo di ricorso contenente in realtà una molteplicità di doglianze indipendenti tra loro. Il paradosso invece è che attualmente, poiché le cause di più modesto valore sono quelle che richiedono il pagamento di un contributo unificato più mite, si è più incentivati a proporre cause in Cassazione per controversie aventi ad oggetto piccoli importi che per grandi cifre[36].

     Infine, il rischio  è che, continuando ad interpretare in maniera rigida l’avverbio “sempre” contenuto nel 7° comma, dell’art. 111 Cost. (che afferma appunto la possibilità di adire sempre la Cassazione per violazione di legge), il Legislatore ordinario – per cercare di limitare il numero delle cause trattate dalla Cassazione – intervenga per l’ennesima volta sull’art. 360 cod. proc. civ. (sentenze impugnabili e motivi di ricorso), magari sopprimendo anche per le cause di ingente valore economico i motivi di ricorso previsti dai nn. 4 e 5 (error in procedendo e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio) che pur non godendo di copertura costituzionale garantiscono però una effettiva e completa tutela nel caso di macroscopici errori del giudice di merito.

 

      5. L’introduzione di una soglia di valore per accedere in Cassazione e l’aumento del contributo unificato. - Vengono in considerazione, nell’individuazione della soglia sotto la quale va impedito l’accesso all’ultimo grado del giudizio, il principio di ragionevolezza e quello del divieto di abuso del processo, quest’ultimo espressione del più generale principio del divieto dell’abuso del diritto[37], a sua volta corollario del principio di solidarietà, il quale, analogamente alla buona fede, impone di salvaguardare l’utilità altrui nei limiti di un non apprezzabile sacrificio. E’ evidente che, avendo tale principio carattere generale, perché derivante dall’art. 2 Cost., non può non predicarsene l’applicabilità anche al campo processuale (come è avvenuto con le sentenze delle sezioni unite da ultimo citate per la responsabilità extracontrattuale).

      Potrebbe dunque sostenersi che il principio di solidarietà di cui all’art. 2 Cost. debba essere inteso come dovere nei confronti dell’ordinamento giuridico, e quindi della collettività, di non proporre causa per una questione “bagatellare” che appesantirebbe il meccanismo della giustizia, visto che la collettività non può permettersi di sopportare il costo, economico e sociale, di un numero eccessivo di cause, anche alla luce dei principi costituzionali riguardanti la ragionevole durata del processo, dato che l’aumentare del numero delle cause farebbe inevitabilmente rallentare tutte le altre (oltretutto, nella maggior parte dei casi, aventi ad oggetto interessi ben più rilevanti). Si è infatti evidenziato, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, che il costo per la collettività di una causa “bagatellare” può raggiungere – e nella realtà spesso non solo raggiunge ma supera di gran lunga – il valore della causa stessa e sarebbe pertanto irragionevole che l’ordinamento possa consentire liti simili. In quest’ottica dunque, il principio di solidarietà sposterebbe la prospettiva su un piano più propriamente pubblicistico, mettendo in gioco valori estranei al rapporto prettamente privatistico.

     Nell’individuazione della soglia di accesso alla Cassazione sarebbe preferibile l’intervento del Legislatore perché, non potendo il Giudice di legittimità (così come non potrebbe la Consulta) individuare una volta per tutte tale soglia, sarebbe costretto comunque ad un esame della questione onde valutare, alla luce dell’interesse della collettività e dei rispettivi interessi delle parti in causa in ragione dei principi sul divieto dell’abuso del diritto[38], se considerare o meno ammissibile il ricorso.

Tuttavia, in assenza di un intervento del Legislatore, e anche in funzione di stimolo, ben potrebbe la Cassazione intervenire già allo stato attuale dei contrapposti valori di rilevanza costituzionale: del resto la Suprema Corte, con la sentenza n. 4228 del 2015[39], ha già seguito in un’occasione questa strada (sia pure in una controversia avente per oggetto soli 12 euro[40]). La Corte di Cassazione ha in quell’occasione affermato che l’interesse a proporre l'azione esecutiva, quando abbia ad oggetto un credito di natura esclusivamente patrimoniale, nemmeno indirettamente connesso ad interessi giuridicamente protetti di natura non economica, non diversamente dall'interesse che deve sorreggere l'azione di cognizione, non può ricevere tutela giuridica se l'entità del valore economico è oggettivamente minima e quindi tale da giustificare il giudizio di irrilevanza giuridica dell'interesse stesso. Per tale ragione la Cassazione ha ritenuto che tale lettura dell’art. 100 cod. proc. civ. si ponga in contrasto con l'art. 24 Cost., principio che, tutelando il diritto di azione, non esclude certamente che, nelle controversie meramente patrimoniali, l'accesso al giudice si giustifichi solo ove il valore economico della pretesa superi una soglia minima di rilevanza, innanzi tutto economica e, quindi, anche giuridica. Infatti, poiché la giurisdizione è notoriamente risorsa statuale limitata, ben può la legge, esplicitamente o implicitamente, circoscrivere il ricorso al giudice per far valere pretese di natura meramente patrimoniale, tenendo anche conto che il numero delle azioni giudiziarie non può non influire, stante appunto la limitatezza delle risorse disponibili, sulla durata ragionevole dei giudizi, che è bene protetto dall'art. 111 Cost. e dall'art. 6 della CEDU[41].

D'altra parte nella giurisprudenza della Cassazione è da tempo utilizzata la nozione di abuso del processo: le sezioni unite[42], nell'affermare che non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo ha giustificato tale principio da un lato con il richiamo alla regola di correttezza e buona fede, che specifica all'interno del rapporto obbligatorio la necessità di soddisfare gli "inderogabili doveri di solidarietà", il cui adempimento è richiesto dall'art. 2 Cost., regola che viene violata quando il creditore aggravi ingiustificatamente la posizione del debitore e dall’altro con la garanzia del processo giusto e di durata ragionevole di cui al novellato art. 111 Cost., la quale esclude, innanzi tutto, che possa ritenersi "giusto" il processo che costituisca esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltreché la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi, mentre l'effetto inflattivo che deriverebbe dalla moltiplicazione di giudizi si pone in contrasto con la "ragionevole durata del processo", per l'evidente antinomia che esiste tra la moltiplicazione dei processi e la possibilità di contenimento della correlativa durata. Successivamente la Cassazione ha anche affermato[43], in ipotesi di frazionamento soggettivo delle azioni giudiziarie (ravvisabile ove più soggetti promuovano contemporaneamente distinte cause di identico contenuto nei confronti dello stesso soggetto, con identico patrocinio legale, e quindi connesse per l'oggetto e il titolo) che tale comportamento costituisce un abuso del processo, idoneo a gravare sia lo Stato che le parti dell'aumento degli oneri processuali, avuto riguardo all'allungamento dei tempi processuali derivanti dalla proliferazione non necessaria dei procedimenti e all'eventuale lievitazione dei costi a carico della parte soccombente e alle stesse conclusioni si è pervenuti nel caso in cui[44] ottenuto con un primo precetto il pagamento spontaneo della somma intimata, accettata senza riserve, venga effettuata la notifica di un nuovo precetto per il pagamento di una ulteriore somma, calcolata sulla base del medesimo titolo giudiziale posto a fondamento del precedente.

La stessa ratio costituita dall’impedire che la Cassazione debba occuparsi di questioni bagatellari, distogliendo le sue limitate risorse da questioni più importanti, è stata colta da una sentenza[45] la quale ha stabilito che, ai fini dell'applicazione della responsabilità aggravata di cui all’art. 96, comma 3, cod. proc. civ., può costituire abuso del diritto di impugnazione la proposizione di un ricorso per cassazione basato su motivi manifestamente incoerenti con il contenuto della sentenza impugnata o completamente privo di autosufficienza oppure contenente una mera complessiva richiesta di rivalutazione nel merito della controversia: in tali ipotesi, infatti, si determina uno sviamento del sistema giurisdizionale dai suoi fini istituzionali ed un ingiustificato aumento del contenzioso che ostacolano la ragionevole durata dei processi pendenti e il corretto impiego delle risorse necessarie per il buon andamento della giurisdizione.

E’ evidente in questa decisione il peso decisivo che ha avuto la considerazione del diritto fondamentale della collettività ad una giustizia efficiente. In effetti, accanto ai diritti fondamentali dell’individuo, non solo la Cassazione ma anche la Corte costituzionale sempre più si sforzano di prendere in considerazione e tutelare diritti - altrettanto fondamentali come quelli dell’individuo - riferibili alla collettività, fra i quali non possono non citarsi oltre a quello ad una giustizia efficiente, quello alla salute collettiva[46], all’ambiente, al lavoro, alla sicurezza, all’ordine pubblico[47]. Questi valori, che potremmo definire “i diritti fondamentali della collettività” erano stati nel dopo guerra - con il superamento delle ideologie fascista e nazista che avevano portato alla seconda guerra mondiale - per così dire relegati in un angolo (si pensi alla considerazione nel secolo scorso dell’utilità sociale di cui all’art. 41, comma 2, Cost. come norma meramente programmatica) a favore dei diritti fondamentali dell’individuo. Anche in Italia, durante il periodo fascista, avevano preso piede istituti quali le corporazioni o il riferimento all’interesse della nazione; si pensi altresì alla concezione della causa come funzione economico-sociale, solo successivamente superata da quella della causa come funzione economico-individuale. Con il tempo si è superato il timore che la tutela dei diritti fondamentali della collettività potesse essere accostata a quelle ideologie e, soprattutto a partire dal XXI secolo, sono stati “riscoperti” dei valori che, pur presenti nella Costituzione, sono stati per decenni trascurati, come appunto quello della collettività ad una Giustizia nel suo complesso efficiente[48].

 

6. Conclusioni: il bilanciamento tra il diritto fondamentale del singolo ad un effettivo accesso alla Giustizia e quello della collettività ad una ragionevole durata dei processi. - Alla luce di quanto detto sinora si ritiene che occorra individuare dei rimedi che rendano effettivo il diritto fondamentale della collettività ad una durata ragionevole dei processi senza irrigidire il principio di autosufficienza, con il rischio di incidere sul diritto del singolo ad un effettivo accesso alla Giustizia. In altri termini il miglior bilanciamento tra i suddetti principi fondamentali – della collettività ad una ragionevole durata dei processi e del singolo ad un effettivo accesso alla Giustizia – trovano il miglior bilanciamento e temperamento nell’individuazione di un filtro che renda più complesso l’accesso in Cassazione per cause di modesto valore, posto che il “filtro alternativo” costituito da un irrigidimento eccessivo del principio in Cassazione porta con sé il rischio che l’accesso in Cassazione sia precluso anche a questioni di importanza economica notevole o che coinvolgano diritti fondamentali.

Si ritiene pertanto che sarebbero costituzionalmente legittime sia una legge che stabilisse una soglia di valore ragionevole (ad esempio di 5.200 euro, eliminando così i due scaglioni di valore attualmente previsti per la determinazione dell’entità del contributo unificato: 86 euro per le cause fino a 1.100 euro e 196 euro per quelle fino a 5.200 euro) sotto la quale non possa accedersi in Cassazione (eventualmente solo nel caso in cui colui che volesse ricorrere abbia già perso in due precedenti gradi di giudizio[49]) sia, in assenza di tale legge, un diritto vivente che considerasse inammissibili controversie aventi ad oggetto somme di modesto valore senza stabilire un limite preciso, ossia avendo riguardo non solo all’entità della posta in gioco ma altresì sia all’esito dei precedenti gradi di giudizio sia soprattutto all’esistenza di una sproporzione ingiustificata tra l’eventuale beneficio che ne trarrebbe il titolare del diritto qualora vincesse la causa ed il sacrifico cui sarebbe costretta la controparte e l’intera collettività dallo svolgimento del giudizio di legittimità.

     In alternativa, qualora si volesse continuare a rispettare in maniera formale il disposto dell’art. 111, 7° comma, Cost., secondo cui contro le sentenze pronunciate dagli organi giurisdizionali, ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge, e quindi qualora si rinunciasse ad introdurre una soglia di valore per accedere in Cassazione per via legislativa o giurisprudenziale potrebbe più semplicemente ipotizzarsi una modifica dei criteri in base ai quali viene calcolato il contributo unificato[50] (valore della causa, tipo di procedimento giudiziario - civile, amministrativo e tributario - e grado di giudizio, con aumenti, riduzioni ed esenzioni), in particolare – tenendo conto che la parte vincitrice ha poi diritto a recuperare le spese processuali - aumentando verso l’alto il contributo unificato con riferimento al parametro del valore della causa e eventualmente introducendo, per i giudizi di Cassazione, un ulteriore criterio di determinazione del contributo unificato consistente nel numero dei motivi di impugnazione proposti alla Corte. In effetti, la complessità di un ricorso in Cassazione ben difficilmente dipende dal valore economico dello stesso mentre invece su tale complessità spesso incide il numero di motivi di impugnazione proposti, cosicché non appare neppure ragionevole l’attuale stato di cose in virtù del quale un ricorso complesso e contenente numerosi motivi di impugnazione (e che dunque è destinato ad impegnare molto la Corte di Cassazione) debba pagare un contributo unificato inferiore rispetto ad un ricorso molto più semplice per il solo fatto che il suo valore economico sia decisamente inferiore.



[1] I d.lgs. n. 545 e 546 del 1992 hanno portato all’abolizione della Commissione tributaria centrale, che prima costituiva un efficace filtro tra le decisioni delle Commissioni Tributarie Regionali e la Cassazione, così riversandosi sulla Corte un enorme mole di ricorsi tributari e la necessità di adibire una apposita sezione alla materia tributaria (la quinta; prima invece tale materia era trattata all’interno della prima sezione civile).

[2] Cfr. Corte cost. n. 114 del 2018, in Foro it., 2018, I, 2236.

[3] In questo senso la giurisprudenza della Consulta è costante fin dalla sentenza n. 170 del 1984, in Foro it., 1984, I, 2062.

[4] Cfr. Corte cost. nn. 91 e 70 del 2020; 174 e n. 108 del 2019.

[5] Cfr. in questo senso A. Carratta, Il giudice e l’interpretazione della norma processuale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2020, 116, il quale evidenzia la rilevanza da un lato degli interessi generali coinvolti dalla norma processuale e dall’altro la rilevanza dei princìpi fondamentali e generali propri dell'ordinamento processuale ed il loro necessario bilanciamento; A. Rocco, L'interpretazione delle leggi processuali, in Studi di diritto commerciale ed altri scritti giuridici, Foro italiano Roma, 1933, 73, secondo il quale «siccome il comportamento processuale del giudice è il comportamento di un organo che esercita una funzione statale, non solo egli deve conformare tale comportamento alla norma giuridica, ma deve anche fare in modo che la disposizione da applicare sia interpretata in modo tale che siano salvaguardati gli interessi generali ai quali risponde la disciplina processuale. Vale a dire che il giudice, agendo come organo dello Stato nell'adempimento di una funzione di interesse generale, non deve limitarsi ad osservare la legge, ossia a contenere la sua azione entro i confini determinati dal diritto, ma deve spiegare la sua attività per il miglior possibile soddisfacimento degli interessi generali, che gli sono commessi».

[6] Cfr. Corte cost. n. 219 del 2013, in Foro it., 2014, I, 386.

[7] Cass. 22 febbraio 2016, n. 3376.

[8] Cfr. P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Le Monnier, Firenze, 1959, 88, secondo cui il cliente non sa che molte volte, dopo una vittoria, dovrebbe andare ad abbracciare commosso non il suo avvocato, ma l’avvocato avversario.

[9] Cfr. M. Cicala, Il processo tributario in Cassazione: spunti critici e proposte per il futuro, in Il Diritto vivente, 2021, https://www.rivistaildirittovivente.it il quale evidenzia che il dovere della “leale collaborazione” è un principio di carattere generale che deve (o dovrebbe) incidere in tutti i rapporti intersoggettivi di natura pubblica, ma anche - sia pure con differenti modalità - di natura privata, vincolando gli operatori economici e sociali a forme di collaborazione per il raggiungimento e il rispetto di valori comuni, che sono presenti anche nella contesa giudiziaria.

[10] Cass. 22 ottobre 2021, n. 29667. Su questa linea si colloca un obiter di Cass. 28 maggio 2021, n. 15001 secondo cui in caso di ricezione di messaggio PEC i cui allegati risultino in tutto o in parte illeggibili «spetta al destinatario, in un'ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole delle difficoltà di cognizione del contenuto della comunicazione legate all'utilizzo dello strumento telematico» (Cass. 31 ottobre 2017, n. 25819): ma siccome è onere del destinatario dimostrare che il   è stato vittima di una disfunzione e questa prova non è stata fornita la notifica della sentenza di secondo grado deve esser ritenuta regolare e  il ricorso in Cassazione risulta  tardivo e viene dichiarato inammissibile.

[11] L’elaborazione di un protocollo è stata una novità per la Corte di cassazione, ma non in assoluto, considerato che si tratta di una formula già sperimentata sia nell'ordinamento comunitario (si pensi alla Guida per gli avvocati, redatta nel 2009 e consultabile su www.curia.europa.eu, la cui finalità dichiarata è quella di "consentire ai difensori delle parti di presentare le proprie difese ed osservazioni scritte o orali nelle forme che la Corte di Giustizia ritiene più idonee), sia in altre sedi sovranazionali  (Cfr. la Rule 47 del "Nuovo formulario e nuovo regolamento per ricorrere alla Corte Europea", consultabile su www.echr.coe.int/Pages/home.aspx?p=applicants/ita.), sia nell’ordinamento interno (il riferimento è all'art. 3 del d.lgs. 2.7.2010, n. 104 che, in combinato disposto con il successivo art. 120, come novellato dall'art. 40, d.l. 24.6.2014, n. 90, conv. in l. 11.8.2014, n. 114, riconosce al Presidente del Consiglio di Stato il potere di determinare le dimensioni dei ricorsi e degli atti difensivi).

[12] Cass. 20 maggio 2015, n. 10289.

[13] Cass. 12 giugno 2020, n. 12127.

[14] Da una parte, infatti, il ricorrente deve soddisfare l’onere dell’autosufficienza del ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, con adempimenti che variano dal dovere di trascrizione integrale dei documenti a quello di riprodurne solo i passaggi essenziali e pertinenti, con la possibilità di riassumerne il contenuto quando il riassunto non pregiudichi la comprensione del thema decidendum; dall’altra parte, il difensore abilitato al patrocinio dinanzi alla Suprema Corte ha l’obbligo di assicurare la sintesi nell’esposizione dei fatti di causa (art. 366, comma 1, n. 3 c.p.c.), pena il rischio che il ricorso venga dichiarato inammissibile (cfr. Cass. 24 aprile 2018, n. 10072).

[15] Cass. 28 febbraio 2011, n. 4977.

[16] Cfr. G. Vitale, Il principio di effettività della tutela giurisdizionale nella Carta dei diritti fondamentali, in Federalismi, 2018, 1; A.M. ROMITO, La tutela giurisdizionale nell’Unione europea tra effettività del sistema e garanzie individuali, Laterza, Bari, 2015, 9; O. PORCHIA, L’effettività del diritto dell’Unione tra tutela del singolo e salvaguardia dell’ordinamento, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, 2014, Giuffrè, Milano, IV, 2311; N. LIPARI, Il problema dell’effettività del diritto comunitario, in Diritto comunitario e sistemi nazionali: pluralità delle fonti e unitarietà degli ordinamenti, Editoriale Scientifica, Napoli, 2009, 635; A. ROTTOLA, L’effettività dell’ordinamento comunitario e del suo sistema giurisdizionale, CACUCCI, Bari, 2008, 10.

[17] L’importanza del principio di autosufficienza è dimostrata dal grande numero di pronunce che a tale principio si rifanno (alla fine del 2021 oltre 53.000: cfr., ex plurimis, Cass. 23 novembre 2021, n. 36176; Cass. 23 novembre 2021, n. 36110. Cfr. A. Giusti, L’autosufficienza del ricorso, in La Cassazione civile, a cura di M. Acierno, P. Curzio, A. Giusti,  Cacucci, Bari, 2020, il quale riferisce che quando, per la prima volta, compare nel 1986, il principio di autosufficienza non reca le stimmate del formalismo ma si mostra piuttosto come una formula sintetica e classificatoria, volta a richiamare il rispetto dei canoni di specificità, completezza e chiarezza del motivo, che la giurisprudenza anche anteriore ha sempre richiesto nella redazione del ricorso: con il termine autosufficienza, la Corte esprime dunque la necessità che siano indicati con precisione gli elementi posti a base della censura e quindi che il motivo presenti l'autonomia indispensabile per consentire, senza il sussidio di altre fonti, l'immediata e pronta individuazione delle questioni da risolvere.

[18] Cfr. Cass. 16 giugno 2009, n. 18421, citata da tale sentenza.

[19] Cfr., ex plurimis, le sentenze n. 58 del 2020, n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016.

[20]  Secondo la Corte costituzionale il doppio grado di giurisdizione di merito non è, di per sé, assistito da copertura costituzionale (ex plurimis, pronunce n. 58 del 2020, n. 199 del 2017 e nn. 243 e 42 del 2014); nello stesso senso si è pronunciata la Corte EDU (Corte EDU, sentenza 20 ottobre 2015, Costantino Di Silvio c. Italia, paragrafo 50), 

[21] Cfr. Cass. n. 20 agosto 2021, n. 23249, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, ove il ricorrente denunci che la sentenza d'appello ha erroneamente dichiarato inammissibile l'impugnazione sul rilievo che il ricorrente aveva impugnato la decisione di primo grado sulla base di motivi non attinenti alle argomentazioni del primo giudice, è necessario - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione - che l'atto di appello sia trascritto in modo completo (o quantomeno nelle parti salienti) nel ricorso, così da dimostrare che nel suddetto atto di impugnazione non erano ravvisabili gli errori e la mancata attinenza dei motivi di appello alle motivazioni del giudice di primo grado indicati dal giudice del gravame, dovendosi ritenere, in mancanza, che la Corte non sia posta in grado di valutare la fondatezza e la decisività delle censure alla pronuncia di inammissibilità, in quanto non abilitata a procedere all'esame diretto degli atti del merito, con conseguente rigetto del ricorso; Cass. 13 luglio 2021, n. 19989, secondo cui in tema di ricorso per cassazione per vizio di motivazione, la parte che lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione ed al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione; Cass. 21 maggio 2021, n. 13625, secondo cui qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l'omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l'onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l'irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione.

[22] Cfr. ad esempio A. Iermano, Decreto penale di condanna e diritto alla traduzione: l’approccio pragmatico della Corte di giustizia nel caso Sleutj, in Eurojus.it, 2018, http://rivista.eurojus.it/decreto-penale-di-condanna-e-diritto-alla-traduzione-lapproccio-pragmatico-della-corte-di-giustizia-nel-caso-sleutjes/

[23] Cfr. G. Raimondi, Corte di Strasburgo e formalismo in Cassazione, in www.giustiziainsieme.it, 2021, il quale sottolinea che se si può ritenere che la violazione constatata dalla Corte di Strasburgo non metta in discussione la consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione sull’autosufficienza del ricorso davanti ad essa, la sentenza Succi c. Italia suona comunque come un campanello di allarme; F. Capponi, Il formalismo in Cassazione, in www.giustiziainsieme.it, 2021, il quale lamenta l’oramai ineludibile e stucchevole messe di eccezioni di inammissibilità che accompagna ogni gravame e le conseguenti, altrettanto stucchevoli, parti delle decisioni che vi rispondono prima di poter passare al merito della causa, spettando al Legislatore, con norme chiare, il compito di risolvere i problemi di accesso alla Corte di cassazione, con una valutazione scientifica e non approssimativa risorse necessarie; F. Ricci, Sull’"autosufficienza" del ricorso per cassazione: il deposito dei fascicoli come esercizio ginnico e l'avvocato cassazionista come amanuense, in Riv. dir. proc., 2010, 736; G. Canzio, S. Evangelista, Rassegna della giurisprudenza di legittimità (anno 2004) civile e penale curata dall'Ufficio del Massimario, secondo cui la fitta congerie delle massime che richiamano il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione offre un panorama talmente variegato, da apparire praticamente inutilizzabile da chi voglia fame applicazione, così come esso si presenta per sceverare seriamente i casi di autentica inammissibilità dell'atto, da quelli in cui l'invocazione della regola si ridurrebbe ad un pericoloso formalismo, in Foro it., 2005, V, 82.

[24] Cass. 3 gennaio 2020, n. 27.

[25] Cass. 11 novembre 2020, n. 25401.

[26] Cfr. L. Delli Priscoli, Controversie di modesto valore economico e accesso in Cassazione, in Foro it., 2018, 342.

[27] Del resto già Chiovenda osservava che fra gli istituti giuridici il processo civile «è l'organismo più delicato, in quanto i più lievi mutamenti nelle condizioni morali, politiche, sociali del tempo si riflettono nel suo funzionamento». Proprio per questa ragione Egli suggeriva che, laddove si fosse in presenza di disposizioni processuali che, interpretate alla lettera, si porrebbero in contrasto non solo con le mutate condizioni, ma con il sistema stesso della legge che già si è conformato alle avvenute variazioni, si dovesse far ricorso all'interpretazione «logica», che consente di «correggere l'espressione materiale della legge»: G. Chiovenda, Principi di diritto processuale civile, Jovene, Napoli, 1923, 131; analogamente E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici, Giuffré, Milano, 1949, 26, secondo il quale anche per l'interpretazione delle norme processuali vale il canone ermeneutico dell'attualità e adeguazione dell'intendere, inteso come necessità di mettere all'unisono tra loro la norma giuridica e l'attualità del soggetto, attualità, nella quale « confluiscono le fervide, molteplici e mutevoli esigenze della vita sociale, alla cui disciplina il diritto è destinato». 

[28] Corte cost. n. 199 del 2017, in Foro it., 2017, I, 2893.

[29] Nello stesso senso anche Corte cost. n. 94 del 2017, in Foro it., 2017, I, 2952, e nn. 121 e 44 del 2016, nonché Cass. 13 ottobre 2017, n. 24088, in Foro it., 2018, I, 593.

[30] Corte cost. n. 121 e n. 44 del 2016 cit., n. 335 del 2004, Foro it., 2006, I, 1320.

[31] Ex plurimis, Corte cost. n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016; n. 386 del 2004.

[32] Ex multis, Corte cost. n. 199 del 2017; n. 243 del 2014; n. 42 del 2014, n. 190 del 2013, n. 410 del 2007 e n. 84 del 2003.

[33] Cfr. Corte cost n. 135 del 2018.

[34] Cass., SU, 11 novembre 2008, n. 26972, in Giur. it., 2009, 2196.

[35] Cass. 25 febbraio 2016, n. 3727, in Nuova giur. civ., 2016, I, 1014, con nota adesiva di L. Delli Priscoli, La non risarcibilità del danno non patrimoniale di lieve entità, anche se derivante da reato.

[36] In questa prospettiva, e nell’ottica di evitare ricorsi pretestuosi, l’art. 15 della legge 1° dicembre 2018, n. 132 (disposizioni in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica) esclude il compenso, a spese dello Stato, al difensore che sia incorso nell'inammissibilità dell'impugnazione, norma già presente in campo penale: sul punto cfr. C. Vellani, I processi civili nel primo Governo della XVIII legislatura, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2020, 385, il quale evidenzia il rischio di restringere oltre misura le già ridotte possibilità di tutela.

[37] Cfr. Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in Giur. comm., 2020, II, 828, con nota adesiva di L. Delli Priscoli, Abuso del diritto e mercato.

[38] Secondo Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, cit., infatti si ha abuso del diritto quando il concreto esercizio di un diritto soggettivo può determinare una «sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto ed il sacrifico cui è soggetta la controparte».

[39] Cass. 4 marzo 2015, n. 4428, significativamente non massimata.

[40] Il creditore, dopo aver ricevuto il pagamento della complessiva somma portata in precetto di 17.855 euro, aveva ugualmente avviato la procedura esecutiva, nelle forme del pignoramento presso terzi, per l'intero importo, deducendo, nel corso della procedura stessa, l'esistenza di un residuo credito di 12 euro a titolo di interessi maturati tra la data di notifica del precetto e la data del pagamento.

[41] Va altresì ricordata la sentenza della Cassazione 12 giugno 2013, n. 14777, secondo la quale, in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, in base al principio "de minimis non curat praetor" recepito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza del 6 marzo 2012, Gagliano Giorgi c. Italia), non è indennizzabile la violazione che non raggiunga una soglia minima di gravità (non raggiunta, nella specie, avendo il ritardo nello svolgimento del processo penale consentito all'imputato di ottenere l'estinzione dei reati edilizi per sanatoria).

[42] Cass., SU, 15 novembre 2007, n. 23726.

[43] Cass. 30 aprile 2014, n. 9488.

[44] Cass. 15 marzo 2013, n. 6664.

[45] Cass. 30 aprile 2018, n. 10327.

[46] Si pensi ad esempio alle vaccinazioni obbligatorie: Corte cost. n. 107 del 2012.

[47] Cfr. Corte cost. n. 76 del 2017, secondo cui il bilanciamento dell’interesse del minore a mantenere un rapporto costante con i genitori con le esigenze di difesa sociale sottese alla necessaria esecuzione della pena inflitta al genitore.

[48] L. Delli Priscoli, I diritti fondamentali della collettività, tra tutela del mercato da parte della Corte di Giustizia e dei diritti fondamentali dell’uomo da parte della Corte di Strasburgo”, in Riv. dir. comm., 2018, I, 172-188.

[49] Sul modello della doppia conforme di cui all’art. 348-ter, comma 5, c.p.c.: cfr. Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774.

[50] Il calcolo del contributo unificato è disciplinato dal D.L. 132 del 2014 (decreto giustizia), convertito con modificazioni dalla legge n. 162 del 2014 e al D.L. 90 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 114 del 2014.

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